Le pillole azzurre del capitale – di Cristina Morini
Una lettura del libro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli Logiche
dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale (Ombre Corte, 2016)
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L’algoritmo definitivo del futuro, ovvero la produzione di predizioni che ci riguardano
distillate da informazioni sulla nostra esistenza raccolte attraverso la rete, sta lì,
acquattato nelle varie infomacchine digitali che usiamo. “Saprà tutto quello che siamo
riusciti a insegnargli sulla vita umana” rappresentando “uno strumento di introspezione
fantastico: uno specchio, uno specchio digitale, uno specchio capace di prendere
vita”[1]. Secondo alcuni frontiera del biopotere foucoltiano, si configura come
un lavoro invisibile che, utilizzando le determinazioni che vengono dai nostri dati e
percorsi online, si propone prossimamente di afferrare i pensieri che abitano gli
arcipelaghi preconsci, non ancora affiorati alla consapevolezza in forma di desiderio
compiuto o immaginazione: “l’accelerazione infosferica porta, per così dire, l’inconscio
alla superficie della relazione sociale contemporanea”[2], seguendo le parole di Franco
Berardi. Futuro della macchina che evoca e genera un processo di inveramento delle
idee, prova a materializzarle e a indirizzarle commercialmente per trarne profitti e
ottenere “individui liberi ma condizionati” (l’accento sta sull’avversativo). Nel
frattempo, Kenneth Griffin di Citadel e James Simons di Renaissance Technologies
hanno raggiunto l’apice della classifica 2015 dei gestori hedge found proprio utilizzando
strategie algoritmiche elaborate dai computer, con guadagni di 1,7 miliardi di dollari
ciascuno e rendimenti intorno al 15 per cento.
Così, insomma, scopriamo vivendo che le previsioni sulla redditività e il potere di
controllarle sono il vero valore nell’economia finanziarizzata contemporanea: “il valore
del capitale immateriale è essenzialmente una finzione borsistica”[3], aveva
sottolineato André Gorz. Nel frattempo, le attività nei servizi e “prodotti
dell’intelligenza” non determinano immediatamente valore di scambio come accade
con le merci “tangibili”, sfilacciandosi, con ciò, il rapporto valore-lavoro che appare,
infatti, sempre più in caduta libera.
Queste suggestioni, tra altre possibili, ci dicono che le categorie strutturali della teoria
del valore-lavoro di Marx non possono così facilmente “essere esportate fuori dalle
condizioni tecnologiche della metà del XIX secolo”, epoca in cui Marx le aveva pensate.
Una suggestione che traggo da Melinda Cooper e Catherine Waldby le quali scrivono:
“Lungi dal rappresentare un aspetto meramente metaforico del pensiero di Marx, il
vocabolario tecnico della prima produzione industriale informa il quadro concettuale
della teoria del valore, dando luogo, ad esempio, alle distinzioni tra lavoro morto e
lavoro vivo, tra capitale costante e variabile. Distinzioni che poggiano sul presupposto
che la composizione tecnico-meccanica del capitale sia necessariamente inanimata e
che la componente umana o variabile del capitale risieda nel “lavoro vivo” del corpo del
lavoratore concepito come un tutto organico”[4].
La crisi della società salariale
Consapevoli della complessità teorica di tali nodi teorici ma anche determinati ad
affrontarli Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli hanno pubblicato da
poche settimane un libro luminoso Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del
rapporto salariale (Ombre Corte, pag. 126, 12 euro). Il testo contiene in appendice un
interessantissimo saggio di Christian Marazzi del 1978 “Alcune proposte per un lavoro
sul tema ‘denaro e composizione di classe’” che anticipa la questione della crisi della
misura e il problema della produzione di soggettività, nella acronologica temporalità
dell’accumulazione contemporanea alle prese con le conseguenze delle dinamiche
monetarie. Logiche dello sfruttamento è un testo interdisciplinare, tra economia,
filosofia, analisi sociale, psicanalisi, agile e ben scritto pur tra passaggi di una certa
complessità, vista la materia: in poco più di cento pagine si scandagliano le categorie
marxiane per aggiornarle senza aggirarle, a partire dalle nuove immersioni tra le quali ci
muoviamo. Diventa urgente dotarsi di un vocabolario revisionato: per giungere a una
adeguata rappresentazione delle logiche dello sfruttamento del capitalismo
contemporaneo, scrivono i tre autori nel primo capitolo, “ci pare di poter affermare che
la categoria della sussunzionenon sia oggi, da sola, più sufficiente a cogliere inedite
configurazioni sociali”. Evidentemente, da subito, si nomina il punto dolente, cioè
“l’esplosione della dinamica salariale come forza motrice della creazione del valore”.
