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40 Mirella Schino Viaggio antropologico, tappa zero: Teatro Due Mondi e Terzo Teatro Quello che propongo è un ritratto: una foto di gruppo del Teatro Due Mondi preso, come vedremo, in un momento particolare e difficile della loro storia. È anche un tentativo di studiare il teatro da un punto di vista che mi sta a cuore, ma che è inusuale, un punto di vista dal quale quotidianità, relazioni interne ed esterne, esperienze e valori condivisi, modalità di lavoro artistico e non artistico sono tutte parte integrante, in egual misura e a pari diritto, di quel che chiamiamo “teatro”. E non perché anche gli aspetti definiti “extra-spettacolari” sono interessanti, ma perché lo studio del teatro dovrebbe rispecchiare la stessa mancanza di soluzione di continuità tra arte e vita che caratterizza tanta parte del teatro agito. E che ha sicuramente caratterizzato il teatro di gruppo, quello che è spesso chiamato Terzo Teatro1. Sulla base di questo pensiero, un paio di anni fa ho progettato una ricerca, che ho battezzato “viaggio antropologico”: una ricerca che riguarda in primo luogo relazioni, abitudini, modi di vivere, modi di lavorare, modalità di creazione, di allenamento, di spettacolo, e valori interni a una compagnia con stabilità nel tempo. Per far questo, volevo incontrare persone e gruppi di teatro. Il Teatro Due Mondi, che già conoscevo, è stata la tappa zero. Per me, è una ricerca essenziale, è la ricerca di un modo di studiare il teatro che si interessa al teatrante anche in quanto parte di un gruppo di individui, di una comunità, con cui intrattiene relazioni sia artistiche che di altro genere: affettive, intellettuali, politiche, di valore e anche, naturalmente, sentimentali e sessuali – e da quest’ultimo punto di vista il Teatro Due Mondi è un caso particolarmente interessante, essendo prevalentemente endogamico, cosa che però qui non ho trattato, per rispettare 1. Molti anni fa, nel mio Il crocevia del ponte d’era. Storie e voci da una generazione teatrale. 19741995 (Roma, Bulzoni, 1996), ho ricostruito attraverso le voci delle persone dell’allora Pontedera/ teatro la storia del loro gruppo. La testimonianza di queste persone, attori, regista, organizzatori, a tutti gli effetti coautori del libro, ha fatto affiorare un tessuto fondamentale del quale fa parte tanto il senso che il teatro ha avuto per i singoli individui e per l’intera generazione quanto le complicate relazioni personali che turbano, o forse arricchiscono, la vita di un gruppo teatrale e insieme la sua opera. Poiché non me ne sento l’unico autore, posso dire che ne è risultato un libro nel bene e nel male unico. Mentre lo scrivevo, la sua peculiarità rendeva scettici i miei colleghi e maestri negli studi, che temevano di vedermi seppellita tra pettegolezzi privati e interminabili colloqui. Tanto più mi è stato prezioso l’appoggio di Eugenio Barba, che ha intuito e chiarito la mia confusa linea di ricerca, e mi ha appoggiato, fin dagli inizi. 185 2009-2019 la loro profonda discrezione. L’altro desiderio che avevo ben chiaro era quello di raccogliere voci di teatranti (e di riscriverle per la carta2, intendendo con questo sia testimonianze soggettive che modi di parlare, da cui spesso traspaiono anche modi di pensare. Sarebbe fuor di luogo scomodare le fonti orali per questo piccolo progetto, ma era per me importante conservare e presentare le parole, le espressioni e le testimonianze di chi il teatro lo fa, e non limitarmi solo a considerazioni o riflessioni mie. Mi sembrava anche un buon modo per rispettare e restituire, mediante l’incrocio tra le voci, il loro sovrapporsi, il più ovvio dei volti del teatro, che forse è anche uno dei più difficili da preservare e mostrare: il suo essere un’arte prevalentemente al plurale. Un’arte resa complicata – e complessa – da questa pluralità. Qui sto dando conto della tappa zero di un viaggio che voleva essere molto più lungo. Motivi esterni alla mia volontà mi hanno impedito per un paio di anni di continuare. In questa tappa zero sono stata accompagnata e anche indirizzata da Raffaella Di Tizio. È stata lei, infatti, a darmi la spinta finale, a insistere per iniziare il viaggio partendo da un teatro amico, da un teatro con cui fossimo in confidenza, che fosse aperto nelle sue risposte, e disponibile a sacrificare, per noi, tutto il tempo che ci sembrasse necessario. Aveva ragione, forse un viaggio del genere ha senso solo se accompagnato da una fiducia profonda, altrimenti rischia di diventare una intervista tra le altre. La devo ringraziare non solo per questo suggerimento, ma anche per la pazienza con cui ha sbobinato due giornate di chiacchiere e racconti, e le ha trasformate in sessantasei pagine a spazio uno. Dicono che la domanda che più spesso si fa agli antropologi è: quando parti? Noi, Raffaella e io, avevamo, allora, un gran desiderio di partire. Siamo arrivate a Faenza nel pomeriggio del 19 settembre 2017. La sera, abbiamo mangiato i tortelli che Angela e sua madre avevano preparato per noi e per la gente del teatro. “Angela”, è Angela Pezzi, attrice, uno dei tre fondatori di questo teatro che ancora lo abitano. Il giorno dopo, seduti in circolo, prima in sala e poi fuori, al sole, è iniziato un colloquio con tutto il teatro, regista e attori e drammaturgo, che è durato due giorni, intervallato dalle prove degli spettacoli, a cui pure abbiamo assistito. Quello che è stato detto allora lo leggeremo tra poco. Come ritratto è parziale, un primo frammento: mancano gli spettacoli. Conto che ne parlino altri interventi. 2. Sto prendendo a prestito il titolo di uno scritto di Gigi Bertoni (Riscritti per la carta. Lettera sui miei venticinque anni di lavoro nel Teatro Due Mondi, «Teatro e Storia», n. 30, 2010, pp. 391-410, ora in parte confluito nel volume (indispensabile per una storia dei Due Mondi) Gigi Bertoni, Il pane degli attori. Trentacinque anni di lavoro col Teatro Due Mondi, a cura di Raffaella Di Tizio, Faenza, Teatro Due Mondi, 2016. 186 40 Per questo colloquio non ci eravamo preparate domande, ma avevamo in testa qualche tema. Come: punti di riferimento stilistici; ricerca artistica e poetica particolare del soggetto interrogato; sistema di prove in uso, forme eventuali di allenamento, punti di riferimento artistici nel passato remoto o nel passato prossimo; importanza di antenati (cioè di punti di riferimento lontani, nella storia), e importanza di padri (cioè artisti o gruppi o movimenti che possono aver condizionato e determinato la nascita); momento della nascita (primi giorni di lavoro di un artista o di un teatro), e (eventuale) momento della vecchiaia (dell’artista o del teatro); momenti di malattia (cioè crisi dall’interno o dall’esterno); struttura sociale interna (paghe, ruoli, orari di lavoro, relazioni personali), configurazione del ruolo del “capo”. Non avevamo intenzione di farne un questionario perché quello che ci importava di più era vedere cosa succedeva in un lungo chiacchierare un po’ a ruota libera – e, difatti, senza che dovessimo ricorrere a domande, alcuni di questi temi sono affiorati da soli, e altri, invece, si sono rivelati come evidentemente poco importanti. Quasi subito si è delineata una struttura del parlare (che è stato sempre in gruppo), come se ciascuno si sistemasse in ruolo consolidato, ma non privo, per me, di sorprese. Angela, per esempio, che, insieme ad Alberto, era nel primo nucleo, nel gruppo di giovanissimi fondatori del teatro, ha un ruolo universalmente riconosciuto e accettato di feconda e implacabile seminatrice di dubbi. Ma forse non solo questo, c’è anche altro, capacità di autocritica, consapevolezza di fragilità – che colpisce, in una attrice così intensa - e misura attenta delle forze e del potenziale. Alberto Grilli è il regista, in quanto tale è spesso il primo a prendere la parola, è colui che mostra più certezze. Ma viene difficile identificarlo con quel capo così importante nei teatri di gruppo degli anni Settanta, e i Due Mondi sembrano procedere soprattutto mediante assemblea, discussioni continue e decisioni collettive. Renato Valmori è il contraltare ironico, anche questo è un ruolo ben preciso di demistificatore, lo spillo che buca il palloncino dell’enfasi, e forse anche della troppa serietà o dolore. Però al tempo stesso è riconosciuto come il protettore della memoria e della storia del gruppo. Tanja Horstmann, la più recente dei “vecchi”, presenta un leggero dissidio modernista, e però insieme la consapevolezza di chi ha scelto una situazione per certi suoi valori consolidati. Maria Regosa è la più silenziosa, la più enigmatica. Ma ricordo la sorpresa che ho provato, una volta, sentendole fare una lode appassionata di uno spettacolo del suo stesso gruppo del quale non aveva fatto parte, Cuore, 2011. Maria, per me, viene a collocarsi come l’enigmatica passione del teatro. Poiché questo intervento fa parte di un libro sui quarant’anni del Teatro Due Mondi, non metterò informazioni su di loro – si evincono, peraltro, dalle loro 187 2009-2019 parole – ma solo qualche dato di base: Il Teatro Due Mondi è stato fondato nel 1979 a Faenza (dove tuttora vive, e dove ha sempre vissuto) da un gruppo di giovanissimi, quasi ragazzi. Delle persone che attualmente lo compongono Alberto Grilli, regista, e Angela Pezzi e Renato Valmori, attori, sono stati tra i fondatori. Maria Regosa è entrata nel ’94, Tanja Horstmann nel 2001. Gigi Bertoni, drammaturgo interno della compagnia, lavora stabilmente con loro (e solo con loro, fa quindi parte del gruppo) dal 1983. Dagli inizi della collaborazione con Gigi sono nati venticinque spettacoli. I Due Mondi sono un gruppo di professionisti, vivono del loro lavoro. Hanno prodotto anche (ma non solo) spettacoli per ragazzi. Hanno costruito spettacoli al chiuso e spettacoli di strada. Uno degli aspetti indimenticabili del loro percorso è stato il lavoro con non attori: la loro è, come spesso dicono, una casa, aperta, attenta soprattutto a chi una casa non ce l’ha. Hanno pertanto lavorato: in comunità di recupero per tossicodipendenti; in orfanotrofi con bambini e adolescenti (Serbia, Bosnia e Albania); con gruppi di cittadini che vivono ai margini (periferie di Palermo, favelas in Brasile). Nel 1994, hanno diretto a Brescia tre laboratori, conclusi in un grande spettacolo di strada (Io voglio sapere) per ricordare la strage di Piazza della Loggia. A partire dal 2010 è iniziato un progetto con le operaie licenziate della fabbrica Omsa, che ha portato a una serie di azioni di strada, con cui le operaie hanno marciato non solo a Faenza, ma in diverse altre città (Brigate Omsa); a un video (Licenziata!, 2011, realizzato dalla Cooperativa Sunset di Forlì, in collaborazione con la giornalista videoreporter Lisa Tormena); a uno spettacolo più strutturato (Lavoravo all’Omsa, 2013). Nel 2011 è iniziato un lavoro indirizzato ai profughi e alla loro inclusione sociale, che ha portato, tra le altre cose, allo spettacolo Dalle onde del mondo, a numerose Azioni in strada, a progetti Europei, come il più recente, Mauespringer (2018-2019-2020), al momento in corso, un lavoro di cooperazione artistica internazionale con compagnie francesi, serbe, spagnole, tedesche. Nel 2018 hanno vinto il bando MigrArti promosso dal MiBact (Ministero per i beni e le attività culturali). Nel 2014, Alberto Grilli ha partecipato al progetto Accademia di strada a Nairobi, promosso da AMREF (African Medical and Research Foundation) per la creazione di una Scuola di Teatro per i bambini di strada di Dagoretti, un sobborgo di Nairobi, Kenya.3 3. Per una teatrografia del Teatro Due Mondi rimando al libro di Gigi Bertoni, Il pane degli attori, cit. Aggiungo invece un elenco completo dei lavori con i non attori: 2018: Senza confini_Mauerspringer (Faenza) laboratorio di teatro partecipato. Un progetto di cooperazione sul teatro di strada per Europa Creativa – col contributo della Regione Emilia Romagna – cofinanziato dal programma Europa creativa dell’Unione europea – col sostegno di ASP Romagna Faentina; Senza confini (Ravenna) laboratorio di teatro partecipato; La tempesta (Faenza e Roma) racconto a più voci sulle 188 40 Quel che nel corso della loro vita hanno chiesto, e chiedono, al teatro si evince dalle loro parole. Aggiungerò però qualche riga da una lettera aperta che Alberto Grilli ha scritto per i suoi attori in occasione del trentacinquesimo anniversario migrazioni fra teatro, danza, poesia; Progetto vincitore del Bando MigrArti-MiBACT 2018 – III edizione; Esiste ancora un mondo magico? (Cotignola); Il teatro di ogni giorno (Faenza) laboratorio di teatro partecipato rivolto a insegnanti e genitori; IMEG Innovatives und multiperspektivisches Methodentool für eine multikulturelle europäsiche Gesellschaft-Strumenti metodologici innovativi e multidisciplinari per una società Europea Multiculturale – KA2 partenariato strategico erasmus+ (Faenza, Vienna, Friburgo, Palermo). 2017: Senza confini (Faenza) laboratorio di teatro partecipato; Senza confini, edizione straordinaria (Ravenna) laboratorio di teatro partecipato; Senza confini, edizione straordinaria (Brescia) laboratorio di teatro partecipato; Le théâtre de rue comme outil pour l’inclusion social, laboratorio di teatro partecipato (El Kef, Tunisia); IMEG Innovatives und multiperspektivisches Methodentool für eine multikulturelle europäsiche Gesellschaft-Strumenti metodologici innovativi e multidisciplinari per una società Europea Multiculturale – KA2 partenariato strategico erasmus+ (Faenza, Vienna, Friburgo, Palermo). 2016: Senza confini (Faenza) laboratorio di teatro partecipato; Le staffette del lavoro (Faenza) un progetto partecipato a difesa di un diritto; workshop Borderless – Inclusive Theatre (Porsgrunn, Norvegia) Porsgrunn International Theatre Festival laboratorio di teatro partecipato. 2015: Senza confini (Faenza) laboratorio di teatro partecipato; Inklusion durch theater (Colonia, Germania) Progetto europeo. Laboratorio di teatro partecipato; Senza confini edizione straordinaria (Bergamo) laboratorio di teatro partecipato; Laboratori teatrali, programma di cooperazione decentrata-politiche minorili in serbia (Loznica-Kragujevac, Serbia) laboratorio di teatro partecipato per bambini; Ter ou nao ter Inclusão através do teatro Progetto europeo; Laboratorio di teatro partecipato (Porto, Portogallo) Festival Internacional de Marionetas do Porto; Inclusao atraves do teatro (Lisbona, Portogallo) Progetto europeo. Laboratorio di teatro partecipato; Le mas en scene (Vaulx-en-Velin, Francia) Progetto europeo. Un stage de pratique théâtrale pour une rencontre interculturelle au cœur de la ville; Le staffette del lavoro (Faenza) un progetto partecipato a difesa di un diritto. 2014: Accademia di strada di nairobi (Nairobi, Kenia) un progetto triennale di formazione dei formatori per un teatro di strada, all’interno del programma di AMREF Italia Children in need; Giving voice (Faenza) teatro per l’alfabetizzazione linguistica Workshop Grundtvig; Senza confini (Faenza) laboratorio di teatro partecipato; Workshop Unterwelt, (Colonia, Germania) Sommerblut – Festival der Multipolarkultur; Tanker om frihet-riflessioni sulla libertà, (Fredrikstad, Norvegia). 2013: Senza confini (Faenza) laboratorio di teatro partecipato; Incontri (Italia, Brasile, Bolivia, Portogallo, Francia) Progetto europeo (programma Youth in Action – azione: Youth in the World) finalizzato all’inclusione sociale di oltre 100 giovani provenienti da aree geograficamente (villaggi rurali della Bolivia) e socialmente (favelas brasiliane, quartieri periferici di Porto) disagiate di 4 diverse nazioni; Accademia di strada di Nairobi (Nairobi, Kenia) un progetto triennale di formazione dei formatori per un teatro di strada, all’interno del programma di AMREF Italia Children in need; Grenzenlos (Colonia, Germania) laboratorio di teatro partecipato. 2012: Al-masrah (Italia e Palestina) Progetto europeo. Scambio multiculturale fra attori contemporanei per rafforzare e consolidare il patrimonio artistico e a promuovere le capacità e il talento artistico dei giovani; Senza confini (Faenza) laboratorio di teatro partecipato; Carovana meticcia (Faenza) progetto di pedagogia per l’inclusione sociale dei profughi; Giornata della memoria (Faenza) Laboratori Scuole Medie con presentazione di spettacoli all’aperto. 