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10 N. 7/8 Gli elementi che fanno la canzone politica: ritmo, testo, comunità adottante e uso Bella ciao e le altre di Franco Fabbri Segnali - Musica Q ualcuno potrebbe domandarsi se la canzone politica esista ancora. Sarebbe legittimo: i generi musicali nascono, vivono, scompaiono, a volte del tutto, a volte provvisoriamente. Per esempio, c’era qualche esponente della canzone politica al concerto del primo maggio a Roma, promosso dai sindacati confederali? Quanti ce ne sono stati, da quando il “concertone” è stato istituito nel 1990? E non intendiamo l’occasionale cantautore, gruppo rock, rapper, noto per le sue posizioni politiche e autore di qualche canzone “di parte” (uno o due ci sono sempre): no, qualche cantante, musicista, che il pubblico, sulla base delle convenzioni del genere, riconosca come uno/una che fa “canzone politica”, quel contesto di “canzoni politico-popolari” al quale già si riferivano Gianni Bosio e Roberto Leydi in un articolo del 1965 pubblicato sul “Nuovo Canzoniere Italiano”. Il genere al quale ascriveremmo, per fare qualche esempio nazionale e internazionale in ordine cronologico sparso, Ivan Della Mea, Billy Bragg, Daniel Viglietti, Gualtiero Bertelli, Dominique Grange, Fausto Amodei, Silvio Rodríguez, Alessio Lega, Joan Baez, Stefano Giaccone, Pete Seeger. E Giovanna Marini, che al “concertone” è stata invitata una volta, perché aveva appena partecipato a un album con Francesco De Gregori. Alcuni non ci sono più, da tempo, altri sono in piena attività ancora oggi, ma dal 1990 in poi ci sarebbe stata più di un’occasione per invitarne anche solo un paio, no? Eppure, se volessimo esaminare un indizio, una traccia, un segno di quanto la canzone politica sia ancora importante basta leggere una breve cronaca dalle pagine di “la Repubblica”: “Una festa di fine anno per i bambini della scuola elementare, con la consegna dei ‘diplomi’ per i più grandi e giochi per i più piccoli. E con un’esibizione collettiva, provata per mesi: tante canzoni, tra queste Do it now, un brano registrato per la prima volta in Belgio nel 2012 e diventato un inno del movimento ambientalista, tornato d’attualità in questi mesi con Fridaysforfuture. Ma, c’è un ma: quel brano è stato scritto sulle note di Bella ciao. E così alcuni genitori della scuola elementare Salvo D’Acquisto di San Donato Milanese si sono lamentati con il dirigente scolastico: ‘È una canzone politica, non va bene, così si indottrinano i bambini’. Lamentele che il dirigente Carlo Massaro ha respinto al mittente: ‘Un atteggiamento ideologico fuori luogo, quella canzone rappresenta un movimento di sensibilizzazione sul clima che fa parte della nostra azione didattica, non c’entra nulla con la politica, e i bambini di tutta Europa la cantano’”. Contrapposizione davvero mirabile tra la mentalità da caccia alle streghe di qualche genitore, preoccupato che attraverso la melodia e il ritmo di Bella ciao (travestita da inno ambientalista) si inoculi nei poveri bambini il virus del comunismo, e la candida certezza del dirigente scolastico, convinto che la lotta ambientalista non c’entri nulla con la politica. Ma è da anni che si va avanti così: i “rossi” cantano Bella ciao, genitori e sindaci di destra stigmatizzano e proibiscono (anche in occasione del 25 aprile), gli antifascisti si mobilitano, invocano la libertà di espressione sancita dalla repubblica nata dalla Resistenza. Strano destino per una canzone a suo tempo cantata da poche frange di partigiani e badogliani sull’Appennino, a lungo oscurata dagli inni ben più espliciti delle brigate garibaldine: nessuno oggi sembra notare che mentre Fischia il vento invocava “la dura sorte del fascista vile e traditor”, in Bella ciao non c’è mai un solo accenno esplicito ai fascisti o al fascismo, e il nemico è “l’invasor” (è una canzone antinazista, dunque: strana coda di paglia dei “destri” nostrani). Bella ciao emerge a metà degli anni sessanta, anche grazie al successo-scandalo dello spettacolo omonimo presentato da Roberto Leydi e Pippo Crivelli, con testi di Franco Fortini, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel giugno del 1964. La proposta di quello spettacolo era stata accolta da Giancarlo Menotti nello spirito della svolta politica verso il centro-sinistra (il governo Moro della fine del 1963): Bella ciao si candidava a inno semiufficiale di un antifascismo moderato, più patriottico che politico, lontano dall’intransigenza comunista lasciata all’opposizione. E c’era poi un aspetto culturale, decisivo per i promotori: era stata scoperta una versione “delle mondine”, un canto di lavoro, e se era vero che quella precedeva la versione partigiana, tutto convergeva, incoronando uno spettacolo dedicato in larghissima parte a canti di lavoro e di emigrazione e facendolo culminare con la presa di coscienza politica della Resistenza. Peccato che non fosse vero: mesi dopo un mondino e sindacalista del mantovano, Vasco Scansani, scriveva una lettera a “l’Unità” rivelando di aver scritto lui il testo “delle mondine” sulla melodia della Bella ciao resistenziale, nel dopoguerra, perché la cantasse la sua amica Giovanna Daffini. Consultatosi con Bosio e Leydi, il direttore del quotidiano decise di non pubblicare: l’incidente fu messo sotto il tappeto, e lì sostanzialmente è rimasto (difficilissimo trovare la “vera” storia di Bella ciao ancora oggi, se non nel volume di Cesare Bermani “Guerra guerra ai palazzi e alle chiese...”