Citando Marx dai Grundrisse, aggiungiamo un noto passaggio che fa da cornice al
capitalismo biocognitivo e finanziarizzato contemporaneo: “Per sviluppare il concetto di
capitale occorre prendere le mosse non dal lavoro ma dal valore o meglio dal valore di
scambio già sviluppato nel movimento della circolazione”[5]. E infatti gli autori
introducono sin da principio tre elementi fondamentali, concatenati tra loro: la
distruzione dell’istituzione del salario che significa anche “metamorfosi del concetto di
lavoro capitalisticamente inteso” visti i modi attraverso cui il capitale mette a valore la
sfera della riproduzione sociale sia direttamente (con la salarizzazione di determinati
compiti riproduttivi) che indirettamente, nelle sue dinamiche improduttive e affettive;
tali trasformazioni e disgregazioni si accompagnano al paradosso di una dilatazione del
tempo di lavoro; lo smarrimento di una misura del tempo, dentro un lavoro che si fa
vita e viceversa, sembra introdurre una singolare logica iper-industriale proprio
attraverso la sussunzione della capacità umana.
Il capitalismo può essere rappresentato allora come una assiomatica sociale che sposta
costantemente oltre i propri limiti di funzionamento, dunque ha una “delimitazione
elastica” e si fa notare per la tendenza a ricomprendere zone diverse e non tradizionali,
“il litorale”, “la soglia”, “le linee di fuga”. La sua grande capacità adattativa, che oscilla
tra “de-territorializzazione dei flussi e contemporanea loro continua riterritorializzazione”, sfrutta le “crisi” per reinventarsi. La macchina assiomatica è anche
immagine di quell’algoritmo cui si accennava in attacco, paradigma dei passi progressivi
che la macchina fa per risolvere il problema, ricomprendendo tutto intero un sistema di
assiomi e sfruttando flussi di comunicazione, linguistici, semiotici, di conoscenza,
sessuali. Rosi Braidotti aggiunge “analisi di tipo predittivo applicabili anche alle tecniche
di life-mining (estrazione della vita, ndr), i cui criteri di selezione fondamentali sono
visibilità, prevedibilità ed esportabilità”[6]. Ciò significa che la logica sussuntoria dello
sfruttamento della fase industriale, (“centrato sul lavoro che rinviava a una
organizzazione bipolare, proprietà-lavoro, borghesia-proletariato”, DeleuzeGuattari, Millepiani[7]) non spiega più, non spiega abbastanza.
Ciò significa che il soggetto è posto in un continuo ondeggiare tra libertà e dipendenza,
un meccanismo pressorio-impressorio, una specie di cassaforma per la soggettività: un
po’ ci stai, un po’ subisci l’intimidazione e, nel timore di un’esclusione perennemente in
agguato e la cui responsabilità non è più sociale ma individuale, resti rappreso dentro
vincoli che antepongono lo spettacolo di sé dentro le proiezioni della vita sociale, al
benessere immediato (il godimento è minimo). L’incitamento è a essere implacabili con
se stessi per non perdere un solo centimetro di terreno nella scalata verso la
rappresentazione di una professionalità mai definitivamente acquisita in un corpo a
corpo concorrenziale con altri, alle prese con lo stesso problema. E dunque l’incalzare di
un movimento ventricolare che, a proposito di vocabolario, dà il senso del ritmo
perpetuo della vita ma ricorda anche il moto di un cuore fibrillato dall’ansia.
