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M.FAVILLA - R.RUGOLO, capitoli vari

2008, in GLI AFFRESCHI NEI PALAZZI E NELLE VILLE VENETE DAL ’500 AL ’700, a cura di F. Pedrocco, Schio (Vicenza)

Pubblicato per la prima volta nel 2008 da Sassi Editore srl Copyright © Sassi Editore srl viale Roma 122/b 36015 Schio (Vicenza), Italia Tel e Fax +39 0445 539051 info@sassieditore.it, www.sassieditore.it a cura di Filippo Pedrocco Visitate il sito internet www.sassieditore.it per sapere dove trovare i nostri libri Copyright per il testo © 2008 Massimo Favilla, Filippo Pedrocco, Ruggero Rugolo Abbreviazioni FP = Filippo Pedrocco MF-RR = Massimo Favilla - Ruggero Rugolo Testi: Filippo Pedrocco, Massimo Favilla, Ruggero Rugolo Fotografie: Luca Sassi Coordinamento editoriale: Luca Sassi Revisione testi: Natalie Lanaro Selezioni colore: Sassi Editore srl Stampa: Printer Trento, Trento, Italia Testi: Massimo Favilla, Filippo Pedrocco, Ruggero Rugolo Fotografie: Luca Sassi ISBN: 978-88-901237-7-1 © Riservati tutti i diritti per tutti i paesi. Nessuna parte della presente opera può essere riprodotta in alcuna forma (inclusa la fotocopiatura o la memorizzazione su qualsiasi supporto tramite mezzi elettronici e qualsiasi altro uso transitorio o incidentale) senza la preventiva autorizzazione scritta dell’editore. Ogni richiesta di autorizzazione alla riproduzione di qualsiasi parte della presente opera va inviata all’editore. SASSI Introduzione 7 Dal Barocco al Rococò, tra affanno e leggerezza 13 16 GIORGIONE 22 TIZIANO 26 LAMBERT SUSTRIS 28 GUALTIERO PADOVANO 34 DOMENICO BRUSASORCI 46 PAOLO VERONESE 54 BATTISTA ZELOTTI- BATTISTA DEL MORO 78 BATTISTA ZELOTTI 94 GIOVANNI ANTONIO FASOLO 104 206 Venezia, Ca' Dolfin 384 Noventa Padovana, villa Vendramin Grimani Calergi 396 Venezia, palazzo Grassi JACOPO GUARANA 404 Venezia, Ospedaletto BATTISTA ZELOTTI TERZO CAPITOLO Thiene, villa Da Porto Colleoni GIOVANNI ANTONIO FASOLO 376 Mira, villa Widmann MICHELANGELO MORLAITER 216 368 Levada di Piombino Dese, villa Marcello ANDREA URBANI Treviso, palazzo Orsetti Dolfin Giacomelli NICCOLÒ BAMBINI Fanzolo di Vedelago, villa Emo Capodilista 200 358 Venezia, Ca' Rezzonico GIUSEPPE ANGELI Vicenza, palazzo Repeta LOUIS DORIGNY Lonedo di Lugo Vicentino, villa Godi Malinverni 194 342 Vicenza, villa Valmarana ai Nani GIAMBATTISTA CROSATO Santa Bona di Treviso, villa Zenobio LOUIS DORIGNY Maser, villa Barbaro 184 314 Vicenza, villa Valmarana ai Nani GIAMBATTISTA TIEPOLO Mira, villa Alessandri GREGORIO LAZZARINI Vicenza, palazzo Chiericati 178 302 Santa Bona di Treviso, villa Zenobio GIANDOMENICO TIEPOLO Venezia, casino Zane GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI Lonedo di Lugo Vicentino, villa Godi Malinverni 172 292 Venezia, palazzo Labia GIAMBATTISTA TIEPOLO Murano, casino Correr SEBASTIANO RICCI Luvigliano di Torreglia, villa dei Vescovi 162 286 Venezia, palazzo Sagredo FRANCESCO FONTEBASSO Venezia, Ca' Zenobio GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI Venezia, Palazzo Ducale 154 276 Illasi, villa Pompei Carlotti GIAMBATTISTA TIEPOLO Stra, villa Foscarini Negrelli Rossi LOUIS DORIGNY Venezia, Gallerie dell'Accademia 142 260 Biron di Monteviale, villa Loschi Zileri dal Verme PIETRO LONGHI Battaglia Terme, villa Selvatico Emo Capodilista PIETRO LIBERI - DOMENICO BRUNI Castelfranco Veneto, Casa Marta 134 Caldogno, villa Caldogno LUCA FERRARI DA REGGIO GIORGIONE 131 ANTONIO BALESTRA GIULIO CARPIONI PRIMO CAPITOLO Il secolo d’oro dei frescanti veneti GIAMBATTISTA TIEPOLO SECONDO CAPITOLO SOMMARIO 114 GIANDOMENICO TIEPOLO Splendori di un secolo “in decadenza” 225 Venezia, Ca' Rezzonico MATTIA BORTOLONI 228 Apparati 410 BATTISTA ZELOTTI Caldogno, villa Caldogno LUDOVICO POZZOSERRATO Longa di Schiavon, villa Chiericati 124 Piombino Dese, villa Cornaro LOUIS DORIGNY 238 Cuzzano di Grezzana, villa Allegri Arvedi GIAMBATTISTA TIEPOLO Massanzago, villa Baglioni 252 Mappa 424 Bibliografia 425 Indice dei nomi 428 Crediti fotografici 432 GUALTIERO PADOVANO (Merlara, 1526 circa – Padova, 1552) Sale delle Divinità, dei Trionfi, dei Cesari e dei Sacrifici (1550-1552) Lonedo di Lugo Vicentino (Vicenza), Villa Godi Maliverni Nella pagina a fianco dall’alto in basso: Sala dei Trionfi. Sala dei Cesari. Sala dei Sacrifici. Prospetto di villa Godi Malinverni progettata da Andrea Palladio nel 1537 circa. 34 «Posta sopra un colle di bellissima vista» (Palladio, 1570) sulla valle dell’Astico, la fabbrica dominicale venne realizzata da Andrea Palladio su commissione del nobile vicentino Girolamo Godi, a partire con tutta probabilità dal 1537 (Puppi, 1973). Si tratta della prima villa ideata dall’insigne architetto ed è costituita da un corpo massiccio caratterizzato da un sensibile arretramento della parte mediana della facciata per far posto a una scalea che conduce a una loggia a tre fornici. L’edificio apre una felice stagione, benché il prospetto ancora non presenti quello che sarà il tipico modulo palladiano, costituito da un colonnato sormontato da timpano, che lo renderà celebre e riconoscibile in ogni parte del mondo. Artefici delle pitture ad affresco «di bellissima inventione» che ne decorano gli interni furono, secondo le parole dello stesso Palladio, Gualtiero Padovano, Battista Zelotti e Battista D’Angolo detto Battista del Moro, tra «i più singolari e eccellenti pittori de’ nostri tempi». Per compiere questa impresa, ricorda ancora l’architetto, e condurla «a quella eccellenza e perfettione che sia possibile», il committente, genti- IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - luomo «giudiciosissimo», non risparmiò «spesa alcuna». Oltre alla loggia, quattro sale nell’ala destra della villa sono riferibili alla mano di Gualtiero dell’Arzere, noto come Gualtiero Padovano, ovvero: la sala delle Divinità o del putto, quella dei Trionfi, quella dei Cesari e quella dei Sacrifici. Tutti gli ambienti devono il nome ad un elemento o ai soggetti chi vi sono raffigurati. Sebbene non vi siano prove documentarie, la critica ritiene che Girolamo Godi promotore di un cenacolo letterario vicentino, amico di Pietro Bembo e di Alvise Cornaro, abbia ingaggiato Gualtiero intorno al 1550 (Mancini, 1995). La morte improvvisa, avvenuta tra l’aprile e l’ottobre del 1552, impedì all’artista di completare l’opera, e venne sostituito da Battista Zelotti e Battista del Moro, ai quali si devono gli affreschi che ornano le altre sale del complesso. Tra i primi esempi in Veneto di decorazione di villa, questo ciclo si pone in ideale continuità con le tipologie proprie degli affreschi illusionistici che caratterizzavano le antiche ville romane, tipologie mediate dalla lezione di Raffaello delle Logge Vaticane e di Baldassarre Peruzzi alla villa della Farnesina a Roma. Esponente della corrente padovano-tizianesca, in un torno di tempo in cui operavano nella città del Santo Giuseppe Porta Salviati, Lambert Sustris, Domenico Campagnola, Giovanni Maria Falconetto, Gualtiero godette di grande stima presso i contemporanei, con giudizi lusinghieri che si mantennero inalterati nella tradizione storico-erudita durante tutto l’Ottocento (Bevilacqua, 1986). Presente nel 154142 a palazzo Mantova Benavides a Padova insieme a Giuseppe Porta Salviati, già attivo nel 1542-43 in compagnia di Lambert Sustris nella villa dei Vescovi di Luvigliano, Dall’Arzere a villa Godi recupera le soluzioni compositive e decorative sperimentate in quel contesto. Fin dalla sala delle Divinità, probabilmente la prima in ordine cronologico ad essere completata, si fanno stringenti le affinità con il prototipo di Luvigliano (Binotto, 1998), sia per la scansione GUALTIERO PADOVANO , VILLA GODI MALINVERNI delle colonne ioniche che sostengono architravi decorati da fregi abitati da divinità mitologiche, sia per la presenza di un bambino, qui, come in un ambiente della villa padovana, seduto nel vano di una illusoria finestra che si dischiude sul paesaggio idilliaco. Nelle vedute che si dispongono sulle pareti, secondo l’idea concepita da Polidoro da Caravaggio e da Giulio Romano, si può scorgere la vicinanza con il paesaggismo di matrice fiamminga, seguendo la lezione di Maarten van Heemskerk filtrata da Sustris. Debito che si riscontra in particolare nello scorcio con il colosso di Rodi che fa da sfondo al Rapimento di Elena, posto nella sala dei Trionfi. Sulle superfici verticali di questo vano Gualtiero distribuì possenti omenoni, raccordati da finti festoni di verzura e frutta, che illusionisticamente sostengono un fregio a monocromo ornato da scene di antichi trionfi. Sulla cappa del camino si staglia di profilo una classicissima Securitas che pare ricalcata da un’antica moneta romana. Contribuisce a sdrammatizzare l’aulica atmosfera un richiamo alla quotidianità: da una porta si affaccia un inserviente colto nell’atto di scostare una tenda verde, recante sulla spalla una tovaglia bianca impreziosita da un ricamo rosso, forse destinata all’allestimento di una tavola da pranzo. La tela ovale incastonata nel soffitto, con La Virtù che sconfigge il Vizio, venne eseguita successivamente da Battista Zelotti. La contigua sala dei Cesari deve il nome ai busti degli imperatori romani dipinti ad imitazione del bronzo e collocati sopra le porte all’interno di finte cornici riccamente decorate e abitate da putti scherzosi. Anche qui paesaggi di chiara matrice fiamminga, incorniciati da grandi finestre ad arco, si aprono sulle pareti lunghe, mentre su quelle brevi immaginari vani incassati nel muro ospitano decorazioni a grottesche. Se nella stanza dei Sacrifici le figure allegoriche dalle membra allungate che s’annidano nelle pareti sembrano dotate di una grazia parmigianinesca, i raffinati motivi iconografici che decorano le lunette della loggia – satiri, figure fitomorfe, putti, unguentari ed altro – trasmigrano direttamente dall’Odeo Cornaro di Padova dove Gualtiero impegnò il suo talento, all’inizio degli anni quaranta del secolo, sull’esempio fornito in Vaticano da Polidoro da Caravaggio (Saccomani, 1970-71). MF-RR IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - GUALTIERO PADOVANO , VILLA GODI MALINVERNI 35 14 TAVOLE 14-24. GUALTIERO PADOVANO , VILLA GODI MALINVERNI 14. Sala delle Divinità, veduta d’insieme. 15. Sala delle Divinità, particolare con Apollo, la finta porta e la sovrapporta decorate a grottesche. 16. Sala dei Trionfi, particolare con gli omenoni e un inserviente che scosta la tenda di una finta porta. 17-18. Sala dei Trionfi, particolari del fregio a monocromo. 19-20. Sala dei Trionfi, paesaggio con la Veduta ideale di Rodi, intero e particolare. 21-22. Sala dei Cesari, particolari delle quadrature e dei paesaggi. 23. Sala dei Sacrifici, particolare della sovrapporta dipinta a monocromo 24. Loggia, particolare del soffitto con Flora e Mercurio. 36 15 17 16 38 18 19 20 40 21 22 42 23 24 44 DOMENICO BRUSASORCI (Verona, 1515 – 1567 circa) Sala del Firmamento (1558) Vicenza, palazzo Chiericati Il «palazzo posto sopra la piazza che volgarmente si dice Isola» (Palladio, 1570) venne progettato nel 1550 da Andrea Palladio su commissione di Girolamo Chiericati. Il cantiere proseguì per diversi anni, per interrompersi nel 1554 e vedere il completamento soltanto alla fine del XVIII secolo (Puppi, 1999). Seppur incompiuto, fu reso abitabile nel 1570 mentre vi dimorava il figlio di Girolamo, Valerio «cavallier e gentil’huomo honorato» della città di Vicenza. Dal 1838 di proprietà comunale e sede del Museo Civico, l’edificio s’innalza sopra una scalinata «per ponervi sotto le cantine ed altri luoghi appartenenti al commodo della casa» ed è caratterizzato da una doppia loggia a due ordini, dorico e ionico, che occupa l’intero prospetto al pianterreno, e le ali laterali al piano nobile, creando in tal modo un dinamico gioco di volumi. Lo stesso Palladio volle altresì sottolineare la qualità degli ornamenti interni a stucco, «eccellentissimi di mano di messer Bartolameo Ridolfi scultore veronese», e a fresco, opera di Domenico Riccio e Battista Zelotti «huomini singolari in queste professioni». Domenico Riccio, detto Brusasorci, apprese l’educazione alla pittura nella bottega del padre Agostino per poi perfezionarsi nell’atelier di Francesco Caroto. Pittore su tela e ad affresco, miniatore e restauratore, Prospetto di Palazzo Chiericati progettato da Andrea Palladio nel 1550. 46 IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - DOMENICO BRUSASORCI , PALAZZO CHIERICATI la sua personalità si formò nell’ambiente manierista veronese, assorbendo suggestioni di stampo raffaellesco e parmigianinesco, cogliendo gli esiti coloristici di matrice fiorentina e impegnandosi in ricerche formali sull’esempio di Giulio Romano. Brusasorci farà parte, con Paolo Veronese, Battista Zelotti, Anselmo Canera, Battista del Moro, di quel novero di artisti che applicheranno il loro talento nella decorazione delle architetture palladiane come, nel suo caso, i palazzi Iseppo Porto e Chiericati a Vicenza (Magagnato, 1968). Nel 1566, con lo straordinario ciclo ad affresco nel salone del vescovado di Verona, ove dipinge i vivissimi ritratti dei 108 prelati succedutisi sulla cattedra di San Zeno, si chiude la carriera di uno dei massimi protagonisti del Cinquecento veronese (Marinelli, 1998). Un atto notarile risalente al 1558 testimonia la presenza di Brusasorci in palazzo Chiericati (Puppi, 1999), occupato nell’abbellimento di una delle sale al piano terreno. Contraddistingue questo vano dal perimetro rettangolare uno slanciato soffitto con volta a botte dove si squaderna una composizione unitaria di grande effetto scenografico. Il cielo è ripartito a «cassette» in stucco opera di Bartolomeo Ridolfi, memore della sala di Psiche in palazzo Te a Mantova (Ballarin, 1983; Binotto, 1998). Inscritti all’interno di alcuni scomparti campeggiano i segni dello zodiaco insieme a tutto il complesso apparato simbolico che li accompagna; in altri, più piccoli, si stagliano allegorie a monocromo che sono esemplate su antichi cammei e monete romane, testimonianza di una ricercata cultura antiquaria. Il tutto appare sapientemente raccordato da una fascia continua a raffinate grottesche su sfondo bianco riferita alla mano di Eliodoro Forbicini. Ben settantasette diverse raffigurazioni sono racchiuse nel «firmamento Chiericati», che, avvalendosi come modello figurativo di due xilografie pubblicate da Albrecht Dürer nel 1515, rappresenta tutte le costellazioni dell’emisfero celeste boreale e australe note in quell’epoca (Ballarin, 1982). Il firmamento risulta articolato in tre fasce che accolgono le costellazioni: la prima e la terza composta da semiottagoni, la seconda, più centrale, da ottagoni. Degne di attenzione risultano in particolare: Cefeo con l’Orsa Minore accucciata alla base di un trono posto in tralice; l’Orsa Maggiore che pare volgersi indietro solleticata dalla coda del sinuoso Serpente; il fiero, bianco Pegaso dalle ali sgargianti simbolo del giorno e il mite, fulvo Equiculus che rappresenta la notte; la panciuta, spaventosa Balena IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - insieme al fiume Eridano; il maculato, robusto Cane minore intento a fiutare la traccia di una preda; la terrificante Idra, avvolta nelle sue mortali spire, sormontata dal Cratere dorato, impreziosito da raffigurazioni a sbalzo; la possente Nave con le vele spiegate, oltre la quale si scorge il Cane Maggiore colto nell’atto di spiccare un balzo. Nel lungo riquadro al centro – vero e proprio fulcro attorno al quale si coagula l’intero sistema – transita verso il tramonto un abbacinante Apollo, ovvero il Sole, alla guida turbolenta del suo carro tirato da due focosi destrieri fulvi. Lo segue ravvicinata la sorella Diana con quello della Luna, trainato da due affusolati cavalli pallidi come il suo astro. L’artista intese rappresentare la scansione dell’incessante succedersi del giorno alla notte inscritto in una eterna cosmogonia. In quest’affresco dalle calde tonalità la maniera di Brusasorci dimostra appieno il debito, anche compositivo, verso Giulio Romano che illustrò il medesimo soggetto nella camera del Sole di palazzo Te a Mantova, in cui l’ardito scorcio di sotto in su mostra senza pudori le nudità del dio. MF-RR Sala del Firmamento, veduta d’insieme. DOMENICO BRUSASORCI , PALAZZO CHIERICATI 47 26 TAVOLE 25 48 25-32. DOMENICO BRUSASORCI , PALAZZO CHIERICATI 25. Veduta d’insieme della volta. Al centro, il carro di Apollo e quello di Diana, ovvero Il giorno e la notte. 26. Particolare del soffitto con l’Aquila e la Saetta e il Delfino. 27. Particolare del soffitto con il Serpente e l’Orsa Maggiore. 28. Particolari del soffitto con la Nave e il Cane Maggiore; e con la Balena e il fiume Eridano. 29. Particolare del soffitto con il Cratere e l’Idra; e con l’Acquario e i Pesci. 30. Particolare del soffitto con Pegaso ed Equiculus. 31. Particolare del soffitto con il Cane Minore. 32. Particolare del soffitto con uno scomparto a monocromo raffigurante un coccodrillo incatenato ad una palma. 49 28 27 50 29 31 30 32 BATTISTA ZELOTTI (Verona, 1526 – Mantova, 1578) BATTISTA DEL MORO (Verona, 1514 circa – Venezia, 1574 circa) Salone centrale e ala sinistra di villa Godi Malinverni (1561-1565) Lonedo di Lugo Vicentino (Vicenza), villa Godi Malinverni Salone centrale, veduta d’insieme. 78 La morte improvvisa di Gualtiero Padovano, avvenuta tra l’aprile e l’ottobre del 1552, impedì all’artista di completare l’opera decorativa di villa Godi (cfr. supra pp. 34-35). Egli venne sostituito da Battista Zelotti e Battista del Moro, ai quali si devono gli affreschi che ornano le altre sale del complesso. Al 1565 circa risalirebbero, secondo Ballarin (1971) e Brugnolo Meloncelli (1992), gli affreschi eseguiti da Zelotti per gli ambienti dell’ala sinistra della villa, mentre Battilotti (1979-80) propone di anticiparli a un momento intorno al 1561. Ancor giovane apprese i rudimenti della pittura, IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - insieme al coetaneo Paolo Veronese, nella bottega di Antonio Badile che fu attivo a Verona nella prima metà del Cinquecento. Nel 1551 collaborò con Paolo alla prima opera certa ad affresco di entrambi nella villa, ora distrutta, dei Soranzo a Treville, con una vicinanza di stile tale da rendere ardua la distinzione delle due mani (lacerti di tale decorazione sono conservati nella sacrestia del duomo di Castelfranco Veneto e in altri siti). Artista di grande talento, Battista fu dal 1553 al 1558 tra i principali promotori nelle lagune del manierismo veronese di matrice emiliana, lavorando, insieme a Veronese, alla decora- BATTISTA ZELOTTI - BATTISTA DEL MORO , VILLA GODI MALINVERNI zione della sala del Consiglio dei dieci in Palazzo Ducale, al soffitto della Libreria Marciana e a palazzo Trevisan a Murano. Dopo la parentesi veneziana fu particolarmente attivo come frescante in terraferma, trovandosi ad operare nel momento del rilancio delle campagne venete, attraverso il sistema insediativo e di organizzazione produttiva agricola delle ville. Da villa Foscari alla Malcontenta, insieme a Battista Franco, a villa Godi a Lonedo, con Battista del Moro, a villa Emo a Fanzolo, egli si troverà a dialogare proficuamente con le geniali realizzazioni architettoniche di Andrea Palladio, riuscendo a cogliere esiti di sofisticata raffinatezza, in un sapiente equilibrio tra figure e architettura a trompe-l’oeil. Al 1570 si colloca l’estesa decorazione commissionata dalla famiglia Obizzi per il castello del Catajo di Battaglia Terme, impresa che costituisce il sigillo di una felice stagione nel momento della sua involuzione neofeudale. La sua fama raggiunse infine la corte di Mantova, che lo volle come prefetto delle fabbriche ducali, e nella città dei Gonzaga si spense nel 1578. Nel contesto di villa Godi, Zelotti fornisce una delle più elevate prove della sua arte, grazie all’armonica fusione di ricercatezza decorativa, studiato cromatismo e abile impiego delle quadrature, con l’obiettivo di assicurare un appropriato senso monumentale nella giusta compostezza. Ciò risulta evidente fin dal salone centrale dove, al soffitto scandito da una severa travatura, fanno da contrappunto le pareti sulle quali si squadernano le finte architetture, che smaterializzano, ma al contempo esaltano, i volumi concepiti da Palladio. Grazie all’espediente dei trompe-l’oeil lo spazio si spalanca verso l’esterno, verso il paesaggio, quasi incorporandolo, rendendolo così componente imprescindibile del manufatto architettonico. Imponenti, monumentali arcate dall’aggettante trabeazione, coronate da timpani, campeggiano sui muri come quinte scenografiche, incorniciando due episodi tratti dalla vita di Alessandro Magno. L’idea della profondità, dello sfondamento prospettico, è resa ancor più palpabile dallo scorcio della rappresentazione che s’intravede fra le membrature laterali delle grandi aperture. Accanto a queste si dischiudono illusorie finestre: in una, seduto su una panca marmorea, un gentiluomo in abiti cinquecenteschi – forse il committente Girolamo Godi – volge le spalle a un paesaggio che è teatro del Ratto di Ganimede; l’altra mostra in primo piano Il ratto d’Europa che domina dall’alto la vista di un golfo. Completano l’apparato decorativo ricchi IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - Salone centrale, Battista Zelotti, particolare con il committente (?) seduto nel vano di una finta finestra. festoni vegetali, panoplie e altre scene allegoriche, come Ercole al bivio entro una finta cornice dorata e la Fama tra due prigioni, mentre l’alto zoccolo che corre intorno alla stanza è impreziosito da piccoli riquadri a monocromo. Di grande effetto scenografico è la cosiddetta sala dell’Olimpo che Zelotti, con un vigoroso senso plastico, trasformò nella suggestiva rovina di un antico tempio pagano. Frammenti di statue classiche – eredi di un gusto antiquario che affondava le radici nel colto ambiente che fu già di Andrea Mantegna –, colonne mozze, mura sbrecciate, dalle cui fenditure spuntano arbusti, appaiono dipinte sulle pareti con un sapiente gioco chiaroscurale, e da esse sembrano aggettare verso lo spazio del fruitore, compensando, in tal modo, virtuosisticamente l’effetto di sfondamento verso l’esterno. L’artista volle impalcare un artificio nell’artificio, poiché dipinse erbacce pendenti dalle travi del soffitto. Su tre lati della stanza, in alto, nello squarcio di cielo che illumina la scena BATTISTA ZELOTTI - BATTISTA DEL MORO , VILLA GODI MALINVERNI 79 siedono sopra le nubi possenti divinità, non dimentiche della lezione che Michelangelo aveva lasciato nella Cappella Sistina, ma prive del suo dramma interiore. Un Giove meditabondo campeggia tra gli altri dèi, e deve decidere, esortato da Giunone, se concedere a Proserpina, scortata da Mercurio, di ritornare periodicamente sulla terra e abbracciare la madre Cerere, permettendo in tal modo il risveglio della natura attraverso il ciclo delle stagioni, che vanno dal rifiorire della primavera, alla maturazione delle messi, alle vendemmie autunnali, al riposo invernale. In un concetto, è l’ideologia della Santa Agricoltura teorizzata da Alvise Cornaro, detto Vita Sobria, ad aleggiare nella stanza, e in tutto il complesso: solo un’agricoltura sapientemente praticata, la «vera archimia» dell’agricoltura, poteva generare una giusta ricchezza (Rugolo, 1994; Tessarolo, 1995). Fanno da contorno, ma non meno importanti, Cibele, Diana e Cronos, e poi, sugli altri lati, Venere e Marte, Cupido con Venere, Nettuno e Bacco. Sopra il camino incombe la figura di un gigante, degno di Giulio Romano, che sputa fuoco dalle fauci mentre tenta di proteggersi colle mani dai macigni che gli precipitano addosso. La stanza delle Arti deve il nome alle figure allegoriche sedute in alto, sopra le finte nicchie e sopra le finte finestre ai lati dei busti di filosofi e imperatori: possiamo riconoscere tra le altre la Poesia con un grosso tomo associata all’Architettura con un compasso, la Pittura con i pennelli in compagnia della Musica con un liuto, la Storia con una tavola su cui campeggiano tre «V», chiaro riferimento al noto veni, vidi, vici pronunciato da Cesare, la cui fisionomia affiora nel busto posto accanto. La partitura architettonica qui si fa più essenziale lasciando il campo alle eleganti sembianze monocrome della Primavera e dell’Estate collocate all’interno di candide nicchie marmoree. Le muse sovrastano prigioni accasciati dalla studiata anatomia e complesse panoplie dai colori sgargianti. Incorniciati dalle illusorie finestre, i paesaggi placidi dai limpidi sfondi azzurrini disseminati di rovine classiche paiono mutuati dalle xilografie del contemporaneo Battista Pittoni. Slanciate colonne ioniche che scandiscono ritmicamente le pareti caratterizzano il vano detto stanza di Venere, mentre cartouche e festoni ovali e riquadri a monocromo completano l’apparato decorativo. Le membrature parietali sono intervallate da concavità nelle quali si annicchiano le fattezze di Giove, Crono, Nettuno e Plutone mentre l’episodio che vede prota80 IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - gonisti Eurialo e Niso domina la scena. Sulle sovrapporte si stagliano la Giustizia e la Fortezza, sulla cappa del camino appare Venere insieme a Cupido, e sullo sfondo s’intravede Vulcano all’opera nella sua fucina. In questo ciclo la critica ha inteso individuare anche la mano di Battista del Moro al quale sono stati assegnati l’episodio mitologico e le figure a monocromo delle divinità. In particolare quest’ultime sono state avvicinate alle pitture eseguite intorno al 1560 dal medesimo artista in palazzo Bocca Trezza a Verona (Dillon, 1980). Di grande effetto scenografico è la stanza dedicata alle Muse dove il soffitto pare reggersi grazie allo sforzo sovrumano delle gigantesche cariatidi che compaiono sulle pareti. Anche in questo caso si replicano i motivi già presenti negli altri ambienti: cartouche, puttini, festoni di fiori, bucrani, patere, finte nicchie. Negli spazi liberi campeggiano le Muse con i poeti mentre le personificazioni di Fiumi sovrastano le porte d’accesso. Ridolfi (1648) attribuiva l’intera composizione alla mano di Zelotti, ma in anni a noi più vicini la critica ha suggerito il nome di Battista del Moro (Crosato, 1962), altri studiosi hanno invece sottolineato una collaborazione tra Zelotti e Del Moro (Brugnolo Meloncelli, 1992). A quest’ultimo spetterebbe soltanto l’esecuzione delle cariatidi, per le affinità riscontrate negli stessi elementi approntati dal pittore nel salone di villa Caldogno a Caldogno (Ballarin, 1971). Una volta a botte copre la stanza delle Stagioni dove Battista Zelotti sfoggia nelle composizioni una felice gamma cromatica che dà luogo a un vivace, gradevole contrasto con il nitore delle finte membrature architettoniche. Sulle pareti lunghe, riquadri affiancati da lesene contengono le Allegorie delle stagioni, che danno il nome all’ambiente, e su quelle minori un’arcata accompagnata da monumentali erme racchiude da un lato una finestra aperta sul paesaggio, sovrastata da due prigioni distesi sull’architrave e recanti festoni di fiori. Dall’altro la Prudenza si accampa sull’ampia cappa del maestoso camino. Il soffitto, scompartito da cornici bianche, reca al centro un ovale con La virtù che scaccia il vizio. MF-RR BATTISTA ZELOTTI - BATTISTA DEL MORO , VILLA GODI MALINVERNI 50 TAVOLE 50-62. BATTISTA ZELOTTI - BATTISTA DEL MORO , VILLA GODI MALINVERNI 50. Salone centrale, Battista Zelotti, particolare di una sovrapporta raffigurante Ercole al bivio. 