Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                

Cibo e sacro

2017, Cibo e Sacro

L'articolo si prefigge di indagare il rapporto che unisce cibo e religione, alla luce dell'evento festivo e in rapporto a dolci e pani rituali

Cibo e sacro Lucia Galasso L’alimentazione umana non è una semplice risposta a un bisogno primario, essa riflette l’interazione fra diversità biologica e culturale in quanto si radica nella storia, nella genetica, nell’ecologia e nella cultura delle diverse popolazioni. Osservare il comportamento alimentare dell’uomo ha quindi permesso di evidenziare quanto egli non sia solo un mangiatore biologico, ma anche un consumatore-mangiatore simbolico e sociale. Deduzione che si può trarre considerando quanto le tradizioni alimentari si basino su sistemi ideologico-simbolici i cui valori sono parte integrante della vita comunitaria. Nel momento in cui soddisfare la fame è stato unicamente un bisogno fisiologico l’uomo non ha sviluppato la cucina, il suo alimentarsi era simile al resto del mondo animale. La differenza si è incominciata a rilevare nel momento in cui, a fame soddisfatta, si è unito «uno sviluppo delle abilità cognitive, che hanno differenziato sempre più l’uomo dal resto degli altri primati e ha consentito alla nascita del pensiero simbolico e magico-religioso» (Pievani 2002: 252). L’orizzonte religioso di questo periodo (paleolitico superiore) si fonda su una delle più antiche e fondamentali esperienze umane, che è quella di trovarsi “di fronte” al mondo; il “mondo” ciò che è “di fronte” all’uomo, appare come essenzialmente estraneo all’uomo, quindi come qualcosa che non è suo, quindi è di altri, e precisamente degli esseri-non umani. Appropriarsi a scopo alimentare di qualcosa che appartiene a quel mondo richiede la possibilità e la capacità di entrare in dialogo con il sovrannaturale (Brelich 1995: 45). 19 Lucia Galasso Animali, frutti e tutto il cibo dato in natura non appartengono all’uomo, ma a questi esseri sovrumani che nelle prime forme religiose sono stati rappresentati da potenze che regnano proprio su quella realtà estranea all’uomo e per questo “sacra”. Tra tutte le forme che sottolineano il bisogno di potersi cibare del creato, previa autorizzazione di quel mondo soprannaturale che affascina e che al contempo si teme, l’offerta primiziale, forma di culto al signore degli animali, ben ce lo spiega: prima di consumare la cacciagione o i frutti raccolti il primo pezzo viene offerto all’entità sovrumana, il resto agli uomini. Appropriandosi del cibo, tramite la caccia o la raccolta, l’uomo fa qualcosa di illecito a cui rimedia desacralizzando l’alimento, rendendolo quindi adatto al consumo umano. Il modo per farlo è quello di concentrare la sua sacralità nel primo pezzo che viene debitamente restituito al proprietario sovrumano. Perché proprio il primo? Perché il momento critico, in ogni azione è il primo, quello che rompe la situazione preesistente, l’irruzione umana nella realtà ‘data’ come risulta bene dai riti di passaggio o da altre usanze. Se il primo pezzo viene mangiato dagli esseri sovrumani, il momento critico è superato, il resto del cibo può essere consumato tranquillamente dagli uomini. L’offerta primiziale passa dalle più antiche civiltà di cacciatori anche in quelle dei coltivatori; qui, di ogni prodotto agrario viene offerta una primizia agli esseri sovrumani (antenati, déi) prima che sia permessa la consumazione profana (Brelich 1995: 46). Sono queste le distinzioni cruciali tra Paleolitico e Neolitico, il primo caratterizzato da caccia e raccolta, il secondo dalla produzione di cibo attraverso l’agricoltura. La nascita dell’agricoltura e dell’allevamento porta a una complessità sociale che si ripercuote inevitabilmente anche sulla religione. Ora il cibo si produce, si è meno soggetti ai fenomeni che rendevano incostante l’approvvigionamento degli alimenti, ma nuovi problemi si presentano; raccolti e animali sono soggetti a malattie, condizioni atmosferiche avverse ecc. che pongono l’uomo ancora di fronte a quel mondo che cerca di propiziarsi per non averne a soffrire in termini materiali. Compaiono nuovi esseri 20 Cibo