2011: Quando il teatro incontra i profughi (Lugo) laboratorio interculturale per l’incontro e l’inclusione sociale dei profughi della Libia.; Senza confini (Faenza) laboratorio di 189 2009-2019 della fondazione del gruppo4. È una introduzione indispensabile al resoconto del nostro incontro: È un bel numero, 35, e se per una persona si può dire che è ancora giovane, nel mezzo della vita, per un gruppo di teatro è una meta difficile […]. Siamo riusciti a cambiare senza perdere il senso profondo che ci ha fatto iniziare. Qualcuno dirà che siamo insensibili al cambiamento, al contemporaneo, che cambiare è una qualità indispensabile per sopravvivere. Ma cambiare è anche trasformismo, opportunismo, a volte tradimento. […] Si può invecchiare rimanendo giovani, se si alimentano i sogni. E da sempre abbiamo aggiunto sogni a sogni, vittorie a sconfitte, ripartenze a partenze. […] Prima, i primi anni, era lavorare per noi, per studiarci, capirci. Trovare un proprio linguaggio. Parole che potessero raccontare cosa pensavamo del mondo, in maniera incisiva e grottesca. Poi è stato anche e in più il lavoro per la nostra città, e per un teatro che non c'era. Coltivare e costruire una casa. Poi nomadismo, in giro per il mondo a scambiare spettacoli con incontri, fare teatro per rompere confini e barriere. Nostra patria è il mondo intero. E poi le operaie Omsa, i rifugiati, gli immigrati. Dare un senso al passare degli anni cercando invece di stare col mondo che cambia, aiutarlo a cambiare. […] Il teatro riesce a far immaginare il futuro, come possibilità diversa da quelle scontate. E in questo, noi, Angela, Renato, Maria, Gigi, Tanja ci riconosciamo. Perché continuare (a parte i mutui, i debiti, le convenzioni) se non per ricominciare da capo? Cari compagni, vi ringrazio per aver resistito tutto questo tempo al mio fianco, sopportando i miei difetti e regalandomi visioni: mischiando come sempre le carte, per imbrogliare il tempo inesorabile, vi aspetto a quando i 35 diventeranno 53. È troppo grande some sogno? Sono sicuro che no, non mi pensate folle. Dall’esterno, il Teatro Due Mondi appare come un gruppo teatrale (un teatro che teatro partecipato; Brigate teatrali Omsa (Faenza) progetto di sensibilizzazione sui temi del lavoro e della disoccupazione attraverso “azioni teatrali di strada” su tutto il territorio italiano. Premio CGIL; Passo di maggio (Brescia) progetto pedagogico per adulti lavoratori e lavoratrici a rischio di disoccupazione. 2010: Cuori in fiamme: (Norvegia) laboratorio per giovani: apprendimento di tecniche teatrali, sviluppo di capacità creative, inclusione nello spettacolo finale del Festival di Fredrikstad. 4. Alberto Grilli, 35 anni di teatro condiviso. Lettera ai compagni attori del Teatro Due Mondi, «Teatro e Storia», n. 35, 2014, pp. 281-286. 190 40 non si riunisce per uno spettacolo, ma per un lungo periodo di tempo, perfino per la vita) particolarmente compatto, almeno per quel che riguarda un nucleo formato sostanzialmente, ma non solo, dagli attori e dal regista che l’hanno fondato. Per il resto sono un po’ a fisarmonica: li ho spesso visti, nei vent’anni almeno della nostra amicizia, come un gruppo vastissimo, pieno di giovani, e poi, un paio di anni dopo, come un gruppo ristretto al nucleo stabile. È un teatro che crede nella propria tradizione artistica, ha le idee molto chiare su dove vuole arrivare. È consapevole di appartenere a una realtà spesso definita sommersa: persone e gruppi che lavorano a volte da decenni, e sono ben conosciuti in certi ambienti quanto ignoti al grosso pubblico. Soffre, come gran parte dei teatri, e soprattutto soffriva un paio di anni fa, al momento dell’intervista, di una situazione economica generale terribile. Essendo un teatro dai forti valori politici, soffre anche per situazione generale, e non solo economica, drammatica. A cui reagisce con forte combattività. Sono persone disposte a pagare di persona per le proprie scelte, e hanno una idea molto chiara di quel che sono, e di quel che vogliono. Infatti hanno sempre continuato ad avere un punto di riferimento per molti ormai decisamente fuori moda: Bertolt Brecht. Ma neppure a Brecht, poi, si adeguano del tutto: tutti i testi che recitano sono prodotti dall’interno del gruppo, dalla fondamentale collaborazione con Gigi Bertoni e dalla discussione dell’intero gruppo che, come si vedrà, è decisamente pugnace. Sono un teatro di forte lavoro sull’attore, sia per quel che riguarda la formazione che la preparazione degli spettacoli. I loro spettacoli hanno una particolare qualità, quasi smaltata. Come spettatrice ho sempre amato in modo molto particolare Angela, la cui grazia, precisione e intensità in scena sono spiccate quanto non convenzionali. Sembrano muoversi sempre in gruppo, ormai da quarant’anni, anche per andare a trovare gli amici o per andare a vedere gli spettacoli. Sono solidali, l’ho constatato di persona. Non subiscono mai il fato passivamente. Sono accorti: per tutta la loro vita sono stati sempre molto attenti a non lasciarsi intrappolare dalla necessità dei debiti. Hanno idee molto precise sui loro doveri nei confronti della comunità che abitano, e, direi, della umanità. Hanno idee altrettanto precise sui loro doveri artistici. Svolgono un lavoro approfondito, anche questo non piegato alle mode, sull’attore. Creano al loro interno costumi, scenografie. Hanno ristrutturato loro stessi la loro sede. Il loro forte impegno politico riguarda le loro azioni, ben più delle parole che recitano. Sono, insomma, molto decisi, e molto compatti. Anche molto particolari e proprio per questo vale la pena di capire quel che c’è dietro, come ho cercato di fare attraverso il nostro colloquio. Quando ho ripresa in mano la trascrizione di Raffaella, a così tanti mesi di di191 2009-2019 stanza dall’incontro, l’ho ridotta a circa un quarto: ho lavorato sulla leggibilità, ho inserito note minime, con informazioni ridotte all’essenziale, ho eliminato ripetizioni, divagazioni, chiacchiere, facendo sparire le voci di Raffaella e mia. Non ho alterato la successione dei discorsi, e spero di non aver fatto cadere nessun argomento importante. Ho diviso il flusso in nove punti, ma solo per facilitare la lettura: sappiamo tutti bene quanto sia faticoso leggere trascrizioni, quanto conferenze, discorsi, colloqui importanti appaiano, sulla carta, solo polvere. Il mio lavoro è stato quello di ridare vita a questa polvere, nella speranza che il lettore possa anche lui percepire quella eccitazione e quel fascino che i due giorni con i Due Mondi avevano avuto per Raffaella e per me. La prima a parlare sono stata io. Parlai del nostro percorso, di come, qualche mese prima, si fossero incontrate le intenzione di quattro persone: Raffaella e Mirella, due studiose di generazioni diverse; Alessandro Rigoletti, attore; Simone Capula, regista. Ognuno di noi aveva avuto la stessa idea – o desiderio: un vagabondaggio per teatri. Ci avevano spinto motivi senz’altro diversi, ma quando casualmente ci eravamo raccontati l’un l’altro questo sogno, o desiderio, la risposta era stata sempre il riconoscimento di una sorprendente affinità di intenti. Anche se poi, alla fine, eravamo riuscite a partire solo in due, e anche questo solo grazie alla lungimiranza di Raffaella che, come ho già detto, aveva insistito per iniziare da coloro a cui tenevamo di più, senza dare importanza al fatto che fosse un teatro da noi già conosciuto. Perché non stavamo andando a caccia di novità. Così, avevamo scelto di fare dei Due Mondi il primo passo, la tappa zero. Udibilissimo, nella registrazione, sta il commento di ANGELA: “Andiamo bene!”. “Sperimenteremo su di voi, proprio così – risposi io - Abbiamo delle domande, molto semplici, elementari, goffe. Per esempio: come funzionate? Come funziona il Teatro Due Mondi?”. Al mio discorsetto seguì un lungo silenzio. Poi emerse di nuovo la voce, questa volta un po’ scorata, di ANGELA: “Un attimo”. E ancora: “Non è che mi sveglio la mattina e dico: cosa sono? Come funziono?”. E poi Alberto ha cominciato a parlare, e c’è stata la prima sorpresa, o, se vogliamo enfatizzare un po’, per me c’è stato il momento di svolta. In negativo, agli inizi: chi sa che mi immaginavo che potessero dire, quando, con tanta bella ingenuità, ho chiesto come funzionavano. A questa domanda imprecisa hanno risposto parlando – per ore – prima Alberto, poi anche tutti gli altri, del problema e della difficoltà di trovare l’organizzatore “giusto”. È certamente un problema fondamentale, e ormai da molti anni sento i gruppi teatrali parlarne, e sempre accoratamente. Ma non era quello che mi aspettavo. Speravamo che avrebbero parlato dei rapporti tra regista e attori, del potere del regista, di alcuni dei molti 192 40 modi in cui si può comandare. Del modo in cui “funzionavano” come lavoro per gli spettacoli, del modo in cui iniziavano, di eventuali idee e poetiche. O che avrebbero raccontato incredibili aneddoti sui loro viaggi, come avevano fatto nella serata senza registratore dei tortelli. E anche, magari, che avrebbero potuto parlare, blandamente stimolati da noi, dei loro eventuali punti di riferimento, per la nascita del gruppo e per la sua vita: un uomo, un altro regista, un altro gruppo, una ideologia, uno spettacolo. E tutto questo in parte è anche venuto fuori, ma solo dopo. All’inizio c’è stato altro, e, senza volerla far troppo lunga, pure mi sembra significativo che abbiano tanto parlato di organizzatori, perché l’organizzatore è apparso come problema in quanto ponte, messaggero tra un gruppo (e la propria tradizione, e la visione che questo gruppo ha di se stesso) e il mondo esterno, cioè il territorio che questo gruppo deve conquistare e da cui deve farsi conoscere. È una persona che deve parlare due lingue, quindi, e più il gruppo ha una identità forte, più le due lingue possono essere distanti. Veniva a essere definito così il campo di questa prima indagine: una micro-cultura di lunga durata, cioè quell’insieme di conoscenze, valori, morale, abitudini, regole, leggi, costumi, che tiene insieme un gruppo. Una cultura in senso antropologico, che ha tante più difficoltà a comunicare con l’esterno quanto più è forte, stabile e articolata al suo interno. Che vuole parlare all’esterno e al tempo stesso vuole conservare il proprio punto di vista. Ed è stato a partire da qui, dal problema dell’organizzatore, della lingua e dei valori interni, e del desiderio e della necessità di renderli percepibili all’esterno, che sono emersi altri indicatori: il problema dei “vecchi” e dei “giovani”, la difficoltà ad assorbire stabilmente un membro nuovo in questa comunità così longeva, e apparentemente tanto accogliente e aperta. Il modo complesso con cui è sofferto il problema di vivere in un luogo lontano dalle capitali. Altre cose possono essere lette più sotto, è inutile anticiparle. Mi sembra doveroso sottolinearne solo una, tanto nota a chi conosce il teatro di gruppo quanto poco considerata fuori, e certamente ignota al lettore che si interesserà del Teatro Due Mondi, del teatro di gruppo e del Terzo Teatro tra cent’anni: la quantità delle ore di lavoro, e la diversità dei lavori, che all’interno di un gruppo teatrale un attore deve fare. Deve, non “può”. Alberto dichiara perentoriamente la natura dei Due Mondi come gruppo teatrale e non compagnia, il che vuol dire (sempre per il lettore che tra cento anni leggerà queste pagine) un teatro che paga gli stipendi a chi lavora al suo interno non per uno spettacolo, ma per la vita – per un periodo e non per un’opera. È economicamente una situazione difficile e gravosa, che chiede, in cambio, agli appartenenti, di prendersi cura del teatro in tutte le sue facce. E di lavorare molto, moltissimo, disperatamente. Giornate di lavoro che vengono 193 2009-2019 definite con ovvietà di dieci ore, a meno che non ci siano occasioni di lavoro per lo spettacolo in cui è il tuo stesso desiderio ad aumentarle ancora di qualche ora in più. Quante ore al giorno un attore di un teatro di gruppo deve prepararsi a lavorare, se crede nel proprio gruppo, nel proprio lavoro, nella propria idea di vita, nella propria identità? Bisogna infine tener conto del fatto che questa è una intervista di quasi due anni fa, del gruppo del settembre 2017, in un momento molto preciso della loro storia. Ho scritto che questo è un ritratto del gruppo. Rileggendo il mio lavoro a posteriori devo aggiungere qualcosa, anche per non rischiare di far torto ai Due Mondi: questo è un ritratto di gruppo in un momento di difficoltà, forse anche di grande difficoltà, in primo luogo economica, ora superata grazie alla loro lucidità e flessibilità, non alla fortuna. Come sempre accade, una difficoltà economica si ripercuote anche su altri versanti, e, soprattutto quando si parla a lungo, e a una amica, come credo e spero di essere per loro, può affiorare in alcuni perfino una leggera tinta di sconforto. Perché dunque consegnare alla stampa proprio questa immagine dei Due Mondi, in certo modo ingiusta, parziale, se non falsa? I Due Mondi sono un teatro, oltre che compatto, coerente. Nel tempo sono profondamente cambiati, ma non hanno mai tradito quello che li ha spinti verso il teatro nella loro giovinezza. Sono, come ho detto, e come vedrà chi legge, un teatro che lavora duramente, anche nei momenti di poca soddisfazione. Praticano un lavoro d’attore di estrema precisione – cosa perfino appagante, agli inizi, ma che richiede molta costanza quando passano gli anni, oltre a una notevole quantità di fatica. Hanno continuato questo lavoro sempre, anche nei periodi in cui la qualità e la precisione non sono (apparentemente) tra le principali richieste del pubblico. Praticano un lavoro altrettanto preciso, e insieme di profondo coinvolgimento, perfino gioioso, nella costruzione dei loro spettacoli, che riescono a essere, per chi li guarda, spettacoli di grande impatto, ma anche di grande impegno. Hanno lavorato, tra i primi, per una loro necessità personale e profonda, con i migranti. Hanno lavorato (Alberto) in Africa, in condizioni estreme. Hanno un impegno politico radicato. Hanno fatto un lavoro davvero unico con un gruppo di operaie licenziate. Portano avanti tutto questo da quarant’anni. Le difficoltà non sono eventi episodici, in un simile quadro. Sono l’ombra che accompagna tutta questa luce. Dal mio punto di vista, la mette anche in risalto, la rende complessa. Ho cercato di dare, di questo gruppo, un ritratto non eroico: qualcosa che desse conto della durezza quotidiana del cammino, dei momenti di inciampo. Lottare e vincere non è la stessa cosa che vincere e basta, ai miei occhi. Non credo nelle realtà univoche, tutte di un pezzo, e credo che il mestiere di storico consista anche nel mettere in risalto contraddizioni e sfaccettature, nel 194 40 fare in modo che non vadano perse. Sono preziose. Forse che quando leggiamo i momenti di depressione e desolazione, nelle testimonianze dei partigiani, dimentichiamo quello che hanno fatto, e tutto quel che dobbiamo loro? Non voglio fare paragoni impropri, ma penso che dobbiamo molto a chi è riuscito per quarant’anni non solo a preservare la qualità, ma anche la vita di gruppo. È un valore in più, anche per noi che ne siamo fuori. Sono storie di vita uniche. Il mio ritratto voleva essere anche questo: un ritratto che mostra la forza dell’essere gruppo, la possibilità - che l’essere gruppo offre - di inglobare anche gli attimi di sconforto all’interno di un cammino comune che continua a essere deciso. La capacità di procedere con coerenza quando tutto sembra girare le spalle. Il titolo giusto dovrebbe essere: “ritratto di gruppo in una zona d’ombra”. Che, senza enfasi, vuole dire anche un ritratto della seconda faccia della grandezza. Ora lo presento, senza altre interruzioni. Dopo verranno qualche altra breve considerazione e qualche commento. Faenza, 20-21 settembre 2017 1 - Come funziona un teatro di gruppo ALBERTO [reagendo alla perplessità di Angela per la mia domanda]: Invece sì, possiamo proprio dirlo, come funziona il nostro teatro, almeno in questo momento, perché da qualche mese, quasi un anno, siamo in un periodo di ridefinizioni di compiti, di ruoli e di presenze. Ora sono in corso cambiamenti per quel che riguarda la parte più organizzativa, d'ufficio, mentre i cambiamenti che riguardano il gruppo degli attori ci sono stati prima, ed erano legati alla questione “giovani”, che è stata dolorosa: abbiamo sempre avuto perfino un po’ una fissazione dei giovani. Abbiamo sempre cercato attori nuovi. Dopo un po’, immancabilmente, i giovani se ne andavano, e restava il gruppo ristretto, sempre lo stesso, il gruppo dei vecchi. I vecchi sono: Angela, Renato, Maria, poi Tanja, l’ultima arrivata dei vecchi, è con noi “solo” dal 2001, e poi io. Loro rimangono sempre. I giovani vanno sempre via. Così, un po’ di tempo fa, abbiamo deciso di prenderci una pausa dai giovani, dai loro entusiasmi, dai loro abbandoni. Negli ultimi tre anni, da quando sono andati via gli ultimi due giovani, il gruppo degli attori è rimasto fisso. Abbiamo fatto le ultime produzioni con gli attori che ci sono, e non ne stiamo cercando altri – per