Ecco allora la doppia ingiunzione dell’imprinting, concetto nuovo che Chicchi, Leonardi
e Lucarelli ritengono possa rendere meglio “il salto di paradigma che la desalarizzazione
impone all’analisi dello sfruttamento”. Con la parola imprinting si richiamano gli studi di
Konrad Lorenz sui sistemi di apprendimento animale ma anche l’impressione su una
pellicola fotografica, per focalizzare il dispositivo biopolitico che segna il soggetto con
un’immagine latente o “il limite al di là del quale tutto è concesso”: tutto è “volto alla
selezione di traiettorie di divenire potenzialmente funzionali (dal punto di vista della
valorizzazione capitalistica)”. Nella sussunzione marxiana “è centrale anzi necessario il
rapporto di lavoro di tipo subordinato/salariato”. Nell’imprinting “processo di lavoro e
processo di valorizzazione non coincidono sul piano del salario ma trovano condizioni di
realizzazione differenti”. Ecco il punto, l’architrave del discorso: ricavare plusvalore
dalla soggettività senza passare necessariamente dalle convenzioni salariali. Il passaggio
dalla sussunzione reale alla logica dell’imprinting avviene “attraverso la progressiva
perdita di cogenza del rapporto salariale”, nell’amplificazione della condizione
soggettiva e dell’adesione; “diffusione dei una condizione di lavoro più umiliata e meno
salarizzata”, senza contare le situazioni in cui “l’espropriazione del plusvalore avviene
completamente al di fuori della relazione salariale e del contratto di
lavoro”: profiling dei dati in rete, lavoro clinico, forme di volontariato e partecipazione
civica, convenzioni finanziarie, sfruttamento dei beni comuni della natura.
Il capitolo quattro, “Capitalismo fantomatico: l’imprinting come assiomatica dello
sguardo”, redatto da Federico Chicchi, prova a chiarire meglio l’ingiunzione negativa
che il capitalismo cerca di agire ex ante sulla soggettività “imprimendo” normatività,
immaginari, il culto della performance, “attraverso la produzione di fantasmagorie
inconsce, capaci, attraverso il formarsi di consistenze immaginarie, di orientare il
desiderio particolare del soggetto e di rendere contabilizzabile il suo godimento dentro
l’illusione della sua autonomia dagli imperativi del discorso sociale”. Più di un’ortopedia
sociale, senza che possa essere avvicinato a un “effetto naturalizzazione”,
l’imprinting agisce grazie alla “produzione incessante di scenografie immaginarie che
conducono e stabilizzano socialmente i flussi soggettivi di valorizzazione”. Ma
soprattutto l’imprinting non si produce “per vocazione intrinseca a partire dalla
relazione tra soggetto e lavoro”, il suo epicentro “si sposta dalla forza-lavoro alla forzavalore principio di valorizzazione de-territorializzato e diffuso entro l’intera gamma
delle espressioni di flusso della soggettività sociale”.
Lavorare per il lavoro
Tale costruzione ha il sommo pregio, a mio avviso, di portarci fuori da chiavi di lettura e
istituzioni segnatamente maschili, istituzioni sociali profonde che hanno retto l’universo
fordista, le strutture di un mondo che i nuovi salti tecnologici del capitalismo neuronale
demoliscono, mentre dicotomie e separazioni sfumano, senza lasciare eccessivi
rimpianti: fabbrica, lavoro, famiglia, adieu. L’accento, voglio ancora sottolineare, posto
sull’ambito della circolazione consente di notare come il valore si generi soprattutto al
di fuori di una dinamica salariale, a partire da una relazione sociale di tipo extrasalariale
che non ha mai trovato espressione nel contratto sociale e sessuale, tutto sbilanciato
dal lato della produzione, cioè dal lato che per un secolo ha interessato il capitale
attraverso un processo di prevalente sussunzione reale, invisibilizzando il resto, come il
femminismo ha assiduamente segnalato. Penso si possa notare una maschilizzazione
dell’esclusione, connessa a una torsione delle precedenti gerarchie esistenti tra
produzione e riproduzione e direttamente indotta dalla crisi della società salariale.