e sacro sovrumani che simboleggiano la forza nutrizionale della natura: - La Terra Madre: garante della fertilità della terra; - Il Dema: un essere mitico dal cui corpo fatto a pezzi, una volta ucciso, spuntano per la prima volta i vegetali alimentari coltivati dalla comunità (Dioniso, Osiride). Questa complessità troverà risonanza all’interno del calendario agricolo, perno della concezione ciclica del tempo e quindi della vita. 1. Il calendario È stato proprio il bisogno di calcolare, suddividere e dare un nome al tempo, in relazione a quanto l’uomo osservava in natura, a dare vita al calendario, prodotto di fenomeni complessi, di sedimentazione, sovrapposizione, reinterpretazione e riplasmazione di modelli, simbologie, consuetudini e rituali; come è il caso delle numerose feste cristiane, in cui coesistono e vengono rifunzionalizzati costumi, pratiche, simbologie appartenenti al sostrato pre-cristiano e che si possono intravedere in filigrana proprio attraverso i cibi preparati per l’occasione (in particolare il discorso vale per i dolci se è vero che ogni paese, ogni regione, ogni territorio, come del resto ogni nazione e ogni popolo, hanno elaborato dolci tipici per mezzo dei quali identificano e scandiscono il ciclo temporale). Se teniamo presente che la visione del mondo popolare è espressa dalla circolarità il calendario sancisce (consapevolmente e in maniera ufficiale) e rinnova il patto tra uomini e divino, proprio grazie a quella rigenerazione naturale e cosmica che ne è un fattore basilare. Il cibo introduce ad una particolare metafora circolare: ciò che si percepisce buono introduce a capire (nel senso etimologico del termine, cioè al contempo prendere, catturare e comprendere) qualcosa che sfugge alla nostra immediata percezione e che per essere interiorizzato ha bisogno di essere presentato secondo il mondo della percezione. (Scarpi 2005: 114) L’atto del mangiare e del mangiare rituale, che è azione fondamentale per la sopravvivenza, provoca quelle emozioni e quegli 21 Lucia Galasso affetti (Otto 1917: 56) con i quali si tesse e ritesse la dimensione globale della realtà circostante, quando poi è inserito in una performance rituale o mitica, si carica per giunta di una dimensione sacrale e diventa atto sociale totale. Elemento forte della festa, il cibo costituisce, attraverso il modo in cui viene consumato e rappresentato, la dimensione mitica dell’identità: sessuale, generazionale, locale e di comunità. Il nutrirsi configura un “ordine del mondo” oltre che del gusto, e suggerisce attraverso la varietà ricette, ma non solo, itinerari, storici, economici e ideologici. Le ricette tradizionali, specialmente se legate a contesti festivi, veicolano il bisogno di esserci nel mondo con il proprio carico di unicità e originalità, anche attraverso il piacere tutto sociale di mangiare secondo la norma. 2. La festa Le feste sono “i cardini di ogni calendario”, la cui importanza va ricercata nella loro collocazione nel tempo, un tempo che è l’opposto di quello quotidiano, dove valgono quindi altre regole: - durante le feste vigono norme di comportamento differenti da quelle abituali; - ci si veste differentemente; - si mangia (o si digiuna) in maniera diversa; - certi divieti valgono solo per le feste, o le feste li sospendono. Durante le feste si esce dal tempo profano, e si entra nel tempo del sacro, in cui si ricorda e commemora quello che ha importanza per una comunità, e quindi quello che dà senso all’esistenza. Nel contesto festivo il cibo è importantissimo, tanto da essere il nucleo intorno al quale la festa si struttura, prova ne è che la celebrazione si restringe proprio alla consumazione di un alimento rituale. L’analisi del modello festivo, in antropologia, ha portato a una sua suddivisione: - preparazione e allontanamento delle colpe passate; - sospensione delle regole; - sacrificio; - allontanamento del male presente; - propiziazione del bene futuro. 