51-52. Salone centrale, Battista Zelotti, Episodi della vita di Alessandro Magno. 53. Sala dell’Olimpo, veduta d’insieme. 54. Sala dell’Olimpo, Battista Zelotti, particolare degli affreschi parietali con Giove ed altre divinità. 55. Sala dell’Olimpo, Battista Zelotti, particolare con Cerere, Mercurio e Proserpina. 56. Sala dell’Olimpo, Battista Zelotti, particolare con Bacco e altre divinità. 57. Sala delle Arti, Battista Zelotti, particolare degli affreschi parietali con la Primavera a monocromo, e in alto l’Architettura e la Poesia ai lati del busto di un imperatore romano. 58. Sala delle Arti, Battista Zelotti, particolare di un vecchio prigione. 59. Sala delle Arti, Battista Zelotti, particolare degli affreschi parietali con l’Estate a monocromo, e in alto la Pittura e la Musica ai lati del busto di un imperatore romano. 60. Sala delle Arti, Battista Zelotti, particolare di un prigione turco. 61. Sala delle Muse, Battista Zelotti e Battista del Moro, particolare di una parete con due Muse nell’atto di ispirare un poeta; ai lati due cariatidi a monocromo. 62. Sala delle Muse, veduta d’insieme. 81 51 82 52 83 53 84 54 85 55 56 87 57 58 59 60 91 61 62 93 BATTISTA ZELOTTI (Verona, 1526 – Mantova, 1578) Stanze di villa Emo (1564-1566) Fanzolo di Vedelago (Treviso), villa Emo Capodilista Nella pagina a fianco: in alto volta del vestibolo con la pergola a trompe-l’oeil e un amorino che sparge rose; in basso Sala di Venere, veduta d’insieme. Prospetto di villa Emo progettata da Andrea Palladio nel 1554 circa. 94 Andrea Palladio nelle aggiunte del 1566-67 ai frammenti manoscritti dei Quattro Libri dell’ Architettura, al termine della dettagliata descrizione relativa alla villa di Fanzolo, chiosava: «è stata ornata di pitture di M. Battista Venetiano». Questa annotazione costituisce dunque un sicuro ante quem per stabilire la cronologia del ciclo di affreschi che Battista Zelotti realizzò a ornamento degli interni della fabbrica padronale. Costruito tra il 1554 e il 1561 il complesso dominicale degli Emo a Fanzolo, «sito molto bello e dilettevole» (Palladio, 1570), è caratterizzato da uno squadrato corpo centrale, rialzato rispetto alle distese barchesse laterali terminanti con torri colombaie «che apportano utile al padrone e ornamento al luogo». Il prospetto è ingentilito da un finto pronao sorretto da quattro colonne d’ordine tuscanico e leggermente sporgente rispetto alla liscia e semplicissima facciata. Lo precede una monumentale scalea, unica nel suo genere, dotata di rampe prive di gradini. Il ciclo di affreschi, che interessa sette stanze e il salone centrale, fu commissionato dal «magnifico IL signor» Leonardo Emo patrizio veneziano ed eseguito da Zelotti con ogni probabilità tra il 1564 (Tessarolo, 1991) e il 1566 (Brugnolo Meloncelli, 1993). Il tema oggetto del ciclo è quello della fecondità della terra e dell’unione coniugale che, insieme, costituiscono il solido fondamento della prosperità di una famiglia. Negli ambienti della villa si dipana un percorso didascalico, dove l’apparato simbolicoallegorico dispiegato dall’artista segue questa traccia approfittando dell’utilissimo repertorio iconologico approntato da Vincenzo Cartari nella prima edizione veneziana delle Imagini delli dei de gl’antichi (1556) (Tessarolo, 1991). In ogni stanza poi appare, ad imitazione di una tela da sovrapporta, un riquadro a soggetto cristiano – vera e propria chiave interpretativa del messaggio cui alludono le pitture – che si concilia con gli dèi degli antichi obbedendo a un sincretismo religioso di matrice squisitamente umanistica. La decorazione ad affresco principia fin dalla loggia di facciata dove la superficie muraria, scandita da illusorie colonne doriche, ospita due episodi dello sventurato amore di Giove per Callisto ricavati dalle Metamorfosi di Ovidio: il dio mentre seduce l’ignara ninfa e Giunone che percuote Callisto, la quale sta per trasformarsi in orsa. Cerere, dea portatrice della civiltà e primo immediato riferimento alla Santa Agricoltura, accoglie il visitatore comodamente accampata sopra il portale d’ingresso. Precede la vasta sala, intorno a cui si distribuiscono le stanze della villa, un vestibolo la cui volta è interamente rivestita da una leggiadra pergola di vite carica di grappoli maturi, mentre nello squarcio di cielo che s’apre al centro un amorino s’accinge a spargere rose. Un gesto, il suo, che allude all’evento nuziale e che trova un precedente iconografico nell’affresco di Paolo Veronese nella cosiddetta stanza del Tribunale d’amore a villa Barbaro. Sembra provenire dallo stesso contesto anche il motivo della pergola. Le allegorie negli affreschi parietali di villa Emo, effigianti l’Economia e la Concordia coniugale poste all’interno di finte nicchie, indicano le virtù indi- SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - BATTISTA ZELOTTI , VILLA EMO spensabili per assicurare la floridezza di una famiglia (Tessarolo, 1995 e 1997). Nell’ampio vano centrale è la partitura fornita dalle architetture a trompe-l’oeil, qui come a Lonedo, a scandire con ritmica linearità la dimensione dello spazio. Un alto zoccolo decorato con riquadri a monocromo, raffiguranti il Trionfo di Apollo, circonda il perimetro, mentre svelte, candide colonne corinzie sostengono illusionisticamente il soffitto a grandi lacunari, degno di un edificio della Roma antica. Le membrature inquadrano celebri episodi di storia romana: L’uccisione di Virginia e Scipione che restituisce la sposa ad Aluccio. Li accompagnano ai lati i Quattro Elementi primigeni: Terra, Acqua, Aria e Fuoco impersonati da Cibele, Nettuno, Giunone e Giove, ai quali si uniscono, all’interno di formelle che imitano la consistenza del vetro, piccole figure allegoriche femminili giacenti. Ai piedi degli Elementi si distendono i corpi sapientemente modellati di quattro prigioni accostati a trofei bellici. In alto, a fianco della porta d’ingresso, in monocromo violetto La metamorfosi di Dafne da un lato e La sfida musicale di Pan dall’altro; scendendo, sopra le finestre, i busti a finto bronzo dell’imperatore Antonino Pio e di Giulio Cesare, cui fanno da contrappunto sulla parete opposta quello di Ottaviano Augusto e forse quello di Pompeo Magno sovrastati dai riquadri con Apollo e Pan e Apollo e Dafne. In quest’ambiente s’intersecano il tema dell’unione coniugale, simboleggiato dalle storie di Scipione, con quello del buon governo di un’azienda agricola mediante la celebrazione di Apollo dio della ragione, che è al contempo dio del Sole e quindi protettore di ogni buon raccolto. Tre episodi delle vicende di Ercole, simbolo della «nobiltà umana che si costruisce un mondo» (Garin, 1978), sono narrati negli affreschi che ornano la stanza dell’ala sinistra della villa a settentrione. In questo vano illusorie colonne ioniche definiscono elegantemente il paramento murario e nelle superfici libere si illustrano Ercole che abbraccia Dejanira e Ercole che getta in mare Lica. Elementi centrali dell’ambiente sono la Fama di Ercole collocata sull’ingresso principale e, sopra il camino, all’interno di una maestosa arcata appare Ercole sulla pira. Il riquadro della sovrapporta secondaria con il Noli me tangere condensa il significato del riscatto di Ercole, semidio mortale nel corpo ma non nello spirito, e quindi di ogni uomo virtuoso dalla condizione terrena verso l’immortalità. La stanza di Venere si colloca simmetrica alla preIL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - BATTISTA ZELOTTI , VILLA EMO 95 Sala di Ercole, veduta d’insieme. 96 cedente nell’ala destra della villa ed è caratterizzata da un apparato decorativo e da membrature a trompel’oeil del tutto identiche. Il busto della dea, dipinto ad imitazione del bronzo, è collocato sopra la porta che dà accesso all’ambiente, innestato su un finto mensolone e affiancato da amorini e ghirlande di fiori. Anche in questo caso sono gli episodi tratti dal testo di Ovidio a illustrare gli amori della dea: Venere dissuade Adone dalla caccia e Venere che sostiene Adone morente. Si rappresenta dunque l’infelice esito di un amore eccessivamente sensuale, che vuol essere un monito a non cedere all’impulso dei sensi, cedimento che avvicina l’uomo alla bestia. La lezione che gli affreschi intendono impartire è suggerita dal riquadro con San Girolamo penitente, elevato esempio morale della storia cristiana che esorta l’uomo al pentimento. La stanza delle Arti deve il nome alle sei personificazioni qui raffigurate in pendant negli intercolumni: l’Astronomia e l’Architettura, la Poesia e la Pittura, la Scultura e la Musica. A queste si uniscono le sembianze delle Stagioni annicchiate sulle pareti e contraddistinte dai relativi attributi simbolici. Un fregio abitato da putti scherzosi seduti a cavalcioni di festoIL ni ridondanti frutta e fiori fa da raccordo con il soffitto. Insieme alla raffigurazione della Sacra famiglia questo ciclo intende alludere all’educazione indispensabile ad ogni famiglia aristocratica, poiché la nobiltà si raggiunge e si mantiene essenzialmente con l’educazione e l’elevazione dello spirito. Nella sala denominata di Giove e Io le pareti sono definite dalla consueta partizione architettonica mentre in alto il fregio che corre lungo il perimetro del vano si compone di minuscole figure femminili giacenti dipinte a monocromo. In sei episodi sono narrate le travagliate vicende della coppia di amanti: Io tra le braccia di Giove, Io tramutata in giovenca, Giunone consegna la giovenca ad Argo, Mercurio incanta Argo, Mercurio taglia la testa ad Argo, Giunone trova il cadavere di Argo. Ancora una volta si assiste all’esaltazione delle virtù coniugali, laddove Giunone alla fine trionfa sugli amanti infedeli facendo la sua comparsa, nell’ultimo riquadro, assisa su di un carro trainato dai pavoni con le piume impreziosite dagli occhi recuperati dal corpo di Argo. Il questo caso il Cristo coronato di spine, ovvero l’Ecce homo, si configura come il sunto delle pitture, testimoniando l’esortazione alla necessaria sofferenza, cui segue il meritato conforto per colui che si pente. Chiudono il ciclo decorativo della villa i due camerini delle grottesche, dove viene meno l’intenzione simbolica e la rigorosa lezione morale manifestata negli altri ambienti e s’indulge piuttosto all’immaginazione ludica. Amorini, satiri, ghirlande di rose, pergolati, uccelli e pesci e altri tra i più svariati e curiosi animali sono distribuiti sulle pareti senza alcun intento tematico, ma con grande fantasia e ricchezza compositiva. Questi raffinati affreschi, sebbene variamente attribuiti dalla critica allo stesso Zelotti, a Bernardino India e a Eliodoro Forbicini, presentano numerose affinità con altre prove zelottiane della medesima tipologia come, ad esempio, villa Foscari a Malcontenta di Mira. MF-RR SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI 63 64 TAVOLE 63-64. 65-66. 67-68. 69-70. - BATTISTA ZELOTTI , VILLA EMO 63-70. BATTISTA ZELOTTI , VILLA EMO Camerini delle Grottesche, particolari di due riquadri. Salone centrale, Scipione restituisce la sposa ad Aluccio; e L’uccisone di Virginia. Salone centrale, Scipione restituisce la sposa ad Aluccio, particolare; e particolare di un Prigione. Sala delle Arti, particolari della Musica e dell’Architettura. 97 65 98 66 99 68 67 101 69 102 70 103 LUDOVICO POZZOSERRATO (Anversa?, 1550 circa – Treviso, 1605 circa) Stanza dei Paesaggi (1580-1585) Longa di Schiavon (Vicenza), villa Chiericati Prospetto di villa Chiericati costruita nella prima metà del Cinquecento e ampliata successivamente. 124 Innalzata nella prima metà del Cinquecento su commissione del nobile vicentino Ludovico Chiericati, la villa subì nel corso del tempo numerosi restauri e rimaneggiamenti che la condussero all’attuale veste architettonica (Crosato, 1962) caratterizzata da un disteso corpo di fabbrica il cui semplice prospetto risulta appena movimentato da un timpano sorretto da quattro paraste d’ordine ionico. Fu probabilmente durante uno di questi interventi di ammodernamento che gli affreschi collocati in una stanza a settentrione e raffiguranti sei riquadri di paesaggi, dove campeggiano due segni dello zodiaco ciascuno, andarono celati sotto nuove dipinture, e solamente agli inizi dell’Ottocento, in occasione di alcuni lavori, tornarono infine alla luce. Attribuiti prima a Giovanni Antonio Fasolo (Magrini, 1851), poi a Paolo Veronese e a Benedetto Caliari (Fiocco, 1934), furono definitivamente assegnati su base stilistica a Ludovico Toeput, detto Pozzoserrato, da Rodolfo Pallucchini che li collocò cronologicamente tra il 1587 e il 1590 (Crosato, 1962). Non è dato sapere il luogo preciso che diede i IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - natali a Toeput, forse Anversa, forse Malines, come incerta è la sua data di nascita solitamente indicata nel 1550. A Firenze e a Roma in gioventù, passò poi per Venezia e si trasferì quindi a Treviso dove prese moglie e mutò il suo nome italianizzandolo in Pozzoserrato. Considerato abilissimo nel dipingere paesaggi nei quali sapeva restituire con grande maestria le «cose lontane, soddisfacendo all’occhio con le vaghezze delle arie sparse di nuvole rance e vermiglie» (Ridolfi, 1648), Ludovico non disdegnò altresì di distinguersi anche nella pittura ad affresco, nelle pale d’altare, nei quadri di genere e nei ritratti. Probabile allievo di Maarten de Vos (Manzato, 1997), impregnato delle suggestioni derivate dalla pittura veneziana e in particolare dall’esempio di Tintoretto, Toeput riscosse un sincero apprezzamento dai contemporanei che lo porterà, nei primi anni Ottanta del Cinquecento, a collaborare con Dario Varotari, sulla scorta di Paolo Veronese, alla decorazione di una sala di villa Priuli a Treville di Castelfranco Veneto (distrutta nel XIX secolo), e a realizzare gli affreschi della stanza dell’abate nel monastero di Praglia. Stabilitosi definitivamente dal 1582 a Treviso, divenne il protagonista incontrastato dell’ambiente artistico di quella città, e a lui si devono le grandi tele per la cappella dei rettori nel Monte di Pietà. Verso la fine del secolo si andò specializzando nell’approntare quadri per i collezionisti, dove applicò pienamente la sua straordinaria sensibilità nella definizione del paesaggio. Morirà «nell’età ancora virile» (Ridolfi, 1648) tra il 1604 e il 1605. Nel contesto di villa Chiericati egli fornisce un’ulteriore prova del suo non comune talento per la veduta. Gli affreschi che rivestono le pareti della stanza sono distribuiti all’interno di riquadri originariamente chiusi da un’arcata, come testimoniano i due scomparti sulla parete opposta al camino; sulla cui cappa, accolto in una finta nicchia, si erge un Apollo coronato d’alloro con la lira ai piedi e un leggerissimo mantello che gli avvolge le spalle e le pudenda. La sua flessuosa figura ricorda vagamente il LUDOVICO POZZOSERRATO , VILLA CHIERICATI bronzeo, e altrettanto sensuale, Apollo che Jacopo Sansovino aveva depositato, qualche decennio prima, in una vera nicchia della loggetta del campanile di San Marco a Venezia. Dall’insieme traspare una concezione decorativa dello spazio di matrice veronesiana che concorre a generare un’atmosfera di grande suggestione, attraverso l’adozione di un artificio pittorico che quasi smaterializza la superficie muraria aprendola verso l’esterno. Il fregio, peraltro pesantemente rimaneggiato, che corre in alto sotto il soffitto e che è abitato da putti festanti, risale ad un’epoca diversa ed è stato variamente attribuito a Giovanni Antonio Fasolo, a Battista Zelotti e a Benedetto Caliari, nome quest’ultimo che pare infine accettato dalla critica e al quale sono stati riferiti anche i decori delle sovrapporte (Fossaluzza, 1998a). Eseguiti con ogni probabilità nei primi anni Ottanta del Cinquecento (ibidem), i paesaggi contengono espliciti riferimenti al susseguirsi delle stagioni che si accompagnano ai relativi segni zodiacali, misura del tempo che scandisce le opere e i giorni del buon governo della terra. Si tratta di insiemi estremamente naturalistici vivacizzati a volte dalla presenza di esili figurine umane realizzate con una luminosa pittura di tocco di impressionante vitalità. Le composizioni sono abilmente organizzate secondo una disposizione di successivi piani prospettici utilizzati dall’artista per garantire profondità e movimento alla scena. Il tutto è pervaso da una luce calda, avvolgente che si diffonde nei cieli, definiti in alcuni casi con tenui sfumature rosate, in altri con toni plumbei e lattiginosi, in altri ancora con tonalità azzurrognole viranti al grigio. La descrizione attenta e minuziosa delle componenti paesaggistiche, dalle colline agli alberi, dalle montagne ai fiumi, dalle case ai ponti, diviene quasi calligrafica e “orientale” nel delineare con tratto sottile e svelto il giardino all’italiana dalle raffinate bordure che si staglia nel riquadro dei Gemelli e del Cancro, il quale esprime il passaggio dalla primavera all’estate, ovvero l’equinozio. Non mancano poi in ogni affresco elementi di accattivante originalità, come il particolare del corteo funebre che si snoda lungo la strada profilandosi nel semplice nitore di un paesaggio autunnale che caratterizza il riquadro della Bilancia e dello Scorpione, chiaro riferimento ai mesi morti e infecondi dell’anno. Di sapore prettamente nordico che rimanda ai Cacciatori sulle nevi di Peter Bruegel, risulta altresì il tema dell’Acquario e dei Pesci, laddove al biancore delle nevi, al cielo basso e IL SECOLO D ’ ORO DEI FRESCANTI VENETI - torbido, alle superfici ghiacciate di un cupo, rigido inverno fanno da contrappunto le colorate, minuscole figure dei pattinatori, quasi «nervose macchiette» che accendono di felice vitalità il luogo (Crosato, 1962). Su queste pareti si manifesta, dunque, una visione del mondo squisitamente fiamminga, una poetica del divenire, del trascorrere delle stagioni e delle cose, del quotidiano vivere insomma, con le sue gioie e i suoi dolori, che intende consciamente contrapporsi a quella, assolutamente classica, dell’essere, della forma incorrotta e fuori del tempo, immersa in un’unica stagione, in un'unica ora del giorno, ovvero nell’eterno meriggio estivo senza ombre di Paolo Veronese. Spicca nel contesto, inquadrata da raffinate architetture effimere, la vivida figura del paggio insieme al cane levriero resa con estremo naturalismo, che si condensa nel gesto ampio e amichevole di benvenuto rivolto al visitatore, postura assecondata dall’inclinazione a zanna d’elefante che segna un’imprevista sintesi tra la lezione di Tintoretto e quella di Veronese. Una figura eseguita con delicata sensibilità cromatica vibrante nei riflessi cangianti del verde e del rosso, che trovano la nota più cupa nell’azzurro del copricapo, raccordati ed esaltati dai toni sommessi dei grigi. MF-RR LUDOVICO POZZOSERRATO , VILLA CHIERICATI Stanza dei Paesaggi, veduta della parete con il paggio. 125 87 TAVOLE 86 126 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 86-94. LUDOVICO POZZOSERRATO , VILLA CHIERICATI Particolare del paggio con il levriero. Particolare del riquadro raffigurante un Paesaggio primaverile sotto il segno dell’Ariete e del Toro. Particolare del riquadro raffigurante un Paesaggio invernale sotto il segno dell’Acquario e dei Pesci. Riquadro raffigurante un Paesaggio primaverile sotto il segno dell’Ariete e del Toro. Riquadro raffigurante un Paesaggio equinoziale sotto il segno dei Gemelli e del Cancro. Riquadro raffigurante un Paesaggio estivo sotto il segno del Leone e della Vergine. Riquadro raffigurante un Paesaggio autunnale sotto il segno della Bilancia e dello Scorpione. Riquadro raffigurante un Paesaggio equinoziale sotto il segno del Sagittario e del Capricorno. Riquadro raffigurante un Paesaggio invernale sotto il segno dell’Acquario e dei Pesci. 127 89 88 92 90 93 91 94 DAL BAROCCO AL ROCOCÒ: TRA AFFANNO E LEGGEREZZA Il Seicento, per Venezia, fu epoca di dure lotte. La stagione s’aprì nel 1606 con l’Interdetto – vera e propria scomunica scagliata dalla Curia romana contro l’orgogliosa e indomita Repubblica di San Marco – al quale essa oppose un’ostinata resistenza e da cui uscì comunque stremata. Il secolo proseguiva drammaticamente con la devastante peste del 1630, cui successe la disastrosa guerra di Candia (1645-1669), raggiungendo il suo apice nel 1687 con i primi trionfi, dopo lungo tempo, sul Turco a opera del futuro doge Francesco Morosini il Peloponnesiaco e con la contestuale solenne consacrazione della monumentale, scenografica basilica della Salute progettata da Baldassare Longhena. Il ciclo poteva infine dirsi concluso con la Pace di Passarowitz, del 1718, che metteva fine all’ultima guerra della Serenissima contro l’Impero Ottomano e sanciva la definitiva perdita della Morea, e delle ultime ambizioni egemoniche sul Mediterraneo orientale. Fu questa una stagione segnata da profonde trasformazioni sociali, in un contesto, quello lagunare, tradizionalmente refrattario a ogni genere di cambiamento; ma le esangui casse dello Stato costrinsero all’apertura «per denaro» dell’altrimenti sigillatissimo Libro d’oro dei patrizi veneti. Famiglie “nuove” entrarono così a far parte, non senza disappunto di quelle più antiche, del corpo aristocratico della Repubblica. Fu questo un secolo caratterizzato, tra l’altro, da intemperanze individualistiche che sfociarono nel peculiare fenomeno veneziano delle facciate celebrative chiesastiche, innalzate a maggior gloria dei loro committenti, luogo del trionfo egotistico di singoli personaggi a scapito della religione (Favilla-Rugolo, 2004-2005). Fra così acuti e affannati rivolgimenti, il flagello della peste, crudamente immortalato da Antonio Zanchi e Pietro Negri sullo scalone della Scuola grande di San Rocco, si poneva quale violento spartiacque, pregiudicando, per molti anni a venire, le scuole pittoriche della terraferma e in particolare quella veronese (Marinelli, 1998). In tale contesto, Venezia DAL si confermava come una realtà tradizionalmente cosmopolita e ospitale nei confronti degli artisti stranieri, nel momento in cui era costretta a fare ogni giorno i conti con il cosiddetto “secolo d’oro” dell’arte, ovvero il Cinquecento, termine di confronto ineludibile e persino imbarazzante: insuperabile prototipo, metabolizzato proprio grazie all’apporto straniero, che mai come in questa congiuntura fu così determinante nello sviluppo della tradizione veneta (Lucco, 2001; Pedrocco, 2001). A partire dalla metà del Seicento Venezia si affermava, inoltre, come l’indiscussa capitale europea del dramma in musica, connotazione assolutamente originale, che getterà i suoi riverberi sull’intero mondo dell’arte. Nei cinque principali teatri cittadini dove «la musica è sempre esquisita», si allestivano opere «con maravigliose mutationi di scene, comparse maestose e ricchissime machine e voli mirabili, vedendosi per ordinario risplendenti cieli, deitadi, mari, reggie, palazzi, boscaglie, foreste e altre vaghe e dilettevoli apparenze» (Martinioni, 1663). La trasposizione degli effimeri apparati scenografici attraverso i trompe-l’oeil, dai palcoscenici teatrali alle più durature superfici murarie di palazzi e ville, è la testimonianza sintomatica della volontà di una classe dirigente di stupire e istruire, quasi un motto che può efficacemente riassumere lo spirito di tutta l’arte barocca. Al contempo, come in un sapiente gioco di specchi, l’illusione diveniva metafora della realtà. Una realtà dura e brutale era così sublimata ed esorcizzata attraverso la narrazione pittorica di storie mitologiche, vicende familiari, favole arcadiche che costituivano, alle volte, lo sfondo di vitalissime accademie letterarie. Nel corso del Seicento si instaura, da parte del patriziato, un singolare approccio verso la campagna, preconizzato nel secolo precedente da Andrea Palladio. Vi predomina l’intento di realizzare un ideale palcoscenico in cui celebrare ed esaltare il connubio tra cultura e natura, dove la casa di villa diviene centro di un più vasto “teatro” dato dal contesto, BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA Nella pagina a fianco: Francesco Ruschi e Antonio Zanchi, Il rapimento di Elena. Mira, villa Contarini Venier, sala della foresteria, sesto decennio del XVII secolo. 