Ovviamente, mi rendo conto che la crisi della società salariale e dei sistemi a essa
correlati non è priva di effetti perversi (il generalizzarsi del lavoro in regime di gratuità;
il crescere delle diseguaglianze…), ma per non viverla come lutto, anzi, meglio, per
scalarla, non possiamo che virare, a mio parere, in modo sempre più deciso, verso la
predominanza ribelle di spazi riproduttivi autodeterminati, al centro della società della
conoscenza, un “fuori” come un’opportunità per tracciare zone di soggettivazione
meno facilmente governabili.
La crisi della società salariale è il culmine della rappresentazione di come il lavoro sia un
involucro da rideclinare, svuotato dagli atavici automatismi di rapporto con il capitale
cioè della sua finalità centrale (lo scambio tempo-denaro). Il suo culto raggiunge il
parossismo proprio mentre costringe a voti di povertà nel lavoro (working poor)
e al lavoro per il lavoro– working for work. Da un punto di vista politico è fondamentale
un processo di analisi e consapevolezza di questi processi, che significa, per il soggetto,
cominciare con l’ammettere la condizione di irrealizzazione che ne deriva, l’inutile
fatica, appunto, il cui esito imprevisto è il costruirsi dell’autonomia del soggetto.
Politicamente centrale appare approfittare di tale situazione per decostruire la
categoria del lavoro, per immaginare vie di uscita dalle paradossali schiavitù
autoimposte del lavorismo precario, pure alle prese con aspettative continuamente
decrescenti.
Del resto, ricorda con grande chiarezza Stefano Lucarelli nel secondo capitolo,
“L’esplosione del rapporto salariale”, “il capitalismo, per estrarre plusvalore deve
funzionare attraverso le norme. La definizione del rapporto salariale, anche e
soprattutto durante, il fordismo, ha richiesto una grande varietà di dispositivi giuridici,
organizzativi e istituzionali”. Il trasformato impianto della prospettiva del capitalismo
cognitivo rompe con tali dispositivi e fa sì che il lavoro riappaia in forme nuove perché
al capitale occorre ottenere una “mobilitazione ed una partecipazione attiva
dell’insieme delle conoscenze e dei tempi di vita dei salariati”. L’esplosione della
dinamica salariale e i capital gains riferiti alle attività reali che si assottigliano ma
reggono ancora un po’ negli anni bui della crisi permanente dentro un patto
intergenerazionale destinato a esaurirsi (la casa dei nonni) mostra anche la afasia di
strutture di welfare attualmente inadeguate, politiche che non ragionano abbastanza
seriamente sulla attuale mescolanza tra tempi di lavoro e tempi di vita e dunque insiste
sulla necessità di rivendicare fortemente nuove dimensioni per la distribuzione
monetaria.
Come fare, in tutto questo, un passo in avanti anche rispetto a ciò che Jason Read
chiama “la sussunzione reale della società”, come ricorda Emanuele Leonardi, e che
non sembra bastare perché non affronta la crisi del paradigma salariale? Leonardi, nel
denso terzo capitolo, “Individuazione, capitale umano e lavoro gratuito. Gilbert
Simondon all’Expo di Milano”, prova a indicare un punto di contatto tra l’individuazione
di Simondon e le analisi di Carlo Vercellone sulla rendita del capitale che cresce sulla
cattura del General Intellect e sulle esternalità positive prodotte dalla forza
invenzione propria della cooperazione sociale, elementi che si sottraggono a ogni
misura: laddove il capitalismo attuale interviene sui processi di individuazione
“inducendo i soggetti a individuarsi in conformità a prescrizioni prestabilite e ben
delimitate, esso può stabilire una misura del valore socialmente prodotto da questi
soggetti”, ricorrendo a una norma di inclusione differenziale. Non più, allora,
“omogeneità spaziale, temporale, soggettiva” fondata sulla grammatica del lavoro
salariato – e, aggiungerei, sulla divisione sessuale del lavoro e dei ruoli di genere e sulla
rigida separazione tra produzione e riproduzione. Per descrivere il presente del
capitalismo nella sua fase cognitiva è necessario ricorre a un nuovo apparato
concettuale che consenta “prima di disgiungere e poi di collegare un determinato modo
dello sfruttamento sulle entità individuate (sussunzione formale e reale) ed un
altrettanto determinato modo di sfruttamento sui processi di individuazione
(imprinting)”. I quali intervengono proprio per ovviare all’esplosione del rapporto
salariale.