ora. Abbiamo due collaboratori per il teatro di strada, ma sono abbastanza stabili anche loro. Questo per quel che riguarda la situazione degli attori negli spettacoli. Tutto quello che riguarda la macchina organizzativa e la gestione, invece, è in movimento, fermo restando che ognuno degli attori ed io continuiamo ad avere dei compiti precisi. Renato, si occupa dell’amministrazione e di tutte le que195 2009-2019 stioni economiche, in parte coadiuvato da Gigi [Bertoni, drammaturgo, che non lavora a tempo pieno nel teatro], da Maria e da Tanja, che si occupa anche di tutte le vendite all’estero, che per anni sono state le entrate fondamentali del teatro. Angela si occupa della “casa”, cioè del teatro stesso (affitti, calendari delle prove, programmazione della stagione, tutto quel che avviene nei nostri spazi, comprese pulizie e lavatrici). Si occupa anche, insieme a Maria, della sartoria, perché qui facciamo tutto all’interno, compresi i costumi, gli oggetti, le maschere. Provvede anche, naturalmente, ad aggiusti e controlli dopo le tournée. Diciamo che Renato e Tanja sono più i colletti bianchi, Maria si sposta di qua e di là, Angela è più di qua, la classe operaia, e io ugualmente mi sposto, cerco di stare il meno possibile in ufficio e faccio anche molte cose pratiche. Poi ci sono le persone che si occupano solo dell’organizzazione. Abbiamo una collaborazione da lontano con Sonia [Bombardieri], e una con Andrea [Massironi], pure da lontano… Intendo da lontano in senso fisico: Andrea abita a Trento, adesso, e si occupa della vendita degli spettacoli in Italia. Sonia abita a Bergamo. Quindi sono lontani. Fisicamente. Però in sostanza negli ultimi mesi la questione vera per noi è come, banalmente, trovar qualcuno soprattutto per vendere gli spettacoli, con tutte le difficoltà connesse, cioè capire come porci nel mercato, tenuto conto del fatto che abbiamo una presenza molto assente, nel mondo del teatro. Siamo un gruppo un po’ anomalo, che per metà fa teatro ragazzi e per metà no. Siamo forse anche un gruppo un po’ restio alle mode. Un organizzatore che debba vendere i nostri spettacoli potrà anche pensare di cambiare le cose, di ammodernarci, ma non so… in più si porterà dietro un'eredità pesante, in primo luogo gli scarsi contatti con gli altri. ANGELA: Beh tutto il teatro è fatto di circuiti, o sei dentro un circuito e un sistema (come ad esempio quello del teatro ragazzi), o sei un ibrido che in realtà disturba gli altri che sono dentro. Insomma, in qualche modo questo è ovvio, non c’è neppure niente di male – a parte il fatto che noi non ci troviamo particolarmente bene dentro. TANJA: Per esempio, non abbiamo mai avuto contributi statali, ma anche questa è stata una nostra scelta: avere una sovvenzione ci costava troppo, in termini di contributi, borderò (cioè la distinta di incasso), distribuzione. E di scelte. RENATO: Così è stato per il teatro di strada. Quando abbiamo iniziato a farlo non era riconosciuto, per i borderò, non essendoci biglietti. Noi abbiamo deciso di farlo lo stesso. Ed è stato molto importante, per noi, in termini di possibilità di sperimentazione artistica, in termini di incontri con pubblici che non andrebbero a teatro. Abbiamo sperimentato le nostre capacità di attori. E dal punto di vista economico, per anni ci siamo mantenuti con il teatro di strada, non dovevamo 196 40 neppure venderlo, sforzarci di venderlo, ci veniva richiesto continuamente. ANGELA: Abbiamo scelto di fare altre cose, rispetto a quelle previste da un sistema che non è chi sa come, coercitivo o tremendo, ma semplicemente, per noi, un po’… non so, un po’ appiattente. Finora è stata una scelta di cui non ci siamo pentiti mai, ma che abbiamo pagato. A parte quelle che sono state scelte volute, abbiamo anche sbagliato, certo. Un sacco di volte. Ci sono state cose che non abbiamo saputo fare. Siamo stati anche un po’ stupidi. Non eroi: imbranati. Qualche volta. ALBERTO: Perfino il nostro passato ci crea problemi, perché ora è completamente cambiata la situazione, e ci abbiamo messo qualche anno a capirlo e ad adeguarci. A modo nostro eravamo stati molto fortunati: per lunghi periodi gli spettacoli di strada ci venivano addirittura chiesti, non c’era bisogno di promuoverli. Gli spettacoli per ragazzi sono stati prodotti per vent’anni dall’ ERT5, che adesso è diventato Teatro Nazionale. Dal ’94, per quasi vent’anni, ci hanno prodotto uno spettacolo ogni due anni, ed era l’ERT che si preoccupava anche di venderli, distribuivano loro. Poi le cose sono cambiate, il rapporto con l’ERT si è affievolito … Per gli organizzatori questi sono problemi e grossi, perché abbiamo bisogno di vendere ma forse abbiamo anche troppe ritrosie a cambiare di natura, forse temiamo di diventare diversi da come siamo… Certo che è giusto evolversi e cambiare. D’altro canto siccome poi il nostro lavoro è fatto di relazioni umane, siccome il teatro è una relazione umana, sia nella produzione che nella comunicazione, se la parte organizzativa gestionale, e la parte creativa fuori dallo spettacolo (come il sito, o le foto) diventano mediate dal computer e dal telefono, andiamo un po' in difficoltà. Il che vuole dire che dobbiamo trovare qualcuno che lavora con noi e che comunque sta anche qua, questo è il problema vero. 2 – “Location” TANJA: C’è anche il problema del luogo: come molti altri gruppi teatrali, il nostro non è un teatro che abita una grande città. I nuovi arrivano a Faenza come si arriva in paradiso (un luogo finalmente appartato, in cui ci si può concentrare, però molto vicino a Bologna). E poi, da qui, dopo un po’ si scappa, per molti motivi. C’è un problema di vita privata. Stare qui per gli attori è un problema, per gli organizzatori può essere una vera tragedia. Sono riusciti a rimanere di più quelli che erano arrivati per fare gli attori, e si erano quindi mossi accettando in partenza 5. Emilia Romagna Teatro Fondazione, teatro stabile pubblico della regione Emilia Romagna, attivo su cinque città, diventato Teatro Nazionale dal 2015. Centro di produzione, con sede legale a Modena, dal 1994 al 2016 ha avuto la direzione di Pietro Valenti, ora di Claudio Longhi. 197 2009-2019 l’idea di stare in una piccola città, lontani da casa, con pochissimi soldi. Per fare gli attori. E poi sono diventati anche organizzatori. Questa è la tipologia che ha funzionato. Per un po’. Altrimenti in genere stanno qui per qualche mese, per sei mesi funzionano… Voci diverse: Tre – tre. ANGELA: Pieni di buona volontà, e poi… ALBERTO: Non sempre sono durati così poco. A volte sono rimasti, per aiutarci, mentre seguendo solo i propri interessi o desideri sarebbero già andati via. Ma è vero che i periodi migliori sono stati quelli in cui c'erano due o tre attori in più, e tutto, anche l’organizzazione, veniva gestito dagli attori. Il problema è che per esempio ora siamo rimasti in pochi, con un carico impossibile. Poi c’è un altro problema: chi ci organizza deve imparare la nostra lingua, il nostro modo di parlare e di pensare. Lo si è visto spesso anche quando qualche organizzatore scrive, telefona o parla. Io, per esempio ogni volta che sento parlare della “location” dove facciamo lo spettacolo [si sente la risata fragorosa di Angela], ecco, allora penso: vuole dire che non è stato abbastanza qui… TANJA: No, questo però è un altro problema, no, no, a me la location va benissimo. ALBERTO: No, io invece dico che non è stato abbastanza qui per capire… Noi non siamo performer, siamo attori. E non siamo una compagnia, siamo un gruppo teatrale… TANJA: …ma anche per il mondo, stanno cambiando i termini, il linguaggio. L’importante è quel che si riesce a far capire, non il modo in cui noi stessi ci definiremmo…. ALBERTO: …che io dico, uso la parola “spazio”, lo spazio dove c'è un spettacolo. Noi non abbiamo locations, abbiamo spazi… [Tutti commentano, le voci si sovrappongono, si decifrano solo le parole “spazio” e “location” ripetute] 3 – La giornata tipo ANGELA: No, bisogna fare un passo indietro, come funziona la nostra vita vuol dire anche un’altra cosa. È vero, da quando il nostro gruppo ha preso la sua forma, qui sono arrivate tante persone, e poche, pochissime, nel tempo, hanno resistito: due, Tanja e la Mary [Maria Regosa]. Perché anche come attore sei motivato, certo, però… sei venuto qui per far l'attore, ma in realtà quello che succede è che nell'arco di una giornata-tipo, che è di circa dieci ore al giorno di lavoro, sei sono per l'ufficio, e quattro, se ti va bene, ma proprio grassa, sono per il tuo lavoro d'attore, per gli spettacoli ecc. ecc. Devi essere proprio molto, molto motivato per restare qui, 198 40 per di più anche per uno stipendio da fame, a lavorare. Uno che sta in ufficio, poi, è uno che è baciato dall'innamoramento: una persona che ci ama, moltissimo, è sempre così. Però in genere dopo un po’ l’innamoramento passa… e proprio quando è arrivato il momento in cui veramente può capire cosa siamo, cosa è la nostra giornata. Molta gente non ha semplicemente idea di quello che facciamo, neppure tra quelli che vengono a lavorare con noi. Sì, vedono lo spettacolo, vedono quando facciamo le prove, ma di tutto il contorno che sta intorno, soprattutto adesso che siamo pochi, non hanno la minima idea. E quando lo sanno, dicono: ma chi te lo fa fare? Che delle volte me lo chiedo anch'io. La nostra giornata-tipo è bella quando ci sono le prove del nuovo spettacolo. Allora sì, lavori come un disgraziato dalla mattina alla notte, e la sera poi pensi cosa devi fare il giorno dopo, e vieni qui prima dell'orario perché devi fare anche degli altri lavori, e ti metti a cucire, a inchiodare, a fare…fino alle 7, quando arrivano anche gli altri, e cominciamo le prove, qui dentro, oppure andiamo fuori a provare, e stiamo a provare magari fino a mezzanotte, nello stress della fatica… Ma è bello, è il tuo lavoro. Tanti altri giorni, invece, sono: arrivi, cominci a sistemare delle cose, cominci a pulire, pulisci i bagni, vai di là riordini, pulisci le sale, sistemi un po' di cose, cuci i costumi, fai dei contratti, che ne so… Non è la stessa cosa…. Allora, le persone che arrivano, e che hanno anche loro i loro compiti, oltre a quelli strettamente d’attore, mediamente rimangono quattro anni. Dopo quattro anni si dicono: ma io, qui, che cosa sto facendo? Lavoro come un pazzo, guadagno poco. E come attore lavoro anche poco… Che dire? Si fanno un'esperienza nel Teatro Due Mondi – secondo me molto formativa – dopodiché vanno ad applicare il loro sapere da qualche altra parte. È successo tante volte… Così, è vero, siamo stati noi attori a un certo punto a dire: basta Alberto, siamo stufi, soprattutto io e la Mary non ne potevamo più – prendiamoci un po' di tempo per noi, perché alla fine comunque con i nuovi devi anche star sempre dietro a loro, e tu quando fai le tue cose? Mai. In tutto questo, il problema economico ha continuato a crescere, cioè non c'era una lira. In questi ultimi due-tre anni ero – e forse ancora sono, non lo so più, abbastanza avvilita: lavori, fai, poi lo spettacolo non si vende… Abbiamo sempre vissuto sulla vendita dei nostri spettacoli, e ora non funziona più così. Vabbè, ho fatto come al solito un po' di casino. Però… ALBERTO: Abbiamo smesso di mettere in giro la voce “il Teatro Due Mondi ricerca attori”. Arrivava di tutto, tutti con dei… ANGELA: …con dei curriculum fantastici, davvero. Però quando li vedevi…io delle volte mi dicevo no no… [qualcuno concorda]. ALBERTO: Tutti coll'idea, comunque, è proprio paradossale, tutti vengono qui, al Teatro Due Mondi vengono con l'idea di una stabilità, no? Un gruppo è qualcosa 199 2009-2019 di stabile, è questa la differenza con le compagnie, non stiamo parlando di un provino per uno spettacolo. Quelli che arrivano qui sono felici all’idea della stabilità: ah finalmente un posto stabile, smetto di andare a portare il curriculum a destra e sinistra, vado in sala prove otto ore al giorno… [Angela ride], qui c'è tutto, tutto qui dentro. Però alla fine poi la gente va via proprio perché la situazione, qui, è stabile. La stabilità, tanto desiderata, diventa pesante…Vogliono conoscere cose nuove, ed è anche molto comprensibile… ANGELA: Dove va a finire il Teatro Due Mondi alla fine, no? Abbiamo tutto un giro di ex allievi ed ex attori che ci vogliono tanto bene, però alla fine siamo soli. Soli: noi quattro attori, più Alberto e Gigi. Noi. A un certo punto avevo un sogno – un sogno vago, non una proposta, ripensando a tutte le esperienze fatte in questi anni, e quando uno comincia ad avere cinquantasei anni insomma… vabbè, cambiano delle cose nella sua testa. E nella mia sicuramente. E ogni tanto mi capita di andare al nostro magazzino, dove ci sono le cose dei nostri vecchi spettacoli, a sistemare, ad aggiustare. E lì ci sono un sacco di cose belle, pronte: costumi, oggetti che abbiamo costruito, le idee, il modo in cui avevamo pensato gli spettacoli… insomma, mi è venuta voglia di pensare: se avessimo un gruppo di giovani, se gli spettacoli ancora si vendessero, potremmo rimettere in piedi questi spettacoli, che non è che hanno girato il mondo, avranno fatto sette, ottocento date, mica di più… Oriente, Mangiafuoco… La Fattoria degli animali 6… il nostro passato. Forse si può passarlo a degli attori giovani, è un modo per imparare, si impara moltissimo, così… E per noi avrebbe significato vedere che le cose hanno un loro percorso, anche una loro fine organica, non una morte improvvisa. Invece molti spettacoli abbiamo dovuto metterli via, perché non c’erano più le persone per farli, o perché non si vendevano più… morti prima del tempo. Ogni anno, due al massimo, dovresti fare una produzione nuova… e, oggi come oggi, per venderne quanti? Per venderne… non so, se ci va bene trenta repliche di alcuni. No, no l’ho detto subito: questo è un sogno, non ho detto che possa essere una prospettiva concreta. No, la prospettiva concreta non c'è. Però ecco: non mi piace avere sogni, al posto di progetti. MARIA: Secondo me, va anche considerata l'età che abbiamo noi, adesso… TANJA: Sì, sì sì. MARIA: [constatativa, con perfetta indifferenza rispetto al fatto di non considerarsi più “giovane”, e con una sfumatura di compianto nei confronti di chi lo è 6. La Fattoria degli animali, 1996; Oriente, 2003; Al Gran Teatro di Mangiafuoco, 2008. Quando non è diversamente indicato agli spettacoli partecipa l’intero gruppo, e la regia è sempre di Alberto Grilli. 200 40 ancora] Siamo poco attraenti per i giovani perché non siamo giovani. Quando avevamo trentacinque anni e facevamo la scuola, le persone che venivano ne avevano ventisette, ventotto. Noi eravamo il teatro, ma eravamo quasi giovani come loro, e questo era un bel binomio. Attraente. Ora non più. Siamo più vecchi, i giovani ci stancano. Ricordo che una volta, in tournée, abbiamo incontrato il Teatro Tascabile [di Bergamo], anche loro in giro. Allora da loro c'era la Simo [Simona Zanini, allora attrice presso il TTB] e lei la sera si tirava dietro tutta la banda dei giovani che avevano… Ecco io quella vitalità non ce l'ho, quando ho finito quello che considero il lavoro voglio andarmene a casa mia e stendermi sul divano. ALBERTO: Però, se ci pensi non è che di giovani al TTB ne siano rimasti molti… MARIA: No eh, pochi, sì. TANJA: No, non credo che sia questo il problema… Piuttosto è quello della vita privata, di vivere qui a Faenza, per fare un lavoro stabile che chiede molto e dà pochissimi soldi, a Faenza… la gente che si trasferisce qui non c'è. RENATO: Però magari… ALBERTO: Cioè se noi fossimo a Bologna… MARIA: Dipende da dove vieni: se vieni da Scampia, allora Faenza è un posto bellissimo, se vieni da Brescia è un posto possibile, se vieni da un città più grande… ALBERTO: Però c'è stato un momento, anni fa, quando facevamo i laboratori, e veniva molta più gente da Bologna. Non so, forse sono aumentate le proposte allettanti a Bologna… RENATO: [allegramente] Forse fa parte di quell'appeal che avevamo quindici vent'anni fa. ANGELA: Che discorsi tristi. Sembriamo vecchi, malinconici e tristi. Invece abbiamo appena finito di preparare uno spettacolo7, è stato un lavoro bellissimo, stiamo insieme ormai da quasi quarant’anni, abbiamo una lunga storia alle nostre spalle, ne siamo fieri. E ancora crediamo in quello che facciamo… 4 – Gli inizi ANGELA: Allora, quando abbiamo cominciato avevamo una sala di là dove sono gli uffici. Erano quattro sale, e le condividevamo con tutte le associazioni teatrali di Faenza. Questo era il '79. RENATO: No, un po' dopo, era l'81. Nel ’79 avevamo un piccolo spazio in un edificio di proprietà del babbo di una dei soci. ANGELA: L'81. E poi un po' alla volta le associazioni che facevano teatro un po' 7. I nove comandamenti. Spettacolo diabolico sul dio denaro, 2017. 