131 dal paesaggio. Esempio più eloquente di questa tendenza è certo villa Contarini a Piazzola sul Brenta, il cui nucleo centrale è riferibile a Palladio. Così, «senza guardar a spesa alcuna», si rinnovano o si costruiscono ex novo sfarzose residenze di villeggiatura arricchite da rigogliosi giardini. Per dirla con un anonimo cronista dell’epoca, riferendosi alla villa che un altro Contarini, il procuratore di San Marco Alessandro del ramo Imperiale, aveva innalzato in Oderzo: «Se il prospetto magnifico d’un palaggio è l’indicio valevole del preggio di un habitante, l’animo di questo signore dovrebbe esser qualificato» (in FavillaRugolo, 2005). Se al principio la decorazione degli interni si conforma alla matrice cinquecentesca, progressivamente essa abbandona i temi legati alla celebrazione della cosiddetta Santa Agricoltura e, rispetto al palazzo cittadino, nel quale per lo più si magnificano le sorti della stirpe familiare attraverso l’esaltazione delle sue virtù, in villa si tende a prediligere temi più arcadici e riposanti. Nel 1646 Giulio Carpioni apre la nuova stagione a villa Caldogno a Caldogno con gli affreschi del camerino che hanno per oggetto episodi tratti dal Pastor Fido di Guarino Guarini: vi prevale una dimensione irreale, dove lo svolgersi dei fatti si organizza attraverso l’impostazione di schemi compositivi semplici, delineando fisionomie di ricercata bellezza avvolte da atmosfere languide, toccate da note di irridente “surrealismo”. Un’aura invece aulica, già pienamente barocca, pervade l’opera di Luca Ferrari da Reggio a villa Emo Selvatico Capodilista a Battaglia Terme (1650), che tuttavia non è scevra di echi veronesiani. Veronese è il fantasma del Cinquecento che aleggia su tutta la successiva grande decorazione ad affresco, modello imprescindibile per gli artisti che si volevano cimentare con questo genere, come Pietro Liberi, figura di primissimo piano che si impose con il suo linguaggio sensuale e chiarista nel 1652 a villa Foscarini a Stra. Qui le illusorie decorazioni, realizzate dal bresciano Domenico Bruni, costituiscono una tappa imprescindibile nella diffusione in terra veneta di questa particolare tipologia. La quadratura di matrice bresciana, caratterizzata da una scansione serrata e regolare delle membrature, si differenziava da quella bolognese più articolata e ricca di commistioni con elementi vegetali e floreali, che di lì a poco farà la sua comparsa nei domini della Repubblica, vedendo protagonista nel 1665 Angelo Michele Colonna nella oggi scomparsa villa Morosini a Sant’Anna Morosina sotto Cittadella 132 DAL (Frank, 2006). Tale scuola proseguirà con Pietro Antonio Cerva, Pietro Antonio Torri, Antonio Felice Ferrari, giungendo agli esiti del ferrarese Girolamo Mengozzi Colonna, geniale comprimario nelle maggiori imprese di Giambattista Tiepolo. Nello stesso torno di tempo, pittori di gusto tenebroso sulla tela, come Pietro Ricchi e Pietro Vecchia, affrescano nella oggi distrutta villa Sagredo sul Terraglio, e Francesco Ruschi coadiuvato da un giovane Antonio Zanchi schiarisce la sua tavolozza sulle pareti della foresteria di villa Contarini Venier alla Mira. L’ossessione per il supremo esempio di Veronese tocca il proprio apice a villa Almerico Capra detta La Rotonda a Vicenza, ove Louis Dorigny, agli inizi degli anni Novanta, ridefinisce lo spazio palladiano della sala centrale, smaterializzandone le superfici murarie con un colonnato fittizio dal quale emergono con una travolgente esuberanza berniniana, le gigantesche, tornite figure delle divinità olimpiche (Marini, 2003). Il concetto del bel composto di matrice barocca, che intendeva unire architettura, pittura e scultura in un tutto armonico, ha un campione in terra veneta proprio in questo artista di origine francese, che riuscì nell’impresa di coniugare l’inconciliabile, ovvero la vocazione barocca con le radici del classismo francese che egli aveva nutrito con gli esempi romani e bolognesi e suggellato nel culto di Paolo Caliari. La Dominante, come peraltro molti centri della terraferma, pur rimanendo una città variopinta per le sue facciate affrescate (valga per tutti l’esempio di Tiziano e Giorgione al Fondaco dei Tedeschi), per gli ambienti interni dei palazzi, durante buona parte del Seicento, continuerà a preferire le tele o i «cuori d’oro» (sorta di tappezzeria di cuoio dorato). Volendo prestar fede alle parole pronunciate nel 1692 dal mercante Simon Giogalli, referente sulla piazza veneziana di Luca Giordano, nella città lagunare i pittori, «che ad oglio possino passar per buoni virtuosi», a fresco «sono rediculosi, infatti poco si usa qui un tal dipingere, perché per il salso non tengono le calcine» (in Ravelli, 1988). Tale testimonianza – condizionata invero dall’interesse di esaltare l’abilità dei frescanti della scuola partenopea – non va ad ogni buon conto sopravvalutata, se teniamo in considerazione la rinnovata fortuna che questa tipologia riscontrava giusto a Venezia nella seconda metà del secolo, almeno per i vani chiesastici: prima il lucchese Pietro Ricchi nel chiostro dei Santi Giovanni e Paolo e a San Giuseppe di Castello in compagnia del BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA Louis Dorigny, Divinità dell’Olimpo. Vicenza, villa Almerico Capra detta la Rotonda, salone centrale, inizi anni Novanta del XVII secolo. quadraturista bolognese Pietro Antonio Torri, poi il romano Gerolamo Pellegrini nel catino absidale della cattedrale di San Pietro di Castello e nel presbiterio dei Santi Cosma e Damiano alla Giudecca. A San Lazzaro dei Mendicanti il soffitto della chiesa era lavorato «a fresco con vaghissima architettura opera di Faustin Moretti bresciano con le figure del cavalier Liberi»; a San Martino di Castello si poteva ammirare «la volta della sagrestia» decorata «a fresco con bellissima architettura di Simone Guglielmi da Piove e le figure di Antonio Zanchi» (Doglioni, 1675), mentre Domenico Bruni e Giacomo Pedrali, ancora due bresciani, avevano operato sul cielo della navata. Pitture murarie si stendevano agli Ognissanti da parte di Agostino Litterini e a San Luca per mano di Domenico Bruni; così come nel 1675 la chiesa di San Silvestro da poco rifabbricata attendeva di vedere il vasto soffitto «dipinto a fresco con altri ornamenti» (Doglioni, 1675 ). Per questo incarico si sarebbe scelto, nel 1682, il giovane Dorigny da poco giunto nelle lagune dopo un proficuo soggiorno nell’Italia centrale. I patrizi veneti, profondamente intrisi di ammirazione per i sempre lodati esempi dell’arte romana e per l’impareggiabile grand goût francese, in voga nella DAL seconda parte del Seicento, trovano modo di esprimere queste loro preferenze anche nella decorazione dei palazzi cittadini dove si sperimenta, a partire dai primi anni Novanta a Ca’ Zenobio, la tipologia del salone a doppia altezza che sostituisce il tradizionale portego passante. Verso la fine del secolo e all’inizio del nuovo, s’insinua e convive per un certo tempo un diverso registro, più rilassato, dettato piuttosto dal bon goût della nascente estetica rococò, che abbandona la simmetrica magnificenza del precedente per rivolgere lo sguardo alle piccole cose, all’effimero dei sensi stemperato attraverso la percezione di emozioni intime e impalpabili. Una transizione graduale della quale si faranno interpreti lo stesso Dorigny, ma soprattutto Sebastiano Ricci e Giannantonio Pellegrini, contribuendo in maniera decisiva all’introduzione nelle lagune del nuovo gusto, secondo l’accezione più propriamente veneziana di Barocchetto. Non solo i contenuti, ma anche la linea, il colore e la pennellata diverranno più leggere e sensuali: è il preludio a Tiepolo. MF-RR BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA 133 GIULIO CARPIONI (Venezia, 1613 circa – Vicenza, 1678) Camerino o saletta del Pasto Fido (1646) Caldogno (Vicenza), villa Caldogno Prospetto secondario di villa Caldogno completata nel 1570 su progetto di Andrea Palladio. 134 La villa, costruita su progetto di Andrea Palladio, venne completata nel 1570, come attesta l’iscrizione posta sulla facciata che rammenta anche il promotore dell’impresa, il patrizio vicentino Angelo di Losco Caldogno. Il semplicissimo, lineare prospetto risulta appena movimentato dal timpano che si stacca dalla linea di gronda, mentre sulla superficie muraria la cornice di bugnato rustico, che inquadra la triplice arcata di accesso alla loggia, contribuisce a creare sapienti effetti chiaroscurali (Puppi, 1999). La decorazione pittorica dei locali venne affidata, in quella congiuntura, a Battista Zelotti e Giovanni Antonio Fasolo. Nel 1646 Angelo Caldogno, omonimo dell’avo cinquecentesco, commissionò all’architetto vicentino Antonio Pizzocaro alcuni lavori di rimodernamento e ampliamento della casa dominicale e delle sue adiacenze. Si decise allora di apportare anche delle modifiche alla distribuzione interna dei vani, provvedendo alla demolizione di una piccola scala per ricavare un nuovo ambiente di passaggio tra la stanza cosiddetta DAL di Scipione e quella di Sofonisba (Morello, 1999). Il vano in questione appariva già parzialmente affrescato con alcuni episodi tratti dall’Aminta di Torquato Tasso, ad opera di un’artista vicino a Battista Zelotti attivo nell’ottavo decennio del XVI secolo, e per completarne la decorazione fu incaricato il giovane pittore veneziano Giulio Carpioni, da alcuni anni trasferitosi nella città berica. Alessandro Varotari, detto il Padovanino, e Francesco Albani furono i maestri dai quali Carpioni acquisì perfezione nel disegno e «vaghezza del colorito», mostrandosi altresì sensibile alla maniera di Pietro da Cortona, filtrata dal romano Francesco Ruschi, e successivamente alla pittura del vicentino Francesco Maffei, giungendo infine a esiti di naturalismo classicista prossimi all’esempio di Poussin (Binotto, 2001a-b). Uomo «d’umore malinconico ma fuor di modo spiritoso nelle risposte e molto piccante», incline per naturale disposizione a lavorare in piccolo, Giulio si applicò nelle invenzioni singolari di «sogni, sacrifici, baccanali, trionfi e balli di puttini», temi onirici e classici che riscossero un vasto successo presso i collezionisti (Oretti, s.d.). La sua produzione si rivolse anche a soggetti religiosi e all’incisione, rimanendo per quarant’anni il protagonista quasi incontrastato della vita artistica di Vicenza (Pilo, 1961). L’attribuzione a Giulio Carpioni degli affreschi del camerino di villa Caldogno, tratti dal Pastor Fido di Guarino Guarini, spetta a Giuseppe Fiocco (1929) che li collocò sullo scorcio degli anni Quaranta del Seicento, datazione poi confermata dalle recenti scoperte archivistiche (Morello, 1999). L’intervento si dipana sulle pareti dove i tre riquadri, che contengono altrettanti episodi del racconto poetico, sono ornati sul bordo laterale da raffinati, sgargianti encarpi floreali. I soggetti raffigurano L’incoronazione della ninfa Amarilli vincitrice della gara del bacio, L’inseguimento di Corisca da parte di un satiro e Il ferimento di Dorinda scambiata dal pastore Silvio per una delle sue prede. Collocate negli angoli della stanza, BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - GIULIO CARPIONI , VILLA CALDOGNO quale elemento di raccordo tra le composizioni, spiccano due singolari, vivacissime, candelabre di chiara matrice cinquecentesca, ad imitazione delle preesistenti, ma contraddistinte da un intento ironico, dove s’intersecano elementi vegetali, corpose figure antropomorfe e animali come tartarughine appese a un filo, cani, lepri, ragnetti, libellule legate a una corda. L’artista manifesta un’immaginazione ludica che diviene oltremodo impudica nel caso della satiressa che ostenta la vulva a cavalcioni di un cane con la lingua penzoloni. Il tutto tratteggiato con una tecnica quasi fumettistica, che ritroveremo nel 1670, declinata in un più ampio registro e con effetti addirittura stralunati degni di Jeronymus Bosch, sulla volta della sala che ospitava il capitolo della fraglia dei Merciai a Vicenza. Nelle scene del Pastor Fido prevale una dimensione irreale, nella quale lo svolgersi dei fatti si organizza attraverso l’impostazione di schemi compositivi semplici, delineando fisionomie di ricercata bellezza avvolte da atmosfere languide. Le figure distinte da un segno netto e preciso e animate da una gestualità pacata si stagliano sullo sfondo di una natura addomesticata: un paesaggio arcadico, caratterizzato da cieli luminosi dalle schiarite tonalità azzurrine. Una scelta cromatica che pare dettata dalla volontà del pittore di accordarsi agli affreschi tardocinquecenteschi già in loco. A completare il ciclo, sulle due sovrapporte stanno Cupido che doma il leone e La lotta tra Erote e Anterote, quale manifestazione della superiore, incontenibile forza dell’amore, riassumibile nel motto Amor omnia vincit (cfr. Cartari, 1647). MF-RR Saletta del Pastor Fido, veduta d’insieme. TAVOLE 95-99. GIULIO CARPIONI , VILLA CALDOGNO 95. L’incoronazione della ninfa Amarilli vincitrice della gara del bacio. 96-97. Particolari delle candelabre angolari. 98. A sinistra il riquadro con L’inseguimento di Corisca da parte di un satiro; sopra la porta La lotta tra Erote e Anterote. A destra affresco di autore cinquecentesco. 99. A destra il riquadro con Il ferimento di Dorinda scambiata dal pastore Silvio per una delle sue prede; sopra la porta Amor omnia vincit. A sinistra affresco di autore cinquecentesco. 135 96 97 95 137 98 138 139 99 140 141 LUCA FERRARI DA REGGIO (Reggio Emilia, 1605 – Padova 1654) Salone a crociera al piano nobile (1650) Battaglia Terme (Padova), villa Selvatico Emo Capodilista Veduta di uno dei prospetti di villa Selvatico Emo Capodilista e della grande scalea di accesso, costruita tra il 1593 e il 1645. 142 DAL La mole cupolata dell’imponente complesso dominicale dei Selvatico, nobile famiglia padovana, si erge sul colle di Sant’Elena a Battaglia Terme. Benché i lavori fossero iniziati fin dal 1593, il cantiere della villa venne portato a compimento soltanto negli anni Quaranta del Seicento grazie all’impulso impresso alla costruzione da Benedetto Selvatico, uomo di grande cultura, lettore presso lo BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - Studio patavino e protomedico del re di Polonia (Callegari, 1931). Il completamento della fabbrica, con la realizzazione della monumentale scalinata che digrada verso il fiume, si deve forse all’opera dell’architetto e pittore di origine reggiana Lorenzo Bedogni. Il medesimo artista fu altresì impegnato come pittore di architetture e di quadrature all’interno dell’edificio con la Rosa dei Venti e quattro Divinità olimpiche nella grande sala al secondo piano nobile. A lui si aggiunsero nell’impresa decorativa, nel giugno del 1649, Pietro Liberi, che dipinse ad olio il fregio di una stanza oggi scomparso, e nell’ottobre dello stesso anno Luca Ferrari, detto Luca da Reggio (Pirondini, 1999). Cresciuto nell’ambiente artistico della città di Reggio Emilia a contatto con Lionello Spada, Carlo Tiarini e Alessandro Bonone, dal 1635 Ferrari fu a Padova dove si impose per un linguaggio naturalistico con punte d’intensa drammaticità, non esente dagli influssi della pittura di Guercino (Pallucchini, 1981). In quel torno di tempo, durante i soggiorni veneziani, egli ebbe modo di studiare l’opera di Paolo Veronese che gli consentì di acquisire spunti coloristici che troveranno applicazione nella produzione su tela e in particolare, dal 1644 al 1648, nel suo capolavoro, l’esteso ciclo ad affresco del Santuario della Madonna della Ghiara nella città natale, fulgido esempio di straordinaria scioltezza pittorica. Ritornato a Padova fu attivo nella grande decorazione, impegnandosi a villa Selvatico a Battaglia Terme e a villa Barbarigo Rezzonico a Noventa Vicentina con esiti di grande felicità cromatica e sapiente impostazione scenografica (D’Arcais, 1978a). Il rivestimento pittorico della cupola della chiesa padovana di San Tommaso Cantauriense, cui attese nei primi anni Cinquanta del Seicento, con i Misteri del Rosario, caratterizzato da arditi scorci prospettici e suggestivi tagli chiaroscurali, si può considerare come il suo testamento artistico. Con buona probabilità fu lo stesso Lorenzo Bedogni a suggerire il nome del concittadino Luca da Reggio a Benedetto Selvatico, il LUCA FERRARI DA REGGIO , VILLA SELVATICO EMO CAPODILISTA quale lo incaricò di adornare la sala a crociera posta al primo piano della villa di Battaglia Terme, scegliendo come tema alcuni episodi raffiguranti le Storie di Antenore, mitico fondatore della città di Padova, e ispirandosi alle pagine del volume di Lorenzo Pignoria, Le origini di Padova, dato alle stampe nel 1625. Dopo aver firmato il contratto, il 17 ottobre del 1649, l’artista si pose all’opera nell’estate dell’anno successivo (Pirondini, 1999). La scena si squaderna sulle pareti scandita in quattro grandi riquadri, accompagnati in basso da uno zoccolo dipinto a finto marmorino che corre lungo il perimetro dell’ampio vano e intercalati dalle raffigurazioni delle Virtù (Prudenza, Nobiltà, Eloquenza e Benignità) collocate all’interno di illusionistiche nicchie e delineate rispettando alla lettera i dettami stabiliti da Cesare Ripa nella sua Iconologia edita qualche decennio prima. Sotto ogni riquadro campeggia un cartiglio che in caratteri latini illustra le vicende ivi raffigurate: La fuga di Antenore da Troia, Licaone che consacra il pugnale di Apollo, La vittoria di Antenore su Valesio re degli illiri, e infine La fondazione di Padova. La data «1650» fa la sua comparsa insieme alla firma del pittore nel primo comparto. Una dimensione irreale caratterizza l’intero ciclo dove l’artista connota lo svolgersi dei fatti attraverso la scelta di semplici schemi compositivi organizzati grazie alla successione di piani diversi, quasi fossero fondali di teatro, e delineando fisionomie di ricercata bellezza avvolte da atmosfere schiarite, non scevre di caldi riflessi veronesiani. Un linguaggio espressivo che coniuga algido classicismo ed enfasi barocca denota in particolare La fuga di Antenore da Troia, laddove ad una città consumata dalle fiamme, restituita come una quinta teatrale dai contorni sfumati, dalla quale emerge il profilo del celebre cavallo ligneo, si contrappone in primo piano un corteo di figure in posa, dagli atteggiamenti distaccati, quasi impassibili, privi di ogni tensione drammatica. Tra la folla si scorge la figura di Antenore tratteggiata conformemente alla poetica descrizione somatica fornita nel testo di Pignoria: un uomo «gagliardo, canuto, con gli occhi piccioli di colore azzurro», con un cane accucciato ai suoi piedi, simbolo di fedeltà, che rivolge lo sguardo fiero e vigile fuori campo. Sul lato sinistro alcuni facchini attendono all’imbarco dei bagagli sulle navi in partenza. Nella Consacrazione del pugnale di Apollo Atena, vestita con la corazza e comodamente adagiata su una nuvola s’impone sullo sfondo a proteggere la flottiglia troiana che a vele DAL spiegate prende il largo nel mare aperto. In primo piano avviene la cerimonia della consacrazione da parte del figlio di Antenore, Licaone, inginocchiato di fronte a una flessuosa statua di Apollo che poggia su un cilindrico piedistallo ornato da un fine rilievo. L’eroe è qui ripreso di spalle con il viso rivolto verso il marmoreo simulacro della divinità e il braccio che indica le navi in lontananza. Più concitata appare La Vittoria di Antenore dove l’artista riesce con abilità a suggerire la violenza dello scontro attraverso «l’incastro dei cavalli» imbizzarriti, (Pirondini, 1999) con un effetto di battaglia che sembra altresì risolversi in un torneo cavalleresco con tanto di spettatori affacciati agli spalti e alla spalletta del ponte sovrastante. La narrazione giunge al suo culmine e si conclude nella scena con La fondazione di Padova, dove Antenore fa il suo ingresso in sella a un magnifico destriero, additando ai presenti un cantiere sulle cui impalcature s’assiepano operai intenti ai lavori di muratura. A lato della grande fabbrica s’intravede l’aratro, tirato da mesti buoi, che ha appena tracciato il sacro perimetro della nuova erigenda città. Un’aura già pienamente barocca pervade l’insieme nel quale lo slancio narrativo è assicurato dalla scelta degli abbigliamenti coevi all’artista, espediente che trasmuta la vicenda del mito in storia contemporanea. Un’esuberanza che si manifesta nell’utilizzo di una tavolozza dai colori luminosi e squillanti, come i gialli e i rossi accesi, o attraverso il gioco raffinato dell’alternarsi di righe gialle e violacee dei panneggi rigonfi. Il dinamismo compositivo si riverbera nello studiato impianto scenografico, con un’organizzazione dello spazio che tende a radunare le figure ai lati lasciando libero il centro della composizione e garantendo in tal modo l’effetto di cannocchiale prospettico. Caratteristiche che ancora a distanza di un secolo forse dovettero catturare l’attenzione di Giambattista Tiepolo (Pirondini, 1999). MF-RR BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - LUCA FERRARI DA REGGIO , VILLA SELVATICO EMO CAPODILISTA 143 100 TAVOLE 100-111. LUCA FERRARI DA REGGIO , VILLA SELVATICO EMO CAPODILISTA 100. Salone della crociera, veduta d’insieme. 101. La fuga di Antenore da Troia. 102-103. Licaone che consacra il pugnale di Apollo, intero e particolare. 104-105. La vittoria di Antenore su Valesio re degli illiri, intero e particolare. 106-107. La fondazione di Padova, particolare e intero. 108-109-110-111. Le personificazioni dell’Eloquenza, della Benignità, della Prudenza e della Nobiltà. 144 101 145 102 146 103 104 148 105 106 107 151 108 152 109 110 111 153 DOMENICO BRUNI (Brescia, 1599-1666) PIETRO LIBERI (Padova, 1605 – Venezia, 1687) Salone della foresteria (1652) Stra, villa Foscarini Negrelli Rossi Veduta della foresteria di villa Foscarini Negrelli Rossi costruita tra il 1599 e il 1602. 