Cibo e sacro
Lucia Galasso
L’alimentazione umana non è una semplice risposta a un
bisogno primario, essa riflette l’interazione fra diversità biologica e culturale in quanto si radica nella storia, nella genetica,
nell’ecologia e nella cultura delle diverse popolazioni. Osservare
il comportamento alimentare dell’uomo ha quindi permesso di
evidenziare quanto egli non sia solo un mangiatore biologico,
ma anche un consumatore-mangiatore simbolico e sociale.
Deduzione che si può trarre considerando quanto le tradizioni
alimentari si basino su sistemi ideologico-simbolici i cui valori
sono parte integrante della vita comunitaria.
Nel momento in cui soddisfare la fame è stato unicamente
un bisogno fisiologico l’uomo non ha sviluppato la cucina, il suo
alimentarsi era simile al resto del mondo animale. La differenza
si è incominciata a rilevare nel momento in cui, a fame soddisfatta, si è unito «uno sviluppo delle abilità cognitive, che hanno
differenziato sempre più l’uomo dal resto degli altri primati e ha
consentito alla nascita del pensiero simbolico e magico-religioso»
(Pievani 2002: 252).
L’orizzonte religioso di questo periodo (paleolitico
superiore) si fonda su una delle più antiche e fondamentali esperienze umane, che è quella di trovarsi “di fronte”
al mondo; il “mondo” ciò che è “di fronte” all’uomo,
appare come essenzialmente estraneo all’uomo, quindi
come qualcosa che non è suo, quindi è di altri, e precisamente degli esseri-non umani. Appropriarsi a scopo
alimentare di qualcosa che appartiene a quel mondo
richiede la possibilità e la capacità di entrare in dialogo
con il sovrannaturale (Brelich 1995: 45).
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Animali, frutti e tutto il cibo dato in natura non appartengono all’uomo, ma a questi esseri sovrumani che nelle prime
forme religiose sono stati rappresentati da potenze che regnano
proprio su quella realtà estranea all’uomo e per questo “sacra”.
Tra tutte le forme che sottolineano il bisogno di potersi cibare
del creato, previa autorizzazione di quel mondo soprannaturale
che affascina e che al contempo si teme, l’offerta primiziale, forma
di culto al signore degli animali, ben ce lo spiega: prima di consumare la cacciagione o i frutti raccolti il primo pezzo viene offerto
all’entità sovrumana, il resto agli uomini.
Appropriandosi del cibo, tramite la caccia o la raccolta, l’uomo fa qualcosa di illecito a cui rimedia desacralizzando l’alimento, rendendolo quindi adatto al consumo umano. Il modo per
farlo è quello di concentrare la sua sacralità nel primo pezzo che
viene debitamente restituito al proprietario sovrumano. Perché
proprio il primo?
Perché il momento critico, in ogni azione è il primo,
quello che rompe la situazione preesistente, l’irruzione
umana nella realtà ‘data’ come risulta bene dai riti di passaggio o da altre usanze. Se il primo pezzo viene mangiato dagli esseri sovrumani, il momento critico è superato,
il resto del cibo può essere consumato tranquillamente
dagli uomini. L’offerta primiziale passa dalle più antiche
civiltà di cacciatori anche in quelle dei coltivatori; qui,
di ogni prodotto agrario viene offerta una primizia agli
esseri sovrumani (antenati, déi) prima che sia permessa la
consumazione profana (Brelich 1995: 46).
Sono queste le distinzioni cruciali tra Paleolitico e Neolitico,
il primo caratterizzato da caccia e raccolta, il secondo dalla produzione di cibo attraverso l’agricoltura.
La nascita dell’agricoltura e dell’allevamento porta a una
complessità sociale che si ripercuote inevitabilmente anche sulla
religione. Ora il cibo si produce, si è meno soggetti ai fenomeni
che rendevano incostante l’approvvigionamento degli alimenti,
ma nuovi problemi si presentano; raccolti e animali sono soggetti
a malattie, condizioni atmosferiche avverse ecc. che pongono
l’uomo ancora di fronte a quel mondo che cerca di propiziarsi per
non averne a soffrire in termini materiali. Compaiono nuovi esseri
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sovrumani che simboleggiano la forza nutrizionale della natura:
- La Terra Madre: garante della fertilità della terra;
- Il Dema: un essere mitico dal cui corpo fatto a pezzi, una
volta ucciso, spuntano per la prima volta i vegetali alimentari coltivati dalla comunità (Dioniso, Osiride).