Ecco il nuovo passaggio, argomenta Leonardi citando Bernard Stiegler,
dalla proletarizzazione salariale alla proletarizzazione algoritmica “un regime di verità
anticipatore, capace di modulare le potenze di agire prima che esse si diano” che insiste
direttamente sul processo di individuazione collegato al lavoro gratuito, cioè alla
“disconnessione tra salario come istituzione e impiego come obiettivi politici
largamente condivisi”. Critica dello psicopotere e del controllo per Stiegler, critica alle
nuove frontiere dello sfruttamento che inglobano le componenti riproduttive della vita
nella prospettiva degli autori di questo libro.
Il ritorno alla società salariale non è possibile, forse neppure desiderabile, sottolinea
Leonardi. Tuttavia, proprio la messa in discussione del salario-istituzione “è condizione
necessaria per il rilancio dell’immaginazione rivoluzionaria”, aggiunge, seguendo il
visionario André Gorz e anche il concetto di classe andrebbe rivisto, alla luce dell’ipotesi
dell’imprinting, “cosicché possa incorporare le voci della riproduzione divenuta
produttiva: femminismo, pratiche anti-razziste, queer, ecologia”. Oppure, più avanti,
nelle conclusioni al testo, gli autori concludono insieme e con Deleuze, “ogni volta che
si produce un mutamento nel capitalismo si verifica anche un movimento di
riconversione soggettiva con le sue ambiguità ma anche con le sue potenzialità”.
Il sapere del corpo, il ruolo della relazione
Consapevoli che tutto vada storicamente contestualizzato e che vadano evitati eccessivi
salti in avanti e scorciatoie, Chicchi, Leonardi e Lucarelli aprono a una fondamentale
ricerca semantica che è ricerca analitica e critica e di senso, oltre che di stili e
modalità politicheche possano diventare dissidenti, non solo sottrattive ma resistenti e
affermative, rispetto alla logica individualista proprietaria nella quale si pretende
di imprimerci, riscoprendo viceversa l’essere in comune antagonistico contrapposto a
“quello privato e deprivato del capitale”. Ritengo tutto questo importante per
incoraggiare e sviluppare un’analisi politica sulla condizione contemporanea e
propedeutico all’individuazione di soluzioni immanenti che possano rispondere alla
domanda che qui si pone, alla fine: “Ma allora che fare? Come è possibile sovvertire un
sistema che si pone anche esso come costitutivamente sovversivo?”.
Penso allora a Catherine Malabou e dico con lei “in seno alla costante circolazione tra il
neuronale, l’economico, il sociale e il politico che caratterizza la cultura occidentale
oggi, l’individuo deve esattamente stare a metà tra la presa di forma e la dissoluzione
della forma”[8]. La forgiatura foucaultiana contiene al proprio interno la propria stessa
contraddizione e questa resistenza è ciò che rende possibile la trasformazione. Perciò è
necessario lavorare sulla consapevolezza politica dell’essere, oggi, e dell’essere insieme,
sopra ogni cosa. Per battere modelli di sofferenza che finiscono per essere identificati
solo come malessere psichico individuale e non sociale, da un punto di vista politico
sarebbe necessario riflettere su un possibile aggiornamento delle pratiche, che punti a
sostenere processi di potenziamento psicosociale e comunitario, che rinforzi perciò la
progettazione autonoma delle soggettività. L’urgenza di una riappropriazione politicopratica del corpo e della dimensione riproduttiva – elementi che condizionano
profondamente l’inconscio – di un “sensorio comune” per mezzo del quale è possibile
avvicinarsi alla cognizione impermanente e comune del mondo – ci consentirebbe di
recuperare quel legame con la realtà sociale che sottostà comunque all’astratto
panlogismo della macchina digitale e ai processi impressivi sulla soggettività agiti dal
neoliberismo.