154 DAL Fin dal 1566 la nobile famiglia veneziana dei Foscarini ai Carmini possedeva al ponte di Stra, in località Fossolovara, una vecchia casa rovinosa con brolo e campi (Bassi, 1987). Nel 1599 Jacopo Foscarini, procuratore di San Marco, capitano generale da mar ed eroe della guerra contro i turchi a Curzola, iniziò a rifabbricare l’edificio che nel 1602 era oramai «ridotto quasi ad intiera perfezione […] in stato che si può abitar» (Stampa Foscarini, s.d.; Casiroli-Zanverdiani, 1993). L’imponente mole fu innalzata in prossimità della confluenza dei fiumi Brenta, Tergola e del canale del Piovego, approntando un prospetto di chiara matrice palladiana, caratterizzato da un pronao sorretto da slanciate colonne d’ordine ionico e dotato di una scalea che sarà poi demolita nell’Ottocento. La barchessa, probabilmente realizzata in un secondo momento dagli eredi di Jacopo, fu posta a lato della casa dominicale, leggermente arretrata, e mostra una facciata scandita da semplici paraste che accompagnano le ariose arcate terrene. Attribuita all’architetto veneziano Francesco Contin (Bassi, 1987), il suo interno si articola in BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - un’ampia sala affiancata da altri ambienti destinati in origine ad uso di foresteria. Gli affreschi ricoprono interamente le superfici murarie della sala, dove lo spazio si dilata grazie allo straordinario effetto scenografico innescato dalle illusionistiche architetture, che restituiscono l’impressione di un vasto cortile aperto verso il cielo e cinto sui quattro lati da monumentali logge. Le decorazioni a trompe-l’oeil realizzate dal pittore bresciano Domenico Bruni «tra i primi in prospettiva» (Boschini, 1660), che firmò e datò la sua impresa con caratteri latini posti in targhe dipinte, inserite nel fregio del primo marcapiano, costituiscono una tappa imprescindibile nella diffusione in terra veneta di questa particolare tipologia pittorica. La quadratura di matrice bresciana, caratterizzata da una scansione serrata e regolare delle membrature, si differenzia da quella bolognese più articolata e ricca di commistioni con elementi vegetali e floreali, che di lì a poco farà la sua comparsa nei domini della Repubblica, vedendo protagonista nel 1665 Angelo Michele Colonna nella oggi scomparsa villa Morosini a Sant’Anna Morosina sotto Cittadella (Frank, 2006). Nella foresteria di villa Foscarini un primo ordine di colonne fasciate dal capitello composito si stacca da terra, innestandosi su un basamento dipinto ad imitazione del marmorino e sostenendo un aggettante e movimentato balcone, dal quale si innalzano altre colonne a fingere un loggiato che lascia intravedere gli ingressi di immaginarie stanze. Il complesso, macchinoso apparato si conclude con una cornice mistilinea sormontata da una balaustra e arricchita da quattro emblemi con le personificazioni a monocromo della Ragione, dell’Abbondanza, della Nobiltà e della Concordia tratte dall’Iconologia di Cesare Ripa. Al centro del soffitto si spalanca un riquadro: in uno scorcio di cielo dalle schiarite tonalità azzurrine s’accampano diverse figure al cospetto dell’Eternità, assisa sul globo celeste mentre solleva con le mani il sole e la luna, accompagnata dalla Fama alata con la tromba e la ghirlanda d’alloro, DOMENICO BRUNI - PIETRO LIBERI , VILLA FOSCARINI NEGRELLI ROSSI dalla «Gloria et Honore», rappresentati da una «donna […] che tenga molte corone d’oro e ghirlande in mano, come premio di molte attioni virtuose», e dal momento che «nel tempio dell’Honore non si poteva entrare se non per lo Tempio della Virtù», dalla stessa Virtù, nella variante ripiana di una «donna vestita d’oro, [che] con la destra mano tiene un’asta e con la sinistra un cornucopia pieno di varii frutti». In basso siede, rivolto agli spettatori, lo Splendore del nome come un uomo maturo e barbuto che reca nella mano destra la «mazza d’Ercole» e nella sinistra «una facella accesa» (Ripa, 1630). La data posta da Domenico Bruni a compimento dei lavori è il 1652, ed è probabile che l’incarico per quest’impresa fosse assegnato all’artista dal procuratore di San Marco Alvise Foscarini in occasione del matrimonio tra il figlio primogenito Giovanni Battista e Chiara Soranzo, celebrato il primo giugno 1651 nella chiesa di Santa Lucia a Venezia (ASVE, A.C., reg. V, c. 112). Se sulle sovrapporte si trovano riprodotti gli stemmi delle casate con le quali la famiglia si era imparentata – oltre ai Soranzo appaiono le insegne dei Da Mula e dei Morosini – sulle sovrafinestre si accampano, riprodotti a imitazione del bronzo, i busti di quattro componenti della stirpe. Tra questi forse si può riconoscere la fisionomia del padre di Alvise, Zan Battista (1564-1628), effigiato con la stola di procuratore, carica che anch’egli ebbe a ricoprire, e quella dell’antenato più illustre Jacopo in veste di capitano generale da mar. Fu questo eroico condottiero a coniare il motto «Sublimia Scopus» (Freschot, 1682) che appare anche nel cartiglio dell’arma del casato dipinta sopra l’ingresso posteriore della foresteria. Sappiamo altresì che Pietro, il secondogenito di Alvise, aveva istituito un’accademia letteraria di «preclarissimi ingegni» in piena attività nel 1653 (BMCVE, Cod. Cic., 3011/112) e possiamo immaginare che proprio questo luogo fosse destinato al ritiro agreste dalle fatiche del consorzio umano e ai consessi colti e festosi, come peraltro rammentano le scritte che appaiono riprodotte nel fregio, «Animi/ relasandi/ gratia» e «Amicorum comunia», e nelle sovrafinestre inserite all’interno di elaborate cartouche, a integrazione di minuscole composizioni, «Hinc clarior», «Una salus», «Idem undiquae», «Nihil decentius», «Paulatim», «Ex pulsu noscitur», «Ad omnia». Quest’ultima, particolarmente sapida per la presenza di una mano recante tavolozza e pennelli, mostra al centro, sullo sfondo di un paesaggio, un cavalletto DAL che regge una tela sulla quale sono dipinte le lettere, leggermente abrase, «A D/ R», acronimo traducibile, forse, con: «A Deo redita», ovvero «Da Dio ritratte», omaggio del pittore al Divino Artista creatore della natura. Le composizioni di figura risultano qui sostanzialmente in second’ordine rispetto alle quadrature architettoniche e si raggruppano, oltre che nel soffitto, soltanto nei due lati brevi delle pareti, ove sono raffigurati Il tempio delle Arti e Marte abbraccia la Dottrina, la Verità e l’Eloquenza. Ad ogni modo la maestria dell’artista ha consentito di giungere a un dialettico equilibrio tra le diverse componenti portando in primo piano i grandiosi e ignudi corpi femminili. Già assegnati al fiorentino Sebastiano Mazzoni (Muraro, 1954) e al pittore di origine lucchese Pietro Ricchi (Mazzotti 1957; Mazzotti 1961), l’attribuzione su base stilistica di tali affreschi a Pietro Liberi spetta a Francesca D’Arcais (1978b), poi accolta dalla critica successiva e infine confermata da Ugo Ruggeri (1997). Liberi fu uno dei pittori più fortunati e apprezzati del suo tempo. Allievo di Alessandro Varotari detto il Padovanino, egli, in pieno neotenebrismo, diede vita attraverso l’esempio di Paolo Veronese a una maniera prettamente veneziana «rorida e fulva» (Mariuz, 1998), permeata da una morbida, soave sensualità. Una pittura «gustosa» che «rallegra l’anima dello spettatore» (Zanetti, 1771). Uomo di vasta cultura, dagli interessi più disparati, a partire dal 1624 iniziò una lunga serie di viaggi che lo portarono a Costantinopoli, a Malta, in Portogallo, in Spagna e in Francia e infine a Roma, dove ebbe modo di studiare i grandi maestri, e a Firenze dove prestò la sua opera per i Medici. Rientrato a Venezia si impegnò con successo, insieme ad Antonio Zanchi e Carl Loth, a emancipare i pittori veneziani dalla fraglia dei dipintori. Insignito nel 1653 dal governo della Repubblica del titolo di cavaliere di San Marco, successivamente nominato conte palatino dall’imperatore Leopoldo I, coronò la sua straordinaria carriera costruendosi sul Canal Grande un monumentale palazzo su progetto dell’amico pittore Sebastiano Mazzoni. Sebbene la parte più consistente della sua produzione sia da cavalletto, egli si dedicò anche all’affresco, valga per tutti il fulgido esempio dell’Apoteosi di sant’Antonio per la volta della sacrestia del Santo a Padova. Le rappresentazioni dipinte da Liberi sulle pareti della foresteria di villa Foscarini sono allestite all’in- BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - Pietro Liberi, Allegoria della creazione artistica. DOMENICO BRUNI - PIETRO LIBERI , VILLA FOSCARINI NEGRELLI ROSSI 155 Pietro Liberi, particolare del riquadro con Il tempio delle arti. terno di una sorta di palcoscenico, la cui profondità prospettica è assicurata dalle tre colonne fasciate, elegantemente avvolte alla base da tralci di vite, che si ergono ai lati come quinte teatrali, mentre la continuità con lo spazio della sala è garantita dall’espediente degli illusori scalini che dal pavimento del vano salgono verso la scena. Nel Tempio delle Arti, in primo piano, una figura femminile in abiti seicenteschi ripresa di spalle, la Pratica con il compasso rovesciato sulla testa, ora quasi invisibile, viene amabilmente accolta dalla Verità, quasi completamente nuda, e dalla Teoria con in testa il compasso aperto verso l’alto. Definite con una pittura di tocco e materica, più vicina all’effetto morbido dell’olio che all’affresco, esse sembrano provenire da un quadro di Veronese. La Pratica è indirizzata dalla Teoria e dalla Verità verso il dotto consesso di maestri e, cosa oltremodo singolare per l’epoca, di discepole. Si possono scorgere: un vegliardo intento a misurare il mondo, forse Tolomeo, nel ricordo subliminare dell’Euclide di Raffaello nella Scuola di Atene; un giovane dalla chioma fluente, con uno spartito in mano e una pila di libri ai piedi, impegnato in una lezione di musica con alcune allieve; un altro docente sullo sfondo che trasmette i suoi insegnamenti a un pubblico interamente femminile. In basso a sinistra, dietro la Pratica, s’intravede una donna con un piccolo busto virile in grembo e gli strumenti da scultore appoggiati su un gradino, tratteggiata da colpi di pennello sommari e liquidi. Al di sopra delle teste di coloro 156 DAL BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - che siedono si eleva isolata una fanciulla di spalle che si staglia in controluce su un candido pilastro, intenta a muovere il pennello sulla superficie di una piccola tela appoggiata a un cavalletto. L’imponente loggiato di sapore veronesiano che sovrasta il nobile concilio ospita sulla terrazza sommitale alcune personificazioni, ancora una volta femminili, impegnate in una garbata conversazione, tra le quali si possono riconoscere: l’Astrologia, la Musica, la Prudenza, la Misura, la Temperanza(?), che sembrano presiedere e vigilare sul tutto. Dall’altro capo dell’ambiente, all’interno della medesima partitura architettonica, un giovane prestante in armatura, elmo, cimiero e ampio svolazzante mantello scarlatto, forse Marte, dio della guerra, appare in piedi su una nuvola nell’atto di accogliere e consolare in un virile abbraccio protettivo tre languide fanciulle. Una di queste, vestita di un prezioso broccato, è chiaramente identificabile nella Dottrina, per lo scettro coronato da un sole e il libro posati ai suoi piedi. Ella si è appena gettata in ginocchio, con le braccia alzate e il volto implorante, di fronte al giovane guerriero, il quale frattanto cinge con un braccio le spalle a una figura muliebre reggente un orologio da tasca, l’Eloquenza, e con l’altro una ignuda di spalle, la Verità. In basso a destra un’aquila è colta nell’atto di uccidere un serpente, simbolica esplicazione del trionfo delle cose celesti, o spirituali, su quelle terrestri, o materiali. Sullo sfondo s’intravede il teatro di una furibonda battaglia. L’ideologia – una sorta di neoplatonismo in rosa – che sottende il programma iconografico del luogo sembra dunque scaturire dall’intenzione di creare la degna sede di una vera e propria Accademia delle Arti, in cui mettere in pratica i frutti dolci della cultura e della pace, più propri della natura muliebre, a discapito dei frutti aspri della violenza e della guerra, più vicini alla natura maschile. Ciò non per rinnegare le glorie militari presenti e passate della stirpe dei Foscarini, ma per sublimarle, come accade a Marte, nel crogiolo dello spirito, unica garanzia dell’eternità e dello splendore del nome della famiglia. Che questa missione sia affidata al sesso femminile non deve meravigliare più di tanto, se pensiamo che di lì a qualche decennio, nel 1678, Venezia donerà alla storia la prima donna laureata nel mondo, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia. MF-RR DOMENICO BRUNI - PIETRO LIBERI , VILLA FOSCARINI NEGRELLI ROSSI 112 TAVOLE 112-116. DOMENICO BRUNI - PIETRO LIBERI , VILLA FOSCARINI NEGRELLI ROSSI 112. Pietro Liberi, Particolare del soffitto con l’allegoria dell’Eternità del nome della famiglia Foscarini. 113. Veduta d’insieme del salone della foresteria. 114. Veduta d’insieme del soffitto affrescato da Domenico Bruni per le finte architetture e da Pietro Liberi per le figure. 115-116. Veduta di una parete con gli affreschi di Domenico Bruni per le finte architetture e di Pietro Liberi per le figure: Marte accompagnato dalla Dottrina, dall’Eloquenza e dalla Verità, particolare e intero. 157 114 113 158 159 116 115 161 LOUIS DORIGNY (Parigi, 1654 – Verona, 1742) Salone e andito al piano nobile (1695-1698 circa) Venezia, Ca’ Zenobio Prospetto di palazzo Zenobio costruito tra il 1690 e il 1694 su progetto dell’architetto veneziano Antonio Gaspari. 162 Il grande palazzo che s’affaccia sulla fondamenta del Soccorso ai Carmini, oggi di proprietà dei padri Armeni Mechitaristi di San Lazzaro, venne acquistato nel 1664 dal conte dell’impero, di nobile famiglia veronese appena aggregata al patriziato veneziano, Zuanne Carlo Zenobio, in occasione del matrimonio della figlia Margherita con un esponente della famiglia Donà. Successivamente, nei primi anni Novanta del Seicento, il figlio Pietro decise di affidare all’architetto Antonio Gaspari, già proto di fiducia del doge Francesco Morosini, il restauro dell’edificio, e il 17 febbraio 1695 i Giudici del Piovego concedevano a Pietro Zenobio licenza gratuita di restaurare la facciata della casa «posta alli Carmini» (Favilla-Rugolo, 2003). Il 1695 si può quindi assumere, in mancanza di ulteriori appigli documentari, quale momento finale del processo di rinnovamento architettonico della fabbrica e quale post quem approssimativo per collocare l’avvio dell’impresa di decorazione interna, tenendo conto che sarebbe stato improbabile realizzare gli affreschi prima del completamento dei lavori di muratura anche esterni. Tale circostanza verrebbe a confermare l’ipotesi, formulata su base stilistica, di un loro spostamento nella seconda metà degli anni DAL Novanta del Seicento (Fossaluzza, 1998b) – rispetto alla tradizionale datazione che li poneva invece entro e non oltre il 1687 –, e sarebbero, perciò, da collegare alle nozze tra il nipote di Pietro Zenobio, Carlo, e Maria Vendramin, celebrate nel 1698 (Pasian, 1999). Sappiamo, giusta la segnalazione di Bartolomeo dal Pozzo (Dal Pozzo, 1718), poi ripresa e confermata da Antoine Joseph Dézallier D’Argenville (1762), che l’esecuzione del ciclo venne affidata al francese, naturalizzato veneziano, Louis Dorigny. Un artista noto per il suo virtuosismo: la pratica del «lavorare dal sotto in su», l’«intelligenza de’ lumi», la padronanza «della prospettiva, requadratura e buona scimetria», la «perfetione» quasi astratta nel disegno, lo «style héroïque et sublime», l’essere Peintre du Roi (di Luigi XIV), l’aver soggiornato a Roma frequentando l’Accademia di San Luca, e, non ultimo, l’esser nipote di Simon Vouet e allievo di Charles Le Brun, entrambi celebri pittori della corte di Francia, furono i requisiti che resero Dorigny appetibile e ricercato, nell’ultimo quarto del Seicento, da quei patrizi veneziani e della terraferma già profondamente intrisi di ammirazione per i sempre lodati esempi dell’arte romana e per l’impareggiabile grand goût francese allora in voga. Una vicenda umana e professionale, la sua, che si dipana nell’arco di oltre sessant’anni, tra Venezia e Verona, in un turbinio di prestigiose commissioni, che dilagano oltre i confini della Serenissima, fino a raggiungere Vienna. A lui va il merito di aver rinvigorito nella città lagunare, con il soffitto, oggi perduto, di San Silvestro (1681-1683), la tecnica sempre meno praticata dell’affresco su ampia superficie, offrendo un prodotto d’estrazione culturale franco-romano-bolognese innovativo e dirompente in una città, per vocazione, restia ai cambiamenti. Le prove successive, dai teleri del portego di Ca’ Tron, agli affreschi per il salone di Ca’ Zenobio, passando per le decorazioni dell’oratorio di Bernardo Nave a Cittadella, della Rotonda e di palazzo Capra a Vicenza, consolideranno la sua fama di grande virtuoso e accademico irrequieto «dotato di meraviglio- BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - LOUIS DORIGNY, CA’ ZENOBIO so ingegno», fornendo un prezioso esempio che sarà parsimoniosamente tesaurizzato dalle successive generazioni artistiche dei Ricci, dei Pellegrini e dei Tiepolo. Dorigny rimane dunque l’unico francese che sia riuscito a lasciare un segno profondo e indelebile nella storia della pittura veneziana. L’elemento generatore, il nucleo intorno al quale si articolano gli ambienti di palazzo Zenobio è il grande salone a doppia altezza con balconata per l’orchestra impreziosito da un complesso apparato a stucco, realizzato da Abondio Stazio in un secondo momento rispetto agli affreschi (De Grassi, 1999). Una straordinaria sorpresa barocca stupisce il visitatore, il quale, salite le scale modeste e dignitose, percorso il basso andito, fa il suo ingresso nell’ampio vano dove con un inaspettato slancio ascensionale lo spazio si dilata improvvisamente grazie ai giochi prospettici delle finte architetture (Mariuz-Pavanello, 1997). Dodici personificazioni delle Arti e delle Scienze – il Bello e il Buono – figure memori degli esempi veronesiani nella vicina chiesa di San Sebastiano, siedono benevole su immaginari sgabelli posati sul cornicione che corre intorno alle pareti della sala. Tra queste si possono riconoscere le nove muse: Tersicore, ovvero la Danza, Polimnia, ovvero il Mimo, Erato, ovvero la Poesia elegiaca, Calliope ovvero la Poesia epica, Urania ovvero l’Astrologia, Clio ovvero la Storia, Melpomene, ovvero la Tragedia, Thalia ovvero la Commedia, Euterpe, ovvero la Poesia lirica. A queste si aggiungono le personificazioni dell’Arte e dell’Architettura (o della Misura). Presiede il consesso Minerva dea della Ragione e protettrice delle Arti. La lezione di Paolo Veronese era già stata filtrata da Dorigny attraverso gli occhi del nonno materno Simon Vouet, dal quale derivano il disegno nitido dei panneggi taglienti che s’accendono lungo i bordi e gli accostamenti cromatici dissonanti dei gialli, dei rosa e dei verdi (Crosato Larcher, 1998). I volti impassibili, le membra sciolte, le pose aristocraticamente distaccate, le superfici ampie e levigate delle forme e la stesura à plate dei colori tersi rendono palpabili le affinità elettive tra avo e nipote. Il tutto rivela un senso di raffinata astrazione, frutto di una sapiente cultura accademica, accentuata dalle orbite oculari appena segnate delle figure, che assumono spessore e pienezza proiettando illusionisticamente la loro ombra sul muro retrostante. Interrompono la successione delle muse due cartouche che imitano lo stucco e racchiudono monocromi dalle calde intonazioni rosate con la Caduta di DAL Fetonte e Apollo e Diana che saettano le Niobi: si tratta di scene concitate e drammatiche definite da un segno essenziale, quasi compendiario, in continuità e in competizione con le quattro sovrapporte a stucco dorato, opera di Abondio Stazio, che contengono tondi con storie di Apollo articolate in altrettanti episodi. Questi sono: La sfida tra Apollo e Marsia, con la tenzone presieduta da re Mida nel primo tondo e La punizione di Marsia nel secondo; quindi Apollo si innamora di Dafne e Dafne trasformata in alloro. La luce è ancora una volta l’elemento fondamentale che sostanzia lo spazio barocco, luce naturale proveniente dalla grande polifora che si squaderna sulla parete verso le fondamenta e luce artatamente inventata che si diffonde da immaginarie finestre poste in alto, al di sopra di quelle reali tra i falsi pilastri che paiono sostenere il peso del soffitto. Questo si spalanca scompaginandosi in un aggettante cornicione mistilineo poggiato su gonfi mensoloni, si dilata per poi restringersi prospetticamente verso un ampio foro ellittico, che idealmente incornicia uno scorcio di cielo nel quale si svolge la rappresentazione allegorica dell’Aurora. Il carro del Sole, fatto di pura luce, totalmente smaterializzato, inconsistente, trasparente come un vetro di Murano, irrompe sulla scena preceduto dall’Aurora «dalle dita di rosa» sorretta da prestanti Zefiri, di cui uno è un esplicito omaggio al Michelangelo del soffitto della Sistina. Mentre essa sparge i suoi fiori, sulla cornice stanno in bilico creature umane sprofondate nel sonno, ma tra queste un giovane si è già ridestato sollevando al di sopra del capo il cupo mantello color della notte. A tutto ciò si accompagna un tripudio di fiori e di frutta, elementi questi che ritornano con frequenza nell’opera decorativa di Dorigny: nei soffitti dei vestiboli della Rotonda a Vicenza, ad esempio, e che ritroveremo quasi trent’anni più tardi a villa Allegri a Cuzzano. Vasi ricolmi di fiori sono collocati agli angoli della sala al di sopra dei grandi stemmi della famiglia Zenobio, e ancora fiori spuntano tra i preziosi tappeti, tra i libri, gli spartiti e gli strumenti musicali, vere e proprie nature morte, brani di prodigioso virtuosismo. Una nota di particolare ironia è costituita da un nano dall’aria soddisfatta che, a cavalcioni di una finestra fittizia, a lato della loggia per l’orchestra, viene sorpreso nell’atto di fumare una lunga pipa di Chioggia. Il tutto si configura invero come una sfarzosa scenografia impalcata con l’intento di stupire e istruire al contempo, stupire con la magniloquenza della composizione e delle sue singo- BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - LOUIS DORIGNY, CA’ ZENOBIO 163 Particolare del soffitto dell’andito con la personificazione dell’Onore. lari invenzioni, e istruire sulla virtù e la fortuna della nuova famiglia. Infatti i due grandi stemmi dipinti sugli angoli opposti del salone racchiudono entrambi le armi degli Zenobio, mentre i monogrammi intrecciati riprendono le iniziali dei nomi degli esponenti della famiglia. L’allegoria dell’Aurora che precede il carro di Apollo rappresentata nell’ovale del soffitto è il punto di arrivo, la sintesi ultima d’un vasto programma iconografico che un tempo investiva anche gli altri ambienti del palazzo (spogliati dei decori nel corso dell’Ottocento), a iniziare dal soffitto dell’andito che introduce alla sala TAVOLE 117-123. ove sono raffigurati, all’interno di cornici a stucco: nella prima verso il giardino, L’Onore accompagnato dalla Fortezza e dalla Prudenza viene esaltato dalla Fama, mentre due puttini scherzano con la faretra, la clava e il serpente attributi di quelle virtù; nella seconda, L’Affabilità e la Ricchezza unitamente alla Nobiltà e alla Giustizia conducono alla Fama e alla Virtù, con vari amorini che recano alcuni attributi delle personificazioni; e in ultimo, La Superbia, l’Ignoranza e l’Avarizia sono sconfitte e scacciate (Favilla-Rugolo, 2005). L’elegante figura neomanierista dell’Onore, disinvoltamente assisa su una nuvola con la gamba accavallata, si rivela come consapevole omaggio di Dorigny alla madrepatria e, al contempo, al modello della lezione italiana del Cinquecento, conformandosi all’Apollo dipinto da Primaticcio nel quarto compartimento della galleria d’Ulisse nel castello di Fontainbleau (Favilla-Rugolo, 2005). L’ideologia che sottende l’intero apparato è un invito all’esaltazione nella moderazione, accompagnato dal monito a non cedere all’hibris, così come traspare anche dai Vizi, sulla volta dell’andito, e dalle storie raffigurate nelle quattro sovrapporte a stucco e nei due grandi monocromi del salone, ove il nume tutelare del ciclo, Apollo, è soggetto e in un caso vittima egli stesso di superbia punita (nel monocromo con Dafne trasformata in alloro). Un monito a non insuperbirsi, quanto mai opportuno e appropriato per una famiglia “nuova” come gli Zenobio, da poco ascritta nel Libro d’oro dei patrizi veneti. MF-RR LOUIS DORIGNY, CA’ ZENOBIO 117. Veduta d’insieme del salone da ballo. 118. Veduta d’insieme del soffitto con L’Aurora che precede il carro di Apollo. 119. Particolare del soffitto con la personificazioni di Aurora, Zefiro, alcune creature della notte e i cavalli del carro di Apollo. 120-121. Particolari del soffitto con un vaso di fiori e una composizione con spartiti, strumenti musicali e tappeti. 122-123. Particolari degli affreschi parietali con il Nano che fuma la pipa e la Personificazione dell’arte della Scultura e della Pittura. 164 117 165 118 166 167 120 119 168 121 122 123 GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI (Venezia, 1675-1741) Portego, stanza da letto e alcova (1696 circa) Murano, casino Correr Prospetto del casino Correr innalzato verso la fine del XV secolo. 