Questa complessità troverà risonanza all’interno del calendario agricolo, perno della concezione ciclica del tempo e quindi
della vita.
1. Il calendario
È stato proprio il bisogno di calcolare, suddividere e dare un
nome al tempo, in relazione a quanto l’uomo osservava in natura,
a dare vita al calendario, prodotto di fenomeni complessi, di
sedimentazione, sovrapposizione, reinterpretazione e riplasmazione
di modelli, simbologie, consuetudini e rituali; come è il caso delle
numerose feste cristiane, in cui coesistono e vengono rifunzionalizzati costumi, pratiche, simbologie appartenenti al sostrato pre-cristiano e che si possono intravedere in filigrana proprio attraverso
i cibi preparati per l’occasione (in particolare il discorso vale per i
dolci se è vero che ogni paese, ogni regione, ogni territorio, come
del resto ogni nazione e ogni popolo, hanno elaborato dolci tipici
per mezzo dei quali identificano e scandiscono il ciclo temporale).
Se teniamo presente che la visione del mondo popolare è
espressa dalla circolarità il calendario sancisce (consapevolmente
e in maniera ufficiale) e rinnova il patto tra uomini e divino,
proprio grazie a quella rigenerazione naturale e cosmica che ne è
un fattore basilare.
Il cibo introduce ad una particolare metafora circolare: ciò che si percepisce buono introduce a capire
(nel senso etimologico del termine, cioè al contempo
prendere, catturare e comprendere) qualcosa che sfugge
alla nostra immediata percezione e che per essere interiorizzato ha bisogno di essere presentato secondo il
mondo della percezione. (Scarpi 2005: 114)
L’atto del mangiare e del mangiare rituale, che è azione fondamentale per la sopravvivenza, provoca quelle emozioni e quegli
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affetti (Otto 1917: 56) con i quali si tesse e ritesse la dimensione
globale della realtà circostante, quando poi è inserito in una performance rituale o mitica, si carica per giunta di una dimensione
sacrale e diventa atto sociale totale.
Elemento forte della festa, il cibo costituisce, attraverso il
modo in cui viene consumato e rappresentato, la dimensione
mitica dell’identità: sessuale, generazionale, locale e di comunità.
Il nutrirsi configura un “ordine del mondo” oltre che del gusto,
e suggerisce attraverso la varietà ricette, ma non solo, itinerari,
storici, economici e ideologici. Le ricette tradizionali, specialmente se legate a contesti festivi, veicolano il bisogno di esserci
nel mondo con il proprio carico di unicità e originalità, anche
attraverso il piacere tutto sociale di mangiare secondo la norma.
2. La festa
Le feste sono “i cardini di ogni calendario”, la cui importanza
va ricercata nella loro collocazione nel tempo, un tempo che è
l’opposto di quello quotidiano, dove valgono quindi altre regole:
- durante le feste vigono norme di comportamento differenti da quelle abituali;
- ci si veste differentemente;
- si mangia (o si digiuna) in maniera diversa;
- certi divieti valgono solo per le feste, o le feste li sospendono.
Durante le feste si esce dal tempo profano, e si entra nel
tempo del sacro, in cui si ricorda e commemora quello che ha
importanza per una comunità, e quindi quello che dà senso
all’esistenza.
Nel contesto festivo il cibo è importantissimo, tanto da
essere il nucleo intorno al quale la festa si struttura, prova ne è
che la celebrazione si restringe proprio alla consumazione di un
alimento rituale. L’analisi del modello festivo, in antropologia,
ha portato a una sua suddivisione:
- preparazione e allontanamento delle colpe passate;
- sospensione delle regole;
- sacrificio;
- allontanamento del male presente;
- propiziazione del bene futuro.