Questo assetto segnala soprattutto l’orizzonte del rifiuto di ogni dispositivo di
subordinazione a modelli comportamentali astratti, il rischio di idealizzarli, di venirne
sopraffatti o, appunto, di “naturalizzarli”. Oppure, ancora, di fare prevalere un
“simbolicismo”, ovvero la risignificazione delle pratiche all’interno di un ordine
simbolico, che tutto pervade e tutto determina, di cui il soggetto è fulcro socialmente
disincarnato. Si tratta allora, per usare ancora le parole di Catherine Malabou, di
trovare un equilibrio tra l’affermazione delle scienze cognitive che finiscono per
proporre la “naturalizzazione assoluta della cognizione e dei processi mentali” e
l’affermazione del carattere “perfettamente trascendentale del pensiero”[9] che non
viene mai condotto a determinazioni biologiche.
I concetti di mente, personalità e relazione vanno ripensati. La ricomposizione del
corpo-mente e del suo sapere è antitetica ai “processi impressivi”, si potrebbe
rifletterci… Il corpo mantiene il senso della propria caducità, fragilità, stanchezza, il
senso dell’interdipendenza con altri corpi cancellato dall’autorappresentazione
ipercompensatoria della personalità narcisistica (alter ego di forme di depressione
reattiva) e performante stimolata dai dispositivi neoliberali. La prassi politica deve
pertanto essere dedicata alla costruzione di modelli alternativi di soggettività e di
collettività, all’interno dei quali la relazione può essere un modo di spezzare le forme
della soggettivazione proprietaria. Operare per una contro-rimozione della rimozione
del corpo. Tecniche del sé contro un’etica prescrittiva, per usare termini della filosofia
foucaultiana, solo apparentemente estroflessa poiché, in realtà, il vero tragico
piegamento della soggettività del presente è verso la chiusura in un privato che le classi
proletarie del passato hanno sempre rigettato. Problematica anche strettamente
connessa con la soggettività del lavoratore e della lavoratrice cognitivi.
Tradotto, diventa urgente “politicizzazione dei sintomi”, volontà di fare emergere nel
pubblico – ma politicamente – quell’indicibile che oggi assume solo i toni dello
spettacolo e della “pornografia delle emozioni” e che invece deve indurre a scoprire “le
proprie vulnerabilità che possono diventare punti di forza, elementi scelti e curati del
proprio carattere”[10]. Detto altrimenti, “dobbiamo cogliere i processi attraverso i quali
alcune questioni relative a zone di privatezza discorsiva irrompono, al punto da
diventare focolai di contestazione generalizzata”[11]. Bisogni porosi o sfuggenti indice
di un rilevante spostamento “socio strutturale dei conflitti che separano le sfere di vita
classificate come ‘politiche’, ‘economiche’, e ‘domestiche’ o ‘personali’”[12]. Questo,
credo, è il passaggio da recuperare, senza dimenticare che l’espropriazione è da sempre
fattore immanente alla produzione capitalistica.
Certamente, risolvere il nodo del reddito, tramite un reddito di base necessariamente
incondizionato o forme di welfare del comune, ci porterebbe molto avanti. Se va notato
che il senso di incertezza imposto dal regime biopolitico non facilita forme di
autorganizzazione collettiva centrate sulla riappropriazione della riproduzione sociale
che stiamo da più parti evocando, focalizzare l’attenzione sui bisogni dell’esistenza, nel
crescere delle povertà, può portarci a recuperare quel senso di interdipendenza tra
soggetti che invece viene disperso.
