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Toscana geometrica
La prima corografia geodetica regionale
e il contributo dell’Osservatorio Ximeniano
A cura di
Andrea Cantile
Firenze - Istituto Geografico Militare - 2008
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L’inquadramento geometrico del territorio
Andrea Cantile
Istituto Geografico Militare
Il principale ritardo imputato allo Stato granducale
riguardava principalmente il lungo indugio nell’esecuzione di quei lavori di inquadramento geometrico del territorio, che in tante parti d’Europa
caratterizzavano le ricerche ed il cimento di molti
scienziati e che avevano come primo, tangibile
effetto la realizzazione di cartografie geometriche
estese ad interi stati, pur se con finalità e risultati
differenti, ma sempre con ingenti sforzi scientifici,
umani e finanziari.
Verso la seconda metà del XVIII secolo si moltiplicarono infatti gli impegni di vari stati europei per
l’istituzione di nuovi osservatori astronomici e dei
primi organismi cartografici pubblici, incaricati di
eseguire i rilevamenti topografici e di redigere le
prime cartografie ufficiali, su basi geometriche.
Agli osservatori era tra l’altro riservato il compito
di determinare, mediante osservazioni astronomiche, le coordinate assolute di alcune località principali, stabilendone con la massima precisione al
tempo raggiungibile i valori di longitudine e latitudine. A partire da tali determinazioni di posizione,
si provvedeva poi al trasporto delle stesse coordinate per via geodetica, al fine di determinare le
longitudini e le latitudini di altre località, che assumevano così delle posizioni relative, rispetto ad
un dato luogo di coordinate assolute, note, adottato come punto di emanazione della rete geodetica locale. Il trasporto delle coordinate avveniva
per il tramite di operazioni di triangolazione, consistenti nella determinazione delle posizioni dei
vertici di una serie di triangoli adiacenti, ubicati in
posizioni dominanti, come vette montuose o collinari, campanili, torri, e disposti secondo geometrie differenti, a reti od a catene, che coprivano
tutto il territorio di uno Stato, per materializzare su
di esso una infrastruttura geometrica, fatta di punti
di coordinate note, che potesse servire sia per
finalità scientifiche legate allo studio della superficie terrestre sia per tracciare carte topografiche,
fondate su criteri geometrici di rappresentazione.
La determinazione delle longitudini e delle latitudi-
ni dei vertici di tali triangoli, a partire da una coppia di coordinate geografiche assolute, era il frutto di una lunga e complessa serie di operazioni di
misura di angoli e di distanze e di laboriosi calcoli. Tra tutti i vertici di tali triangoli venivano misurati i rispettivi angoli interni, con gli strumenti goniometrici più precisi del tempo, con la massima
accuratezza e con procedure operative che andavano via via perfezionandosi con il proseguire
delle esperienze condotte in vari Paesi, al fine di
ridurre il più possibile gli errori accidentali di misura. Noti gli angoli interni dei triangoli della rete, per
conseguire il trasporto delle coordinate del punto
di emanazione della stessa rete occorreva determinare le lunghezze dei lati di tutti i medesimi
triangoli, ricorrendo agli algoritmi della trigonometria e nota almeno la lunghezza di un lato.
Quest’ultimo elemento, che svolgeva un ruolo
determinante per tutta l’operazione perché introduceva nel calcolo l’elemento dimensionale della
rete, veniva determinato con la misura di una
distanza lineare, meglio nota come base geodetica, che era ottenuta con l’impiego di appositi longimetri di legno stagionato, di metallo, o bimetallici opportunamente comparati con campioni di
misura di riferimento. Tutto il procedimento operativo, unito a lunghi e laboriosi calcoli, conduceva
alla fine alla determinazione delle coordinate geografiche dei vertici della rete geodetica, riferiti ad
una superficie di riferimento ellissoidica e materializzati sul territorio con appositi contrassegni,
che costituivano quindi l’infrastruttura geometrica
di riferimento per le successive operazioni di studio dei fenomeni crostali e per le rappresentazioni cartografiche di tipo geometrico. A partire dai
vertici trigonometrici di tale rete, si provvedeva
poi, in fasi successive, ad affittire il numero dei
punti di posizioni note, in modo da disporre di una
quantità sufficiente di punti trigonometrici riconoscibili sul territorio, le cui posizioni, fissate sugli
specchi delle tavolette pretoriane in un determinato rapporto di scala, consentivano di inquadrare i
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Toscana geometrica. La prima corografia geodetica regionale e il contributo dell’Osservatorio Ximeniano.
rilevamenti topografici di dettaglio del territorio
nelle maglie della rete geodetica di riferimento
locale e quindi di vincolare la rappresentazione
cartografica alla geometria della stessa rete.