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Queste cinque tappe hanno il compito di evidenziare come
il periodo della festa altro non sia che il tempo di un passaggio
da una condizione all’altra o da un periodo all’altro, con il fine
di esorcizzare il male e propiziare il futuro. La festa è il bisogno
di rinnovarsi rispetto a una condizione, di fronte alla comunità e
di fronte alla natura, al sacro, con la benedizione di quest’ultimo.
Perché questo avvenga è necessario allontanare le presenze
negative (che possono interferire con questo bisogno) attraverso
un sacrificio – reale o simbolico – attivando così per il futuro
la protezione del mondo soprannaturale e gli influssi benigni
di questo sulla comunità e i suoi beni. È il tentativo, in ultima
analisi, di riscattarsi da quel senso di insicurezza e precarietà su
cui si basa il vivere quotidiano.
Due sono le forze onnipresenti e in contrapposizione tra di
loro nell’apparato festivo: la purificazione (rappresentata da comportamenti come il digiuno) e la trasgressione (che l’immaginario
collettivo proietta nel famoso Paese di Cuccagna).
Così il rito del mangiare, il cibo e i suoi rituali connotano il periodo festivo e stabiliscono un
particolare “paesaggio alimentare”, che è segnato dall’alternarsi emotivo degli odori e dei sapori vissuti ai
diversi livelli dell’inconscio, della coscienza individuale
e della condivisione sociale del cibo – momenti vissuti
nell’eccesso – per sottolinearne la dimensione sociale
totale e quella sacrale. L’intrecciarsi in maniera smisurata dei diversi sensi pervade tutti i livelli esperienziali
e mette in funzione vissuti sociali totali condivisi nella
comunità, perciò a dire sacri (Schafer 1985: 37)
La presenza del cibo nel corpo della festa aiuta a capirne
non solo la stratificazione storica, ma anche quelle simbologie
nascoste, poco conosciute, che solo un’attenta disamina riesce
a consegnarci. Particolarmente interessante mi è parsa quella
offerta da Rossano Nistri nelle sue lezioni di antropologia dell’alimentazione tenute presso la Facoltà di Agraria dell’Università
degli studi di Milano (anno accademico 2003-2004):
I livello:
Mesolitico (caratteri tipici della cultura pre-agraria).
Dal punto di vista alimentare è carat23
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terizzato da alimenti di raccolta spontanea e dalle uova. Feste come la Pesach
ebraica, la nostra Pasqua, San Giuseppe
ne sono un esempio. Eredità, quindi,
degli antichi riti equinoziali di Primavera.
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II livello:
Mesolitico/Neolitico.
La nascita dell’agricoltura porta in primo piano i culti della Grande Madre
a cui sono correlati i cereali (festa di
San Giovanni, feste del grano). L’orizzonte alimentare è rappresentato da
vegetali coltivati e carni di allevamento (minestre di grano e legumi cucinate al sud per i giorni di vigilia o i
fagioli con le cotiche preparati nell’area
padana per il giorno dei defunti).
III livello:
Età del bronzo.
Caratteri agrari progrediti (culti misterici), caratterizzato dalla comparsa di
pani sacrificali (pani rituali) sia dolci
la pasticceria festiva tradizionale: panettone, panforte, colomba. Tipologia di dolci che si è andata definendo
dal medioevo in poi, evoluzione di antichi pani speziali o panpepati) sia salati (il pane di Sant’Antonio, di San
Biagio o di San Lorenzo).
IV livello:
Non è legato a un periodo storico particolare, ma alla rifunzionalizzazione
in chiave cristiana di ritualità precedenti (oltre ai pani troviamo la benedizione delle uova pasquali, le cene di
carità allestite dalle confraternite, i pasti
di San Vincenzo) cui si affianca una
maggiore complessità gastronomica.
V livello:
È di matrice strettamente commercia-
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le-promozionale, non ha evidenti riferimenti rituali, è semplicemente in
sintonia con i bisogni capitalistici
della società industriale e con le attua
li tendenze agricole e produttive di un
territorio o di una società (esempi
sono il brandy regalato per la festa
del papà, i baci perugina per San Valentino, o tutto quell’insieme di sagre
festive che caratterizzano l’estate).