201 2009-2019 così, senza troppo impegno hanno chiuso, l'unica che è rimasta era l'Accademia Perduta, che però poi se ne è andata, e noi, un po' alla volta, siamo riusciti a impossessarci, tra virgolette, delle altre sale, che sono in affitto dal comune. Per provare andavamo un po’ in giro, per esempio c’è un teatro a Brisighella, un paesino a quindici chilometri da Faenza. Era un vecchio teatro, tutt'ora inagibile, e, molti dei nostri spettacoli li abbiamo provati lì. RENATO: Sì, siamo a fine anni Ottanta. ANGELA: Il cerchio di gesso 8… RENATO: No, allora a inizio anni Novanta. ANGELA: Anche dopo, se Il cerchio di gesso l'abbiam provato là. E quindi comunque facevam degli scambi con il Comune di Brisighella, facevamo un po' di laboratori nelle scuole elementari e… insomma provavamo lì, lavoravamo lì. E poi… RENATO: Prima ancora – cioè una vita fa, più o meno nel 1976 – c’era una compagnia amatoriale, guidata da un professore delle medie, di lettere, un professore di Alberto… ANGELA: Eravamo proprio ragazzini, eravamo sui quindici anni. RENATO: Alberto ha cominciato a far teatro anche prima, con questo professore, io un po’ dopo. Facevan prove e spettacoli, con il teatro sempre pieno, chiaramente, di tutti gli altri studenti, i genitori ecc. E dopo alcuni di loro di questa classe si è costituita in una compagnia teatrale… ALBERTO: Che si chiamava AlterEgo. RENATO: Sempre con questo professore, Mario Zoli. Io li ho conosciuti un po’ dopo, avevo amici in comune con Alberto, e a un certo punto mi hanno detto: dai vieni anche tu… Sono entrato nel ’77. Era una compagnia mista, essenzialmente di giovani e giovanissimi, ma anche con qualche adulto. Non più scolastica. E facevamo cose molto impegnative: Majakovskij, Beckett, tragici greci, cioè cose… ANGELA: Dei mattonazzi! RENATO: …insomma tre quattro spettacoli all'anno. Facevamo solo due, tre repliche, però, insomma… MARIA: Più di adesso! [risate di tutti] ANGELA: Era una persona davvero particolare, questo professore, Mario Zoli, aveva una gran passione, guarda: tutti i nostri maestri si chiamano Mario… RENATO: In due anni abbiamo fatto tragici greci… ANGELA: Mistero Buffo… RENATO: E poi, Finale di partita, Aspettando Godot, Giorni Felici … sei-sette spettacoli in due anni. Fino a che non venne affidata ad Alberto una regia per uno 8. Il cerchio di gesso, 1994. 202 40 spettacolo con tutti i giovani della compagnia. Forse prima c’eravamo abituati ad avere un regista capo assoluto, un regista di stampo strehleriano. Ma con questo spettacolo, con Alberto, tutti alla pari, della stessa età, cambiarono le cose. Però si litigava, c’erano discussioni continue, e così venne tolta la regia ad Alberto dal consiglio degli anziani, chiamiamolo così. E noi, i giovani, ci ribellammo e uscimmo tutti, tutti i giovani uscirono dalla Compagnia AlterEgo, e formammo un nuovo teatro e lo chiamammo Gruppo Teatrale Due Mondi, da una canzone di Battisti-Mogol. La conosci? [canticchia la canzone] una canzone che amavamo tantissimo, forse per noi simboleggiava una volontà di vivere in due mondi diversi a un solo tempo… Passione, ecco, questo avevamo e non solo per il teatro. Era il '79, credo che iniziammo questo processo di separazione ad aprile, e si concluse il 3 luglio con la costituzione della nuova Associazione, che fu fatta dal notaio, tutto per bene, con molta serietà. Ma il processo di separazione fu terribile. Noi spedimmo al nostro professore una lettera, piuttosto aggressiva, e lui volle ricevere solo i due più adulti, cioè Alberto e un altro, i due già maggiorenni. Ci scrisse anche lui delle lettere, i nostri genitori erano sbigottiti, lui ci trattava… ANGELA: Come adulti, in realtà. RENATO: Come adulti, forse, sì, ci trattava alla pari, come se avesse a che fare… ANGELA: Il fatto è che sbagliammo, fummo noi a sbagliare, da quei ragazzini che eravamo. Volevamo portar via con noi alcuni materiali, tenerceli: poche cose, i fari, un motorino che avevamo sistemato… MARIA: Ah, ecco. RENATO: Ci arrabbiamo tutti, lo ferimmo. ALBERTO: Noi pensavamo di avere diritto a qualcosa per il nostro lavoro. Avevamo lavorato tre, quattro anni in tutte le produzioni, avevamo aggiustato, sistemato, comprato… pensavamo di aver diritto a qualcosa. Erano sciocchezze, c'era una saldatrice che avevo io a casa e abbiamo riportato la saldatrice. Sì, avevamo torto noi. Ci siamo lasciati molto male, ma per troppo amore, come spesso succede. Io, e con me tanti altri di noi avevamo passato a casa sua tanti pomeriggi, con lui non facevamo solo teatro, parlavamo, all’infinito, di tutto… E i nostri genitori ci dicevano: cosa andate a fare sempre da lui… RENATO: … parlavamo della vita. Ci ha resi diversi. Non andavamo in discoteca, o quasi, non andavamo da nessuna parte, andavamo da lui a parlare di filosofia, di libri… Della sua classe, noi abbiamo fondato un teatro e l’altro compagno di Alberto, Marcello [Donati] è andato all'Accademia e ha fatto l'attore, a lungo con Patroni Griffi, a Roma. E poi c’era anche Roberto [Bacchilega] che poi è andato ad Amsterdam, una trentina d'anni fa, e fa teatro là. ANGELA: Ci faceva leggere tutti i numeri di «Sipario», quelli con i testi, quando 203 2009-2019 dovevamo cercare un nuovo testo da mettere in scena… ALBERTO: Staccarci è stato un trauma, e forse anche gestito male, però non potevamo fare a meno di farlo. RENATO: Lui, Mario, è stato molto orgoglioso di noi alla fine. ANGELA: A ripensarci ci comportammo male e con arroganza. Anche se lui forse doveva rendersi conto che a un certo punto padre e figlio vanno ognuno per la sua strada… Sui fari aveva proprio ragione, però, ma allora non capimmo, non capivamo… ALBERTO: È morto piuttosto giovane, nel ‘95… Sì, dopo qualche anno la lite si è ricomposta, lentamente, ma completamente. Ha cominciato a vedere i nostri spettacoli, a scriverne. Gli piacevano, sì, era orgoglioso di noi. E per noi la ricomposizione della nostra lite è stata importante. RENATO: Ci aveva dato un forte imprinting, anche se faceva un tipo di teatro che poi non abbiamo fatto più. Però ci ha trasmesso un grande amore per quello che facevamo, ed è stato determinante, ne viviamo ancora. Quindi formammo il Teatro Due Mondi che eravamo… non ricordo… ANGELA: In venti. RENATO: Sì, quindici, venti persone forse anche di più, entrarono anche altri. ANGELA: …ognuno studiava, faceva… RENATO: …e per qualche anno siamo rimasti così, in questa forma amatoriale. Provavamo due o tre sere a settimana, nella nostra saletta, ogni tanto qualcuno imparava qualcosa e lo metteva in comune con gli altri, e siamo andati così fino all’ inizio dell'83, facendo spettacoli così, un po’ da giovani dilettanti, quando… ANGELA: Arrivò Gigi. RENATO: Arrivò Gigi, che è ancora il nostro drammaturgo. Io ero militare, e quando tornavo, in licenza, sentivo un'aria diversa. Stavano succedendo cose, e mi chiedevo: quali? ANGELA: No, bisogna anche dire della sala prove. Che in realtà era un ufficio, perché le prove le facevamo a tavolino, come ci aveva insegnato Mario. RENATO: Ma no, c'era anche la moquette per qualche esercizio fisico… ALBERTO: No, c'era il tavolo, non c'era nessuna moquette. RENATO: Sì, è vero, non c'era ancora. La moquette viene dopo. ANGELA: Perché facevamo… prosa. Imparavamo le parti. RENATO: Prima c’era la lettura a tavolino… Il primo testo che abbiamo fatto separati è stato Giochi di mano, di Furio Bordon, e poi dopo abbiamo fatto Fix, di Nello Saito, Crudele intromissione di Bruno Cagli. Poi abbiamo avuto un interregno di pantomima. Abbiamo avuto il momento della pantomima perché era arrivato un amico [Roberto Fabbri] che faceva il mimo e abbiamo fatto due spettacoli di 204 40 pantomima. Ci siam divertiti molto. Il primo spettacolo di strada è stato nel ’79? ALBERTO: Era un favola per bambini però fatta all'aperto in un parco, in un bosco, dove c'era un personaggio che viaggiava per il mondo. Il nostro primo spettacolo di strada, e non lo sapevamo! RENATO: Poi nell'82 nacque il rito del “buona fortuna”, il nostro rito prima degli spettacoli. ALBERTO: Che va fatto così: [“batte il cinque” ritmicamente con la mia mano e scandisce] BUO-NA-FOR-TU-NA!, sillabato. Ognuno lo deve fare a tutti. RENATO: Sì è nato nell'82. Furono dei bambini a insegnarcelo, bambini con cui avevamo fatto un seminario. E noi subito lo prendemmo. Lo facciamo ancora… Nel frattempo, alcuni di noi se ne erano andati. Angela e Alberto stavano insieme, e Alberto era stabilmente il regista. Era talmente scarso come attore che non… [tutti ridono]. ANGELA: Non aveva altre possibilità! RENATO: … non si è mai, mai pensato di poterne fare un attore. ALBERTO: Alle medie ero stato Amleto!… ma poi quando è arrivato Marcello [Donati] e altri più bravi sono andato proprio… Così facevo l'assistente di Mario Zoli, non tanto per la regia, ma per tutta la parte tecnica, perché Mario su questo era negato, e quindi ero un po' il suo braccio destro, anche nell'organizzazione. ANGELA: Anche io ero proprio… ero negata totale. La mia prima uscita è stata in Mistero Buffo, Mario mi fece provare non so quanto, avevo un sole, un cartone… un legno rosso, dovevo fare il sole… RENATO: La luna. ANGELA: No, la luna l'ho fatta in un altro spettacolo [di nuovo risate]. E dovevo attraversare il retro palco col sole, sollevarlo al massimo quando ero al centro, e poi scendere. Questa è stata la mia prima parte. Un'altra volta facevo un angelo, mi dovevo arrampicare in cima al praticabile, e forse non dicevo neanche una parola, stavo un po' lì, così… e poi uscivo. RENATO: Era un'apparizione silenziosa e carismatica… MARIA: Ma com'è che v'è venuto subito in mente di fare una associazione culturale dal notaio? Cioè era così normale farlo, per dei diciottenni? ANGELA: Ecco, la madre di uno di noi lavorava dal notaio, e non ci fece pagare niente… MARIA: Ma lo stesso, vi siete impostati subito sul professionismo? ALBERTO: No, ma avevamo un imprinting e anche un dolore: avevamo lavorato con Mario Zoli e la sua compagnia, che era un'associazione culturale, di cui però non eravamo soci, perché minorenni, e dopo, quando ci siamo divisi, gli altri hanno potuto dire che non eravamo soci, e che quindi l'associazione culturale era solo 205 2009-2019 dei soci adulti. Così abbiamo deciso di fare anche noi un'associazione, dove però tutti dovevano essere soci – anche perché po' alla volta stavamo diventando tutti maggiorenni. A parte questo, abbiamo un po’ ereditato l'impostazione da associazione culturale da AlterEgo. ANGELA: Una mentalità. MARIA: Una forma mentis più che altro. ALBERTO: Aspetta, la partita IVA ce l'avevamo già. La stessa che abbiamo adesso. RENATO: No, secondo me la partita IVA dev'essere dell'81. ANGELA: Sì però, chi è che teneva la contabilità di quell'associazione? MARIA: Ecco, appunto, perché farla? ALBERTO: Ci serviva per i laboratori nelle scuole e nei centri estivi. Dopo arriva l'83, e Gigi. RENATO: Gigi faceva anche lui delle cose di teatro con un suo amico, ma tutte diverse. Insomma Gigi era già teatro di avanguardia, era più grande di noi, faceva cose… ANGELA: Faceva dei gran pizzoni! RENATO: Faceva dei pizzoni di testo… Sperimentazione sulla parola. Era un po’ più vecchio di noi, faceva l'Università, faceva dei testi poetici incomprensibili. Però forse gli sembrò che in noi c’era qualcosa…vide Torna a casa Ulisse, che era la pantomima, era carina… ANGELA: E disse: ragazzi, il teatro non è solo questo, cercate di aprire un po' le vostre teste… ALBERTO: Perché lui andava a Bologna, vedeva cose, leggeva libri. RENATO: Invece noi eravamo proprio dei gran provinciali… Però ricordo che nell'82, quando facevo il militare, leggevo il libro sulla prima sessione dell'ISTA9, quindi c'era già qualcosa che si muoveva, che sapevamo… e poi avevo anche letto Il libro dell'Odin di Nando10. E da quando abbiamo fondato il gruppo, nel '79, Alberto per Natale ci regalava sempre dei pamphlet di estratti da vari testi… ALBERTO: Chi? Io? RENATO: Sì. E c'eran sempre delle cose di Barba o di Peter Brook, sempre. ALBERTO: Quando? RENATO: Già nel 1979. ANGELA: Rena [Renato Valmori] è la nostra memoria storica. RENATO: Devo averli ancora da qualche parte, te li ritrovo… Insomma, nell’83 abbiamo conosciuto il nostro secondo maestro, Mario Chiapuzzo, che poi andò 9. Franco Ruffini, La scuola degli attori, Firenze, la casa Usher, 1981. L’ISTA (International School of Theatre Anthropology) è stata fondata da Eugenio Barba, regista dell’Odin Teatret, nel 1979. 10. Ferdinando Taviani, Il libro dell’Odin. Il teatro-laboratorio di Eugenio Barba, Milano, Feltrinelli, 1978. 206 40 a lavorare dalla Monouchkine. Facemmo con lui un laboratorio, eravamo solo in sette, e ci aprì la mente, letteralmente. Esercizi, ma anche modi di improvvisare, per noi era tutto nuovo. Questo successe a marzo dell'83, e dopo a settembre organizzammo un secondo laboratorio sempre con Mario, cioè sempre noi che andavamo da lui a Bologna, e lui ci fece incontrare altre persone, che avevano fatto seminari tipo il Teatro delle sorgenti Grotowski, Mario aveva fatto anche un laboratorio in Polonia. Cambiò la nostra testa. E fu allora, quando tornammo a casa dal secondo laboratorio, che facemmo una riunione e dicemmo, via il tavolo! ANGELA: Moquette per terra! ALBERTO: E vi alzate in piedi! RENATO: Prove tutti i giorni! d'ora in avanti chi vuole stare col Teatro Due Mondi deve fare queste cose. Così, chiaramente uscirono tutti… 5 – Inserirsi in un mondo ALBERTO: Il primo spettacolo che abbiamo fatto dopo aver conosciuto Gigi e Mario Chiapuzzo, e, attraverso loro, anche tutto un mondo, con Grotowski, Barba, Brook, la Mnouchkine e tutti gli altri maestri, nell’83, è stato Memories, a partire dall'Antologia di Spoon River, costruito facendo improvvisazioni e poi montandole. Il primo spettacolo del nuovo corso. E infatti tutti quelli che sono venuti non hanno capito niente… e così è incominciata la fase “non capiamo cosa fate, non capiamo i vostri spettacoli”, che è stata tanto più forte perché noi, invece, venivamo dagli spettacoli convenzionali, col testo… ANGELA: Che tutti capivano. ALBERTO: Anche la pantomima comica si capiva, e invece questo Memories era… misterioso, tutto buio, pochissime luci… ANGELA: Drammaticità. ALBERTO: Ombre, pianti… ALBERTO: Gigi lavorava sui testi. RENATO: Che erano pochissimi. ANGELA: Ognuno aveva la sua poesia da Spoon River… Gigi faceva parte di noi, ormai. E con quello spettacolo, Memories, andammo in varie scuole superiori, girammo per diverse scuole. ALBERTO: Era difficile spiegare agli studenti che teatro era quello. Forse non lo sapevamo neanche noi. RENATO: Quell'anno facemmo anche un laboratorio con Cieślak11 tutti noi attori. 11. Ryszard Cieślak, 1937-1990, attore, figura centrale del Teatr-Laboratorium di Jerzy Grotowski, 207 2009-2019 ANGELA: E dopo ne facemmo uno con Flaszen12. RENATO: E un paio d'anni dopo facemmo anche alcuni laboratori di acrobatica con un altro Mario, che era Mario Pardi. ANGELA: Il terzo Mario… il nostro trio. Poi ce ne è stato un altro, Mario Barzaghi, dopo che è uscito dal TTB. ALBERTO: Vedemmo anche spettacoli, alcuni dei quali sono stati determinanti. Al Milione 13 c'eravamo tutti. Invece a Sant'Arcangelo, a vedere Ceneri di Brecht 14, no, perché c'erano solo due posti, e andammo solo io e Gigi. Ceneri di Brecht mi ha cambiato, e molto, ma non solo per l’Odin e il suo tipo di spettacoli, ma anche per Brecht, è stata un po’ la scoperta di Brecht, di un mio, nostro interesse che ancora dura, fortissimo. Però l'incontro con tutto quel mondo, con i gruppi teatrali, con l’Odin, con Barba, e poi dopo il Teatro Tascabile, a cui siamo ancora molto legati, con persone come Nando [Taviani] o Franco [Ruffini] e Nicola [Savarese], con Cristina [Valenti], e con te [Mirella Schino]15. Lì incontrammo anche Claudio Meldolesi, almeno noi, perché Gigi già lo conoscevamo come professore all’Università. Noi però lo incontrammo per la prima volta a Frascati, e l’ho riconosciuto subito come una guida per il mio interesse per Brecht, per cui ogni volta che abbiamo affrontato testi di Brecht (Il cerchio di gesso, Santa Giovanna dei Macelli) gli ho chiesto aiuto. E lui è stato sempre più che disponibile, andavo a casa sua, spesso anche con Gigi, più volte, e ci dava consigli. Poi lui ha visto alcuni esiti di laboratorio in cui ho lavorato con degli studenti sui Drammi didattici, e anche in questo caso abbiamo avuto da lui considerazioni e osservazioni. Ci è stato vicino, per noi è stato un amico importante. Un maestro e un compagno. RENATO: Conoscevamo già il Centro Teatrale San Geminiano di Modena16 e Pietro Valenti, ma l’incontro vero è stato dopo l'89, quando abbiamo fatto Ubu Re … interprete di alcuni dei suoi spettacoli più celebri. 