172 Intorno alla metà del XVI secolo la nobile famiglia veneziana dei Correr di Riva di Biasio acquistava una casa dominicale a Murano affacciata sulla fondamenta degli Angeli, in prossimità della chiesa conventuale dedicata alla Vergine (ASVE, A.p.C., b. 6). Nel 1677 il cavaliere e procuratore di San Marco Angelo Correr, detto «il filosofo» (ASVE, M.C.S.V., reg. III, p. 142), acquisiva «alcune casette agl’Angeli», nella medesima isola, per demolirle e «fabricar una casa alta» (ASVE, A.p.C., b. 6), forse con l’intento di ampliare il palazzetto cinquecentesco. Il progetto non fu poi realizzato per la morte improvvisa che colpì prematuramente il nobiluomo l’anno successivo. Il figlio di questi, Gerolamo, fu anch’egli uomo di grande cultura, «versato in ogni genere di belle lettere» (Freschot, 1682), nelle scienze matematiche e membro dell’Accademia degli Argonauti, fondata dal cosmografo ufficiale della Repubblica, il francescano Vincenzo Coronelli (Sartori, 1953). Il primogenito di Gerolamo, Angelo, nato nel 1668, ricoprì la carica di Savio di Terraferma, non si distinse in meriti particolari, ma a lui spetta l’iniziativa di far decorare DAL il casino muranese, luogo di svago e delizie per la nobile famiglia veneziana. Volendo prestar fede a Francesco Moücke nella sua Serie de’ ritratti degli eccellenti pittori del 1762, veniamo a sapere che nel 1696 Giovanni Antonio Pellegrini, all’età di ventun’anni, appena rientrato nelle lagune dal viaggio in Moravia col suo maestro Paolo Pagani, fu da questi introdotto presso alcuni nobiluomini e in quella circostanza «contrasse particolare amicizia col nobile uomo Angelo Cornaro [sic!], il qual volle che gli dipingesse a fresco l’interno di un suo piccolo palazzo situato agli Angeli di Murano» (Moücke, 1762; Bettagno, 1966). L’opera «da lui eseguita con molta prontezza, avendo incontrato l’approvazione e l’applauso degl’intendenti, gli procurò molto credito, onde non poche furono le commissioni, che gli furono date, di condurre a fresco diversi lavori, e similmente a olio varie pitture su’ muri». «Spirito di pennello risoluto» (Zanetti, 1771), Giovanni Antonio si formò alla bottega di Paolo Pagani, con il quale intraprese un viaggio in Boemia e Moravia sperimentando in quel contesto gli insegnamenti del maestro di Valsolda. Il soggiorno romano del 1700 fu oltremodo proficuo per la sua formazione e gli permise di incamerare nel proprio repertorio visivo «il linguaggio luminoso e sciolto» di Luca Giordano e di Giovanni Battista Gaulli. Pellegrini fu uomo di acuta ironia, incline allo scherzo e financo alla battuta scurrile. Amico-antagonista di Sebastiano Ricci, riscosse una straordinaria fortuna nelle terre della Repubblica e in tutta Europa, in particolare in Germania e in Gran Bretagna, dove la sua maniera piacque «assaissimo», soprattutto negli affreschi, per una pittura di macchia, per il colorito, e per «il movimento di tutto spirito» che sapeva infondere alle sue opere. Ebbe la ventura di sposare Angela Carriera, sorella di Rosalba, legandosi a quest’ultima con un reciproco rapporto di stima e profonda amicizia che non venne mai meno (Knox, 1995). Nel 1696, dunque, Giovanni Antonio si impegnò nella decorazione del saloncino passante, della stanza da letto e dell’al- BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI , CASINO CORRER cova del casino di Angelo Correr, il quale decise di rinnovare questi ambienti secondo il gusto dell’epoca rivestendoli, fra l’altro, di stucchi di raffinata fattura. Gli ornamenti del piccolo portego sono stati attribuiti alla mano di Pietro Roncaioli, l’artista che realizzò, insieme a Filippo Parodi, lo straordinario apparato per la cappella delle reliquie nella basilica del Santo a Padova (De Grassi, 1999; Tesan, 2007). Gli affreschi che si dispiegano sulle pareti raffigurano episodi della vita di Alessandro Magno: Alessandro e Clito, Thalestri regina delle Amazzoni al cospetto di Alessandro, Alessandro davanti al corpo di Dario, Alessandro e Poro. Questi si stagliano in riquadri sulla superficie muraria, rilevata a imitazione di arazzi. Nel soffitto si dispiegano, all’interno di comparti ellittici, Il Crepuscolo del mattino, Apollo sul carro del sole, ovvero Il Giorno, e Il Crepuscolo della sera, intervallati da piccoli tondi con le raffigurazioni delle stagioni delineate a monocromo color vinaccia (Ripa, 1630). Cornici ovali in stucco, che illusionisticamente forniscono l’impressione di quadretti appesi al muro, racchiudono altre vicende minori delle storie di Alessandro dipinte con tonalità terrose, purtroppo oramai in buona misura poco leggibili. Nella volta della stanza da letto appaiono Diana e Endimione, e nell’alcova fanno la loro comparsa al centro Flora e ai lati Danae e la pioggia d’oro, Leda e il cigno. Il ciclo ha sofferto le ingiurie del tempo, e già nell’Ottocento i dipinti risultavano «mezzo deperiti», tanto da non permettere di riconoscere «il merito del pennello che fece quei lavori» (Zanetti, 1866). Simili alterazioni della materia pittorica erano già state segnalate alla metà del Settecento nella produzione dell’irrequieto artista, attribuendole alla tecnica ibrida spesso adottata da Pellegrini che, secondo le fonti, «con indicibi- TAVOLE 124. 125. 126. 127. 124-127. le velocità» «a olio condusse sopra i muri […], indotto più dall’avidità del guadagno che dallo stimolo della gloria» (Moücke, 1762). Trascurando negli affreschi «quei convenevoli mezzi che atti erano a rendergli più durevoli, si sono adesso quasi affatto perduti». I danni, benché in alcune parti tutt’ora visibili, non impediscono di cogliere la qualità superlativa della pennellata, contraddistinta da «uno stile concitato e muscoloso», ancora prossimo alla maniera del maestro Paolo Pagani (Mariuz, 1998). Una prova non scevra di acerbità, ma che già rivela l’inconfondibile caratura del giovane artista. Nella capitale europea del dramma in musica Pellegrini non poteva rimanere indifferente alle suggestioni di quel mondo. Un pathos da scenografia teatrale pervade le composizioni, dove agiscono personaggi avvolti in moti vorticosi, assecondati dai panneggi gonfiati da un soffio immaginario, quasi lo stesso spirito vitale che anima quei corpi. E ciò, nonostante (o forse proprio per questo) si tratti di invenzioni estremamente semplificate, con scarsi accenni a sfondi architettonici o paesistici, ove aggallano intrecciate le figure in primissimo piano. I colori sono spesso dissonanti, a tratti acidi con cangiantismi violenti e risentiti, compensati da una linea sensuale, sinuosa, quasi serpentina, da forme sode e ben tornite definite da uno sfumato carezzevole. Sul soffitto della camera da letto occorre soffermarsi, in particolare, sul brano felicissimo di Diana e Endimione, pervaso da un languore tutto arcadico che prelude agli esiti attinti nel 1727 da Giambattista Tiepolo nel palazzo patriarcale di Udine. Thalestri, regina delle Amazzoni, al cospetto di Alessandro. MF-RR GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI , CASINO CORRER Alessandro e Clito. Alessandro e Poro. Alessandro davanti al corpo di Dario. Soffitto della stanza da letto con Diana e Endimione. 173 124 125 126 127 SEBASTIANO RICCI (Belluno, 1659 – Venezia, 1734) Saloncino e scala (1697-1698) Venezia, casino Zane a San Stin Il 15 maggio 1694 il nobiluomo veneziano Marino Zane saldava allo scultore Giovanni Comin il pagamento di due statue di Bacco e Cerere da collocarsi nel giardino, oggi obliterato da alcune costruzioni, che s’apriva sul retro del suo palazzo dominicale situato nella contrada di San Stin (BMCVE, Mss. P.D.c, 1285, alla data). La facciata sul rio di Sant’Agostin, rivestita interamente di pietra d’Istria, era stata rimodernata vent’anni prima su incarico di Domenico Zane, zio di Marino, da Baldassare Longhena (Bassi, 1961; Frank, 2004). Appassionato bibliofilo, Domenico, alla sua morte avvenuta nel 1672, lasciò il patrimonio al nipote raccomandandosi di non alienare i libri e le «poche pitture» che aveva raccolto. Questi si impegnò a incrementare la biblioteca e la quadreria tanto che agli inizi degli anni Novanta conferì ad Antonio Gaspari, l’architetto più ricercato sulla piazza veneziana in quel torno di Prospetto verso il canale del casino Zane, costruito tra il 1695 e il 1697 su progetto dell’architetto veneziano Antonio Gaspari. 178 DAL tempo, l’incarico di ideare un nuovo edificio da utilizzare appositamente come biblioteca e «casin». Secondo una tradizione affermatasi nel corso del Seicento si decise di innalzare il fabbricato in fondo al giardino dotandolo di un prospetto affacciato sul canale di San Giacomo dall’Orio e di due ingressi indipendenti, in modo da realizzare un luogo intimo e raccolto, materialmente e idealmente separato dagli spazi di rappresentanza e di ufficialità del palazzo. Nel novembre del 1695 presero avvio i lavori di muratura che si conclusero nel maggio del 1697 (Bassi, 1961). Fin dall’inizio si era provveduto a commissionare quattro teste in pietra modellate dallo scultore d’origine tedesca Enrico Merengo da collocare in chiave d’arco sul portone d’acqua e sulla soprastante trifora del piano nobile (BMCVE, Mss. P.D.c, 1285). Nel 1708 la famiglia volle consegnare al pubblico dominio e ai posteri il sembiante della casa dominicale e del nuovo edificio, attraverso la richiesta a Luca Carlevarijs di provvedere «per li rami et intagli per la stampa […], da ponersi con li altri fati da lui delle cose più notabili e di 42 palazzi più cospiqui» all’interno della seconda edizione, non datata, del volume Le fabriche e vedute di Venetia (BMCVE, Mss. P.D.c, 1675; cfr. Mauroner, 1945). Marino era uomo pienamente aggiornato sui gusti dell’epoca e volle dotare il «vòlto» del portego a doppia altezza – vano principale intorno al quale si articolano i diversi ambienti del casino secondo la tradizione tipologica veneziana – di un apparato a stucco, la cui esecuzione venne affidata all’artista di origine ticinese Abondio Stazio, vero e proprio virtuoso nel suo campo, affiancato dal meno celebre Andrea Pelli che si occupò anche della decorazione dei «camerini». I compensi elargiti ai due artefici furono puntualmente registrati nel libro dei «Riceveri», dal 15 marzo 1697 al 20 maggio dell’anno successivo, quando Pelli rilasciava quietanza per il saldo dell’ultimo conto di 180 ducati a nome «del mio collega Abondio Statio stucadore» (BMCVE, Mss. P.D.c, 1285). Ulteriore testimonianza della sensibilità del committente fu la BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - SEBASTIANO RICCI , CASINO ZANE chiamata del quadraturista bolognese Ferdinando Fochi, – attivo di lì a qualche anno insieme a Giovanni Antonio Pellegrini sul soffitto della Biblioteca del Santo a Padova – per dipingere con motivi a trompe-l’oeil alcune stanze e la scala. Un lavoro in cui si impegnò a più riprese dal marzo del 1697 fino al saldo dei compensi avvenuto il 5 marzo 1701 (BMCVE, Mss. P.D.c, 1285). Ancora oggi alcuni ambienti del palazzetto, ora di proprietà della Fondation Bru di Cologny, mostrano le tracce di tali interventi. A iniziare dal vano della scala, che reca sulla volta un affresco raffigurante il Tempo che rapisce la Verità, raccolto in una rotonda cornice di stucco e accompagnato da decori a finte architetture con grandi conchiglie e vasi di fiori. Sulla parte più alta delle pareti, illusionistiche colonne incorniciano balaustre sulle quali siedono alcuni puttini. Nel riquadro centrale del soffitto del portego si staglia Ercole tra la Gloria e la Virtù e negli angoli della volta medaglioni a monocromo accoppiati raffigurano, Mercurio e Diana, Anfitrite e Nettuno, Giunone e Pan, Ercole e Giove, simboli dei quattro elementi, terra, acqua, aria, fuoco. Questi sono inseriti in cornici di stucco sostenute da leggiadri putti e intrecciate con serti ora di quercia ora d’alloro: il tutto magnificamente modellato, secondo i pagamenti, da Abondio Stazio e Andrea Pelli. Elemento oltremodo singolare nel panorama veneziano appaiono le quattro grandi conchiglie sulle quali sono dipinti ancora putti scherzosi che giocano con un leone e con una tigre. Il vano, a doppia altezza, è interamente circondato da un ballatoio, in origine destinato ad ospitare due orchestre, chiuso con una balaustra lignea riccamente intagliata, al cui interno si scorgono le iniziali di Marino Zane «M Z». Tali pitture erano state attribuite da Serena Romano (1982) alla mano di Nicolò Bambini, collocandone l’esecuzione verso la fine del XVII secolo, «per la solida plasticità seicentesca», laddove l’artista inventa «tagli e controluce che più che ad ogni altro lo avvicinano a Sebastiano Ricci». Attribuzione pienamente accolta dalla critica successiva e con riserva nel più completo studio monografico dedicato a Bambini (Radassao, 1998). In realtà, una ricevuta datata 31 maggio 1698 di «Giacomo della Gana depentor», relativa ad alcuni lavori effettuati nel soffitto del portego, ci informa che egli veniva compensato per la doratura di un fregio intorno alla cornice di mezzo «del quadro fato per mano del Rici» (BMCVE, Mss. P.D.c, 1285). L’Ercole DAL tra la Gloria e la Virtù e, per evidenti affinità stilistiche, i monocromi che lo circondano, i putti nelle conchiglie e il Tempo che rapisce la Verità sono dunque da riferire alla mano di Sebastiano Ricci. L’esecuzione di questo ciclo si colloca a ridosso del 1698, quand’egli era appena rientrato a Venezia dalle sue peregrinazioni tra Parma, Roma e Milano, e si configura come la prima testimonianza documentata, in patria, del suo talento per l’affresco, e l’unica sopravvissuta a Venezia insieme a quella per la cappella della scuola dei Carmini, nella chiesa omonima, realizzata tra il 1708 e il 1709. Artista di fama internazionale, «ricco di doni di benigna natura» (Zanetti, 1771), Sebastiano Ricci fu, insieme a Giovanni Antonio Pellegrini, il promotore dell’orientamento “chiarista” che introdusse nelle lagune il gusto rococò secondo l’accezione più propriamente veneziana di Barocchetto. Gli fu maestro il pittore di origine milanese Federico Cervelli, dal quale apprese in giovane età il colorito fresco e la «facilità di pennello». La sua vastissima produzione spazia dai dipinti da cavalletto all’affresco su grande superficie, a iniziare dalla volta di San Secondo a Parma (1685), passando per palazzo Colonna a Roma (1692), dove fondamentale fu l’esempio di Pietro da Cortona, per San Bernardino alla Ossa a Milano (1694), per la cappella del Santissimo in Santa Giustina a Padova (1700), giungendo allo straordinario esempio di palazzo Marucelli a Firenze (1707). Richiesto financo alla corte imperiale di Schönbrunn, ammesso all’Accademia di Francia, egli non disdegnò di cimentarsi nella realizzazione degli BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - SEBASTIANO RICCI , CASINO ZANE Veduta d’insieme del saloncino con la balconata per l’orchestra. 179 Monocromi raffiguranti Anfitrite trasportata dal delfino e Nettuno su un cavallo marino, incorniciati dagli stucchi di Abondio Stazio e Andrea Pelli. apparati scenografici per le opere di Georg Friedrich Häendel durante il suo soggiorno londinese del 1712-1716. Ricci fu uomo di grande spirito, dal carattere irrequieto e sanguigno, esperto nella contraffazione dei dipinti di Paolo Veronese che riusciva a spacciare come autentici. La sua maniera trovò riflesso nell’arte di Gaspare Diziani, Francesco Fontebasso, Francesco e Antonio Guardi, fu la causa del virage coloristico e luministico di Giambattista Piazzetta, suscitando altresì una suggestione profonda nel genio inarrivabile di Giambattista Tiepolo (Scarpa, 2006). Per quel che riguarda le prove del casino Zane, risulterebbe ozioso in questa sede stabilire puntuali rimandi con la sua produzione, ma le fisionomie dolci e al contempo icastiche dei personaggi, la scioltezza del disegno, i colori chiari e fluidi, per quanto bisognosi di un urgente intervento che ne restituisca la piena leggibilità, sono già sufficientemente eloquenti. Un restauro eseguito nel 1947 ne compromise alcuni brani, sia nel riquadro centrale della volta sia nelle composizioni all’interno delle conchiglie. Il Tempo che rapisce la Verità risulta invece l’episodio che ha meno sofferto, nonostante l’ossidazione in alcuni punti dell’originale cromia, e si configura come un esempio particolarmente felice nell’incastro dei corpi sodi e sapientemente modellati da una luce di sottoinsù. Permeato da una garbata ironia, formu180 DAL la costante dell’intero catalogo riccesco, un nerboruto Saturno, intento nello sforzo di afferrare la Verità, ha ceduto momentaneamente i suoi attributi, la clessidra e il falcetto, a due puttini che li ostentano con quella “serietà” che solo i bambini sanno mettere nei loro giochi. La fanciulla dai biondi capelli, che non si vergogna di mostrare le proprie nudità, poiché «a lungo andare la Verità necessariamente si scopre e apparisce» in quanto «figliuola del Tempo», non ha smesso invece di reggere il Sole e l’Uroboros simbolo di eternità (Ripa, 1630). In questo contesto, le quadrature di Ferdinando Fochi che accompagnano l’allegoria hanno subito i danni maggiori, dovuti con probabilità a un rifacimento della scala avvenuto nel corso dell’Ottocento, senza contare che proprio la facciata verso il giardino, sulla quale si innesta questo vano, venne interamente ricostruita già nel 1709 su disegno dell’architetto Domenico Rossi (BMCVE, Mss. P.D.c, 1120). Nel lungo riquadro che s’apre sul soffitto del portego la figura di un giovane Ercole, accompagnato dalla Gloria e dalla Virtù che scacciano le creature delle tenebre, esibisce altresì gli attributi dell’Onore: il volto imberbe, il petto scoperto, la corona d’alloro che sta per cingergli il capo, alcuni monili suoi propri (scettro, corona, collari con medaglioni d’oro, offerti da un amorino) e la clava in sostituzione dell’asta, parimenti simbolo di forza (cfr. Ripa, 1630). La composizione si configura, ad ogni buon conto, come una esaltazione delle nobili virtù del committente, mentre i monocromi posti ai quattro angoli della sala, autentici punti cardinali di questo microcosmo, restituiscono un Olimpo già rivisitato, con Ercole (barbuto, questa volta) accolto a pieno titolo nell’aureo consesso. I putti che s’accampano nelle grandi conchiglie di stucco, impegnati in trastulli innocenti, sembrano alludere alla gioia dell’evento che, calato nella quotidianità e nella cronaca familiare, potrebbe essere accostato alla celebrazione di una non minore promessa di fecondità e quindi di immortalità per la stirpe, dovuta al matrimonio di Vettor Zane, figlio di Marino, con Elena Michiel, celebrato l’8 febbraio 1697 (ASVE, A.C., reg.VI, c. 228; cfr. Aikema, 1997). Buoni auspici che non troveranno seguito dal momento che nel corso di pochi anni la famiglia si estinguerà nel ramo maschile. MF-RR BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - SEBASTIANO RICCI , CASINO ZANE 128 TAVOLE 128-131. SEBASTIANO RICCI , CASINO ZANE 128. Veduta d’insieme del soffitto del saloncino con il riquadro centrale raffigurante Ercole accompagnato dalla Gloria e dalla Virtù; ai quattro angoli monocromi con divinità dell’Olimpo. 129-130. Giochi di amorini dipinti all’interno di conchiglie di stucco. 131. Il Tempo che rapisce la Verità sul soffitto della scala. 181 129 130 131 GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI (Venezia, 1675-1741) Stanze della foresteria (1704 circa) Mira, villa Alessandri Prospetto della foresteria di villa Alessandri, innalzata verso la fine del XVII secolo. 184 La villa, di semplici e misurate proporzioni, si presenta come un edificio tardocinquecentesco dotato di un sobrio prospetto un tempo coronato da un abbaino e da due obelischi che saranno demoliti nell’Ottocento. In origine di proprietà della famiglia Corbelli, nel corso del Seicento il complesso dominicale passò più volte di mano, finchè nel 1692 Cesare Alessandri, ricco mercante veneziano con negozio nelle Mercerie «all’insegna del Cavalier Francese», (ASVE, N.T., b.166, n. 85), acquistò lo stabile e i terreni. Questi, verso la fine del secolo, provvide a innalzare la barchessa a fianco della casa destinandola a uso di foresteria. Le linee del fabbricato, di chiara derivazione scamozziana, paiono vicine ai modi dell’architetto Domenico Rossi (Bassi, 1987), che ideò una pianta a L rovesciata, articolata su due livelli e provvista di un accesso diretto verso la strada alzaia sul Brenta. DAL BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA Le decorazioni ornano tre ambienti posti al primo piano, cui si accede attraverso la scala impreziosita da una raffinatissima balaustra in ferro battuto a motivi fitomorfi. Nella sala, all’interno di cornici fittizie che imitano lo stucco, sono narrati temi mitologici ispirati alle Metamorfosi di Ovidio, mentre in un’altra stanza, posta a Nord-Ovest, caratterizzata dalla presenza di architetture artificiose, appare l’episodio di storia con Annibale che giura odio ai romani. Pubblicati per la prima volta nel 1931 (BrunelliCallegari), Rodolfo Pallucchini (1960) attribuì entrambi i cicli a Giovanni Antonio Pellegrini. Un terzo vano, posto a Nord-Est, ospita Le storie di Antonio e Cleopatra, opera di un ignoto pittore veneto attivo nel primo decennio del Settecento affiancato da un collaboratore quadraturista. L’inventario delle suppellettili «del Loco della Mira» redatto nel 1711, a un anno dalla morte di Cesare Alessandri, testimonia altresì che a quella data nella barchessa la camera «sopra il giardin», quella «sopra il mezà» e il «portegho su della scala» presentavano «dipinti tutti li muri con figure et altro» (BMCVE, Mss. D., b. 27, fasc. 28). I cicli di villa Alessandri, relativi alla sala e alla stanza a Nord-Ovest, costituiscono, la prima committenza privata per un’opera ad affresco affidata a Pellegrini dopo il suo rientro a Venezia da Roma. Quello nell’Urbe fu un soggiorno oltremodo proficuo per la sua formazione che gli permise di incamerare nel proprio repertorio visivo «il linguaggio luminoso e sciolto» di Luca Giordano e di Giovanni Battista Gaulli. L’esecuzione di tali pitture si colloca solitamente nei primi anni del Settecento, sulla scorta di una lettera priva di data e di luogo, ma riconducibile alla primavera-estate del 1704, nella quale Giovanni Antonio riferiva alla moglie Angela Carriera di aver appena concluso il rifacimento «di tre vani» in una sala, con il risultato «che ora comparisse il doppio», ovvero che i dipinti mostravano una resa migliore, attendendo che «il signor Raffaello» terminasse le architetture illusionistiche sulla parete di un’altra stanza per completare l’impresa con un soggetto di storia. Il soggetto richiamato nella missiva è stato riconosciuto con Annibale che giura odio ai romani, mentre «il signor Raffaello» è stato identificato con «ser Rafaele delle prospettive», un non meglio noto quadraturista registrato nella fraglia dei pittori veneziani (Zava Boccazzi, 1998). Dopo i recenti restauri si è altresì rilevato che nel secondo ambiente sia le figure sia le architetture fittizie sarebbero riferibili alla mano del medesimo artista (Carraro, 2004-2005), quindi, non potendo in alcun modo attribuire la terza sala a Pellegrini, per evidenti dissonanze stilistiche, la lettera potrebbe alludere non a villa Alessandri ma a villa Giovannelli a Noventa Padovana dove il pittore era intervenuto una prima volta nell’estate del 1700, per decorare la loggia e la seconda tra il 1704 e il 1708 per dipingere un salotto (cfr. Montecuccoli degli Erri, 1992-1993; Mariuz, 1998; Ericani, 2001). Ad ogni buon conto, anche se fosse confermata quest’ultima ipotesi, per ragio- ni di stile non verrebbe comunque meno la datazione e l’autografia delle prime due stanze. Gli affreschi si collocano all’interno di riquadri verticali di diversa dimensione disposti sulle pareti del «portegho», che per la forma allungata sembra quasi una galleria, dove la luce si diffonde attraverso tre ampie finestre ad arco che s’aprono verso il Brenta. Le specchiature tra le finestre accolgono Apollo e Dafne, Endimione dormiente, Salmaci ed Ermafrodito, Cadmo semina i denti del drago. Sui due lati corti appaiono, da un lato, Il rapimento di Deianira e Narciso alla fonte, dall’altro, Il Ratto d’Europa e Mercurio e Argo; sulla parete dell’ingresso sono rappresentati Danae e la pioggia d’oro, Venere piange la morte di Adone, Pan e Siringa. Sopra la porta secondaria di uno dei lati corti si staglia comodamente seduta la personificazione della Musica. In un angolo un graziosissimo illusorio artificio restituisce una nicchia chiusa da un vetro oltre il quale si scorgono tazze e cuccume di porcellana. In alto, circonda il perimetro della sala un fregio - DAL - GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI , VILLA ALESSANDRI BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI , VILLA ALESSANDRI Veduta d’insieme del saloncino. 185 Veduta d’insieme della stanza a Nord-Ovest con Annibale che giura odio ai romani. 