22 Cibo e sacro Queste cinque tappe hanno il compito di evidenziare come il periodo della festa altro non sia che il tempo di un passaggio da una condizione all’altra o da un periodo all’altro, con il fine di esorcizzare il male e propiziare il futuro. La festa è il bisogno di rinnovarsi rispetto a una condizione, di fronte alla comunità e di fronte alla natura, al sacro, con la benedizione di quest’ultimo. Perché questo avvenga è necessario allontanare le presenze negative (che possono interferire con questo bisogno) attraverso un sacrificio – reale o simbolico – attivando così per il futuro la protezione del mondo soprannaturale e gli influssi benigni di questo sulla comunità e i suoi beni. È il tentativo, in ultima analisi, di riscattarsi da quel senso di insicurezza e precarietà su cui si basa il vivere quotidiano. Due sono le forze onnipresenti e in contrapposizione tra di loro nell’apparato festivo: la purificazione (rappresentata da comportamenti come il digiuno) e la trasgressione (che l’immaginario collettivo proietta nel famoso Paese di Cuccagna). Così il rito del mangiare, il cibo e i suoi rituali connotano il periodo festivo e stabiliscono un particolare “paesaggio alimentare”, che è segnato dall’alternarsi emotivo degli odori e dei sapori vissuti ai diversi livelli dell’inconscio, della coscienza individuale e della condivisione sociale del cibo – momenti vissuti nell’eccesso – per sottolinearne la dimensione sociale totale e quella sacrale. L’intrecciarsi in maniera smisurata dei diversi sensi pervade tutti i livelli esperienziali e mette in funzione vissuti sociali totali condivisi nella comunità, perciò a dire sacri (Schafer 1985: 37) La presenza del cibo nel corpo della festa aiuta a capirne non solo la stratificazione storica, ma anche quelle simbologie nascoste, poco conosciute, che solo un’attenta disamina riesce a consegnarci. Particolarmente interessante mi è parsa quella offerta da Rossano Nistri nelle sue lezioni di antropologia dell’alimentazione tenute presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli studi di Milano (anno accademico 2003-2004): I livello: Mesolitico (caratteri tipici della cultura pre-agraria). Dal punto di vista alimentare è carat23 Lucia Galasso terizzato da alimenti di raccolta spontanea e dalle uova. Feste come la Pesach ebraica, la nostra Pasqua, San Giuseppe ne sono un esempio. Eredità, quindi, degli antichi riti equinoziali di Primavera. 24 II livello: Mesolitico/Neolitico. La nascita dell’agricoltura porta in primo piano i culti della Grande Madre a cui sono correlati i cereali (festa di San Giovanni, feste del grano). L’orizzonte alimentare è rappresentato da vegetali coltivati e carni di allevamento (minestre di grano e legumi cucinate al sud per i giorni di vigilia o i fagioli con le cotiche preparati nell’area padana per il giorno dei defunti). III livello: Età del bronzo. Caratteri agrari progrediti (culti misterici), caratterizzato dalla comparsa di pani sacrificali (pani rituali) sia dolci la pasticceria festiva tradizionale: panettone, panforte, colomba. Tipologia di dolci che si è andata definendo dal medioevo in poi, evoluzione di antichi pani speziali o panpepati) sia salati (il pane di Sant’Antonio, di San Biagio o di San Lorenzo). IV livello: Non è legato a un periodo storico particolare, ma alla rifunzionalizzazione in chiave cristiana di ritualità precedenti (oltre ai pani troviamo la benedizione delle uova pasquali, le cene di carità allestite dalle confraternite, i pasti di San Vincenzo) cui si affianca una maggiore complessità gastronomica. V livello: È di matrice strettamente commercia- Cibo e sacro le-promozionale, non ha evidenti riferimenti rituali, è semplicemente in sintonia con i bisogni capitalistici della società industriale e con le attua li tendenze agricole e produttive di un territorio o di una società (esempi sono il brandy regalato per la festa del papà, i baci perugina per San Valentino, o tutto quell’insieme di sagre festive che caratterizzano l’estate). È facile cogliere in questa schematica, e certamente non esaustiva, classificazione storica, culturale e colturale quanto la festa sia calata all’interno del ciclo dell’anno e affettivamente legata alla comunità che la festeggia e alle conseguenti identità locali. 