12. Ludwik Flaszen, 1930, scrittore, critico, drammaturgo, collaborare di Grotoswski per il Teatro delle 13 fila, poi Teatr-Laboratorium. 13. Il milione, spettacolo dell’Odin Teatret, 1978. 14. Ceneri di Brecht, spettacolo dell’Odin Teatret, 1982. 15. Ferdinando Taviani, Franco Ruffini, Fabrizio Cruciani, Nicola Savarese, Gerardo Guccini, Claudio Meldolesi, Cristina Valenti, Mirella Schino sono tutti studiosi di teatro legati, in quegli anni, all’Odin Teatret e più in generale al movimento di teatro di gruppo. Ferdinando Taviani è anche il consigliere letterario dell’Odin Teatret. 16. Il Teatro San Geminiano è stata una esperienza veramente importante, in Emilia Romagna, ne riporto quindi le tappe essenziali così come mi sono state raccontate da Cristina Valenti, che qui ringrazio. Nasce nel 1983, tra i fondatori ci sono Pietro Valenti (Direttore artistico) e Fabrizio Orlandi. Nel 1985 ottiene dal Ministero il riconoscimento di Centro di produzione teatrale. È un luogo pressoché unico in Italia: avendo a disposizione una foresteria, è in grado di ospitare le 208 40 ALBERTO: …e poi Pino di Buduo [regista del Teatro Potlach] ci ha invitato a Frascati, a questo seminario immaginato da Barba in cui ci siamo incontrati… Sì, incontrammo tutto un mondo, allora. Ma già avevamo visto molti spettacoli, come quello di Cieślak, Aleph [1983] o Il giardino dei ciliegi di Pontedera17, che vedemmo a Bologna… RENATO: Vedemmo anche Talabot 18. E poi Gigi era molto fissato con le avanguardie, quindi andammo a vedere La Gaia Scienza, Falso Movimento, Magazzini Criminali. ALBERTO: Carmelo Bene. RENATO: La Valdoca. ANGELA: Il primo spettacolo della Valdoca fu bello, bello… RENATO: Però quelli che mi hanno colpito di più, in quegli anni, furono Talabot e Kantor, soprattutto Crepino gli artisti, Wielopole Wielopole… La classe morta 19 non l'avevamo visto. Vedemmo anche il Mahabarata 20, Questi sono stati sicuramente gli spettacoli rimasti per anni nel nostro immaginario… ANGELA: Intanto, per mantenerci, lavoravamo. Mi sono diplomata all'Istituto d'arte, e il mese dopo ho cominciato a lavorare in fabbrica, ci ho lavorato due anni e mezzo, poi ho fatto qualche supplenza all'istituto d'arte. Alberto e io eravamo una coppia, dividevamo le spese, i guadagni… Alberto aveva aperto uno studio di grafica, si chiamava Due Mondi grafica. RENATO: Volevamo fare anche una falegnameria Due Mondi, volevamo fare altre 17. 18. 19. 20. compagnie per residenze produttive prolungate e di ospitare in seguito gli spettacoli per parecchie repliche. Insieme a pochi altri Centri in Italia, è punto di riferimento fondamentale per compagnie diversissime tra loro, come Santagata/Morganti, Robledo-Delbono (poi Compagnia Pippo Delbono), Teatro della Valdoca, César Brie, Raffaello Sanzio, Danio Manfredini. Stabilisce una forte collaborazione con il regista Thierry Salmon e sviluppa una attività importante presso la Casa circondariale Sant’Anna di Modena. La sua anomalia risiede anche nel fatto che, a differenza della maggior parte dei centri di produzione italiani, non è gestito da un gruppo teatrale ma da operatori, e quindi è più aperto a ospitalità e collaborazioni produttive di quanto non sia consueto. Nel 1990 è fra gli organizzatori di una sessione dell’ISTA insieme al Comune di Bologna e al Teatro Ridotto. Dal 1989 il Centro di produzione viene gestito dalla società Drama Teatri – San Geminiano, di cui è Direttore artistico Pietro Valenti, che nel 1994 diventa Direttore di ERT Teatro Stabile dell’Emilia Romagna. Nel 1996 il San Geminiano si fonde con l’ERT. Il suo archivio è conservato presso la sede dell’ ERT a Modena (consultabile nel portale IBC – Istituto Beni Culturali dell’Emilia Romagna). Il Giardino, 1981, Piccolo Teatro di Pontedera, regia di Roberto Bacci, drammaturgia di Ferdinando Taviani. Spettacolo dell’Odin Teatret, 1988. Tadeusz Kantor, 1915-1990, pittore, scenografo e regista polacco. La classe morta è del 1975, Crepino gli artisti del 1985 Di Peter Brook, 1985. 209 2009-2019 cose così… ANGELA: Insomma, in qualche modo campavamo. Vabbé, nell'86 ci siamo sposati, Alberto e io, ci si arrabattava, un po’ di lavoro e un po’ di laboratori… Quando arrivavano le mazzate grandiose tipo il dentista andavo da mia mamma e lei mi dava un po’ di soldi. I miei, devo dire, hanno sempre sostenuto questa nostra idea di far teatro, e non era scontato. Ma lavoravamo moltissimo e sopravvivevamo. In qualche modo. Erano anche altri tempi, la casa ci costava cento mila lire al mese. Ho vissuto vent'anni in quella casa, ci sei stata anche tu, Mirella, ti ricordi? Alberto e io avevamo attaccato al soffitto delle stelline fosforescenti, che si illuminavano al buio, era piaciuto moltissimo a tua figlia bambina… RENATO: In quegli anni i soldi praticamente non c’erano, nessuno di noi li aveva. Ma si campava ugualmente, non riesco a capire come facevamo. ANGELA: Anch'io, a ripensarci, me lo sto chiedendo. RENATO: Però, va detto: se il teatro Due Mondi esiste ancora oggi è perché c'eran loro due, Angela e Alberto, che l'han mandato avanti. Io in quegli anni lavoravo al bar, in teatro potevo stare poco, ci eravamo ridotti di numero, e poi sono andato via per un po’. ANGELA: E noi, nel frattempo, stavamo montando uno spettacolo, a Brisighella, perché qui non avevamo abbastanza spazio. Cercammo un maschio, perché lo spettacolo era Ubu roi 21 e avevamo bisogno di un père Ubu. Trovammo un tipo, che adesso è avvocato. Figlio di un medico, di Bologna, un po’ fighetto, ma bravino… potevamo scegliere tra tre, e alla fine scegliemmo lui. Quando arrivò a Brisighella, però, deve aver avuto un trauma da cui non si è ancora ripreso. Faceva un freddo polare, lì, non ti puoi immaginare. Noi avevamo pulito lo spazio in cui provavamo, ma sotto c'era una scaletta semi-crollata, e un seminterrato con i muri venivano giù per la muffa, c’era una umidità che si mangiava tutto. Avevamo solo un bagno alla turca, che però non aveva più smalto, quindi, diciamo, avevamo un secchio. Proprio una pena. E noi mangiavamo anche lì, avevamo il fornello, ci facevamo una pasta, così risparmiavamo sul mangiare. Questo poveretto voleva far l'attore, veramente avrà avuto un trauma. Ma a me, che vuoi farci, ancora pesano le cinquecento mila lire che gli demmo per metter su questo spettacolo… RENATO: Che non erano poche. ANGELA: Sì, avevamo fatto le cose per bene. E insomma, alla fine facemmo il nostro spettacolo, e lui era anche bravino, e praticamente fu il nostro vero debutto. 21. Come si vedrà più avanti, dell’Ubu re dei Due Mondi esiste una versione del 1987 e una del 1988. 210 40 Avevamo anche assunta una persona che doveva fare la promozione di questo nostro nuovo spettacolo, ma fu un buco nell'acqua, con lei spendemmo dei soldi proprio inutilmente. Da quel lato lì siam negati, non c'è niente da fare. Noi, però, eravamo contentissimi di questo spettacolo, ci piaceva, eravamo soddisfatti. E… niente, praticamente finito lo spettacolo, facemmo tre, quattro repliche.. ALBERTO: No, molte di più… ANGELA: Lì a Brisighella tre o quattro. Poi “Ubu” un giorno venne e disse: guardate, con voi non lavoro più, mi sono anche fatto male alla schiena. Del resto, con lui è stato un miracolo che siamo arrivati alla fine, dai, poveraccio. Se ci pensi. Eravamo abituati, avevamo passione, ma questo posto era tremendo, forse la cosa più tremenda era restare a mangiare lì… con quel freddo e il cesso alla turca senza smalto. RENATO: Io avevo visto lo spettacolo, anche se ero uscito dal gruppo per vari motivi, tra cui anche un certo disaccordo dal punto di vista artistico. Ma quando vidi Ubu, pensai che lì si era trovato qualcosa che prima non c'era. E loro erano così nella merda… ALBERTO: Merdre! RENATO: … dopo aver finito lo spettacolo, e senza più attore protagonista, scrissi una lettera, perché eravamo rimasti in buoni rapporti, e io avevo continuato a far teatro, altrove. Scrissi una lettera molto accorata, perché va detto che con Alberto le cose non sono facili, qualsiasi attore che sia andato via dal gruppo non rientra più, perché Alberto se la lega al dito. ALBERTO: Non è vero! Non è vero… Non avete prove … RENATO: Io sono tra i pochissimi. E insomma, dissi: se volete rimettere in piedi lo spettacolo ci sono io. Non fu proprio una sostituzione, ricominciammo a lavorare a una versione un po’ diversa. Facemmo un sacco di lavoro sulle improvvisazioni… ALBERTO: Le musiche erano completamente diverse. ANGELA: Io non me lo ricordo così diverso… ALBERTO: Tutte le macchine sceniche erano nuove. ANGELA: Addirittura! ALBERTO: Certo, anche i costumi, le giacche… RENATO: Le giacche? Non c'erano prima le giacche? ANGELA: Sì sì sì. ALBERTO: No! RENATO: Ci aiutò molto anche Alessandro Gentili, che nel frattempo era venuto a vivere a Faenza, lui è sempre molto stato bravo anche in queste cose, a far tutti questi marchingegni. E poi Marcello D'Agostino ci fece le luci, ed è iniziata 211 2009-2019 un’altra delle nostre collaborazione di lunga durata, eterne, tutte le luci ce le ha sempre fatte lui. E poi nell’aprile dell'89 siamo andati a Frascati, al seminario voluto da Barba e organizzato dal Teatro Potlach, e lì è iniziato tutto… ANGELA: Era un incontro tra gruppi nuovi e gruppi più vecchi … ALBERTO: Si chiamava incontro col nuovo teatro di gruppo. Lì, come ho detto, vi incontrammo tutti, Nando [Taviani], Ruffini, Cristina [Valenti], tu… ANGELA: Così ci siamo conosciuti con tutti voi, anche con Renzo [Vescovi]22, e lo stesso anno andammo dal Tascabile, a Bergamo, al loro festival “Sonavan le vie d’intorno”… ALBERTO: Pietro Valenti l'avevamo conosciuto prima, perché lui girava per conto di Santarcangelo a vedere gli spettacoli, venne a Brisighella, però lo re-incontrammo, in un certo senso. RENATO: Andavamo spesso al San Geminiano… ALBERTO: E stabilimmo un nuovo contatto con Valenti, anche se tecnicamente già ci conosceva. Poi gli proponemmo la produzione de Il cerchio di gesso del Caucaso, nel ’94, e facemmo anche dei laboratori… Eravamo anche dentro un mondo. Forse era anche più facile riconoscerci dall’esterno, non so. Trovammo degli amici, dei consanguinei… E infine, nel’96 trovammo anche questa sede. Angela aveva visto questo posto, un'ex stalla di sosta, che al più serviva come deposito: quando c'era il festival dell'Unità le donne mettevano qui i tortellini che facevano. RENATO: Ci facevano i collaudi delle auto girando qui intorno… ALBERTO: Era un centro fieristico. ANGELA: E quindi ho detto: ma guarda quel posto lì potrebbe fare al caso nostro. E siccome nessuno lo voleva, e nessuno ne faceva niente, perché era abbastanza fatiscente, ce l'hanno dato. E così è cominciata la storia della Casa del Teatro. RENATO: L'abbiamo usato per tre quattro anni così, facendo noi tutti i lavori che erano necessari. Abbiamo sistemato il bagno, fatto il pavimento di legno, messo il riscaldamento. Ci abbiamo speso un bel pacco di milioni di lire, penso più di dieci! E poi, finalmente, nel 2000, il Comune ha avuto dei soldi dalla regione, e ha sistemato anche questo spazio, fino al 2002… ALBERTO: [A Gigi Bertoni, che è arrivato nel pomeriggio] Abbiamo detto che tu facevi dei terribili spettacoli di parola e di poesia, quando ti abbiamo incontrato… quali erano i tuoi modelli di ispirazione? ANGELA: Ma non sei tu che devi fare le domande, sono loro! 22. Renzo Vescovi, 1941-2005, regista del Teatro Tascabile di Bergamo. 212 40 ALBERTO: No, no, faccio io la domanda. GIGI: Allora negli anni Ottanta cosa potevo guardare? Guardavo Carmelo Bene, andavo a vedere Robert Wilson dov'era possibile, a Nizza, a Roma. E poi Pina Bausch e i Magazzini Criminali… ALBERTO: Però anche altri, come Cathy Barberian… ANGELA: Falso Movimento. GIGI: Demetrio Stratos… Il più grande amore giovanile è stato Carmelo Bene… andavo a Venezia, andavo in macchina, guardavo lo spettacolo di Martone, poi tornavo a casa alle quattro e mezza di notte, però era bellissimo. Facevo l’università a Bologna, appena arrivato al DAMS ero già ubriaco di tante cose… Wilson, la Bausch, Kantor, Grotowski: sono arrivati per prima cosa dai libri. Sono stato allievo di Claudio Meldolesi, e anche se poi non mi sono mai laureato sono stati anni bellissimi, ho imparato e poi visto cose bellissime… e adesso non riesco più ad andare a teatro. E se qualcuno mi chiede perché non ci vado più, posso solo rispondere che dopo aver visto la Bausch tre volte, quando venne a Venezia, tre sere consecutive, poi cosa vai a vedere? 6 – Visti dall’esterno: storia di Maria e di Tanja MARIA: Sono entrata nel ’94, dopo un laboratorio fatto dai Due Mondi a Brescia. Avevano fatto lo spettacolo per il ventennale della strage di Piazza della Loggia23, e un laboratorio a cui avevo partecipato. Mi era piaciuto moltissimo il lavoro che facevano – avevo già fatto molti altri laboratori, ma più “classici”, quelli in cui stai seduto e ti dicono tutto quello che devi fare. Anzi, in realtà continuavo a fare laboratori, uno dopo l’altro, mi piaceva far teatro, dopo il lavoro. Dei Due Mondi mi era piaciuto un modo di lavorare diverso da quello che avevo sempre fatto… e mi piaceva molto anche questa idea del gruppo: persone che lavorano sempre insieme. Mi piaceva l’idea di trovare delle persone – poche, scelte – con cui condividere una lunga parte della mia vita. Era qualcosa che avevo dentro di me. E mi piaceva anche il fatto che facessero tutto loro, dall’organizzazione ai costumi, dalle luci alle azioni in scena. Non mi piacerebbe fare l’attrice e basta, so che per molti non è così, ma a me non piacerebbe. Mi piace anche fare i conti, sono cose che soddisfano parti diverse di me. Con loro ho trovato un modo di 23. Nel 1974 un attentato neofascista - una bomba durante una manifestazione antifascista – provoca la strage di Piazza della Loggia. Nell’attentato (di cui saranno riconosciuti responsabili alcuni membri del gruppo neofascista Ordine Nuovo, e che precede di pochi mesi la strage del treno Italicus, per il quale furono pure accusati esponenti del neofascismo italiano) morirono otto persone e ne furono ferite centodue. Nel ’94, il Teatro Due Mondi venne chiamato a gestire tre laboratori e un grande spettacolo finale, Passo di maggio. 213 2009-2019 essere in cui potevo starci tutta, con tutte le mie parti… A Brescia stavo bene. Avevo i laboratori, la famiglia, e una tabaccheria, lavoravo con mia madre, ricevitoria lotto. Ho chiesto ai Due Mondi se potevo lavorare con loro. In quel periodo avevano due allievi, e ho chiesto se potevo essere la terza, assumendomi i costi. Era morta mia nonna, aveva lasciato una casa a Cesena, avevo un po’ di soldi. Ho dovuto dire a mia mamma che me ne andavo, e non è stato facile. Il mia papà è morto quando ero piccolina ed io e Giulio, mio fratello, siamo stati da subito abituati all’aiuto reciproco. Il nostro nucleo familiare è sempre stato molto forte, molto compatto, quando c'è bisogno si chiama e gli altri arrivano. Però questo rende difficile andare via. Ma sentivo che stava passando un treno, importante, forse, e ho pensato: lo prendo e provo. Stavo bene, guadagnavo bene, con la ricevitoria lotto, però all’improvviso mi è sembrato che così la mia vita non avesse mica senso. E quindi ho spiegato a mia madre: dai, vado, tanto magari torno. Oggi li ringrazio perché hanno all’inizio accettato il mio colpo di testa e poi negli anni hanno sempre sostenuto me e le mie scelte. Poi però tornare diventa impossibile, perché ti piace quello che fai, ti piacciono le persone che hai incontrato… non conoscevo molto di questo mondo nuovo, stavo sempre zitta a ascoltare tutti i nomi che loro proponevano, ma mi piaceva il modo di fare, quell’energia nel fare teatro. E i loro spettacoli mi emozionavano sempre, era come se fossero la materializzazione di quello che piaceva a me. E ancora adesso è così, mi piace quello che facciamo, ci credo. Il nostro problema coi giovani, ora, è che dopo qualche anno non si ritrovano in questa estetica, invece io l'ho sentita molto mia, questo costruire le cose con le tue mani… TANJA: Voi pensate di no, però molte persone se ne sono andate non tanto per motivi artistici quanto per motivi personali, e dobbiamo tener presente che noi viviamo male l’idea che una persona possa avere esigenze diverse dalle nostre, e possa avere impossibilità oggettive – no, soggettive – e possa non comportarsi proprio nello stesso modo in cui faremmo noi. È per questo che non proviamo mai a fare un compromesso, a vedere se si possono incastrare le cose in modo diverso… ANGELA: Ma se io faccio un'eccezione, e dico: ok, non venire in tournée con me, ti sostituisco, e pago la sostituzione, tu poi mi devi dimostrare che ho avuto ragione ad aver fiducia in te, che ti sei reso conto della difficoltà, anche economiche, in cui hai messo i tuoi compagni di