186 dipinto a foglie d’alloro intrecciate sul quale stanno – illuminati da una virtuale luce radente proveniente dal basso – bambini musicisti, pappagalli, scoiattoli e scimmiette, e in corrispondenza dell’ingresso si scorgono due irriverenti maschere di satiri che spuntano sotto un drappo viola. Completano l’apparato decorativo, sulla curvatura del soffitto, otto inserti dal profilo mistilineo dove giocano putti e satiretti, intercalati da cornici dorate intessute con serti d’acanto che ospitano in monocromo violetto le allegorie delle stagioni, e tra queste uno spiritosissimo Bacco, ovvero l’Autunno, che in preda all’ebbrezza spilla il vino da una botte. Sulla volta s’innestano tre lacunari nei quali campeggiano da una parte un satiro adagiato su una nuvola e dall’altra una figura femminile dai seni scoperti, affreschi purtroppo ormai in buona parte scomparsi. Nel comparto centrale appare un personaggio muliebre di difficile identificazione, poiché completamente ridipinto negli anni Sessanta del Novecento. Potrebbe trattarsi di Venere essendo accompagnata da un grazioso amorino recante una fiaccola, unico brano superstite di questa composizione (Furlan, 1978). Dalle pareti emerge una materia instabile e cangiante, fragrante e imbevuta di luce, caratterizzata da una stesura di tocco d’estrema vivacità che paradossalmente sfalda e, al contempo, tornisce le forme. Una pittura felice e spiritosa, di raro virtuosismo, nel violento accostamento delle diverse tonalità di colori, connota le composizioni. Le fisionomie dei personaggi privi di ogni tensione drammatica restituiscono un’atmosfera cordiale e riposante, a tratti sensuaDAL BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA le, di sapore squisitamente arcadico, pienamente rispondente all’estetica del nascente Rococò. Negli affreschi che adornano la stanza a NordOvest, con le vicende di Annibale che giura odio ai romani, si avverte un certo irrigidimento delle figure, rispetto alla genialità con la quale sono tratteggiate quelle della sala, forse perché condizionate dalla presenza delle finte architetture, che si rivelano piuttosto incombenti, alquanto sproporzionate e non prive di sgrammaticature. L’autografia di Pellegrini non è mai stata posta in dubbio dalla critica, che in un primo tempo intese giustificare la diversità tra i due ambienti con uno scarto cronologico che collocherebbe la decorazione di questo vano nel corso di un primo intervento dell’artista nella foresteria. Un’ipotesi ormai impraticabile se si accoglie la succitata lettera che testimonierebbe la contemporaneità dei due cicli. Sulla parete priva di finestre il giovane Annibale pronuncia il suo giuramento accompagnato da due guerrieri e alla presenza di un accigliato sacerdote che incensa un idolo marmoreo con il turibolo. La scena si svolge all’interno di un tempio caratterizzato da una selva di colonne d’ordine corinzio, tra le quali fanno capolino altri personaggi che assistono all’evento. Sulla parete corta, al lato di una finestra, un omaggio a Paolo Veronese è l’armigero dalla corazza accesa di riflessi baluginanti, avvolto in un drappo rosso vivo che ricorda il San Menna nella chiesa di San Sebastiano a Venezia. MF-RR 132 TAVOLE 133 132-139. GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI , VILLA ALESSANDRI 132-133. Narciso alla fonte e Il ratto di Deianira, particolari. 134. Endimione dormiente. 135. Ermafrodito e Salmaci, particolare. 136. Danae e la pioggia d’oro. 137. Pan e Siringa, particolare. 138. Apollo e Dafne. 139. Venere piange la morte di Adone, particolare. - GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI , VILLA ALESSANDRI 187 134 135 188 136 137 190 138 192 139 193 GREGORIO LAZZARINI (Venezia, 1655 - Villabona di Rovigo, oggi Villa d’Adige, 1730) Portego d’ingresso (inizi del XVIII secolo) Santa Bona di Treviso, villa Zenobio Prospetto di villa Zenobio, innalzata nella seconda metà del XVII secolo. 194 Recentemente acquistata dalla Fondazione Cassamarca di Treviso, la villa presenta un corpo di fabbrica compatto e slanciato, il cui prospetto è movimentato nella parte centrale da una successione di polifore balconate sovrapposte, coronate alla sommità da un minuto timpano. Il complesso, dotato di barchessa e oratorio, fu innalzato nella seconda metà del Seicento come «casin» di villeggiatura dal reverendo Domenico Biscaro, parroco di Galliera Veneta, ampliando un edificio preesistente. Nel 1689 fu venduto a Stefano Morellato, «avvocato fiscal» della Repubblica di Venezia, e nel corso del Settecento si succedettero ben tre diversi proprietari: i Franceschi, gli Uccelli e infine nel 1770 i patrizi veneti Zenobio (Magrini, 2006). Sarà Sebastiano Uccelli a chiamare, verso la fine degli anni Quaranta del XVIII secolo, Francesco Fontebasso per abbellire il salone della barchessa e quello del primo piano dell’edificio dominicale (Pedrocco, infra). A commissionare agli inizi del secolo la decorazione del piccolo portego d’ingresso, attribuita su base stilistica alla mano di Gregorio Lazzarini da Franca DAL Zava Boccazzi e Giuseppe Pavanello (1978a), fu con buona probabilità Stefano Morellato che, nell’occasione, provvide anche ad arricchire il vasto giardino con un gran numero di statue, sopravvissute solo in parte, modellate nella bottega dello scultore vicentino Orazio Marinali (Magrini, 2006). Nato nella contrada veneziana di San Marcuola, figlio di un barbiere, Lazzarini rivelò ben presto il suo talento e venne affidato alle cure del genovese Francesco Rosa che lo istruì nei primi rudimenti della pittura. Apprezzato dal principe dell’Accademia romana di San Luca, Carlo Maratta, per quella «grand’eleganza» che schiva i «difetti della natura» e «riduce il tutto ad una rigorosa proporzione», Gregorio si inserì pienamente in quel movimento vocato alla “normalizzazione” dell’iperbole barocca attraverso la perfezione del disegno contrapposto alla tradizionale centralità del colore proprio della scuola veneziana (Lucco, 2001b). Indefesso nel lavoro, necessario per mantenere un gran numero di fratelli e sorelle (tra queste anche una pittrice, Elisabetta), la sua amplissima produzione da cavalletto fu ricercata in Italia e all’estero, mostrando sempre un’invenzione compositiva originale e un buon colorito, elementi ben sintetizzati nella monumentale tela con la scenografica Elemosina di san Lorenzo Giustiniani, eseguita nel 1691 per la cattedrale di San Pietro di Castello a Venezia, dove l’artista volle inserire il proprio ritratto tra la folla che osserva il santo vescovo (Da Canal, 1809). Sebbene non menzionati nella Vita del pittore, scritta dall’amico Vincenzo da Canal, e pubblicata soltanto nel 1809, la paternità degli affreschi di villa Zenobio, dopo l’attribuzione di Zava Boccazzi e Pavanello, non è mai stata messa in dubbio dalla critica. Maldestramente scialbati con la calce a metà Ottocento, soltanto agli inizi del secolo successivo il senatore del Regno, Pacifico Ceresa, che frattanto aveva acquisito il complesso, intraprese un primo restauro che li riportò alla luce. La superficie muraria dell’ambiente è scandita da BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - GREGORIO LAZZARINI , VILLA ZENOBIO una serie di illusorie, candide colonne d’ordine corinzio, innestate su un basso zoccolo che segue il perimetro della sala e sovrapposte a uno sfondo color miele che imita una raffinata boiserie. Le bianche fittizie cornici rocaille che s’aprono negli intercolumni racchiudono tre episodi riferiti ad amori poetico-mitologici, narrati in uno stile pittorico neocinquecentesco, a metà strada fra Tiziano e Veronese. Tutti accomunati dal motivo del locus amoenus, che invita a cedere alle lusinghe dell’amore e che intende esprimere lo stesso genius loci della villa, essi rappresentano: Angelica e Medoro, Ercole e Onfale, Rinaldo e Armida. Nel primo scomparto, i due amanti, tratti dal fortunato repertorio dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, sono colti nell’attimo in cui Angelica sta per incidere i nomi di entrambi sulla corteccia di un albero, atto che sarà all’origine della follia di Orlando. La composizione è caratterizzata da una contorsione dei corpi di gusto neomanierista. Di linguaggio più squisitamente veronesiano è il secondo riquadro, ove un Ercole femminizzato, addossato a una rovina classica, regge il fuso di Onfale, mentre quest’ultima si diverte a indossare la pelle di leone dell’eroe, in una delle possibili varianti dalle Metamorfosi di Ovidio. Un amorino allieta la scena suonando un timpano. Nell’ultimo, ispirato alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, la maga Armida e il principe cristiano Rinaldo, che da questa era stato sedotto e perciò sottratto ai suoi doveri di crociato, si lasciano sorprendere durante una schermaglia amorosa ambientata in un contesto boschereccio. L’ammaliatrice si contempla in uno specchio da toletta, un cristallo «lucido e netto» secondo le parole del poeta, e in modo del tutto autoreferenziale e narcisistico si sta incoronando con una ghirlanda di rose bianche e rosse di fronte al giovane guerriero sconvolto e sog- TAVOLE 140. 141. 142. 143. 140-143. giogato, preda di un turbamento dei sensi che gli ha oramai obnubilato la mente. Sul soffitto, all’interno del lacunare centrale, appare Eros che trafigge una giovane donna, soggetto ora in buona parte ridipinto e che ad ogni buon conto riassume ancora il tema dell’intero ciclo riconducibile al principio dell’Amor omnia vincit. Meritano un’attenzione non secondaria, rispetto al registro più aulico utilizzato nei riquadri parietali, i particolari arguti che si snodano in trompe-l’oeil lungo il basamento: il pappagallo domestico legato alla sua catenella, l’uccellino che col becco carpisce un succoso chicco d’uva, il cane che osserva incuriosito una lucertola abbarbicata sulla colonna. Il tutto è trattato con una maniera «naturale e non furiosa, soda e ben intesa nell’ombre», così come riconosciuto a Lazzarini dal suo biografo Vincenzo da Canal. MF-RR Veduta del portego d’ingresso. GREGORIO LAZZARINI , VILLA ZENOBIO Riquadro con Rinaldo e Armida. Riquadro con Ercole e Onfale. Riquadro con Angelica e Medoro. Particolare con il cane che osserva una lucertola. 195 140 141 142 143 199 A sinistra: veduta dello scalone. A destra: particolare del soffitto dello scalone antecedente il restauro. LOUIS DORIGNY (Parigi, 1654 – Verona, 1742) Scalone (1709 circa) Vicenza, palazzo Repeta Prospetto di palazzo Repeta, costruito tra il 1701 e il 1711 su progetto dell’architetto vicentino Francesco Muttoni. 200 Nel 1701 il marchese Scipione Repeta affidò all’architetto vicentino Francesco Muttoni l’incarico di riedificare l’antico palazzo di famiglia situato in piazza San Lorenzo. L’impresa si concluse nel 1711, appena due anni prima che la morte privasse la città berica di un importante personaggio pubblico quale era il nobile Repeta. Grande cultore delle arti, egli, fra l’altro, ricoprì l’incarico di presidente della fabbrica per la Biblioteca Bertoliana e fu munifico patrocinatore nella ricostruzione della basilica di Monte Berico (Re, 2007). Il monumentale scalone a doppia rampa che introduce al piano nobile del palazzo venne completato nel 1707, come recita la scritta impressa sull’arco che si apre in corrispondenza del secondo pianerottolo. Si può quindi stabilire tale data come termine cronologico post quem per collocare l’esecuzione degli affreschi di Louis Dorigny che decorano la volta, ricordati per primo da Bartolomeo dal Pozzo nelle sue Vite (1718): «In Vicenza diverse opere a fresco, et a olio […], et il soffitto della scala del mar. Scipion Repetta». Dopo quasi vent’anni dall’impresa della Rotonda, la fama aveva richiamato per l’ennesima volta a Vicenza l’ar- DAL tista di origine francese, il quale sfoggiò in questo contesto una magistrale abilità prospettica spalancando sul plafond un’apertura ovale che incornicia uno scorcio di cielo, nel quale si invera la scena con Minerva che precipita i Vizi. Ai lati s’aprono quattro grandi finestroni fittizi, seminascosti da agglomerati di nuvole ospitanti due virtù teologali e due cardinali, la Speranza, la Carità, la Giustizia, imbevute di luce, e la Fortezza, in ombra, tutte accompagnate dai loro rispettivi attributi. Agli angoli del vano, pietrificate e toccate da un’illuminazione discontinua, figure di Vizi sono incatenate a rocce fortemente aggettanti: l’Inganno come un vecchio barbuto con due code di serpente intrecciate al posto delle gambe e ami nella mano destra per le ignare prede; l’Avarizia brutta e risentita, che tiene stretta la borsa dei denari; una repellente Invidia con capelli anguiformi e mammelle sozze che sta rodendo il proprio cuore; la Detrazione nelle vesti di una donna che si nasconde il volto, mostrando la lingua biforcuta, con un pugnale serrato in mano e una tromba a lato; l’Ingratitudine, avvolta nell’edera, con due vipere, delle quali una, il maschio, tiene in bocca la testa della femmina; l’Ingordigia che agguanta un folpo e con uno struzzo accanto (qui più somigliante a un’oca); la Lussuria nelle sembianze di un fauno irridente; l’Ozio come un giovane di bell’aspetto, ignudo e placidamente addormentato (Ripa, 1630). Quattro oculi a monocromo dai toni rosati si stagliano al di sopra dei Vizi e ospitano, in un ambiente d’Arcadia, puttini intenti in attività virtuose (con squadre, compassi, righelli, tavolette ecc.). Sul registro inferiore delle pareti, intervallati a finestre vere e inventate, altri tondi monocromi racchiudono le personificazioni delle Arti, sopra due dei quali (ma proprio sotto la Giustizia) si staglia in trompe-l’oeil uno splendido, variopinto pavone trafitto da una freccia, simbolo della Superbia punita. Al centro del soffitto, un groppo di figure tenebrose, avviluppate in un turbinio disordinato rappresenta La caduta dei Vizi scacciati da Minerva, tra i BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - LOUIS DORIGNY, PALAZZO REPETA quali spicca l’Omicidio che brandisce un pugnale nella destra, mentre con la sinistra afferra per i capelli una testa mozzata. Assistono imperturbabili al terribile evento la Virtù e la Prudenza, smaterializzate da una luce abbacinante. Comodamente distesa sul bordo della cornice ovale s’affaccia la Temperanza che guarda sorridente e benigna verso il basso in direzione dei possibili fruitori. In alto, la Pace si sta per unire in un abbraccio con la personificazione femminile di «Gloria et Honore» (Ripa, 1630), conseguenze supreme queste del trionfo della sapienza sulle forze oscure dell’ignoranza. Una dettagliata ed eloquente documentazione fotografica, risalente agli anni Cinquanta del Novecento, mostra ancora integre – e di una potenza baciccesca – le figure dei Vizi precipitati, i quali oggi appaiono invece irrimediabilmente compromessi e non costituiscono più il fulcro ideale dell’intera macchina compositiva. Sono venuti meno i forti contrasti chiaroscurali, dati dalle luci radenti che formavano ombre scodellate sulle muscolature dei corpi. La materia pittorica risulta impoverita, privata delle finiture a secco che forse l’artista, notoriamente lento e meticoloso nel suo procedere, aveva sovrapposto alla stesura a fresco, così come si evince dalla docuDAL mentazione relativa ad altri cantieri (cfr. FavillaRugolo, 2003b). Alla sommità dello scalone, sotto una cartouche a stucco, ospitante le raffigurazioni della Pittura e della Scultura, è dipinto – quale sintesi di entrambe – Ercole come una statua in bronzo entro un’illusoria nicchia. Il suo precedente, nel catalogo di Dorigny, è costituito da quello eseguito ad olio per palazzo Pompei a Verona (ora al museo di Castelvecchio), che a sua volta si ispirava liberamente all’intramontabile prototipo dell’Ercole Farnese. Si tratta di un autentico genius loci, lì posto ad accogliere il visitatore, e si presenta con la clava, la pelle di leone e i tre pomi delle Esperidi nella mano sinistra, «i quali significano le tre virtù heroiche ad Ercole attribuite» (Ripa, 1630). È la chiave per intendere tutto il programma iconografico, poiché la «virtù heroica dell’huomo è quando la ragione ha sottoposto gli affetti sensitivi», un programma all’evidenza ispirato dal committente, Scipione Repeta, che intese consegnare al mondo e ai posteri un’immagine di sé quale illuminato patrocinatore delle arti e delle scienze. MF-RR BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - LOUIS DORIGNY, PALAZZO REPETA 201 144 TAVOLE 144. 145. 146. 147. 148. 145 144-148. LOUIS DORIGNY, PALAZZO REPETA Veduta d’insieme del soffitto dello scalone con La Ragione e le Virtù che precipitano i Vizi. La personificazione della Speranza. La personificazione della Giustizia con il pavone della Superbia che precipita trafitto da una freccia. L’Ozio e la Lussuria. L’Inganno e l’Avarizia. 203 147 146 148 LOUIS DORIGNY (Parigi, 1654 – Verona, 1742) Salone (1710 circa) Treviso, palazzo Orsetti Dolfin Giacomelli Il palazzo, affacciato sulla riviera del Sile, oggi sede dell’Unione degli industriali della provincia di Treviso, venne rinnovato agli inizi del Settecento, su disegno dell’architetto trevigiano Andrea Pagnossin. Proprietà dalla famiglia Orsetti, ricchi mercanti veneziani di origine bergamasca che ne commissionarono il rimodernamento, successivamente l’edificio passò ai Dolfin e nell’Ottocento divenne «fondaco di merci dell’onorato mercante Sante Giacomelli» (Crico, 1833). Pagnossin dotò la fabbrica di uno slanciato prospetto coronato da un grande timpano di sapore neopalladiano, mentre all’interno provvide a innalzare al piano nobile un’ampia sala da ballo a doppia altezza con balconata aperta intorno all’intero perimetro del vano. Bartolomeo dal Pozzo fu il primo a ricordare nelle Vite (1718) che Louis Dorigny annoverava nel suo catalogo anche «In Trevigi la sala del signor Orsetti», realizzata probabilmente intorno al 1711, anno in cui l’artista si trovava nella stessa città impegnato a dipingere la navata della vicina chiesa monastica di San Paolo, poi demolita nell’Ottocento (Torresan, 1987). La decorazione ad affresco si dispone sul soffitto, all’interno di tre riquadri dalla cornice mistilinea elegantemente intrecciata a rigogliose, dorate fronde di quercia. Nell’allungato comparto centrale è raffigurato un Baccanale, «una scena rustica e vivace» (Coggiola Pittoni, 1935), dove, contro un cielo solProspetto di palazzo Orsetti, costruito agli inizi del XVIII secolo su progetto dell’architetto trevigiano Andrea Pagnossin. 206 DAL BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - cato da nuvole madreperlacee, campeggiano, delineate con spericolato scorcio prospettico, figure morbidissime scatenate in una frenetica orgia sull’orlo del baratro. La festante vendemmia è tratteggiata con una salace ironia che si condensa in un panciuto Bacco riverso e oramai ebbro, ma non saturo, mentre un avvenente fauno gli spreme in bocca la “sacra”, afrodisiaca essenza direttamente da un grappolo e un piccolo, arguto satirello addita il singolare spettacolo ammiccando al pubblico. Di lato, contiguo a uno splendido cesto di vimini ricolmo d’uva e ripreso di sottoinsù – quasi un Caravaggio alla rovescia – un amorino approfitta del feroce leopardo, compagno di Dioniso, per tentare di saltargli in groppa. Al centro, un bimbo paffuto ha sollevato la veste per mingere direttamente nello spazio del salone, accanto a un terzetto discinto, composto da due giovani e una fanciulla dediti a un ballo nel quale sono ostentate con noncuranza levigate nudità e gli attributi della gioia: una coppa, un fiasco e un festone di pampini gravido dei frutti della vite. I loro passi sono accompagnati da una melodia, semplice ma dolce, proveniente da una coppia di musici improvvisati: un timido adolescente che soffia in un flauto traverso adocchiando in tralice la sua compagna che scuote e percuote un timpano, ovvero un moderno tamburello, e contemporaneamente socchiude la bocca per cantare. Si unisce al concertino campestre e al canto un’Ora diafana, che volteggia scandendo il ritmo con due cimbali metallici. Chiude il quadro un satiro barbuto, lo stesso Pan accecato dalla libidine, che tenta di afferrare una ritrosa fanciulla. Nello scomparto verso la finestra che dà sulla strada, si scorge nuovamente la figura di Pan, purtroppo oramai compromessa da una estesa caduta d’intonaco. Avvolto in un lungo festone vegetale e accompagnato da una bianca capra, sembra infastidito da due irriverenti amorini. Stando in bilico sul margine di una spelonca, il dio delle selve e dell’abisso viene sorpreso mentre contempla due leggiadre e trasparenti Ore che si librano nel cielo terso. Nell’altro scompar- LOUIS DORIGNY, PALAZZO ORSETTI DOLFIN GIACOMELLI to laterale verso il giardino, è ancora Pan colto nell’atto di scoprire le nudità procaci di una ninfa placidamente addormentata e inconsapevole. La scena è sempre vista dal fondo di un umido anfratto roccioso, dove l’ombra alligna più scura proiettandosi illusionisticamente anche sul bordo della cornice. Sulle pareti, sopra le finestre del ballatoio, l’artista ha racchiuso, all’interno di sei elaborate cartouche che imitano lo stucco, vivacissime scene di giochi tra putti dalle «istantanee, graziose mosse» che pongono in evidenza «con felice effetto di chiaroscuro, la bellezza delle forme grassottelle e carnose» (Coggiola Pittoni, 1935). In una di queste, i bimbetti giacciono riversi, ubriachi, ai piedi di un tino stracolmo di grappoli. Sulla stessa superficie muraria si spalancano alcune aperture fittizie, e, in corrispondenza delle due porte d’accesso alla balconata, si stagliano sull’intonaco, appollaiati su rigonfie volute architettoniche, elegantissimi nudi virili e muliebri dalle tonalità ambrate, metà umani e metà satireschi. Balza immediata agli occhi la perfezione virtuosistica del disegno e la gaiezza del colore di questo ciclo, ove si ravvisa «un tripudio di gioia universale ed un movimento vivacissimo» (Crico, 1833). Vi predominano i toni caldi, terrosi e vinaccia contrapposti alle tinte algide e pastello dei cieli fissati nell’ora meridiana, panica, quando il sole è allo zenith. Un garbo, che è già tutto Rococò, spira da un mondo d’Arcadia che rifiuta ogni enfasi retorica, invita a godere senza più inibizioni dei piaceri dei sensi e sembra voler gareggiare con quanto Sebastiano Ricci aveva realizzato pochi anni prima sul soffitto di una sala di palazzo Pitti a Firenze, impalcando «una glorificazione del sole e dell’aria» (Haskell, 1985), attraverso la delicata, languida, sfumata narrazione della storia dell’amore di Venere per Adone. MF-RR TAVOLE 149-156. Veduta d’insieme del salone dalla balconata dell’orchestra. LOUIS DORIGNY, PALAZZO ORSETTI DOLFIN GIACOMELLI 149. Il Baccanale raffigurato nel comparto centrale del soffitto. 150-151. Particolari del comparto centrale: un fauno che spreme un grappolo d’uva per dissetare Bacco; e una coppia di giovani musicanti. 152. Pan e le Ore nel primo riquadro laterale. 153. Particolare del secondo riquadro laterale con Pan che scopre le nudità di una ninfa dormiente. 154. Affresco parietale sul ballatoio della sala con una figura maschile a monocromo seduta su una illusoria voluta architettonica. 155-156. Affreschi parietali del ballatoio con cartouche che racchiudono giochi di putti. DAL BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - LOUIS DORIGNY, PALAZZO ORSETTI DOLFIN GIACOMELLI 207 149 208 209 150 151 211 152 153 212 155 154 214 156 NICOLÒ BAMBINI (Venezia, 1652-1736) Salone (1711-1715 circa) Venezia, Ca’ Dolfin a San Pantalon Il palazzo, oggi di proprietà dell’Università Ca’ Foscari, fu acquistato dalla nobile e antica famiglia veneziana dei Dolfin nel 1621. Dopo successivi interventi di ampliamento e rimodernamento, nel 1710 l’edificio venne infine «ridotto con nuova restaurazione in una sì vaga magnificenza» (Pallade Veneta, 1710) su progetto dell’architetto Domenico Rossi (Temanza, 1963). Il committente della rifabbrica fu Daniele III Dolfin, detto Giovanni, ma per la decorazione interna ad affresco della «superba sala» non si può escludere un ruolo del fratello Dionisio, patriarca di Aquileia, quale suggeritore del programma iconografico e dei nomi di Nicolò Bambini, che per il presule aveva già dipinto su tela il soffitto della biblioteca dell’arcivescovado di Udine, e del quadraPalazzo Dolfin, ricostruito nel 1710 su progetto dell’architetto veneziano Domenico Rossi. Nella pagina a fianco: veduta d’insieme del salone. 