3. La deritualizzazione del piatto festivo Se fino a qualche tempo fa la festa era vissuta in maniera forte e sentita intimamente oggi assistiamo a una sua trasformazione: nel contemporaneo la festa è vissuta più per se stessi che per i Santi. Questo vuol dire che, consapevole del potenziale economico e di richiamo di un evento festivo, le comunità ne hanno fatto un evento-spettacolo. Situazione a svantaggio anche di una lavorazione manuale, a un rispetto della stagionalità, delle materie prime impiegate dei piatti rituali e a una deritualizzazione di questi ultimi (Burgio 2009: 25). Per capire meglio questo processo prendiamo in considerazione la categoria dei dolci. Il rapporto tra dolce e festa è fortemente biunivoco: la maggior parte dei dolci è collegata al calendario agropastorale/ liturgico. Non tutti i dolci sono rituali allo stesso modo. Per esempio la preparazione e il consumo di certi cibi sono dedicati a un 25 Lucia Galasso particolare giorno o più generalmente a un periodo, oppure se anche dedicati a una certa festa vengono preparati anche in altre occasioni, altri scandiscono tanto le feste quanto momenti speciali dell’anno o della vita delle persone (nascita, pubertà, matrimonio, morte, ecc.). C’è da rilevare che il dolce, in quanto tale, è invenzione abbastanza recente se si tiene conto che anticamente la distinzione dei sapori era meno netta e più complessa di quella odierna. Un esempio lo possiamo riscontrare nella preparazione della glassa, che ricopre buona parte dei dolci siciliani e non solo, retaggio che affonda le sue radici in Italia - fin dall’epoca romana - nell’apprezzamento per il gusto agrodolce. Che cos’è infatti la glassa se non la commistione tra un elemento agro (il limone) con un elemento dolce (lo zucchero)? La volontà di relegare un utilizzo quasi esclusivo dei dolcificanti per alcune specifiche preparazioni è quindi abbastanza recente, e pone attenzione al ruolo abbastanza definito che hanno assunto: prelibatezze che hanno una preparazione e un consumo esclusivi (o almeno lo avevano). Delimitare il campo della classificazione dei dolci rituali non è semplice, pur tenendo in considerazione suddivisioni, come gli ingredienti caratterizzanti e i metodi di cottura, proposte da Burgio (2009) l’approccio lessicale che ritroviamo in Montemagni, Castiglione e Mastranga ci permette di incasellare i vari dolci sotto precisi gruppi organizzati di riferimento (es. torte, biscotti, frittelle, gelati, ecc.). Dalle considerazioni di questi studiosi possiamo dedurre che il dolce è un alimento caratterizzato dalla compresenza di queste tre condizioni: 1. Il dolcificante ne determina assoluta prevalenza di gusto; 2. Viene esclusivamente servito a fine pasto o da solo nel corso della giornata, e comunque non rappresenta un intero pasto; 3. É qualcosa in sovrappiù all’interno della dieta quotidiana, viene considerato o uno sfizio o un segnalatore di particolari eventi e per questo viene spesso ritualizzato. Cosa è cambiato oggi, rispetto a quanto analizzato? Principalmente le dinamiche di preparazione che non sono più legate al saper fare manualmente. Prima tutto veniva fatto a mano dando estrema importanza al lato estetico del piatto da offrire al santo, oggi la tecnologia e la delega ai mastri pasticceri 26 Cibo e sacro la fa da padrona. Altro fattore importante è proprio quello del tempo da dedicare alla preparazione domestica che si è drasticamente ridotto rispetto al passato, quando gruppi molto grandi di donne lavoravano insieme per interi giorni. Infine, i gusti sono profondamente cambiati, specialmente tra i giovani che sono indirizzati verso quelli meni decisi e complessi del regime festivo tradizionale. Si assiste così a una deritualizzazione del dolce/piatto rituale. Questo avviene quando è presente un benessere economico, ma anche quando si fa più debole la sua carica simbolica (gli si riconosce un legame con un particolare periodo/santo, ma solo in pochi lo sanno), essendo presente sulle tavole tutto l’anno. Sopravvivono quei cibi rituali che hanno un valore simbolico (che se pur non esplicito è ancora socialmente condiviso), o fortemente iconici; dobbiamo tenere in considerazione un fattore estremamente importante: oggi nessuna preparazione comporta un sacrificio economico e la disponibilità della materia prima è tale che ciascuno può togliersi, in qualsiasi periodo dell’anno, lo sfizio di preparare anche dolci ad alto tasso di ritualità. 