lavoro. Nessuno è obbligato a far l'attore, e ognuno ha le sue esigenze, ma se ognuno si alza la mattina e dice: Ah! ho questo problema, ho bisogno di quest’altro! qui possiamo chiudere. Ci sono sempre cose che vorresti, però non le fai per rispetto degli altri, di quel che abbiamo in 214 40 comune. L’unica che ha resistito, dopo Maria, è stata Tanja, che è la più giovane dei vecchi… TANJA: Io sono entrata nel 2001, come organizzatrice. Avevo cercato un teatro di gruppo con cui lavorare. L’ho cercato su internet, e ho trovato loro, il sito dei Due Mondi, e mi sono proposta come organizzatrice per promuovere spettacoli all'estero. Avevo lavorato sette anni, in Francia, con un gruppo dalla struttura simile. Poi quell'esperienza è finita, o l’avevo sentita finita per me, e in seguito il direttore si è ammalato gravemente, ed è morto. Era in ospedale quando gli ho detto che avevo trovato un gruppo in Italia, e che andavo a conoscerli, e l'ultima volta che l’ho visto mi ha detto: allora, come va con gli italiani? Sei contenta? Era… contento e un po’ geloso, sì. Quando sono arrivata qui cercavo un cambiamento, non avevo neppure detto che ero stata attrice… RENATO: L'abbiamo capito noi. TANJA: Dopo tre mesi Alberto mi ha portato al bar, e mi ha detto: ti devo parlare. Sei venuta qua, immagino che tu abbia altre ambizioni, dopo aver vissuto a Parigi, Berlino, e non solo quella di fare l'organizzatrice per un gruppo di provincia come noi. Forse vorresti anche fare l'attrice… e ha aggiunto che, se volevo, potevo andare un po' in sala, e potevo mostrare agli altri quello che avevo fatto in passato. E io mi sono vergognata, mi sembrava di avere così poco… Ma con loro, all’inizio, non c’è stato tanto un innamoramento estetico, quello è venuto dopo, all’inizio è stato più un innamoramento di vita. È stato dopo, quando sono cominciati i periodo di ritiro per gli spettacoli, i momenti intensi di creazione, di ricerca, quando cominciammo a lavorare per Oriente, sono stati momenti molto belli… mi piaceva il loro modo di creare, mi piace. ANGELA: Per Oriente abbiamo fatto un vero e proprio ritiro, ci eravamo presi una settimana, dieci giorni: la zia di Alberto è suora, e queste suore avevano una casa in campagna, sulle colline, noi abbiamo detto, basta! andiamo a ritirarci là e a vedere di tirar fuori delle idee per il nuovo spettacolo. Ci siamo andati due volte… È stata una di quelle poche volte… MARIA: Bello è stato. ANGELA: …in cui ci siamo proprio isolati dal mondo RENATO: Sì, e in altre occasioni siamo anche andati un paio di volte dal TTB [Teatro Tascabile di Bergamo], l'abbiamo fatto per La fattoria degli animali nel '96, per uscire fuori dalla routine quotidiana, da tutti i problemi che avevamo qui, per stare da un’altra parte… Non tanti giorni, al massimo una settimana, però per quei giorni non esisteva nient'altro che lo spettacolo. ANGELA: Dai, smettiamo, io ho fame… 215 2009-2019 7 - Momenti di svolta e di crisi ANGELA: Posso dire la mia. Alberto e io ci eravamo sposati nell’86. Avevamo condiviso fin da giovani tutta questa vita. Stavamo insieme dal '77. ALBERTO: Dal '76. ANGELA: ’76, ‘77… va bene, è uguale. RENATO: Però, ascolta, tu entrasti in Alter Ego nel gennaio '77, ed eri già la morosa di Alberto, quindi o vi siete messi insieme il primo gennaio, o era il ’76 … ALBERTO: 5 gennaio del '77. ANGELA: Eh va bene… volevo solo dire che quando c'è questa mescolanza della vita privata con il lavoro, come tra me e Alberto, visti anche i nostri caratteri, possono esserci crisi, o almeno discussioni. Io sono sempre stata molto combattiva, lo sono tutt'ora. Così nascono discussioni, litigate, molte cose. E ancora più complicato è stato quando la relazione tra noi due andava finendo, tra cambiamenti personali e teatro… non andavano per niente bene le cose. Così ho pensato di andare via per un po’, ho chiesto il permesso di andare via dal teatro per tre mesi e sono andata in Bolivia, dal Teatro de Los Andes24. Era la prima volta che facevo un viaggio da sola, quindi ti puoi immaginare, andare fino là! Non ero una bambina, ma per molti versi era come se lo fossi. E ho vissuto questa esperienza molto bella. César [Brie] era venuto un mese in Italia a lavorare, e io avevo creato un bel rapporto con Teresa [Maria Teresa Dal Pero, allora attrice del Teatro de Los Andes], e mi sembrava fantastico il fatto che facessero solo teatro. C’era una persona che si occupava dell'amministrazione e dell'organizzazione del gruppo, c’era una cuoca che faceva da mangiare a pranzo e cena, ognuno aveva la sua stanza, e loro facevano teatro tutti i giorni, tutto il giorno. Li ho invidiati tantissimo. E facevano delle cose molto belle e interessanti, erano molto più avanti di me, sicuramente, a livello di attore. È stato un momento molto bello e molto difficile per me. Ho avuto la tentazione di rimanere. Però sono tornata, sono troppo legata, qui, al teatro, e ai miei, a tutto, non credo che avrei avuto il coraggio di chiamare mia madre e dirle “non torno”, tutte le volte che la chiamavo mia madre piangeva a fontana, “quando torni quando torni”… fortuna che non c'erano i cellulari, guarda, meraviglioso… RENATO: [che sembra avere ancora in testa la cena della sera prima] Preparava tortelli e aspettava il ritorno della figlia. ANGELA: Sono rientrata, Alberto e io ci siamo separati, e poi c’è stato l’arrivo in teatro di nuovi allievi, cioè Josi [Josiane Antello Vieira] e Sauro [Rossi], poi arrivò 24. Fondato in Bolivia da César Brie nel 1991. 216 40 la Mary a ottobre, Paola [Sabbatani] lavorava già col gruppo, cominciammo a lavorare moltissimo in sala, stavamo continuando a cercare, a provare… Alberto sperimentava, e noi con lui. Quindi è stato un momento molto… sì, che mi ha tenuto comunque qui, mi ha fatto ricominciare tutto. ALBERTO: Forse siamo diventati più un gruppo. RENATO: Dopo quella grande crisi, ci sono stati tre anni che io chiamo gli anni felici del Teatro Due Mondi, forse le crisi servono a questo. Perché dal '94 al '97 è stato forse il periodo migliore in assoluto della nostra storia. Avevamo una grandissima voglia di lavorare, nelle nostre due stanzette c'erano momenti in cui tutti facevan qualcosa: c'era uno che suonava giù nelle scale, un altro nel bagno, uno in cucina e uno più fortunato che stava in sala… eravamo tutti, tutti al lavoro, studiavano uno strumento e lavoravamo sempre molto assieme, lì sono nate le variazioni: c'era questa voglia di studiare su noi stessi, di scoprirci. Non è più stato così come in quegli anni. Anche se adesso sembra che stia iniziando un altro periodo forte, dal punto di vista del lavoro – dei soldi no, per niente. Ma del nostro lavoro, forse… ANGELA: Beh sì non è più stato così nel senso che comunque dopo gli anni passano… Però ci sono state altre cose, e tante… RENATO: Vanno via Sauro e la Josi, è stato un altro momento così… si veniva da un periodo di vicende personali un po' complicate. La Josi era venuta in Italia per fare un'esperienza, e forse sarebbe andata comunque via. Sauro invece andò via per vicende personali. Per me quella di Sauro è stata la perdita più grande del Teatro Due Mondi, in assoluto. Per cui dopo passammo un annetto di crisi. ALBERTO: Comunque alla fine impari che chiunque vada via anche se sembra insostituibile alla fine è sostituibile. 8 – Il regista ALBERTO: Io sono il portavoce. RENATO: Secondo me, Alberto, rispetto a tutti noi ha sempre più chiaro l'obiettivo, anche perché i primi impulsi spesso li dà lui, cioè se facciamo il lavoro coi rifugiati, se facciamo certe cose l’impulso viene da lui, è lui che va a fare i laboratori fuori, e gli obiettivi, per lui, sono chiari. Ma non è la nostra voce. È il portavoce, è diverso… Ogni tanto non siamo d'accordo. Angela spesso… ANGELA: Beh su certe cose no, non sono d'accordo. Su quanto riguarda scelte sullo spettacolo, sul lavoro degli attori, oppure cose che non mi piacciono, e che non voglio fare. Il lavoro con i rifugiati, per esempio, è nato quasi per caso, in uno di quei momenti in cui ti fai venire anche l'ulcera perché non si lavora abbastanza. In uno di questi momenti è capitato che una mia cugina, che lavorava in un centro 217 2009-2019 dove dormivano dei rifugiati, venne a parlarci e disse: ho venti rifugiati, ignorati da tutti, perché non venite a fare uno spettacolo? E noi ci siamo chiesti che senso aveva fare uno spettacolo in una situazione come quella, e ci siamo detti che era molto meglio fare un laboratorio, una cosa continuata… Tutto il nostro lavoro con i rifugiati è nato per caso, dall'idea di mia cugina, e poi è andato avanti negli anni, ed è stato secondo me una scelta importante. Faticosa, perché a volte dopo aver lavorato tutto il giorno è faticoso fare anche il laboratorio, abbiamo avuto anche grosse divergenze sulla conduzione del laboratorio, soprattutto quando i rifugiati erano di meno (adesso a volte siamo sessanta-settanta persone). Io avevo in mente qualcosa che fosse più legato a quello che so fare io, il teatro, il lavoro d’attore. Alberto, invece, andava in un'altra direzione, la direzione del non-attore, però alla fine ho detto va bene, fai quello che vuoi tu. Lo fai tu. Perché noi ci siamo e partecipiamo, però il conduttore di questo laboratorio è fondamentalmente Alberto. ALBERTO: Comunque cos'è che decido da solo se non alcune cose sugli spettacoli? ANGELA: Alcune volte ci sono delle cose che devono essere decise forse così, da solo… Ma in linea di massima decidiamo insieme. Ci sono cose su cui non siamo d'accordo, oppure cose per cui Alberto martella fino a che tutti accettiamo. Però questo mi sembra naturale. E alla fine diventa sempre una decisione anche nostra. TANJA: Secondo me le decisioni sono praticamente tutte condivise, però con discussioni fiume. In Germania è stato divertente perché è venuto fuori una discussione veramente assurda, tempestosa, proprio stile Due Mondi, sulla strada da fare. Mio padre non capisce l'italiano, e dopo un po' mi ha chiesto: ma di cosa state discutendo? E quando gliel’ho spiegato, era sbalordito, ha detto: ma se il problema è tutto qui lo risolvo io! Ha fatto una telefonata, ha detto questa è la situazione, vi consiglio questa strada. Tutti d'accordo? Sì. Fine. È un buon esempio: siamo fin troppo propensi a discutere sulle decisioni da prendere. Certo, nella quotidianità è Alberto che decide su molte cose, ma anche perché su di lui convergono molti fili, e praticamente tutti noi, per prendere le decisioni finali delle cose di cui ci occupiamo, ci consultiamo con lui. Però siamo… come dire? a base democratica? Tutto va discusso fino allo sfinimento! GIGI: L'assemblea è sempre, permanentemente riunita… [rumori di riso commenti]. Però bisogna tener conto della fiducia, di fondo, che c’è tra di noi, sia per il lavoro artistico, che per la vita quotidiana. Io non divido proprio la loro vita, non vado in tournée, non vivo dieci ore al giorno qui, partecipo solo a singhiozzo alla assemblea permanente, la mia è quindi una percezione metà da esterno. Però secondo me il nodo essenziale sta nella fiducia: sapere che, se mi trovo in 218 40 minoranza, in una discussione, il gruppo sta comunque prendendo una decisione nella convinzione di andare avanti, di fare una scelta corretta, e quindi non ci resto male ad essere in minoranza in quella discussione. Nella riunione dopo si ripartirà da zero su un nuovo problema. TANJA: Ci sono discussioni tremende, a volte. E per me è strano, provengo da un altro mondo culturale, e spesso, durante le peggiori tempeste, mi spaventavo, specie all’inizio, e gli altri mi dicevano: guarda che è tutto normale, non è grave. Però… mi fa impressione. Per me discutere tre ore e poi piangere per altre tre è gravissimo. Per loro non vuol dire niente, e il giorno dopo è come se niente fosse… Però va bene. Nella compagnia dove lavoravo prima non era così. C'era un capo più autoritario, non si arrivava mai a confronti come questi. Qui quando si discute sembra che ci si voglia ammazzare. E poi non è niente. No, io non faccio testo. RENATO: A me sembra che Angela e Alberto abbiano sempre un obiettivo comune, però a volte è come se non si capissero, non me lo spiego neanch'io… Si inizia tranquillamente, si parla si parla, poi cominciano che uno dice una cosa e l’altro dice no, no, no! E nel giro di dieci minuti si è arrivati al caos… Ci sono momenti di scontro, però è anche vero che quasi sempre il giorno dopo, un’ora dopo è come se niente fosse. MARIA: Ecco, sono momenti effettivamente un po’ imbarazzanti, e magari una persona che è con noi solo da un anno si trova di fronte situazioni sgradevoli, in cui ci esprimiamo male. È per questo che penso che forse i nuovi non dovrebbero partecipare a tutte le riunioni, non a quelle da cui possono nascere attriti. Solo che è ovviamente è difficile prevedere quando ci saranno attriti… Non siamo mai riusciti, quando si vede scoccare la scintilla, a bloccarla. Non ne siamo in grado… ANGELA: Spesso le liti iniziano da me. Ma la mia non è scontentezza verso il gruppo. Mi manca non poter dedicare più tempo alla sala, di lavorare di più. Di rischiare di più. È una questione mia, bisognerebbe che io stessa mi dicessi, arrivati alle otto di sera: no, adesso non vado a casa, adesso vado in sala. Sarebbe così, il sacro fuoco vorrebbe che tu andassi in sala a lavorare perché hai queste necessità. Io credo molto nel lavoro dell’attore, ci credo molto, e ancora mi piacerebbe sperimentare… E mi rode quando la sera non ce la faccio… 9 - Le parole fondanti ALBERTO: Gruppo. TANJA: L'avrei detto anch'io! ALBERTO: Un'altra parola chiave molto antica è autopedagogia. E pedagogia. 219 2009-2019 MARIA: Adesso è out, no? ALBERTO: Non so, sto parlando di termini importanti per noi… ci sono anche delle fasi diverse, negli ultimi anni, per esempio, la parola relazione secondo me è entrata sempre di più a far parte del nostro lessico. Perché abbiamo un lessico preciso - gli attori sono gli attori, non sono dei performer; lo spazio è lo spazio, non è una location; e… GIGI: Beh all'inizio autopedagogia perché sapevamo di dover imparare, abitavamo troppo lontano da tutto e quindi volevamo costruirci questo percorso di crescita attraverso i maestri; poi è una parola che non ho più amato, non so. Se adesso devo pensare all'ultima fase, le parole che secondo me ci caratterizzano di più perché per noi hanno un significato preciso ma anche all'esterno, sono ad esempio resistenza, per esempio quelle legate alla Casa del Teatro, alle stagioni, compagni, resistenza, queste. ALBERTO: Per me una parola che torna in molte cose è anche la vita quotidiana, cioè teatro come vita quotidiana. Vuol dire sapere che le cose che fai in teatro sono parte della vita quotidiana, che è la tua ma anche di quello che sta attorno. Nello stesso tempo anche come teatro, come artista, guardare la vita che sta attorno a noi, guardare il mondo, nel suo continuo cambiare giorno dopo giorno. Quindi essere presenti, un'altra parola: presente, essere presente sempre allo scorrere della vita intorno a te. Anche se sei chiuso qua dentro, con lo sguardo aperto sulla vita quotidiana, nello stesso tempo anche la strada è un lavorare dentro la vita quotidiana di chi sta nella piazza. Entrare nella vita quotidiana degli altri. Il che porta alla relazione fra – che è un po' anche un motivo per cui si potrebbe spiegare adesso il nome Due Mondi – cioè relazione tra la finzione e la realtà, l'arte e la vita, la vita e l'arte, un continuo dentro e fuori tra quello che fai, il tuo lavoro e… ma secondo me è anche un'idea di… come dire, di abbassare un po' la categoria dell'arte dal cielo alla terra diciamo, quindi di stare in mezzo alla vita. Certo, si potrebbe dire anche la relazione fra le nostre vite quotidiane e il teatro. Però è una parola che mi piace, ma che viene da qualche scritto di Brecht, di sicuro, adesso non mi ricordo se è una lettera agli attori operai danesi… c’è qualcosa di questo genere. Quanto alle parole che usiamo nei laboratorio per attori… mah, presenza. ANGELA: Azione e movimento. ALBERTO: Personaggio. RENATO: Sottotesto. ALBERTO: La presenza è diciamo uno stato di… ANGELA: Di energia. ALBERTO: Vuol dire: sono qui, in questo momento, e faccio veramente le cose finte, 220 40 e non fingo di fare cose vere. Questa è più o meno la presenza. ANGELA: Forse le più importanti sono le parole interne. Si va in sala e si lavora attraverso variazioni. E… l'azione è un movimento concreto, un qualcosa che ha un inizio e una fine, un pensiero. Il movimento è questo [mostra un movimento]. Queste sono le parole nostre, non sono sensi in assoluto. L'azione, per noi, ha un pensiero… ALBERTO: L'intenzione o un'immagine che ti conduce a qualche cosa, un pensiero che sostiene il movimento. Non è un movimento senza pensiero come può essere la ginnastica, ma è un movimento sostenuto da un pensiero o da un archetipo che può anche trasformarsi in un'emozione. ANGELA: Le variazioni riguardano l’allenamento. Si parte da una serie di semplici esercizi ginnici, oppure esercizi di acrobatica di base, anche se non siamo mai stati degli acrobati, e lentamente arriviamo ad azioni, in genere sollecitate dalla musica … Alberto prepara le musiche su cui ci muoviamo in sala e creiamo delle azioni, sempre in movimento. ALBERTO: L’idea era di non partire da un pensiero per creare un movimento, ma di lasciarsi andare a movimenti anche liberi sulla musica, con l'obbligo solo di variare molto, dopo pochi secondi devi cambiare il modo di stare nello spazio o la parte del corpo che usi, con l'idea che fossero i movimenti a portare dei pensieri. È un allenamento a variare anche l'immaginazione, un allenamento fisico ma anche dell’immaginazione… con obblighi di contatto visivo con gli altri, di farsi anche contagiare dagli altri. RENATO: Ora non tanto le facciamo più. L'ultima volta le abbiamo fatte per Santa Giovanna 2 5. ANGELA: Per Santa Giovanna ne abbiam fatte abbastanza, ma anche dopo… RENATO: Lì erano variazioni su tema, per trovare i vari personaggi. ANGELA: A me piacevano molto. Era interessante stare in quattro, cinque persone che hanno ognuna un proprio modo di agire col corpo. Ti permette di cambiare il tuo atteggiamento fisico, che tende a essere un po' sempre quello, prendendo spunto dagli altri. E questo è molto importante. ALBERTO: Poi c’è una parola proprio interna, che è Krïdati. Le altre sono parole nell’aria, messe a fuoco da altri, incontrate in un seminario, e poi fatte nostre, magari cambiate leggermente di senso, comunque trasformate in una pratica nostra. Krïdati invece… RENATO: È una parola chiave. La colpa è di Sauro, e lui che trovò la parola. Noi facevamo questa ‘preparazione dei materiali’, e ci dicevamo “dobbiamo trovare 25. Santa Giovanna dei Macelli, 2005. 