216 DAL turista Antonio Felice Ferrari che in questo contesto «ridusse il finto ad una grande emulazione del vero» (Baruffaldi 1848). Entrambi gli artisti furono sicuramente coadiuvati dal giovane Girolamo Mengozzi Colonna allievo di Ferrari e futuro geniale collaboratore di Giambattista Tiepolo. L’esecuzione del ciclo, riconosciuta a Bambini grazie alle memorie settecentesche di un viaggiatore inglese (Mariuz, 1981, Conticelli, 1998) andrebbe collocata tra il 1711 e il 1715, anni in cui Mengozzi Colonna, appena giunto nelle lagune da Ferrara, dimorava proprio in Ca’ Dolfin (ASPVE, E.M., reg. 152, 1715, II, c. 184). Nicolò Bambini, allievo del fiorentino Sebastiano Mazzoni e, a Roma, di Carlo Maratta, dal quale apprese l’accuratezza nel disegno e l’eleganza delle forme, fu pittore «pronto» e «spedito» nell’operare, e altresì «maestro di rara dottrina» (Zanetti, 1771). Pittore sempre in bilico tra Barocco e Rococò, fin dalle sue prime opere, quali i soffitti su tela per la chiesa di San Moisè e per Ca’ Pesaro sul Canal Grande, egli perseguì la ricerca di una bellezza classica ispirata ai modelli veronesiani filtrati dall’esempio di Pietro Liberi. Mai dimentico degli esempi di Luca Giordano e Pietro da Cortona, aderì alle tendenze chiariste del primo Settecento veneziano di Sebastiano Ricci e Giovanni Antonio Pellegrini, dando prova di tale nuova concezione coloristica negli affreschi per palazzo Savorgnan a Cannaregio e ancor più nel grande soffitto per palazzo Dolfin a San Pantalon. Ricercato dai patrizi veneziani per le sue «poetiche bizzarre invenzioni» fu soprattutto artista da cavalletto, e soltanto in questi due casi egli si misurò con la tecnica dell’affresco con «effetti di cromatismo brillante e di franchezza esecutiva» (Radassao, 1998). Operoso anche in terraferma, stimato dai collezionisti dentro e fuori i confini della Serenissima, si trovò in più occasioni ad anticipare o a confrontarsi con il genio di Giambattista Tiepolo: a palazzo Sandi, nella chiesa degli Scalzi e qui a Ca’ Dolfin. In età avanzata le autorità della Repubblica gli accordarono la loro fiducia impe- BAROCCO AL ROCOCÒ : TRA AFFANNO E LEGGEREZZA - NICOLÒ BAMBINI , CA’ DOLFIN 217 gnandolo a più riprese nei restauri delle tele di Palazzo Ducale. La volontà di impalcare un eloquente manifesto esaltante le virtù di una stirpe, distintasi sullo scorcio del Seicento in campo politico, militare e letterario, si tradusse, nella dimora dei Dolfin, in un elaborato e multiforme programma iconografico che squadernò sulla volta del salone un ricco repertorio magnificato da un’illusoria, sontuosa loggia di marmo rosa, movimentata da palchetti e balconcini flessuosi aperti su gonfie balaustre, dietro le quali si scorgono candide statue annicchiate e ritratti di personaggi della casata, tratteggiati a monocromo e incastonati entro dorate cornici ovali. Quasi un ordine di effimeri palchi teatrali racchiude la vastità del cielo aperto, cui fanno da contrappunto, alla maniera di Pietro da Cortona, gruppi di figure che rappresentano l’Apoteosi di Venezia, idealmente unita a quella della famiglia alle cui sorti essa è indissolubilmente legata. Una congerie di virtù e divinità bonarie, tra queste un Mercurio che sgambetta ammiccando divertito, partecipano all’evento comodamente assise su soffici nuvole dalle quali spunta il muso sorridente di un pacioso delfino, simbolo araldico della stirpe, che trasporta una sensuale Anfitrite sposa di Nettuno (Mariuz, 1988). Immancabili in un simile, aulico consesso le personificazioni delle arti e delle scienze, ovvero la dimostrazione che soltanto le virtù unite all’amabilità d’animo, impegnata nel promuovere le più elevate produzioni dell’ingegno umano, possono inverare la nobiltà e garantire la vera ricchezza. TAVOLE 157-160. Infatti l’imponente messa in scena è allestita tra due vertici ideali: in alto la Fama e al di sotto l’Abbondanza. E ancora, complesse allegorie s’accampano, dipinte a monocromo su fondo oro, nei medaglioni posti a coronamento delle finte cornici parietali e delle porte identificabili con la Cognizione, la Nobiltà, il Consiglio, il Decoro, l’Esperienza, l’Immortalità, l’Intelligenza, la Perfezione, la Fama e infine Venezia (Conticelli, 1998). Nonostante alcune integrazioni, dovute a restauri non particolarmente riusciti, l’insieme manifesta pienamente l’abile capacità compositiva dell’artista esaltata da una felice scansione cromatica. Vi predominano i rosa, i verdi pastello, i gialli oro e gli azzurri brillanti con declinazioni vicine alla tavolozza di Luca Giordano frescante. La grazia nel disegno, che si riscontra nella tornitura e nella fisionomia delle figure «varie e molto gentili», mostra altresì un Bambini memore delle forme procaci tipiche di Pietro Liberi. L’ambizioso programma decorativo voluto da Daniele Dolfin, che egli peraltro ricordò nelle volontà testamentarie, sarebbe giunto al termine solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1729, con la collocazione sulle pareti, all’interno delle già approntate cornici ad affresco, di dieci tele illustranti episodi di storia romana commissionate dai suoi eredi a Giambattista Tiepolo (Conticelli, 1998). I dipinti, alienati nell’Ottocento, sono oggi conservati nei più grandi musei del mondo. MF-RR NICOLÒ BAMBINI , CA’ DOLFIN 157. Particolare del soffitto con la personificazione dell’Abbondanza. 158. Nicolò Bambini (per la parte figurativa), Antonio Felice Ferrari e Girolamo Mengozzi Colonna (per le finte architetture), veduta d’insieme del soffitto con l’Apoteosi di Venezia. 159. Particolare del soffitto con Mercurio. 160. Affresco parietale con la Nobiltà e le personificazioni di due fiumi. 157 218 220 158 221 160 159 222 223 LOUIS DORIGNY (Parigi, 1654 – Verona, 1742) Salone e oratorio (1719 circa) Cuzzano di Grezzana (Verona), villa Allegri Arvedi Nella pagina a fianco: veduta d’insieme del salone della villa. Prospetto di villa Allegri Arvedi, costruita intorno al 1656 su progetto dall’architetto veronese Giovanni Battista Bianchi. 238 L’imponente complesso di villa Allegri si erge a mezza costa lungo le pendici delle colline della Val Pantena, preceduto da un prezioso giardino all’italiana. La fabbrica fu innalzata, intorno al 1656, dalla nobile famiglia veronese degli Allegri su preesistenze cinquecentesche secondo il progetto dell’architetto e scultore Giovanni Battista Bianchi, sul cui operato ci informa Bartolomeo dal Pozzo (1718). Preceduto da una scalea a doppia rampa, l’oratorio attiguo venne ricostruito nelle forme attuali nei primi anni del Settecento. Nel 1824 l’intera proprietà venne acquistata da Antonio Arvedi, ricco industriale di origine trentina, per la considerevole somma di 362.000 lire austriache (Merlin, 1977). La decorazione ad affresco dell’edificio dominicale fu sommariamente menzionata nel 1720, riferendola alla mano di Louis Dorigny, da Giovanni Battista Lanceni nella sua Ricreazione Pittorica. Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville (1752) riferisce con maggiori dettagli che in quel contesto il pittore dipinse «dans la vigne du Comte Allegri a Cuzzano» e nel «plafond de la salle, paroît le conseil SPLENDORI DI UN SECOLO “IN DECADENZA ” de Dieux», sulle pareti corte «dans une embrasure, Persée tient la tête de Méduse qui change en pierre plusieurs soldats» e dall’altro capo «Le combat des Centaures et des Lapithes»; ai piedi di questi riquadri «deux luttes d’hommes» a chiaroscuro, medesima tecnica utilizzata «tout autour de la salle» per raffigurare «les douze signe du Zodiaque». Sappiamo che il rapporto di committenza con i conti Allegri era iniziato prima del 1718, quando Dorigny aveva provveduto a realizzare nel loro palazzo di città «diverse opere a fresco» (dal Pozzo, 1718), ovvero, secondo la testimonianza di Dézallier d’Argenville (1752), che ne precisa anche i soggetti, dipingendo «la salle et plusieurs chambres». Sebbene non siano a tutt’oggi emersi riscontri documentari, nel caso di villa Allegri la critica è propensa a collocare l’esecuzione degli affreschi intorno al 1719, prima della citazione di Lanceni (1720) e subito dopo la mancata registrazione di questo episodio nelle Vite degli artisti veronesi di Bartolomeo dal Pozzo (1718). Tale cronologia ben corrisponde anche all’esito stilistico del ciclo, quando l’intima cifra del pittore francese si è da tempo stabilizzata in un singolare cliché di attoniti, vacui e premetafisici manichini, animati da una linea sinuosa, arabescata, indipendente, quasi neogotica, e da luminescenze astratte, a volte algide, a volte spettrali, che insistono sulle superfici ampie, levigate e intatte delle forme. Il luminoso salone a doppia altezza si presenta interamente rivestito da un apparato di architetture a trompe-l’oeil. Lo spazio è scandito da un doppio ordine di pilastri e colonne binate che sostengono illusionisticamente vaste campate ad arco ribassato; queste accolgono, nella parte terminale, ariose balconate sulle cui balaustre fanno bella mostra di sé capienti vasi strabordanti di fiori variopinti. Sulle pareti in basso ai lati delle finestre, e in alto nel secondo ordine all’interno di pseudo-nicchie, campeggiano dodici finte statue di solide fattezze maschili recanti i simboli dei segni zodiacali, mentre sulle sovrafinestre quattro cartouche a monocromo violetto ospitano - LOUIS DORIGNY, VILLA ALLEGRI ARVEDI Prospetto dell’oratorio costruito nei primi anni del XVIII secolo. 240 altrettanti fiumi tratteggiati con segno essenziale. Collocati al di sopra delle porte, che s’aprono verso l’esterno, si trovano i ritratti dei committenti, in parte trasfigurati dalle successive ridipinture. Sui lati corti, affiancati da palchetti adorni di drappi rosati e vasi fioriti, si spalancano due immaginarie aperture, sorta di palcoscenici, nei quali sono rappresentati Perseo che mostra la testa della Medusa e La battaglia dei Centauri e dei Lapiti. Ai loro piedi appaiono dipinti con sicuro virtuosismo, ad imitazione di marmoree sculture classiche, due coppie di nudi virili impegnati in una tenace lotta. Lo straordinario slancio ascensionale dell’ambiente, quasi nudo scheletro di un gigantesco animale preistorico, è assicurato dal soffitto scompartito in un articolato sistema di archi trasversali, che ritagliano scorci di cielo, e da una movimentata, ridondante cornice mistilinea che lo cinge. Nelle tre grandi aperture della volta si accampano: Venere, le Tre Grazie e Giove; Marte, la Fama, Nettuno, Vulcano, Mercurio e Giove; Minerva con due Ninfe, Diana ed Eolo. Negli angoli, enormi stemmi, attorniati da una gran quantità di simboli militari, racchiudono le armi della famiglia Allegri e i monogrammi intrecciati dei suoi componenti. Sono le finte architetture a predominare sulla componente figurativa. Un apparato la cui magnificenza ha spinto a ipotizzare l’intervento del celebre architetto-scenografo Francesco Galli Bibiena (D’Arcais, 1978c), attivo a Verona in più riprese, sebbene recentemente siano state sollevate alcune riserve su tale attribuzione (Matteucci, 2000). Tuttavia siamo propensi a ritenere che Dorigny abbia potuto SPLENDORI DI UN SECOLO “IN DECADENZA ” realizzare le quadrature in piena autonomia, poiché ritroviamo gli stessi elementi originali in molte sue imprese, ad iniziare da Ca’ Zenobio. D’altro canto sappiamo che egli era «possessore della prospettiva, requadratura e buona scimetria», come recita una coeva biografia manoscritta (Frank, 1987). Purtroppo il soffitto è stato oggetto di un restauro non particolarmente riuscito (Ivanoff, 1963), compiuto nel 1947, come recita la scritta che compare su uno dei globi dorati e infiocchettati che campeggiano sopra i grandi archi. Ciò nonostante i brani superstiti sono caratterizzati da un’eleganza sofisticata, da un disegno perfetto e da una concezione intellettualistica della forma, con uno stile superbo che risulta movimentato da punte di ironico, superiore distacco. L’artista si divertì a creare delle composizioni ricche di figure concettose e astratte, animate da improbabili, estenuate contorsioni anatomiche di stampo neomanierista, come nel caso di Eolo avvolto in un terribile, vorticoso turbine che sembra scaturire dalla Cappella Sistina. Nello stesso scomparto, in corrispondenza del gruppo con Minerva e Diana, Dorigny manifesta una particolare sensibilità cromatica attraverso l’uso dei colori peculiari della sua produzione tarda: rosa carnicino, verde pistacchio, viola intenso, definiti da tonalità acidule e schiarite (Pasian, 2003). Estesi rimaneggiamenti ha malauguratamente subito il riquadro centrale, che tuttavia lascia ancora percepire l’originale freschezza dell’insieme nelle figure di Nettuno, della Fama, nel particolare della testa e del torso di Mercurio, e, ad esclusione del volto, nella personificazione di Marte assiso in una posa virile a gambe divaricate con la spada sguainata, immagine che potrebbe aver impressionato, a questa data, il giovane Tiepolo. Nell’ultimo scorcio di cielo rimangono intatte soltanto due delle Tre Grazie e la Venere accucciata, che ammicca sorridente, posta in controluce e costruita con veloci pennellate tratteggiate in parallelo. Sulle pareti brevi s’inscenano i due episodi con Perseo che mostra la testa della Medusa e La battaglia dei Centauri e dei Lapiti. Nel primo Perseo mostra la testa mozzata della Medusa che aveva la terrificante proprietà di impietrire chi la fissasse negli occhi, crudele destino toccato a uno dei guerrieri rivolto di spalle in primo piano, colto nell’atto di scagliare la lancia contro l’eroe, totalmente sbiancato come una statua di marmo. Questi si pone in perfetta risonanza con l’enorme, arioso, classico, neoveronesiano arcone che fa da fondale e incornicia un cielo chiaris- LOUIS DORIGNY, VILLA ALLEGRI ARVEDI simo, striato di algide nubi. A riscaldare la scena contribuiscono soltanto il rosso delle braghe di Perseo e del vessillo nemico, le terree figure poste in controluce ai lati della composizione e soprattutto il grande, scuro, tendaggio casualmente raccolto al di sopra degli idoli che incombono dall’alto di un rotondo pilastro dai toni rosati. Nel gruppo della Lotta dei Centaruri e dei Lapiti, la furibonda zuffa trova il supremo punto di equilibrio nella figura centrale di Lapite, il quale brandisce un vaso dorato per scaraventarlo contro le mostruose creature dei centauri, a dimostrazione che l’umano con la sua razionalità vince sugli istinti bestiali del disordine, della crudeltà e del caos. La civiltà trionfa infine sulla barbarie. L’intreccio brutale dei corpi riversi, la ripresa di scorcio di esseri raccapriccianti, frutto dell’incrocio dell’uomo con l’animale, è reso con suprema maestria nella disposizione delle masse, generando un equilibrato intarsio. Il tutto si staglia sullo sfondo di un lussureggiante paesaggio boschivo aperto verso una radura rischiarata da una luce languida, primaverile e dai colori pastello. Nel complesso emerge un articolato programma iconografico, dal quale scaturisce l’ammonimento che l’esercizio della forza brutale della guerra, personificata dal dio Marte, non deve condurre a una cieca distruzione, ma a una Fama gloriosa, se affiancata da Minerva, dea della Ragione e della Pace armata, e mitigata da Venere, amante di Ares, e dalle Grazie, supreme custodi dell’armonia e dell’amabilità. Anche il vicino oratorio risulta internamente rivestito di affreschi, mantenuti altresì in uno stato di conservazione migliore rispetto a quelli del salone. Sulla volta del vano centrale, traforato dalle finte architetture che smaterializzano il paramento murario, inscritto in un varco rotondo appare Il carro d’Elia dove, per l’arditezza del taglio prospettico e per la «semplicità dei mezzi» utilizzati, Dorigny rese «eloquente il vuoto» (Ivanoff, 1963). Un vuoto essenzialmente definito grazie a qualche tenue nota di colore impressa sul chiarore abbacinante del vasto cielo, con un tratto che si fa più marcato nel delineare il manto svolazzante di Elia e la figura di Eliseo prostrato tra la vegetazione, mentre osserva atterrito il minuscolo diafano carro che velocemente si allontana. Ai lati, in ovali contornati da serti di alloro, le figure dei Dottori della Chiesa sono ritratte con arguzia quasi fumettistica, del tutto prive di qualsivoglia alone di aulica seriosità. Ad ingannare anche l’occhio più attento, sulla parete di fondo del presbiterio, si SPLENDORI DI UN SECOLO “IN DECADENZA ” profila l’altare, estremo artificio dipinto a trompel’oeil insieme alla sua pala con San Carlo Borromeo e l’Eterno Padre. Sul soffitto si scorge la candida colomba dello Spirito Santo accompagnata da leggiadri angioletti e spiritosi cherubini che fanno capolino tra soffici, impalpabili nubi, e nei pennacchi albergano i Quattro Evangelisti delineati a monocromo, ulteriore testimonianza che Louis Dorigny fu «maestro della linea per eccellenza» (Ivanoff, 1963). MF RR - LOUIS DORIGNY, VILLA ALLEGRI ARVEDI Veduta dell’interno dell’oratorio verso l’altare. 241 171 TAVOLE 171-179. LOUIS DORIGNY, VILLA ALLEGRI ARVEDI 171-172. Affreschi parietali del salone della villa con le finte architetture che inquadrano La battaglia dei Centauri e dei Lapiti, particolare e intero. 173-174. Affreschi parietali del salone della villa con le finte architetture che inquadrano Perseo che mostra la testa della Medusa, particolare e intero. 175. Veduta d’insieme del soffitto del salone della villa. 176.-177 Particolari del soffitto con Eolo e con Minerva e Diana. 178. Veduta d’insieme del soffitto dell’oratorio con Eliseo e il carro di Elia. 179. Veduta d’insieme del soffitto del presbiterio dell’oratorio con al centro Lo Spirito Santo e nei pennacchi della volta I quattro Evangelisti. 172 242 173 174 175 246 247 176 177 249 178 179 250 251 ANTONIO BALESTRA (Verona, 1666 -1740) Salone (1738) Illasi (Verona), villa Pompei Carlotti Nella pagina a fianco: veduta d’insieme del salone. Prospetto di villa Pompei Carlotti, ricostruita tra il 1731 e il 1737 su progetto del patrizio veronese Alessandro Pompei. 276 Allievo del pittore veronese Giovanni Ceffis, dal quale apprese le prime cognizioni del disegno, Balestra fu per tre anni a Venezia alla scuola di Antonio Bellucci; quindi a Roma dal 1691 al 1695, dove sotto la direzione di Carlo Maratta frequentò l’Accademia di San Luca, cogliendo il meglio d’ogni scuola antica e moderna. Passando per Bologna fu di ritorno nella città natale nel 1695, e due anni dopo eseguì la sua prima opera pubblica: l’Annunciazione per la chiesa degli Scalzi. Agli inizi del secolo si stabilì a Venezia e vi rimase fino al 1718, quando rientrò a Verona dove morì nel 1740. In quel torno di anni egli riscosse enorme fortuna. I suoi dipinti adornarono molte chiese e gallerie veneziane, veronesi e italiane, giungendo fino alle case principesche di Germania, Olanda e Inghilterra. Perfezione nel disegno, pacato classicismo, eleganza delle forme, equilibrio nella disposizione delle masse, grandiosità nel panneggiamento sono le caratteristiche che contraddistinsero la sua produzione avendo come ideali numi tutelari Raffaello, Correggio e Annibale Carracci. Numerosi furono i suoi allievi; val la pena di citare almeno Rosalba Carriera, della quale fu amico, ma anche Pietro Rotari, Giambettino Cignaroli, Giuseppe Nogari, Mattia Bortoloni, Pietro Longhi, Giambattista Mariotti, e i meno noti Matteo Brida, Antonio Cavaggioni, Carlo Salis, Domenico Pecchio. In tarda età si cimentò anche con l’affresco, una tecnica fino ad allora mai praticata, dipingendo il salone di villa Pompei a Illasi. Il magnifico, luminoso ambiente a doppia altezza che occupa la parte centrale dell’edificio si presenta interamente rivestito da un apparato decorativo a finte architetture. La superficie muraria è ripartita nel settore inferiore da coppie di colonne scanalate d’ordine composito innestate su un alto zoccolo a marmorino che cinge l’intero vano. Gli intercolumni accolgono dodici divinità dipinte ad imitazione di statue marmoree: Cibele, Saturno, Nettuno, Giunone, Giove, Plutone, Diana, Apollo, Venere, Marte, Mercurio, Bacco; un vero pantheon. Sulle Ricostruita tra il 1731 e il 1737 su progetto dello stesso proprietario, il patrizio veronese Alessandro Pompei, singolare figura di intellettuale, architetto e virtuoso di pittura, la villa si inserisce pienamente nella rilettura settecentesca del dettato palladiano. L’imponente edificio è caratterizzato da un disteso prospetto che accoglie al centro un profondo pronao scandito da quattro colonne tuscaniche di ordine gigante a sostegno del canonico frontone triangolare. Nel 1738, a lavori completati, i fratelli Alberto e Alessandro Pompei vollero che Antonio Balestra, celeberrimo pittore scaligero, già insegnante di Alessandro, provvedesse ad ornare con affreschi il vasto salone. L’artista oramai settantaduenne, coadiuvato da alcuni allievi, si applicò all’impresa nell’ottobre dello stesso anno, lasciando ai discepoli, in particolare a Matteo Brida, la decorazione degli altri ambienti della villa (De Landerset Marchiori, 1978; Pascoli, 1981, Ghio-Baccheschi, 1989). Antonio aveva fornito, giusto tre anni prima, i disegni per le incisioni che illustravano i Cinque ordini d’architettura di Michele Sanmicheli, pubblicati nel 1735 a cura di Alessandro Pompei (Corubolo, 1991). SPLENDORI DI UN SECOLO “IN DECADENZA ” - ANTONIO BALESTRA , VILLA POMPEI CARLOTTI 277 Nella pagina a fianco: veduta d’insieme del soffitto del salone con Il trionfo di Amore. 278 mito, trasfigurando la tensione emotiva della triste vicenda in gradevole melodramma. Una grazia suadente nelle attitudini dei personaggi traspare con evidenza dal Ratto di Elena, totalmente autografo, dove i due giovani protagonisti inscenano un garbato minuetto avviandosi quasi danzando verso l’imbarcazione che li attende. In Elena si coglie appena un attimo di esitazione nel volgere lo sguardo indietro, verso il mondo che sta per abbandonare, indecisione subito sfatata dai modi persuasivi del bellissimo ed elegante Paride. Li avvolge la luce ovattata di un cielo terso increspato da gonfie nubi, mentre la quiete dell’insieme è movimentata da un soffio di vento che rivela le morbidezze “ammaccate” dei panneggi di «baroccesca e marattesca maniera» (Zannandreis, 1891). Nel soffitto, purtroppo danneggiato e ridipinto in alcuni punti, si rappresenta Il trionfo di Amore seguendo la fonte petrarchesca. Anche in questo caso la critica ipotizza l’intervento di collaboratori del maestro (De Landerset Marchiori, 1978), ma è altresì innegabile la paternità del soggetto. Tra le nubi irrompe il carro infuocato di Amore trainato da maestosi irruenti destrieri, diretto verso l’isola di Citera, cara a Venere, dove il piccolo ma potentissimo dio celebrerà il suo trionfo sull’uomo sopraffatto dalla voluttà. Sul veicolo dorato Cupido sta per scoccare il suo dardo all’indirizzo della schiera dei vinti soggiogati al suo volere. In primo piano, un’altra coppia, forse gli amanti Venere e Marte, contemplano da seduti la scena, che viene additata dalla figura femminile al guerriero ripreso di spalle. L’impianto compositivo, nel particolare della superba quadriglia di cavalli, potrebbe aver impressionato Giambattista Tiepolo, che la riprenderà più volte: nel soffitto della Kaisersaal di Wurzburg con Apollo che conduce Beatrice di Burgundia al genio della Nazione germanica del 1751, nella sala dell’Allegoria nuziale di Ca’ Rezzonico del 1758 e nel perduto affresco del salone di palazzo Canossa a Verona con il Trionfo di Ercole del 1761. MF-RR pareti corte, all’interno di finte cornici, si accampano L’uccisione di Achille e Il ratto di Elena, quest’ultima firmata e datata 1738. Sulle sovrapporte, quattro ovali racchiudono a monocromo Borea rapisce Orizia, Il ratto di Deianira, Il ratto di Europa, e Aurora rapisce Cefalo. Sulle sovrafinestre, cornici mistilinee ospitano Arianna abbandonata, Danae e la pioggia d’oro, Leda e il Cigno, opere nelle quali si può scorgere facilmente la mano degli aiuti. Nell’ordine superiore, dodici figure di amorini albergano tra coppie di paraste. Sulla volta del soffitto, illusionisticamente sostenuta da gonfi mensoloni, si staglia Il trionfo di Amore incastonato in una ricca impaginazione a trompe-l’oeil. Il ciclo, la cui esecuzione si lega probabilmente al matrimonio di Alessandro Pompei, allude con tutta evidenza alla forza cosmica di Eros, capace di piegare al suo volere ogni essere vivente, comprese le divinità, ma anche di assicurare la discendenza di una stirpe. L’ultima grande impresa di un artista oramai anziano testimonia l’estremo esito del suo linguaggio pittorico, incrollabilmente fedele ad una solida formazione accademica che impone un ineccepibile disegno e una studiata compostezza formale. Questa solidità d’impianto priva della loro intrinseca drammaticità gli episodi omerici trasmettendo un’atmosfera arcadica leggera e gradevole. Il non comune talento dell’artista veronese nel colorire si apprezza pienamente osservando i riquadri raffiguranti Il ratto di Elena e L’uccisione di Achille. Tutto è giocato su colori freschi e brillanti, tipici della sua tavolozza, che nel caso dell’Uccisione di Achille si riscalda nel giallo oro della corazza e nel rosso ocra del mantello che avvolge l’eroe riverso a terra, ripreso di scorcio, colpito a morte dalla freccia conficcata nel vulnerabile tallone. Sullo sfondo, dietro un’ara sacrificale, un sorridente Paride, che ha appena commesso il delitto, dopo aver promesso in sposa all’eroe la sorella Polissena, indica verso l’alto un amore piangente che si dispera per l’inganno consumato. Polissena, strumento inconsapevole e testimone dell’agguato, viene consolata dalla madre Ecuba moglie del re di Troia Priamo. Sebbene si possa intravedere l’intervento di un aiuto, in particolare in Paride, nel puttino alato e nell’architettura rotonda che si scorge a destra del dipinto, l’estrema eleganza delle figure ben tornite, animate da un’espressività misurata con una gestualità tutta teatrale, e il perfetto equilibrio delle componenti rimandano all’ideazione di Antonio Balestra, che riesce ad attualizzare perfettamente lo spirito del SPLENDORI DI UN SECOLO “IN DECADENZA ” - ANTONIO BALESTRA , VILLA POMPEI CARLOTTI SPLENDORI DI UN SECOLO “IN DECADENZA ” - ANTONIO BALESTRA , VILLA POMPEI CARLOTTI 279 198 TAVOLE 199 198-202. ANTONIO BALESTRA , VILLA POMPEI CARLOTTI 198-199. Riquadro con L’uccisione di Achille, intero e particolare con il corpo di Achille riverso. 