Il tema del ruolo del valore d’uso rispetto al valore di scambio, messo a critica da
Chicchi, Leonardi e Lucarelli nelle loro conclusioni al libro, va effettivamente discusso e
precisato per non “farne un’ontologia” e non incorrere in equivoci, consapevoli che
ogni epoca, momento, dimensione territoriale, rappresentano modelli diversi del
rapporto “tra bisogno e uso”. Evidentemente, va accolto l’invito a non cadere in una
specie di sogno arcaico pre-capitalistico, luogo “sgravato dall’alienazione e dallo
sfruttamento”. All’interno di tale campo concettuale, tuttavia, voglio notare che risiede
la consapevolezza delle donne che sanno che nell’invisibilità del lavoro sta la
generalizzazione del segreto di tutta la vita capitalistica: da sempre la fonte più
importante del plusvalore sociale è il lavoro non retribuito. Forse la crisi della società
salariale (dell’ergopotere) può essere meno traumatica e forse meno cogente se
guardata da questa prospettiva e apre piuttosto alla possibilità di una critica serrata al
lavoro-guscio-vuoto nel senso segnalato da Gorz, per non dire della critica al
capitalismo e al contratto sessuale della economia politica femminista. Dunque, si
tratta di osservare la generalizzazione del plusvalore (un plusvalore sociale, si potrebbe
dire, che oggi tende a originare anche dal lavoro concreto e dal suo valore d’uso), per
“fornire spiegazioni endogene della crisi, ponendo l’antagonismo tra circolazione e
produzione, tra accumulazione e riproduzione come essenziale all’esistenza stessa del
capitalismo”[13] e di farne un serio campo di battaglia.
Per cogliere l’invito degli autori, per seguirli lungo il solco tracciato, questo, mi sembra,
potrebbe essere il terreno aggiornato delle lotte attuali per uscire dall’impasse, tra
l’obbligo dei processi di imprinting del capitalismo contemporaneo e il diritto a
elaborare autonomamente il proprio presente e il proprio futuro. All’ambito della
riproduzione dovremmo guardare come specchio delle nuove ragioni che il capitalismo
pretende di avere sulla vita ma anche come a un continente emergente, con il suo
portato di conflitti inediti e di pretesa di nuove condizioni dell’esistenza, contro un
destino di sfruttamento generalizzato in regime di gratuità, contro la governamentalità
necro-politica che si nutre della vita stessa.
NOTE
[1] Pedro Domingos, L’algoritmo definitivo, La macchina che impara da sola e il futuro
del nostro mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pag. 307
[2] Franco Berardi Bifo, “Senza madri”, in Salvatore Cavaleri, Calogero Lo Piccolo,
Giuseppe Ruvolo (a cura di), L’inutile fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos
capitalistico contemporaneo, Mimesis, Milano 2016, pag. 93
[3] André Gorz, “Il valore del capitale immateriale è una finzione borsistica” (intervista
di Denis Clerc e Christophe Fourel), in Alternatives économiques, 212, marzo 2003, pag.
68
[4] Melinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera,
DeriveApprodi, Roma 2015, pag. 37
[5] Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Enzo Grillo (a
cura di) , La Nuova Italia editrice, Firenze 1969, pag. 234
[6] Rosi Braidotti, “Postfazione” in Melinda Cooper, La vita come plusvalore.
Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, Ombre Corte, Verona 2013, pag.
117
[7] Gilles Deleuze, Felix Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi,
Roma 2006, pag. 682
[8] Catherine Malabou, Che cosa fare del nostro cervello, Armando editore, Roma 2007,
pag. 93
[9] Ibidem, pag. 108
[10] Ippolita, Anime elettriche, Jaka Book, Milano 2016, pag. 117
[11] Nancy Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo stato alla crisi
neoliberista, Ombre Corte, Verona 2014, pag. 78
[12] Ibidem, pag. 83
[13] George Costantine Caffentzis, “Sulla nozione di crisi della riproduzione sociale: un riesame
teorico” in Maria Rosa Dalla Costa, Giovanna Dalla Costa, Donne, sviluppo, lavoro di riproduzione,
Franco Angeli, Milano 1996, pag. 205
Milano, maggio 2016