4. Conclusioni Il bisogno di radici ovvero di una territorialità sempre più sfuggente in quelli che Hannerz (2001) definisce “habitat di significato” è sempre più intensamente ricercato e rivissuto attraverso il paesaggio culinario tradizionale, esso stesso ancorato a quel codice alimentare fortemente legato al calendario festivo. Nelle comunità tradizionali il cibo si trova intrecciato alla trama di relazioni che ancora modellano l’universo sociale e culturale. È in questi contesti che il cibo si ostenta come ricettacolo di forza vitale. Le prescrizioni e i divieti che ne regolano l’assunzione sembrano controllare e segnalare il “potere” degli alimenti e, attraverso percorsi ritualizzati, convogliarne l’efficacia sul corpo sociale. La festa celebra la periodicità cosmica e umana. La rappresentazione circolare del tempo nasce dalla percezione dei ripetuti intervalli della natura (fra minimi e massimi vitali espressi dall’abbondanza o dalla scarsità degli alimenti) che vengono tradotti simbolicamente in un ritmo ritualmente ribadito. È in questo modo che si sancisce (consapevolmente e in maniera 27 Lucia Galasso ufficiale) e si rinnova il patto tra uomini e divino, e la rigenerazione naturale e cosmica ne è un fattore basilare. Durante la festa ad avere importanza è la centralità cultuale della commensalità e la sacralità del consumo e della ridistribuzione collettiva del cibo. Mangiare e bere insieme si caricano di funzioni essenziali per la vita sociale e rituale. Il pasto è infatti una forma di relazione che crea vincoli e obbligazioni. Il piacere del mangiare insieme è in realtà un piacere della “comunicazione” o dello scambio (Giallombardo 2003: 38). Il dono alimentare (come ci hanno evidenziato già Mauss e Malinowski) istituisce il legame sociale e simbolico e la solidarietà su vari livelli. È da qui che nasce il rigore formale dei comportamenti connessi al banchetto o all’offerta cerimoniale di vivande. Queste modalità distributive mettono in scena – all’interno della vita del singolo o della comunità – le gerarchie umane e sacrali in cui ciascun gruppo si riconosce. Ma bere e mangiare insieme in abbondanza ha anche un altro valore, quello di un’avvenuta trasformazione, metamorfosi, un passaggio: dalla morte alla rinascita del cosmo, nelle grandi celebrazioni annuali, dallo status infantile a quello adulto, nel ciclo della vita individuale, dalla frammentazione quotidiana all’unione collettiva, nei riti pubblici delle comunità e infine dallo status di vivi a quello di defunti. Tutti questi passaggi, snodi fondanti la vita naturale e umana, continuano ancor oggi a essere marcati da azioni centrate sull’accumulazione, ostentazione e consumo cerimoniale degli alimenti. Si tratta, come ben sottolinea Fatima Giallombardo di “invitare gli dei” a un pasto quanto più ricco e abbondante per ricambiare la generosità dimostrata in circostanze rischiose della propria esistenza o per preservarla. Nutrirli costituisce un gesto antichissimo e mai dismesso, capace di veicolare ancora oggi il nucleo di un’elaborazione simbolica affidata al rito. 28 Cibo e sacro Riferimenti bibliografici Brelich A. 1995, Introduzione alla storia delle religioni, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Roma. Burgio M. 1982, Vocabolario-Atlante dei dolci rituali in Sicilia, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo. Capatti A., De Bernardi A., Varni A. (a cura di) 1998, Storia d’Italia, Annali 13, L’alimentazione, Einaudi, Torino. Giallombardo F. 2003, La tavola l’altare la strada: scenari del cibo in Sicilia, Sellerio Editore, Palermo. Hannerz U. 2001, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna. Mauss M. 2002, Saggio sul dono, Einaudi, Torino. Pievani T. 2002, Homo sapiens e altre catastrofi, Meltemi, Roma. Scarpi P 2005, Il senso del cibo: mondo antico e riflessi contemporanei, Sellerio, Palermo. Schafer R.M. 1985, Il paesaggio sonoro, Ricordi, Milano. Teti V. 1999, Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, Roma. 29