200-201. Riquadro con Il rapimento di Elena, intero e particolare con Elena e Paride che si avviano verso l’imbarcazione. 202. Particolare del soffitto con il carro di Cupido. 280 281 201 200 282 202 BIBLIOGRAFIA GENERALE Fonti manoscritte e documentarie Oretti, s.d. = Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna, Ms. B. 127, Marcello Oretti, Notizie de professori del dissegno […], pp. 540-544. ASPVE, E.M. = Archivio Storico del Patriarcato di Venezia, Examinum Matrimoniorum. ASVE, A.p.C. = Archivio di Stato di Venezia, Archivio privato Marcello Grimani Giustinian, Archivio privato Correr di Riva di Biasio. ASVE, A.C. = Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun. ASVE, N.T. = Archivio di Stato di Venezia, Notarile Testamenti. ASVE, M.C.S.V. = Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea Codici Storia Veneta, 17, «M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti». BMCVE, Cod. Cic. = Biblioteca del Museo Correr di Venezia, Codici Cicogna. BMCVE, Mss. D. = Biblioteca del Museo Correr di Venezia, Manoscritti Dolcetti. BMCVE, Mss. P.D.c = Biblioteca del Museo Correr di Venezia, Manoscritti Provenienze Diverse c. 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BELLUNO 12 9 Lag od iG ard a 21 3 4 VICENZA 34 VERONA 22 8 18 2 5 19 6 10 Fonti a stampa 13 33 35 14 7 TREVISO PADOVA 17 20 15 11 16 VENEZIA 23 MARE ADRIATICO 32 1 ROVIGO Po I CICLI DI AFFRESCHI ILLUSTRATI 1 2 Battaglia Terme, villa Selvatico Emo Capodilista Biron di Monteviale, villa Loschi Zileri dal Verme 3 4 5 Caldogno, villa Caldogno Castelfranco Veneto, Casa Marta Cuzzano di Grezzana, villa Allegri Arvedi 6 Fanzolo di Vedelago, villa Emo Capodilista 7 Illasi, villa Pompei Carlotti 8 9 10 11 Levada di Piombino Dese, villa Marcello Lonedo di Lugo Vicentino, villa Godi Malinverni Longa di Schiavon, villa Chiericati Luvigliano di Torreglia, villa dei Vescovi 12 13 14 15 16 Maser, villa Barbaro Massanzago, villa Baglioni Mira, villa Widmann Mira, villa Alessandri Murano, casino Correr 17 Noventa Padovana, villa Vendramin Grimani Calergi 18 Piombino Dese, villa Cornaro 424 19 Santa Bona di Treviso, villa Zenobio 20 Stra, villa Foscarini Negrelli Rossi 21 Thiene, villa Da Porto Colleoni 22 Treviso, palazzo Orsetti Dolfin Giacomelli 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 Venezia, Venezia, Venezia, Venezia, Venezia, Venezia, Venezia, Venezia, Venezia, Venezia, Ca’ Dolfin Ca’ Rezzonico Ca’ Zenobio casino Zane Gallerie dell’Accademia Palazzo Ducale palazzo Grassi palazzo Labia palazzo Sagredo Ospedaletto 33 Vicenza, palazzo Chiericati 34 Vicenza, palazzo Repeta 35 Vicenza, villa Valmarana ai Nani J.S. 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Bettagno, Venezia 1998, pp. 63-87. 427 INDICE DEI NOMI Abbondi Antonio, detto lo Scarpagnino, 22 Abiosio Giovan Battista, 17 Abramo, 229 Agamennone, 315, 378 Agar, 229, 231 Aikema B., 180, 405 Albani Francesco, 134 Alessandri Cesare, 184 Alessandro III (papa), 8 Alessandro Magno, 79, 173, 368, 369, 370 Allegri (famiglia), 238, 240 Allegri Antonio, detto il Correggio, 276 Aluccio (principe dei Celtiberi), 104, 105, 115, 303, 305 Amigoni Jacopo, 396 Anderson J., 16, 22, 24 Anfossi Pasquale, 404, 405 Angeli Giuseppe, 376, 377, 378 Angeloni Cristoforo, 410 Annibale Barca (condottiero cartaginese), 185,186, 378 Antenore (mitico fondatore di Padova), 143, 144 Antigone (figlia di Edipo), 405 Antonino Pio (imperatore), 95 Antonio (santo), 13, 155 Ariosto Ludovico, 195, 315 Artavasde (re armeno), 293 Arvedi Antonio, 238 Aureliano (imperatore), 302 Avagnina M.E., 343 Baccheschi E., 276 Baciccia, vedi Gaulli Giovanni Battista Badile Antonio, 78 Baglioni (famiglia), 254 Baglioni Giambattista, 252, 254 Balbi Filippo, 13 Balestra Antonio, 229, 230, 254, 276, 278, 281, 286, 287 Ballarin A., 28, 29, 47, 78, 80 Bambini Nicolò, 179, 216, 218, 254, 286 Barbarella (famiglia), 16 Barbaro (famiglia), 54, 55, 58, 315 Barbaro Almorò, 56 Barbaro Alvise, 56 Barbaro Daniele, 55, 56 Barbaro Francesco, 56 Barbaro Marcantonio, 55, 56 Barbarossa, vedi Federico I (imperatore) Barbieri Giovanni Francesco, detto il Guercino, 142 Bardese Giambattista, 410 Bartolomeo fra, 25 Baruffaldi G., 216 Bassi E., 154, 178, 184 Bastiani Lazzaro, 7, 22 Battaglioli Francesco, 386, 397 Battilotti D., 78, 114 Battista d’Angolo, detto Battista del Moro, 34, 47, 78, 428 Crosato L., 80, 114, 115, 124, 125 Crosato Larcher L., 55, 163 Curzio Rufo, Quinto, 378 79, 80, 81 Bedogni Lorenzo, 142 Bellini Gentile, 7, 8, 17 Bellini Giovanni, 8, 9, 17, 22, 26 Bellucci Antonio, 276 Beltramini G., 28 Bembo Pietro, 34 Bertolo Giovanni Maria, 314 Bettagno A., 172 Bevilacqua A., 34 Bevilacqua Giovanni Carlo, 368 Bianchi Giovanni Battista, 238 Binotto M., 34, 47, 104, 134 Biscaro Domenico, 195, 302 Boccaccio Giovanni, 293 Bon (famiglia), 396 Bon Filippo, 358 Bonaccorsi Piero di Giovanni, detto Perin del Vaga, 29 Bonone Alessandro, 142 Borromeo Carlo (santo), 241 Bortoloni Mattia, 228, 229, 230, 231 Bosch Jeronymus, 135 Boschini M., 154 Bramante, vedi Donato di Angelo di Pascuccio Brida Matteo, 276 Brugnolo Meloncelli K., 78, 80, 94, 115 Brunelli B., 184 Bruni Domenico, 132, 133, 154, 155, 157 Brusaferro Girolamo, 286 Brusasorci Domenico, 46, 47, 49 Buonarroti Michelangelo, 25, 80, 163 Cabianca Bortolo, 228 Cabianca Francesco, 228 Caldara Polidoro, detto Polidoro da Caravaggio, 35 Caldogno Angelo, 114, 134 Caldogno Losco, 114 Calergi Marina, 384 Caliari Benedetto, 124, 125 Caliari Paolo, detto il Veronese, 7, 9, 10, 13, 14, 29, 47, 54, 55, 56, 58, 59, 78, 94, 104, 124, 125, 132, 142, 155, 156, 163, 180, 186, 195, 225, 261, 315 Callegari A., 142, 184 Campagnola Domenico, 34 Campaspe (favorita di Alessandro Magno), 369, 370 Canal Giambattista, 397 Canera Anselmo, 13, 47 Caravaggio, vedi Merisi Michelangelo Carlevarijs Luca, 178 Carlo VIII (re di Francia), 7 Caroto Francesco, 46 Carpaccio Vittore, 7, 22 Carpioni Giulio, 114, 132, 134, 135, 230, 254 Carracci (famiglia), 287 Carracci Annibale, 276 Carraro I., 185 Carriera Angela, 172, 184 Carriera Rosalba, 172, 276 Cartari V., 55, 94, 135 Carucci Jacopo, detto il Pontormo, 230 Casiroli E., 154 Cavaggioni Antonio, 276 Cavalcaselle G.B., 16 Ceffis Giovanni, 276 Celesti Andrea, 254 Ceresa Pacifico, 195 Ceruti Giacomo, 397 Cerva Pietro Antonio, 132 Cesare, Caio Giulio, 80, 95 Chiericati Girolamo, 46 Chiericati Ludovico, 124 Chiericati Valerio, 46 Cignaroli Giambettino, 276, 294 Cimarosa Domenico, 404 Cleopatra (regina d’Egitto), 104, 105, 225, 292, 293 Clitemnestra (principessa spartana), 315 Clito (ufficiale macedone), 173 Cock Hyeronimus, 55 Codussi Mauro, 384 Coggiola Pittoni L., 206, 207 Cohen S., 16, 17 Colonna Angelo Michele, 132, 154 Comin Giovanni, 178 Cominelli Andrea, 292 Concina Natale, 410 Contarini (famiglia), 405 Contarini Alessandro, 132 Contarini Marino, 7 Conticelli V., 216, 218 Contin Francesco, 154 Corbelli (famiglia), 184 Cordellina Carlo, 225 Coriolano, Gneo Marcio (generale romano), 378 Cornaro (famiglia), 228, 230, 368, 385 Cornaro Alvise, 9, 13, 28, 34, 80 Cornaro Andrea, 228, 229 Cornaro Angelo, 172 Cornaro Caterina, 228 Cornaro Giorgio, 228 Cornaro Piscopia Elena Lucrezia, 156 Corner, vedi Cornaro (famiglia) Coronelli Vincenzo, 172 Correggio, vedi Allegri Antonio Correr (famiglia), 172 Correr Angelo di Gerolamo, 172, 173 Correr Angelo, 172 Correr Gerolamo, 172 Corubolo A., 276 Crespi Giuseppe Maria, detto lo Spagnoletto, 286, 287 Crico L., 206, 207 Cristoforo (santo), 13, 26, 27 Crosato Giambattista, 226, 252, 358, 368, 369, 370 D’Arcais F., 155, 240 d’Este Ippolito, 55 Da Besozzo Michelino, 8 Da Canal V., 195, 252, 254 Da Cortona Pietro, 134, 179, 216, 218 Da Fabriano Gentile, 8 Da Feltre Vittorino, 17 Da Mula (famiglia), 155 Da Nanto Pietro, 114 Da Porto (famiglia), 104 Da Porto Francesco, 104 Da Valle Andrea, 28 Dal Pozzo B., 162, 200, 206, 238 Dalesmanini (famiglia), 384 Damerini G., 397 Dario (re di Persia), 173, 369, 370 Davide (re d’Israele), 229 de Commynes Philippe, 7 De Grassi M., 173 De Landerset Marchiori P., 276, 278 de Mezières Philippe, 7 de Vos Maarten, 124 de’ Barbari Jacopo, 7 de’ Pitati Bonifacio, 22 de’ Sacchis Giovanni Antonio, detto il Pordenone, 27 dei Bovi Bonincontro, 8 Del Piombo Sebastiano, 25 Dell’Arzere Gualtiero, detto Gualtiero Padovano, 28, 34, 35, 36, 78 Della Gana Giacomo, 179 Dézallier d’Argenville A.J., 162, 238 di MatteoVettore, 22 di Puccio Pisano Antonio, detto Pisanello, 8 Dillon G., 80 Diziani Gaspare, 180, 226, 286, 358 Doglioni N., 133 Dolfin (famiglia), 206, 216, 218 Dolfin Daniele III, 216, 218 Dolfin Dionisio, 216 Donato di Angelo di Pascuccio, detto il Bramante, 16 Dorigny Louis, 132, 133, 162, 163, 164, 200, 201, 203, 205, 206, 207, 229, 238, 240, 241, 242, 254 Duodo Angelo, 410 Duodo Luigi, 410 Dürer Albrecht, 47 Elena di Troia, 131, 378 Emiliani Gerolamo (santo), 411 Emo (famiglia), 94 Emo Fiordelise, 293 Emo Leonardo, 94 Enrico III (re di Francia), 226 Ericani G., 185 Erizzo (famiglia), 384 Esaù, 229, 231 Ezzelino da Romano, 384 Falconetto Giovanni Maria, 9, 10, 28, 29, 34 Fasolo Giovanni Antonio, 13, 14, 104, 105, 114, 115, 116, 124, 125, 134 Favilla M., 131, 132, 162, 164, 201 Federico I, detto Barbarossa (imperatore), 8 Ferrari Antonio Felice, 132, 216, 218 Ferrari Luca, detto Luca da Reggio, 132, 142, 144 Ferriguto A., 16 Ferronati Lodovico, 260 Fiocco G. 124, 134 Fochi Ferdinando, 179, 180 Fontebasso Francesco, 226, 302, 303 Forbicini Eliodoro, 47, 96 Foscarini (famiglia), 154 Foscarini Alvise, 155 Foscarini Giovanni Battista, 155 Foscarini Jacopo, 155 Foscarini Zan Battista, 155 Fossaluzza G., 125 Franceschi (famiglia), 195 Franco Battista, 14, 79 Frank M., 154, 240 Frerichs L.C.J., 358 Freschot C., 155, 172 Frigimelica Gerolamo, 226 Furlan C., 186 Galli Bibiena Francesco, 240 Garin E., 95 Gaspari Antonio, 162, 178, 376 Gaulli Giovanni Battista, detto il Baciccia, 172, 184, 287 Gennari Giuseppe, 359 Gentili A,16, 17, 24 Gesù di Nazareth, 26 Ghio L., 276 Giacobbe, 229, 231 Giacomelli Sante, 206 Giacomo (santo), 411 Giocondo fra, 9 Giogalli Simon, 132 Giordano Luca, 132, 172, 184, 216 Giorgione, 8, 9, 10, 13, 16, 17, 18, 22, 24, 25, 26, 132 Girolamo (santo), 96 Giuseppe (santo), 58 Giustiniani (famiglia), 385 Giustiniani Barbaro Giustiniana, 56 Giustiniani Lorenzo (santo), 194 Godi Girolamo, 34, 79 Goethe Wolfgang, 342 Gonzaga (famiglia), 79 Goya Francisco, 411 Gradenigo Pietro, 396 Grassi (famiglia), 396, 397 Grimani (famiglia), 384 Grimani Domenico, 384 Grimani Vincenzo, 384 Grimani Calergi Vettor, 384 Gritti Andrea, 13, 26, 27 Guarana Jacopo, 226, 252, 358, 376, 404, 405, 407 Guardi Francesco, 410 Guariento di Arpo, 8 Guarini Giovan Battista, 114 Guarini Guarino, 132, 134 Guglielmi Simone, 133 Guiotto M., 410 Häendel Georg Friedrich, 180 Haskell F., 207 Hegemann H.W., 342 Helicay (conte), 368 Ifigenia (figlia di Agamennone), 315, 378 Iliaco Francesco, 314 India Bernardino, 95 Isacco, 231 Ivanoff N., 228, 229, 240, 241, 368 Knox G., 172, 292 Kuen Franz Martin, 292 Labia (famiglia), 292, 293, 294 Labia Paolo Antonio, 293 Lanceni Giovanni Battista, 238 Lazzarin Antonio, 25 Lazzarini Elisabetta, 195 Lazzarini Gregorio, 194, 195, 252, 302 Le Brun Charles, 162 Le Court Jesse, 404 Liberi Pietro, 132, 133, 142, 154, 155, 156, 157, 216, 218 Licaone (figlio di Priamo), 143, 144 Ligorio Pirro, 55 Litterini Agostino, 133 Lombardo (famiglia), 25 Lombardo Lucietta, 254 Lombardo Lucrezia, 254 Longhena Baldassare, 131, 178, 292, 314, 358, 396, 404 Longhi Alessandro, 397 Longhi Pietro, 226, 276, 286, 287, 289, 397 Loredan Leonardo, 22 Lorenzetti G., 359 Loschi (famiglia), 260 Loschi Nicolò, 225, 260 Losco Caldogno Angelo, 134 Loth Johann Carl, 155 Lotto Lorenzo, 27 Luca da Reggio, vedi Ferrari Luca Lucco M., 16, 131 Lucio Munazio Planco (console romano), 294 Luigi XIV (re di Francia), 162 Lunardon S., 404 Lusingano Giacomo di, 228 Luzzo Pietro, 22 Maffei Francesco, 134, 230 Magagnato L., 47 Magagnò, vedi Maganza Giambattista il Vecchio Magani F., 254, 376, 378 Maganza Giambattista il Vecchio, detto il Magagnò, 55 Magrini A., 124 Magrini M., 195, 302 Mancini V., 28 Mansueti Giovanni, 7 Mantegna Andrea, 79 Manzato E., 124 Maratta Carlo, 194, 216, 276 Marcello (famiglia), 368 Marcello Andrea, 368 Marcello Girolamo, 368 Marco Antonio (generale romano), 104, 105, 225, 292, 293 Maria, madre di Gesù, 13, 26, 58, 59 Mariani Camillo, 228 Marinali Orazio, 195 Marinelli S., 47, 131 Marini P., 132 Mariotti Giambattista, 276 Mariuz A., 17, 25, 155, 163, 185, 216, 218, 252, 260, 429 293, 294, 343, 344, 412, 413 Marta (famiglia), 16 Martinioni G., 131 Maruzzi (famiglia), 368, 369 Maruzzi Alessandrina, 368 Maruzzi Costantino, 368 Massari Giorgio, 292, 358, 396 Massinissa (re di Numidia), 104 Matteucci A.M., 240 Mauroner F., 178 Mazza C., 286 Mazzetti Carpoforo, 286 Mazzoni Sebastiano, 155, 216 Mazzotti G., 9, 155 Melchiori N., 16 Melchisedec, 411 Menegozzo R., 260 Menelao (re di Sparta), 378 Mengozzi Colonna Agostino, 405 Mengozzi Colonna Girolamo, 132, 216, 254, 292, 293, 294, 314, 315, 343, 344 Merengo Enrico, 178 Merisi Michelangelo, detto il Caravaggio, 206 Merlin E., 238 Merlin M.A., 238 Metastasio Pietro, 316 Miani Gerolamo, vedi Emiliani Gerolamo (santo) Michelangelo, vedi Buonarroti Michelangelo Michiel Elena, 180 Milesio, 24 Modern H., 292 Molmenti P., 342, 412 Momo A., 411 Montecuccoli degli Erri F., 185 Morassi A., 316, 342 Morellato Stefano, 195, 302 Morello F., 134 Moretti Faustino, 133 Morlaiter Gian Maria, 396 Morlaiter Michelangelo, 226, 396, 397, 398 Morosini (famiglia), 155, 286, 368 Morosini Bianca, 384 Morosini Francesco, 131, 162 Morresi M., 104, 105 Morto da Feltre, vedi Luzzo Pietro Moscheni Margherita, 410, 412 Moschini G., 396, 397 Mosè, 411 Moücke F., 172, 173 Muraro M., 9, 16, 24, 155, 411 Muttoni Francesco, 200, 260, 314, 342 Muzio Scevola, 104, 378 Nardo Antonio, 22 Nave Bernardo, 162 Negretti Jacopo, detto Palma il Giovane, 294 Negri Pietro, 131 Nepi Scirè G., 24 Neri Filippo (santo), 412 Nicolò (santo), 26 Noè, 229 Nogari Giuseppe, 276 Nonfarmale Ottorino, 26 Nordenfalk C., 24 Oberhuber K., 55 Obizzi (famiglia), 79 430 Olcese Vittorio, 29 Omero, 315, 413 Orsetti (famiglia), 206 Ottaviano Augusto (imperatore), 95 Ovidio, Publio Nasone, 94, 95, 195, 254, 413, 415 Padoan G., 17 Padovanino, vedi Varotari Alessandro Padovano Gualtiero, vedi Dell’Arzere Gualtiero Pagani Paolo, 172, 173 Pagnossin Andrea, 206 Palladio Andrea, 10, 14, 34, 46, 54, 55, 79, 94, 94, 105, 114, 131, 132, 134, 228, 404 Pallucchini R., 27, 124, 184, 286, 302, 376, 378 Palma il Giovane, vedi Negretti Jacopo Paride (figlio di Priamo), 378 Parodi Filippo, 173 Pascoli L., 276 Pasian A., 240 Pasqualotto Costantino, 114 Patron Francesco, 404 Pavanello G., 163, 195, 252, 368, 384, 396, 397 Pecchio Domenico, 276 Pedrali Giacomo, 133 Pedrocco F., 16, 55, 131, 254, 292, 411 Pellegrini Gerolamo, 133 Pellegrini Giovanni Antonio, 7, 133, 163, 172, 173, 179, 184, 185, 186, 187, 216 Pelli Andrea, 178, 179, 180 Pellizzari (famiglia), 16 Pepoli (famiglia), 287 Perin del Vaga, vedi Bonaccorsi Piero di Giovanni Perissa Torrini A., 16 Peruzzi Baldassarre, 34 Pesenti F., 56 Piazzetta Giambattista, 180, 376 Pignatti T., 16, 17, 55 Pignoria Lorenzo, 143 Pilo G.M., 134 Pirondini M., 142, 143 Pisanello, vedi di Puccio Pisano Antonio Pisani (famiglia), 360, 405 Pisani Francesco, 28 Pittoni Battista, 55, 56, 58, 80 Pittoni Giambattista, 252 Plutarco, 368 Polidoro da Caravaggio, vedi Caldara Polidoro Pollaioli Antonio, 404 Pompei Alberto, 276 Pompei Alessandro, 276, 278 Pompeo Magno, 95 Pontormo, vedi Carucci Jacopo Pordenone, vedi de’ Sacchis Giovanni Antonio Poro (re delle Indie), 173 Porpora Niccolò, 404 Porsenna (lucumone etrusco), 104, 105, 378 Porta Salviati Giuseppe, 27, 34 Poussin Nicolas, 134 Pozzoserrato, vedi Toeput Ludovico Precerutti Garberi M., 229, 376 Preti Francesco Maria, 226, 368 Primaticcio Francesco, 164 Puppi L., 34, 46, 47, 134, 314 Radassao R., 216 Raffaele delle Prospettive, 184, 185 Raffaello, vedi Sanzio Raffaello Ravelli L., 133 Repeta Scipione, 200, 201 Reynolds Joshua, 292 Rezzonico (famiglia), 225, 358, 360, 369 Rezzonico Aurelio, 359 Rezzonico Carlo, 358 Rezzonico Giambattista, 358 Rezzonico Ludovico, 358, 359 Rezzonico Quintiliano, 359 Ricchi Pietro, 132, 133 Ricci Marco, 386 Ricci Sebastiano, 133, 163, 172, 178, 179, 180, 181, 207, 216, 286, 404 Riccio Agostino, 46 Riccio Domenico, vedi Brusasorci Domenico Ridolfi Bartolomeo, 46, 47 Ridolfi C., 8, 13, 17, 104, 124 Rigon F., 261 Ripa C., 143, 154, 155, 173, 180, 200, 201, 260, 261, 293 Rizzi Caterina Maria, 286 Rizzo Antonio, 25 Robusti Jacopo, detto il Tintoretto, 9, 124, 125 Romano Giulio, 28, 29, 35, 47, 80, 114 Roncaioli P., 173 Rosa Francesco, 195 Rossane (principessa persiana), 368 Rossi Domenico, 180, 184, 216 Rotari Pietro, 276 Ruggeri U., 155 Rugolo R., 80, 131, 132, 162, 164, 201 Ruschi Francesco, 131, 132, 134 Sabbadino Cristoforo, 9 Saccomani E., 28, 35 Sagredo (famiglia), 386 Sagredo Gerardo, 286, 287 Sagredo Nicolò, 286 Salis Antonio, 276 Salomone, 229, 231 Salvadori Antonio, 410 Salviati Francesco, 27 Sanmicheli Michele, 10,13, 55, 276 Sansovino Jacopo, 10, 125 Sanudo Marin, 26 Sanzio Raffaello, detto Raffaello, 29, 34, 156, 276 Sardi Giuseppe, 314 Sartori A., 172 Savoia (famiglia), 369 Savorgnan Faustina, 358, 359 Scarpagnino, vedi Abbondi Antonio Sceriman Diodato, 376 Schofft Augusto Teodoro, 397 Schofft Giuseppe Augusto, 397 Schulz J., 105 Scipione, detto l’Africano, 104, 105, 115, 116, 303, 305, 378 Selvatico Benedetto, 142 Serpelloni Gabrio, 376 Sgarbi V., 16 Sofonisba (principessa cartaginese), 104, 105, 115, 116 Soranzo (famiglia), 78 Soranzo Chiara, 155 Spada Lionello, 142 Spagnoletto, vedi Crespi Giuseppe Maria Spavento Giorgio, 22 Stazio Abondio, 163, 178, 179, 180, 286 Steffanoni Franco, 410 Sumarukoff (conte), 368 Sustris Lambert, 10, 13, 28, 29, 34, 35 Tasso Torquato, 134, 195, 315 Tedesco Girolamo, 22 Temanza Tommaso, 216, 286 Tesan R., 173 Tessarolo A., 80, 94, 95 Thalestri (regina delle Amazzoni), 173 Tiarini Alessandro, 142 Tiepolo Giambattista, 10, 132, 133, 143, 163, 173, 180, 216, 218, 225, 226, 230, 240, 254, 255, 260, 261, 263, 278, 286, 292, 293, 294, 295, 303, 314, 316, 317, 342, 344, 358, 360, 369, 377, 396, 397, 404, 410, 411, 412 Tiepolo Giandomenico, 10, 293, 314, 316, 342, 344, 345, 359, 360, 385, 410, 411, 415 Tiepolo Giuseppe Maria, 411 Tintoretto, vedi Robusti Jacopo Tiozzo C.B., 384 Tiozzo Glauco Benito, 29 Tirali Andrea, 286 Tiziano, vedi Vecellio Tiziano Toeput Ludovico, detto il Pozzoserrato, 124,127 Tornieri Cesare, 314 Torri Pietro Antonio, 132, 133 Trevisan (famiglia), 16, 384 Trissino Gian Giorgio, 55 Zanetti A.M., 9, 24, 25, 155, 216, 229 Zanetti V., 173, 179 Zannandreis D., 278 Zanotto F., 24 Zanverdiani D., 154 Zava Boccazzi F., 185, 195, 384 Zelotti Battista, 9, 13, 14, 34, 35, 46, 47, 78, 79, 80, 81, 94, 95, 96, 97, 104, 105, 114, 115, 116, 125, 134 Zenobia (regina di Palmira), 302, 303 Zenobio (famiglia), 163, 164, 195, 302, 303 Zenobio Carlo, 162 Zenobio Margherita, 162 Zenobio Pietro, 162 Zenobio Verità, 302 Zenobio Zuanne Carlo, 162 Ziani Sebastiano, 8 Zucchetta E., 404, 405 Zugno Francesco, 378, 397 Uccelli (famiglia), 195 Uccelli Francesco, 302 Uccelli Sebastiano, 226, 302, 303 Urbani Andrea, 10, 384, 385, 386, 387 Valcanover F., 7 Valente I., 414 Valesio (re dell’Illiria), 143, 144 Valmarana Elena, 384 Valmarana Giustino, 225, 314, 342 van Heemskerk Maarten, 35 Varotari Alessandro, detto il Padovanino, 134, 155 Varotari Dario, 124 Vasari Giorgio, 8, 9, 22, 104 Vecchia Pietro, 132 Vecellio Tiziano, 9, 13, 22, 25, 26, 27, 28, 132, 195 Vendramin Maria, 162 Vendramin Nicolò, 384 Vendramin Grimani Calergi, (famiglia), 385 Vendramin Grimani Calergi, Andrea, 384 Veronese, vedi Caliari Paolo Virgilio, Publio Marone 315 Visconti Pietro, 358 Visentini Antonio, 344, 384 Vitruvio, Marco Pollione, 55 Vittoria Alessandro, 56 Vouet Simon, 162, 163 Widmann (famiglia), 376, 378 Zabottini (famiglia), 16 Zais Giuseppe, 368 Zanchi Antonio, 131, 132, 133, 155 Zanchi Francesco, 377, 396, 397 Zane Domenico, 178 Zane Marino, 178, 179 Zane Vettor, 180 431 Ringraziamenti L’editore esprime tutta la sua gratitudine alle istituzioni pubbliche e private, nonché ai proprietari delle ville e dei palazzi, che hanno acconsentito alle riprese fotografiche finalizzate alla pubblicazione di questo volume. In particolare si ringrazia: il dottor Giacinto Cecchetto del Comune di Castelfranco Veneto per Casa Marta, la dottoressa Gabriella DePaoli del FAI per villa dei Vescovi, il dottor Malinverni per villa Godi Malinverni, la dottoressa Avagnina e Iole Adami per palazzo Chiericati, la contessa Volpi e il dottor Furlan per Villa Barbaro, la contessa Emo e la Banca di Credito Cooperativo del Trevigiano per villa Emo, il conte di Thiene per villa Da Porto Colleoni, la dottoressa Motterle e l’architetto Costantino Toniolo del Comune di Caldogno per villa Caldogno, la signora Iku per villa Chiericati, la signora Sartori per villa Selvatico, la dottoressa Rossi per villa Foscarini, la famiglia Gable e la famiglia Miolo per villa Cornaro, padre Karapetian del Collegio Armeno di Venezia per Ca’ Zenobio, la signora Barbini per il casino Correr, Michèle Roche per il casino Zane (in particolare si ringrazia la Fondazione Bru che è in procinto di restaurare Palazzetto Zane per crearvi la Fondazione Palazzetto Bru-Zane, centro di musica romantica francese), la signora Marina Novello Basso e il signor Basso per la barchessa di villa Alessandri, il maestro Federico Pupo per villa Zenobio (in particolare si ringrazia la Fondazione Cassamarca e la società da essa gestita Teatri spa che ha destinato la villa ad attività didattiche nell’ambito della musica e dello spettacolo), il Direttore della Banca d’Italia di Vicenza e la dottoressa Marrazzo per palazzo Repeta, il Rettore dell’Università di Venezia, la dottoressa Ventimiglia, la dottoressa Beghi per Ca’ Dolfin, la dottoressa Marina Geromel per palazzo Giacomelli, sede di Rappresentanza di Unindustria Treviso, la contessa e il conte Arvedi per villa Allegri Arvedi, il dottor Barban del Comune di Massanzago, il marchese Carlotti per villa Pompei Carlotti, la dottoressa Motterle e la dottoressa Basso per villa Loschi, la dottoressa Lain per Ca’ Sagredo, la contessa Carolina Valmarana per villa Valmarana ai Nani, il dottor Pedrocco per Ca’ Rezzonico, il conte Marcello per villa Marcello, la dottoressa Guggia e la dottoressa Poletto per villa Widmann (in particolare si ringrazia la direzione di villa Widmann Rezzonico Foscari – proprietà: provincia di Venezia – gestione: apt della provincia di Venezia, ambito turistico di Venezia), il dottor Remolo Cacciatori e il signor Gallo della Fondazione Valmarana per villa Vendramin Grimani Calergi, Emmanuel Berard per Palazzo Grassi, il conte Valmarana per la Rotonda, la dottoressa Brusegan dell’IRE (Istituzioni di Ricovero e di Educazione, Venezia) per l’Ospedaletto, il dottor Andrea Nardone per villa Sesso Schiavo, la Provincia di Vicenza per villa Cordellina Lombardi. L’editore resta a disposizione di eventuali aventi diritti per fonti involontariamente omesse. In qualità di fotografo desidero inoltre ringraziare mio padre Dino Sassi per la passione e la disponibilità dimostrata nell’aiutarmi a realizzare le fotografie di questo libro. Come editore voglio ringraziare gli autori Massimo Favilla, Filippo Pedrocco e Ruggero Rugolo, che con tanta passione si sono dedicati alla realizzazione del libro. Gli autori inoltre intendono ringraziare: i direttori e il personale della Biblioteca del Museo Correr, della Biblioteca Nazionale Marciana, della Biblioteca del Seminario Patriarcale, della Biblioteca dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini, dell’Archivio Storico del Patriarcato, dell’Archivio di Stato di Venezia, della Biblioteca del Kunsthistorisches Institut di Firenze e della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna. Un ringraziamento distinto a: Silvia Bandolin, Emanuela Barausse, Linda Borean, Patrick Bordignon, Igli Carraro, Paolo Delorenzi, Rossella Granziero, Laura Levantino, Piero Lucchi, Emanuele Marian, Giovanna Palandri, Cristina Rossi, Federica Rossi, Ida Santisi, Mita Scomazzon, Serena Tagliapietra, Camillo Tonini, Renato Zironda. Crediti fotografici Tutte le fotografie sono di Luca Sassi e pertanto appartengono all’archivio di Sassi Editore srl eccetto le seguenti: © Foto Turio/Archivio Böhm, Venezia: pagg. 23, 404-409 © FAI/Dagli Orti: pag. 28 Provengono dall’archivio degli autori le fotografie alle pagine: 24, 25, 164, 201 a destra, © Electa: pag. 130 © Cameraphoto Arte, Venezia: pagg. 133, 295-301. 432