È facile cogliere in questa schematica, e certamente non
esaustiva, classificazione storica, culturale e colturale quanto la
festa sia calata all’interno del ciclo dell’anno e affettivamente
legata alla comunità che la festeggia e alle conseguenti identità
locali.
3. La deritualizzazione del piatto festivo
Se fino a qualche tempo fa la festa era vissuta in maniera
forte e sentita intimamente oggi assistiamo a una sua trasformazione: nel contemporaneo la festa è vissuta più per se stessi che
per i Santi.
Questo vuol dire che, consapevole del potenziale
economico e di richiamo di un evento festivo, le comunità ne hanno fatto un evento-spettacolo. Situazione
a svantaggio anche di una lavorazione manuale, a un
rispetto della stagionalità, delle materie prime impiegate dei piatti rituali e a una deritualizzazione di questi
ultimi (Burgio 2009: 25).
Per capire meglio questo processo prendiamo in considerazione la categoria dei dolci.
Il rapporto tra dolce e festa è fortemente biunivoco: la
maggior parte dei dolci è collegata al calendario agropastorale/
liturgico.
Non tutti i dolci sono rituali allo stesso modo. Per esempio
la preparazione e il consumo di certi cibi sono dedicati a un
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particolare giorno o più generalmente a un periodo, oppure
se anche dedicati a una certa festa vengono preparati anche in
altre occasioni, altri scandiscono tanto le feste quanto momenti
speciali dell’anno o della vita delle persone (nascita, pubertà,
matrimonio, morte, ecc.).
C’è da rilevare che il dolce, in quanto tale, è invenzione
abbastanza recente se si tiene conto che anticamente la distinzione dei sapori era meno netta e più complessa di quella odierna.
Un esempio lo possiamo riscontrare nella preparazione della
glassa, che ricopre buona parte dei dolci siciliani e non solo,
retaggio che affonda le sue radici in Italia - fin dall’epoca romana - nell’apprezzamento per il gusto agrodolce. Che cos’è infatti
la glassa se non la commistione tra un elemento agro (il limone)
con un elemento dolce (lo zucchero)? La volontà di relegare un
utilizzo quasi esclusivo dei dolcificanti per alcune specifiche preparazioni è quindi abbastanza recente, e pone attenzione al ruolo
abbastanza definito che hanno assunto: prelibatezze che hanno
una preparazione e un consumo esclusivi (o almeno lo avevano).
Delimitare il campo della classificazione dei dolci rituali
non è semplice, pur tenendo in considerazione suddivisioni,
come gli ingredienti caratterizzanti e i metodi di cottura, proposte da Burgio (2009) l’approccio lessicale che ritroviamo in
Montemagni, Castiglione e Mastranga ci permette di incasellare i vari dolci sotto precisi gruppi organizzati di riferimento
(es. torte, biscotti, frittelle, gelati, ecc.). Dalle considerazioni
di questi studiosi possiamo dedurre che il dolce è un alimento
caratterizzato dalla compresenza di queste tre condizioni:
1. Il dolcificante ne determina assoluta prevalenza di
gusto;
2. Viene esclusivamente servito a fine pasto o da solo nel
corso della giornata, e comunque non rappresenta un
intero pasto;
3. É qualcosa in sovrappiù all’interno della dieta quotidiana,
viene considerato o uno sfizio o un segnalatore di
particolari eventi e per questo viene spesso ritualizzato.
Cosa è cambiato oggi, rispetto a quanto analizzato?
Principalmente le dinamiche di preparazione che non sono più
legate al saper fare manualmente. Prima tutto veniva fatto a
mano dando estrema importanza al lato estetico del piatto da
offrire al santo, oggi la tecnologia e la delega ai mastri pasticceri
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la fa da padrona. Altro fattore importante è proprio quello del
tempo da dedicare alla preparazione domestica che si è drasticamente ridotto rispetto al passato, quando gruppi molto grandi
di donne lavoravano insieme per interi giorni. Infine, i gusti
sono profondamente cambiati, specialmente tra i giovani che
sono indirizzati verso quelli meni decisi e complessi del regime
festivo tradizionale.