221 2009-2019 un nome un po' esotico, che faccia colpo…” ALBERTO: La 'preparazione dei materiali' sembra una cosa da muratori. RENATO: Allora Sauro tirò fuori questa parola che è tratta da un libro di Huizinga, Homo ludens 26, in cui si parlava del Krïdati, una termine sanscrito che indica la danza e il gioco… ALBERTO: E voleva dire anche regalo, anche dono. RENATO: No… TANJA: C'entravano anche le onde, il movimento a onde. RENATO: Sì, sì. Non è chiaro cosa vuol dire, però nella parola ci sono radici della parola danza, la parola gioco. Noi la usiamo per indicare il momento della libertà, quello in cui tu prepari i materiali… ALBERTO: La presentazione agli altri di un lavoro. Un lavoro già strutturato, preparato da solo o in due, non una improvvisazione. È il modo in cui iniziamo sempre gli spettacoli. ANGELA: Sì, più o meno. TANJA: Tranne I musicanti 27 e Carosello 28. ALBERTO: Però è il modo più consueto. RENATO: Il momento in cui mostriamo i krïdati ci siamo tutti, dobbiamo esserci tutti, se all'ultimo momento Gigi non può venire spostiamo l’appuntamento. È fondamentale che ci sia. GIGI: Anche se dal mio punto di vista c'è il problema che tutto questo materiale spesso è difficile da organizzare in modo drammaturgico, perché… sono spunti che a volte contrastano tra di loro, a volte emergono temi che non sono coerenti. Per me, se non c'è una rete rigida fin all'inizio è difficile poi sovrapporla a un materiale del tutto libero proposto dagli attori. Del resto: il lavoro ogni volta comincia in modo un po’ diverso… ALBERTO: L'Omsa 29 era tutto scritto. È stato scritto prima. GIGI: L'Omsa era tutto scritto. Ma qualsiasi affermazione si faccia può essere smentita, perché abbiamo lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili. In 26. 27. 28. 29. 222 Johan Huizinga, Homo ludens, 1938. Le nuove avventure dei musicanti di Brema, 2014. Carosello, 2013. Lavoravo all’Omsa, 2013. Lo spettacolo fa parte di un più ampio progetto del Teatro Due Mondi con le operaie licenziate della Omsa, iniziato nel 2010, che ha portato le “Brigate Omsa” a sfilare in molte città d’Italia. Sul progetto esiste un documentario, Licenziata! girato dalla Cooperativa Sunset di Forlì. Su questo progetto, sul lavoro per il ventennale della strage di Brescia, sul lavoro con i migranti, rimando a quel che ne scrive Alberto Grilli in Il teatro di ogni giorno. Lettera per l’apertura di una casa del teatro, «Teatro e Storia», n. 33,2013, pp, 21-32. 40 Lavoravo all'Omsa siam partiti addirittura facendo leggere il testo alle ragazze, alle operaie, che poi lo hanno cambiato, hanno detto no, così non va bene. E quindi l'abbiamo rimontato tutto, dopo… MARIA: Probabilmente se questo fosse uno dei nostri periodi pieni di giovani le parole importanti sarebbero state tutte diverse. O ci sarebbero state due categorie di parole-chiave, una dei “vecchi” e una dei “giovani”… ALBERTO: Ci sono le parole chiave, come gruppo, krïdati, energia. E ci sono le parole che non possono essere nostre, come location… TANJA: Di nuovo! Questa location riguardava il problema degli organizzatori! E ora salta di nuovo fuori. E per me, comunque, è un buon esempio di quello di cui noi avremmo bisogno: non è importante la parola “compagnia” né la parola location, la cosa importante – per me – è che la comunicazione arrivi bene, forte e chiara. Forse ora il pubblico viaggia sull’onda di un immaginario diverso, e certe parole a noi estranee gli riescono più comprensibili. Non si tratta di adeguarsi, ma solo di far capire, e se una persona deve vendere il nostro lavoro, e comunica con un linguaggio diverso dal nostro, ma riesce a far capire l’essenza, quello che realmente siamo, per me va benissimo. D’accordo, c’è il passato, le scelte storiche, va bene… però se una persona arriva da fuori e noi sentiamo che capisce quel che facciamo e quel che non facciamo, e per raccontarlo dice “la compagnia con quattro performer va in questa location” [risate generale prolungate], se ottiene un risultato, e fa capire ad altri il nostro lavoro, se noi possiamo fidarci, tanto meglio! Conclusioni Sono state due giornate molto belle. Non dissimili da quelle, rare, che capitano quando si fa un buon lavoro di archivio e si scoprono, o si crede di scoprire, vene d’oro nella roccia. Anche risistemare le parole di quelle giornate è stato un bel lavoro. Sottolineo rapidamente almeno alcuni aspetti delle voci dei Due Mondi la cui utilità diventa ovvia non appena la si enuncia, ma che lasciati a se stessi possono sfuggire. Per prima cosa una parola, resistenza. Caratterizza fortemente i Due Mondi. Però in una accezione particolare, che è emersa evidente nel corso del nostro incontro, e non so se appare in modo altrettanto vivido nella sua metamorfosi cartacea: resistere non vuol dire rimanere strenuamente fermi al proprio posto, ripiegati su se stessi e il proprio passato, nonostante i tempi ostili, l’età, le disavventure, e senz’altro non vuol dire immobilizzarsi di fronte ai cambiamenti. È, invece, un atteggiamento pugnace e battagliero – e anche allegro – una lotta attiva per la speranza di un mondo nuovo, e per combattere contro forze ostili che 223 2009-2019 invadono il tuo territorio. Per questo – per qualcosa di più ampio del proprio sé – vale la pena usare, come armi, la propria micro-tradizione, le proprie peculiarità artistiche, i propri numi tutelari, i padri, gli amici, e gli antenati. Per me è questo a colorare gli incontri con i Due Mondi, questa gioia come di chi ha davanti a se le più ampie prospettive di vittoria, e può ridere di qualsiasi problema, perché sa che è passeggero. È una sensazione ben chiara, che mi è stata poi confermata da un incontro successivo, di cui si parlerà più avanti. Penso che sia qualcosa che almeno in parte deriva dalla loro compattezza, da una durata negli anni che è così fortemente intrisa di fraternità, come una scelta reciproca continuamente confermata. Li si vede sempre in giro così, i Due Mondi: tutti insieme. Poi vorrei di nuovo ribadire una informazione ben nota, ma solo a chi conosce bene questo mondo: la quantità di ore di lavoro che occupano la giornata di questi teatranti, e che riguardano spesso per lo più un lavoro completamente diverso da quello di attore, qualche volta fatto con piacere, più spesso no. Non sono un segno di virtù lavorativa, non sono importanti in sé, ma perché indicano senso di responsabilità e di appartenenza – fortissima – di identità condivisa nei confronti del proprio gruppo e della propria cultura. Spiegano anche il peso dato al lavoro – alla quantità pura e semplice di lavoro – da Barba nel manifesto che ha dato il nome al Terzo Teatro: in primo luogo come differenza dai dilettanti, ma forse anche dal resto del teatro30. Le voci dei Due Mondi ci raccontano anche, in veste dimessa, con l’impercettibilità della vita quotidiana, l’importanza di avere un mondo con cui condividere punti di riferimento comuni, che vanno da spettacoli che è importante andare a vedere, a maestri, tecniche, amici. In genere, ci riferiamo al Terzo Teatro come a un insieme di gruppi teatrali gran parte dei quali è “di impronta Odin”, è nata intorno a questo gruppo teatrale, è stata fondata o rifondata dopo una conoscenza diretta con Barba, oppure con un riferimento preciso alle sue indicazioni di lavoro e di valore. Qui il caso è diverso, siamo di fronte piuttosto alla scoperta di un modo di lavorare per il teatro diverso da quello ovvio, e difficile. E assistiamo anche alla scoperta dell’esistenza di una rete di conoscenze, amicizie, valori, maestri di cui poter far parte – come anche altri teatri in cui andare in caso di crisi o di volontà di ritiro. I Due Mondi ci mostrano infine un tipo di appartenenza meno ortodossa di quanto non sia consueto in un ambiente spesso accusato di un eccesso di ortodossia. Dalle loro parole fuoriesce l’importanza non solo di alcuni studiosi-maestri, come Claudio Meldolesi, ma anche delle università, come luo30. Eugenio Barba, Terzo teatro, 1976, ora in Eugenio Barba, Teatro, solitudine, mestiere, rivolta, Milano, Ubuibri, 1996, pp. 165-167. 224 40 ghi non solo di conoscenza storica, ma anche di scoperta di mondi e possibilità teatrali multiformi e parallele. Mostrano anche – pudicamente, indirettamente, ma con forza – il ruolo della passione degli spettatori. Mi restano solo poche ultime considerazioni generali da fare, ricollegandomi al desiderio di impostare un tipo di studio sul teatro che, per il passato come per il presente, consideri l’arte e la vita, i processi, le tecniche artistiche e le abitudini della quotidianità (lavorativa, ma perfino privata) come un continuum. E poi questo lungo intervento sarà concluso. Quando ci si occupa di Terzo Teatro si rimane sconcertati di fronte alla frequenza con cui ci si può imbattere in una alta qualità umana. È stata ed è caratteristica di una bella fetta del teatro di gruppo, anche se certamente non di tutto. La qualità umana, quando c’è, assorbe l’attenzione di chi guarda, abbaglia. È per questo che specifico: non è quello di cui sto scrivendo. Qui sto parlando invece di periodi della storia del teatro in cui le ricadute dell’arte/mestiere sulla vita e viceversa si fanno più forti. Sono ricadute che diventano significative, nello studiare il teatro, nella misura in cui riguardano non tanto il singolo individuo, quanto la comunità, la monade di cui ha scelto di far parte. E l’orizzonte di cui a sua volta la monade, compagnia o gruppo teatrale che sia, si inserisce. Si configurano, così, periodi in cui questa zona, apparentemente “extra-spettacolare”, acquisisce uno spessore e una compattezza particolari, quando il proprio orizzonte di appartenenza si differenzia particolarmente da quel che fa il resto del teatro; oppure quando si distanzia in modo spiccato dalla vita “normale”, quella dei non teatranti. Così è stato quando i grandi maestri di inizio Novecento hanno reinventato la diversità dei teatranti attraverso luoghi particolari, scuole e laboratori, attraverso prove di lunga durata, attraverso la peculiarità di processi artistici che potevano apparire inutilmente tortuosi, e invece stabilivano i limiti di un mondo che si distanziava da quello normale. Ma era così – in modo tutto differente – anche nel periodo che ho forse studiato di più, il teatro ottocentesco, dove la mescolanza vita e mestiere era particolarmente compatta, caratterizzava tutto il mondo dei professionisti, si costituiva in enigma per gli altri e non era certo un valore positivo per chi ne faceva parte. Così è ed è stato in gran parte del teatro di gruppo. Sono “mondi” molto diversi tra loro – il povero teatro dialettale, il gran teatro dei maestri novecenteschi, la micro-società degli attori ottocenteschi – e non sono caratterizzati necessariamente da valori condivisi, o da omogeneità stilistiche, da direzioni comuni. Invece, comprendono la pratica concreta di abitudini lavorative e quotidiane ricorrenti, come ad esempio quella di condividere gran parte della giornata, o di gran parte della propria vita. O punti di riferimento comuni; scambi o furti o prestiti di tecniche o di modelli 225 2009-2019 interpretativi e/o recitativi; perfino peculiarità nella vita sentimentale o erotica (per esempio l’endogamia o quella che, a seconda dei periodi, è chiamata libertà sessuale o promiscuità); scambi di materiali drammaturgici di base o di temi. Si potrebbe continuare. Dai protagonisti, da un teatrante anomalo come Sulerzickij a uno studioso come Fabrizio Cruciani, questo spessore particolare è stato talvolta esposto come etica o qualità della vita. Da altri protagonisti – come Eleonora Duse – è stato vissuto e indicato come una maledizione della stirpe. Mi sembra che non sia né una cosa né l’altra. Ho usato, per definirlo, termini come “differenza”, diversità di vita, però bisogna stare in guardia, perché sono definizioni che hanno assunto un significato tendenzialmente positivo, non sempre applicabile a quello a cui mi sto riferendo, anzi, nel complesso fuorviante. Ma questa “diversità” o peculiarità di vita è probabilmente uno di quei livelli del teatro poco visibili in superficie, poco giustificabili, poco sensati, però decisivi, che scandiscono gli inizi e le conclusioni delle grandi ondate di cambiamento, e sono, alla fine, più determinanti di più appariscenti trasformazioni stilistiche o produttive. Il Terzo Teatro è stata una delle riproposte novecentesche, più o meno consapevoli, della antica marginalità del teatro – in quanto arte, in quanto vita e in quanto mescolanza delle due. Adesso, da varie parti, ci si interroga di nuovo su quale sia stato il suo (del Terzo Teatro) ruolo nella storia, e si cercano definizioni, lasciti, caratteristiche: come movimento artistico trainante ha avuto una durata relativamente breve, ma ha una permanenza, una profondità di radici che pone domande31. La mia è una possibile risposta, la proposta di un punto di partenza concreto per una riflessione. Però va presa in considerazione, io credo, in quanto parte di un problema ricorrente della storia del teatro. Lascio per ultima una impressione, probabilmente insensata, che mi si è lentamente insinuata nel cervello, e cioè che ci sia qualcosa che accomuna da un punto di vista artistico tutti questi periodi e modi di far teatro tanto lontani tra loro – che ci sia un risultato scenico che riaffiora ogni volta che la “differenza” di vita, lo spessore che a prima vista appare “extra-spettacolare” e l’appartenenza a un mondo acquistano una dimensione particolare. Per esempio, qualcosa che forse accomuna tutti sembra essere un impatto fisico particolare sugli spettatori. 