. Saggi sul canto sociale, Odradek, Roma 2003). Certo, a Bella ciao giovano anche le qualità musicali: la facile cantabilità, basata su qualche salto di quarta e brevi frammenti di scala, compresi nell’ambito di una nona, e la scansione incitativa, simile al “passo... cadenza!” della marcia o a certi giochi infantili, caratteri riscontrabili in vari filoni di canti popolari italiani e anche di musiche ballabili (impressionante la somiglianza nell’incipit e nel ritmo con Koilen, un brano klezmer inciso nel 1919). Se teniamo conto che le canzoni più famose della Resistenza erano traduzioni/adattamenti di canzoni russe, o erano basate con testi nuovi (tecnicamente, delle parodie) su marce fasciste (lo erano La brigata Garibaldi e Valsesia), si capisce la strada che ha fatto Bella ciao dalla semiclandestinità al successo internazionale, e anche dall’essere l’inno preferito dagli antifascisti moderati e dai boyscout cattolici fino a diventare paradigma dell’opposizione antisovranista. Una vicenda non dissimile è quella di L’estaca, del cantautor catalano Lluís Llach, composta nel 1968 come canto antifranchista, poi adottata dal sindacato Solidarność in Polonia negli anni ottanta, poi dalla rivoluzione tunisina nel 2011, e tuttora inno degli indipendentisti catalani. Ciò che “fa” una canzone politica, del resto, non è soltanto una certa combinazione di testo e musica, con i relativi contenuti: è il risultato dell’accoglimento da parte di una o più comunità, che ne amplifichino il significato e che ne facciano uso. Sempre o quasi sempre questo avviene ponendo delle condizioni che implicano contrasti, ad esempio sull’appartenenza di classe o sul contesto materiale ed economico della produzione, come avvenne ad esempio nella contrapposizione fra la “linea verde” del beat “di protesta” italiano degli anni sessanta, e la contemporanea “linea rossa” sostenuta dal Nuovo Canzoniere Italiano, o come nelle polemiche contro i city billies, gli interpreti urbani e borghesi di canzoni folk e topical songs, ai tempi del folk revival statunitense, soltanto qualche anno prima. Sotto questo aspetto, il concetto di “canto sociale” sotto il quale ancora oggi si rubrica la canzone popolare e una parte di quella politica (quella “di classe”) è sintomo del tutto presente di quelle contraddizioni. Ciò che manca oggi, però, è proprio la presenza di comunità diffuse che accolgano e che soprattutto usino la canzone politica, se si eccettuano cerchie abbastanza marginali di militanti, e fatti salvi gli schemi un po’ rudimentali dell’uso di Bella ciao a mo’ di bandiera o di lenzuolo. Di canzoni politiche se ne creano ancora, cantanti e autori attivi ce ne sono, e non mancano anche oggi quelle canzoni nate all’interno delle cerchie industriali, e che pure le potrebbero travalicare per la loro intensità (come fu, negli anni settanta, per Ohio di Neil Young, Imagine di John Lennon, e molte altre). Il fatto è che nessuno le canta. Nelle manifestazioni si è delegata la funzione musicale ai sound systems montati su camion (quando ci sono), forse pensati per attirare i “giovani”. E mancano anche gli slogan (o come si chiamano adesso, forse con qualche termine del marketing un po’ più aggiornato). Se ci sono, hanno il tono stentato di un rituale non partecipato, come un kyrie eleison snocciolato da uno che dice messa per obbligo: cominciano tutti allo stesso modo, lenti, strascicati, con una scansione incitativa che non incita proprio a nulla. In un’epoca in cui tutti i politici vengono addestrati da coach esperti, che non possono mancare di sottolineare l’efficacia delle emozioni, le manifestazioni di massa sono taciturne o pettegole come un corteo funebre, accompagnate dalla lettura di messaggi sul telefonino. C’è qualche traccia di un movimento in controtendenza, offerta dal numero crescente di cori che si formano in varie parti d’Italia, e il cui repertorio spesso è ricco di canti popolari, di inni e di canzoni politiche: si tratta per lo più di attività del tempo libero di anziani che ricordano quelle canzoni dai tempi della gioventù. Attività che per ora non fanno paura a nessuno. Può essere che continui a essere così, ma non possiamo dimenticare che i più vasti movimenti di protesta di cinquant’anni fa, accompagnati da canzoni cantate in coro da migliaia e migliaia di persone, furono preceduti da anni nei quali quelle stesse canzoni erano coltivate da cerchie striminzite di appassionati, in piccoli scantinati fumosi. We Shall Overcome. prof.fabbri@gmail.com F. Fabbri ha insegnato popular music all’Università di Torino