Si assiste così a una deritualizzazione del dolce/piatto rituale. Questo avviene quando è presente un benessere economico,
ma anche quando si fa più debole la sua carica simbolica (gli si
riconosce un legame con un particolare periodo/santo, ma solo
in pochi lo sanno), essendo presente sulle tavole tutto l’anno.
Sopravvivono quei cibi rituali che hanno un valore simbolico
(che se pur non esplicito è ancora socialmente condiviso), o fortemente iconici; dobbiamo tenere in considerazione un fattore
estremamente importante: oggi nessuna preparazione comporta
un sacrificio economico e la disponibilità della materia prima è
tale che ciascuno può togliersi, in qualsiasi periodo dell’anno, lo
sfizio di preparare anche dolci ad alto tasso di ritualità.
4. Conclusioni
Il bisogno di radici ovvero di una territorialità sempre più
sfuggente in quelli che Hannerz (2001) definisce “habitat di
significato” è sempre più intensamente ricercato e rivissuto attraverso il paesaggio culinario tradizionale, esso stesso ancorato a
quel codice alimentare fortemente legato al calendario festivo.
Nelle comunità tradizionali il cibo si trova intrecciato alla
trama di relazioni che ancora modellano l’universo sociale e culturale. È in questi contesti che il cibo si ostenta come ricettacolo
di forza vitale. Le prescrizioni e i divieti che ne regolano l’assunzione sembrano controllare e segnalare il “potere” degli alimenti
e, attraverso percorsi ritualizzati, convogliarne l’efficacia sul
corpo sociale. La festa celebra la periodicità cosmica e umana.
La rappresentazione circolare del tempo nasce dalla percezione
dei ripetuti intervalli della natura (fra minimi e massimi vitali
espressi dall’abbondanza o dalla scarsità degli alimenti) che vengono tradotti simbolicamente in un ritmo ritualmente ribadito.
È in questo modo che si sancisce (consapevolmente e in maniera
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ufficiale) e si rinnova il patto tra uomini e divino, e la rigenerazione naturale e cosmica ne è un fattore basilare.
Durante la festa ad avere importanza è la centralità
cultuale della commensalità e la sacralità del consumo
e della ridistribuzione collettiva del cibo. Mangiare e
bere insieme si caricano di funzioni essenziali per la vita
sociale e rituale. Il pasto è infatti una forma di relazione
che crea vincoli e obbligazioni. Il piacere del mangiare
insieme è in realtà un piacere della “comunicazione” o
dello scambio (Giallombardo 2003: 38).
Il dono alimentare (come ci hanno evidenziato già Mauss
e Malinowski) istituisce il legame sociale e simbolico e la solidarietà su vari livelli. È da qui che nasce il rigore formale dei
comportamenti connessi al banchetto o all’offerta cerimoniale
di vivande. Queste modalità distributive mettono in scena –
all’interno della vita del singolo o della comunità – le gerarchie
umane e sacrali in cui ciascun gruppo si riconosce.
Ma bere e mangiare insieme in abbondanza ha anche un
altro valore, quello di un’avvenuta trasformazione, metamorfosi,
un passaggio: dalla morte alla rinascita del cosmo, nelle grandi
celebrazioni annuali, dallo status infantile a quello adulto, nel
ciclo della vita individuale, dalla frammentazione quotidiana
all’unione collettiva, nei riti pubblici delle comunità e infine
dallo status di vivi a quello di defunti.
Tutti questi passaggi, snodi fondanti la vita naturale e
umana, continuano ancor oggi a essere marcati da azioni centrate sull’accumulazione, ostentazione e consumo cerimoniale
degli alimenti.
Si tratta, come ben sottolinea Fatima Giallombardo di
“invitare gli dei” a un pasto quanto più ricco e abbondante per
ricambiare la generosità dimostrata in circostanze rischiose della
propria esistenza o per preservarla. Nutrirli costituisce un gesto
antichissimo e mai dismesso, capace di veicolare ancora oggi il
nucleo di un’elaborazione simbolica affidata al rito.
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Riferimenti bibliografici
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