31. Si veda per esempio Terzo teatro: ieri oggi e domani, a cura di Roberta Ferraresi, «Culture teatrali», n. 27, 2018. Introdotta da Marco De Marinis, presenta una parte degli interventi (quelli di Pergiorgio Giacchè, Raimondo Guarino, Cristina Valenti, Mimma Valentino, Roberta Ferraresi) del convegno del 18 marzo 2017. Altri interventi sono stati pubblicati sul sito della rivista (https:// cultureteatrali.dar.unibo.it/focus-4-terzo-teatro-ieri-oggi-domani-per-una-documentazione-delconvegno-del-18-marzo-2017/) 226 40 Non parlo volutamente di “uso del corpo”, non tanto perché corpo e corporeità sono diventati termini inflazionati, quanto per evitare di confondere l’impatto di cui parlo, che è ambiguo, impervio, spiazzante, con quello che può essere il fascino visivo ed estetico della corporeità, con una bellezza coreografata, o con una volontà programmata di essere disturbante. Penso invece a quel tipo di impatto che sottolinea l’alterità dell’attore di fronte allo spettatore, che non provoca semplicemente soddisfazione, né in chi guarda né in chi agisce, che turba in modo sotterraneo. Chiudo le mie riflessioni su questa impressione, che non so ben giustificare, ma che si rifiuta di farsi semplicemente cancellare. Dopo aver lavorato sulla trascrizione, ho fatto rileggere il risultato del mio lavoro ai Due Mondi. È una prassi obbligata, perché trascrivendo e poi sistemando la trascrizione si altera sempre qualcosa. L’ultimo atto di questo mio intervento riguarda quel che è successo dopo la spedizione e la lettura. Due anni dopo. Faenza 12 gennaio 2019 ANGELA: Per me, sembriamo degli sfigati. Leggendo mi ha dato questa impressione. Insomma, ho dei dubbi. Parliamo delle nostre liti, di quotidianità, parliamo di problemi, e sono tanti, continui… cose che alla fine mi sembrano un po’ meschine… Mi vengono dei dubbi sulla pubblicazione, non so… TANJA: A me invece il tuo approccio è piaciuto molto, ma anch'io sono un po' spaventata dal tono e dal "succo" che fuorusciva dalle nostre interviste in alcuni momenti. A volte siamo molto diretti, apparentemente (o veramente) senza compromessi, e questo per me non è esattamente un pregio… Capisco che in questo tipo di testimonianza funziona proprio il fatto che non ci siano filtri, che è autentica, ma mi rimaneva una sensazione strana. No, non mi darebbe fastidio la pubblicazione ma ho parlato poco e capisco la sensazione di disagio che qualcuno dei miei compagni può provare. Come ti avevo scritto, ho pensato che questo tema meritava un confronto a voce, non bastava leggere o mandarti mail, sono contenta che tu sia venuta. In modo da parlarci di nuovo, tutti quanti, in modo da sciogliere i nostri timori. E anche per poter riuscire a spiegare meglio. MARIA: Così come è, in effetti ne esce una immagine nostra un po’ sconfortata. Non ne esce la vitalità, e questo non mi piace. E poi mi è difficile raccontare del mio privato, non mi piace fare confessioni, non mi piace neppure raccontare quanto discutiamo, al nostro interno. So bene che avresti potuto raccontarlo tu, sulla base di quello che sai di noi. E non sarebbe stato un problema. Ma dirlo noi, con le nostre parole è diverso. ANGELA: Quando siete venute da noi, tu e Raffaella, ne siamo stati onorati. Era227 2009-2019 vamo divertiti all'idea che qualcuno potesse essere interessato alla nostra vita di gruppo e personale. Siamo amici, ci lega affetto e stima, da anni, e perciò abbiamo parlato a ruota libera senza pensare di ritrovare un giorno quelle parole scritte su carta e con la possibilità che chiunque potesse leggerle. Sono passati quasi due anni, ma ricordo che pensavo che, essendo noi il gruppo zero, potevamo servire per chiarirvi le idee su come impostare il lavoro. Anche per questo sono contenta che tu sia venuta, insieme penso che possiamo sistemare le cose. Perché quello che vi abbiamo detto, quello che hai scritto, è vero, sia chiaro. Ma mancano precisazioni, mancano quelle sfumature, quei particolari che con voi, amiche che ci conoscete e stimate, abbiamo ritenuto essere "sotto testo". Abbiamo difficoltà a vendere spettacoli. Il circuito è chiuso. Non ci sono soldi. Sono i nostri punti deboli e non è che non siano veri. Però non c’è solo questo. Non c’è l’altro lato della medaglia. E cioè che siamo vivi, e siamo orgogliosi di esserlo. Nonostante le difficoltà. Mirella: Sono tornata proprio per questo, per cercare le sfumature che mancano dalla prima versione. Capisco che quel che vi ho mandato non è quel che avreste scritto spontaneamente, e che ho creato qualche imbarazzo, come capisco da Maria, e so che non sparirà mai del tutto, e me ne dispiace: avete parlato a una amica, con la libertà che si parla agli amici, e ora vi ritrovate tutte quelle parole sulla carta. Devo ammettere che non ci avevo pensato. Quel che interessava a me erano dettagli, modi di vivere, modi di reagire, affetti, un tessuto che sta vicino al cuore, da una parte, e al lavoro dall’altra. È la mia ricerca, e vi ho spinti in questa direzione. La responsabilità del risultato è interamente mia, anche se non ho alterato quel che mi avete detto. E adesso sono qui per questo, per riuscire a capire cosa manca perché almeno chi legga veda quel che ho visto io, anche se non vi conosce già da prima, come era per me o per Raffaella. Io non capisco perché tu dica che sembrate “sfigati”? Io, mentre scrivevo, mentre leggevo, pensavo tutt’altre cose: un lavoro di dieci, dodici ore al giorno, una tenacia che non si ferma davanti a niente, la capacità di lavorare ancora insieme dopo quarant’anni senza mai parlare di stanchezza reciproca… il resto, le difficoltà, i problemi economici, perfino le amicizie affievolite o scomparse fanno parte dello scorrere della vita, o perfino della situazione economica e politica generale! ALBERTO: Non credo, non credo proprio che possiamo sembrare depressi, litigiosi o sconfitti solo perché abbiamo la forza di ammettere che ci sono difficoltà. Quello che ho pensato, leggendoti, è stato: dopo quarant’anni, dopo tutta la storia, i problemi, le difficoltà, ci sono ancora cose per cui per noi vale la pena lottare. Continuare a lavorare, nonostante tutto. No, non sono d’accordo con Angela. Se la maggioranza del gruppo decide di non volere che le nostre parole siano pub228 40 blicate accetterò, come è giusto. Ma sono in completo disaccordo. GIGI: Invece io leggendo ho pensato che in quello che diciamo – anche nelle lamentele – gli altri, quelli come noi, potranno riconoscersi, riconoscere le stesse difficoltà che abbiamo noi, e che noi abbiamo superato, stiamo superando. Forse è questa la sfumatura che mancava dalla versione che ci hai mandato. I problemi che ne emergevano sono veri, ci sono. Ma quello che mancava è quel che stavamo già facendo per superarli… ALBERTO: Siamo in trincea. Questo esce fuori da quello che diciamo, che siamo in trincea, anche se è per così dire un ritratto in un momento di riposo, o perfino di stanchezza, non un ritratto glorioso, in armi. Ma tutti i giorni lottiamo e costruiamo trincee. Non voglio dire che va tutto bene, per niente. Ma che lottiamo. Molti aspetti negativi dipendono dalle nostre scelte, e sono la nostra gloria. Siamo stati anche incapaci, questo sì, in molte cose siamo incapaci e lo riconosciamo. Ma abbiamo soprattutto fatto delle scelte, siamo stati disposti a pagarle, e lo siamo ancora, sempre. MARIA: Un’altra cosa che non mi piace è far pensare alle persone che negli anni sono andate via che non ne possiamo più di gente che va e viene. Siamo sfiniti, è vero. Ma siamo sfiniti per amore. Bisogna dirlo. Per amore. ALBERTO: Bisogna saper fare i bilanci della propria vita. Come gruppo compiamo quarant’anni, come individuo ne ho 57. Per me il bilancio è positivo. Nel ’79, quando abbiamo creato il teatro, non avevamo niente. Se chiudiamo domani possiamo dire: abbiamo girato per quattro continenti, abbiamo portato in nostri spettacoli in trentasei paesi, abbiamo fatto moltissimi spettacoli, abbiamo dato lavoro, formazione, anche solidarietà, a tantissima gente. Abbiamo lavorato con chi voleva fare teatro e con persone per cui il teatro è una scialuppa di salvataggio nella disperazione. Abbiamo lavorato per chi veniva a vederci, d’accordo con le nostre idee, e per chi si fermava a guardarci per caso, per strada. Il bilancio del passato è positivo, e se siano stati soddisfatti o no i miei sogni giovanili non mi interessa. E comunque lo sono stati. Sul futuro non si possono fare bilanci, riguarda il mondo, non solo noi. Il mondo va sempre peggio e ci coinvolge. Non ci si può non chiedere se e quando riusciremo a uscire dal gorgo. Ma si tratta di capire, di capire che fare, non di pensare che non si può fare niente se non affondare. Ed è quel che abbiamo fatto, sempre, e soprattutto in questi ultimi anni. Non vedo perché dovremmo pensare a un futuro nero solo perché di sicuro non è rosa. Lo avevamo detto anche prima dei Nove comandamenti, e allora le cose andavano molto peggio. E se ora va meglio non è perché i tempi siano migliorati, ma perché abbiamo preso provvedimenti. GIGI: Questo è importante, Mirella. Bisogna tener conto della differenza che pas229 2009-2019 sa tra l’intervista, che è di due anni fa, e ora. Il nostro momento forse più difficile è stato circa quattro anni fa, e hai ragione, quando sei venuta a parlarci si sentiva ancora il peso di quel periodo, ma già cominciavamo a tirarcene fuori. Adesso stiamo lentamente superando alcune di quelle difficoltà, che certo in parte esistono ancora. ALBERTO: Quando gli spettacoli hanno cominciato a essere venduti di meno, per una situazione internazionale che è cambiata, ci siamo detti: dobbiamo cambiare anche noi. Dobbiamo fare anche altri tipi di progetti. Non vuol dire che non facciamo più spettacoli, ma sappiamo che dobbiamo fare anche altro. RENATO: È vero che siamo un po’ fuori dal sistema – ammesso che esista un sistema teatrale. Ma certamente abbiamo scelto di essere così, di essere un po’ fuori. Abbiamo scelto di non adeguarci sempre, tutto qui. E siamo stati disposti a pagare le nostre scelte, e lo siamo ancora. GIGI: Non siamo eroi, non siamo martiri, non siamo utopisti. Ogni volta che non abbiamo accettato qualcosa abbiamo pensato come compensare il nostro rifiuto. Quando ci siamo accorti che la scelta di vivere vendendo spettacoli non si poteva più fare ci siamo detti: cosa possiamo fare perché la situazione finanziaria dell’azienda migliori? E abbiamo deciso che bisognava investire le nostre forze in altre direzioni, come sono i laboratori o i progetti europei, anche usando esperienze che portavamo avanti da molti anni gratuitamente, come quella con i migranti. E non è stata una decisione facile. La nostra è sempre stata lucidità, spero, non eroismo. E ora ce li danno, i soldi, per queste attività che abbiamo fatto per anni a titolo gratuito, perché abbiamo in esse una grande esperienza. Ma non per questo sono diminuiti amore e politica. ALBERTO: Non esiste solo l’alta finanza. Noi siamo la non-alta finanza. Credo che questa sia stata una scelta – per le nostre esigenze – vincente: non lasciarci affascinare dall’alta finanza, e invece sforzarci di capire quali erano e sono le alternative ad essa. Alternative economiche, non utopie. Non siamo eroi, siamo controcorrente. Siamo dei resistenti. Resistiamo, ma non rimanendo immobili: mentre cercavamo laboratori o progetti europei, abbiamo continuato a fare spettacoli. In dieci mesi sono nati uno dopo l’altro Vedrai vedrai 32, I nove comandamenti 33, Le ragazze ribelli 34… MARIA: La grande differenza, se vuoi, rispetto agli anni ricchi è che allora facevamo uno spettacolo per volta. Adesso dobbiamo farne molti di più, ora dobbiamo 32. Vedrai, vedrai, con Tanja Horstmann, Angela Pezzi, Maria Regosa, 2016. 33. I nove comandamenti. Lo spettacolo diabolico sul Dio Denaro, 2017. 34. Le ragazze ribelli. Per adolescenti e adulte. Con Tanja Horstmann e Maria Regosa. 2017. 230 40 avere quattro spettacoli in repertorio in contemporanea. Ma rispetto al passato abbiamo anche molta esperienza in più. Siamo capaci di gestirli. ALBERTO: Non ammetterò mai, mai che qualcuno possa considerarci degli sfigati. Io non mi considero così. Mi guardo indietro, guardo tutti questi anni, e che vedo? Ho sempre vissuto senza un padrone. Ho fatto il teatro di strada, una sfida incredibile, che ci ha permesso cose che certo non immaginavamo quando abbiamo iniziato. Tra cui i viaggi. Il teatro ci ha permesso di viaggiare moltissimo, e di crescere moltissimo. Non era così scontato, e non perché eravamo ragazzi di provincia, ma perché eravamo ragazzi di una provincia ricca, che ci avrebbe facilmente permesso di lavorare, di vivere economicamente anche meglio di come viviamo ora, e di andare in giro a fare un po’ di turismo. Noi abbiamo avuto in sorte un’altra cosa: viaggi. L’opposto del turismo, come diceva sempre Nando [Taviani]. E difficoltà economiche che in un certo senso sono state liberamente scelte. GIGI: Abbiamo dato un senso alla nostra vita. Abbiamo fatto quello che volevamo fare. ANGELA: Attenzione che non ha acceso il registratore, ma scrive tutto… [risate generali] …che comunque apprezziamo la mancanza di registrazione… MARIA: Già, sei lì che scrivi. Ma forse anche per queste cose non è giusto che ci sia la nostra voce, sembra che quasi ci vantiamo… Mirella: Nessun altro può dire queste cose al vostro posto. Possono venire solo da voi. Questa è la vostra voce, la voce del teatro, quella che si ascolta così raramente, per me è fondamentale… RENATO: Col teatro ho potuto dire quello che volevo dire – sono timidissimo, non sarei mai riuscito a farlo, altrimenti. E poi, visto che stiamo finalmente riflettendo su quello che abbiamo, a quarant’anni dalla nostra nascita, c’è anche un’altra cosa: siamo riusciti a farci costruire un teatro. Non ci siamo mai adeguati, ma siamo riusciti a farci costruire un teatro dal Comune. Con la forza del lavoro che avevamo fatto. A Faenza, che è una città bella e anche relativamente ricca. Ma certo non è l’ombelico del mondo… ALBERTO:… tutto quello che abbiamo anche in magazzino – compresi i vecchi spettacoli - tutto quello che c’è lo abbiamo costruito noi. Anche gran parte del teatro: pavimenti, illuminotecnica. Ci è costato energia e lavoro, ma ora lo abbiamo. Noi abbiamo investito sempre molto sulla nostra casa, perché crediamo nel teatro come casa. ANGELA:… ci è costato moltissimo, anche in termini di energia artistica. ALBERTO:… però era quello che volevamo. TANJA: Abbiamo soprattutto una vita in cui siamo liberi. Una realizzazione esclusivamente artistica in teatro di fatto non esiste, anche se forse ci può essere stato 231 2009-2019 qualche anno in cui ci si poteva avvicinare. Del resto, se qualcuno di noi vuole andare di più in sala, per lavorare come attore, è liberissimo di farlo. Penso che si debba iniziare da se stessi, capire cosa è necessario per essere felici. Da parte mia, non sono insoddisfatta per il fatto di dover lavorare anche su altri fronti. Noi stiamo già facendo qualcosa di impossibile, in questi tempi, e cioè la vita di gruppo. È chiaro che dobbiamo adeguare il nostro sogno. Altrimenti è una realtà irrisolvibile. ALBERTO: È giusto ogni tanto richiamarci da noi stessi all’ordine, e tornare in sala, con la precisione, l’esigenza di sempre. Ma questo non vuol dire… GIGI: [mentre gli altri ormai parlano tutti contemporaneamente] Eccoti catapultata nel caos di una normale riunione di lavoro… ALBERTO: Se penso a tutta la nostra storia mi sembra che abbiamo sempre conservato – o abbiamo sempre lottato per conservare – la nostra coerenza etica. Artistica. Politica, ma anche artistica. Il nostro modo di lavorare è quello in cui crediamo, non è semplicemente il massimo che riusciamo a fare. Dal punto di vista artistico non abbiamo mai ceduto rispetto a quello che volevamo, non ci siamo mai rassegnati, mai. Se poi gli spettacoli piacciano o no, si vendano o no, in fondo è secondario. Sì, di questo potrei dire addirittura che sono fiero: della coerenza. Non la mia, che non esiste. Quella del mio gruppo. RENATO: Io invece sono fiero del modo in cui teniamo i nostri luoghi [gli altri ridono]. Non c’è niente da ridere, non è una battuta. Ci prendiamo cura del nostro teatro, della nostra casa. Guarda, quando ospiti qualche compagnia lo vedi subito, capisci subito come sono dal modo in cui lasciano le loro cose, dal modo in cui lasciano gli spazi. MARIA: Se mi guardo indietro, quello che per me ha più valore sono le persone vicine. Mi piace avere un gruppo, mi piace esserci dentro, nella buona e nella cattiva sorte. Essere con altre persone, sempre. Nel fare teatro così, in gruppo, mi sembra che si cresca infinitamente di più. A me fa sentire bene. Mi piace il nostro stile di vita, e mi piace essere fiera di spettacoli in cui non ci sono, come Cuore, che secondo me è bellissimo. Lo sento nostro, anche se io non ci sono. Mi piace il nostro stile di vita, con tutte le difficoltà che comporta. Sono scelte. TANJA: Non pretendo che il nostro lavoro sia straordinario, che siamo artisti unici. A me il nostro lavoro piace. E il modo in cui costruiamo gli spettacoli è bellissimo, molto ricco. Mi piace il fatto di poter fare quello che voglio relativamente senza compromessi – senza compromessi gravi, voglio dire. Non siamo inutilmente puri, ma facciamo quello che vogliamo, e lo paghiamo. Forse potrei dire anche io che di questo sono fiera, anche se mi sembra una espressione un po’ strana, un po’ comica e non la capisco. E anche se questo vuol dire non aver tempo o soldi 232 40 per fare alcune delle cose che vorrei fare. Però nel complesso faccio quello che voglio, faccio quello che voglio della mia vita. GIGI: Cos’altro c’è da aggiungere? Lavoriamo insieme da quarant’anni. Senza di loro non sarei riuscito a continuare il mio lavoro artistico. E questo conta, conta molto. Conta fino alla commozione. 233