Di tutto questo era in difetto la Toscana soprattutto per l’insensibilità dei vari governi granducali,
anche se non erano mancate nel corso del XVIII
secolo proposte e progetti.
Lo scenario però mutò radicalmente agli inizi del
XIX secolo, grazie all’impegno personale di P.
Giovanni Inghirami, scienziato scolopio formatosi
sotto la guida di P. Gaetano del Ricco ed il breve
magistero di Barnaba Oriani (1752 - 1832), che
assunse su di sé l’onere di affrancare lo Stato dal
grave ritardo scientifico e di destare definitivamente le attenzioni governative su un tema non
più procrastinabile.
Le prime esperienze nella direzione attesa furono
compiute dallo scienziato ungherese, barone
Franz Xaver von Zach (1754-1832), che nel 1808
si prodigò in operazioni astronomiche e misure
geodetiche.
Von Zach, noto in Europa per la sua grande erudizione e per il profondo impegno nel campo delle
discipline fisico-matematiche, a cui aggiungeva la
conoscenza delle lingue greca e latina, oltre che
di tutte quelle parlate nel continente, si trovò in
Italia agli inizi del XIX secolo per accompagnare la
madre del duca di Saxe-Gotha ed approfittò della
circostanza per incontrare prima il P. Gaetano del
ricco, alle Scuole Pie Fiorentine, dove ebbe modo
di conoscere anche il giovane P. Inghirami.
Noto il grande ritardo toscano in campo geodetico, durante il suo soggiorno a Firenze, il barone si
cimentò in operazioni astronomiche e geodetiche,
impiegando la sua strumentaria di precisione, che
lo seguiva in tutti i suoi viaggi in Europa. Dalla
celebre locanda di Schneidereff, che era divenuta
oltre che alloggio fiorentino temporaneo dello studioso, anche osservatorio astronomico ed ufficio
sul lungarno, stabilì nuove coordinate assolute in
città, determinò una base geodetica in sinistra
idrografica dell’Arno, alla quale collegò quaranta
triangoli. La base fu misurata in andata e ritorno
con regoli di legno stagionato e fu compresa tra
la testa della statua raffigurante l’inverno, ai piedi
del ponte di Santa Trìnita, e la banderuola della
torre della Sardigna, nei pressi di porta San
Frediano, con un’estensione complessiva di
425,9552 tese, pari a 830,1965 metri.
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A cura di Andrea Cantile
Queste operazioni furono però presto interrotte
per la partenza dello scienziato ungherese e, pur
se esse non furono continuate ed estese a più
ampi ambiti territoriali, ebbero il merito di lasciare
in Firenze un germe dal quale sarebbe derivata, a
distanza di pochi anni, la successiva attività che in
capo geodetico ed astronomico Inghirami avrebbe
compiuta, meritando un posto di riguardo nel panteon della cartografia geodetica italiana.
Emulo di von Zach, delle cui operazioni era stato
testimone, P. Giovanni Inghirami iniziò le prime
attività geodetiche, per sua libera e personale iniziativa, nell’estate del 1814, così come a titolo personale erano state condotte le precedenti imprese
del barone ungherese. All’età di trentacinque anni,
lo studioso scolopio realizzò per primo il trasporto
delle coordinate dalla specola astronomica del fiorentino Museo di Fisica nelle città di Prato e di
Pistoia, appoggiandosi proprio alla piccola base
determinata dall’astronomo d’oltralpe.
Subito dopo l’arrivo presso l’Osservatorio di San
Giovannino di due nuovi circoli ripetitori di
Reichembach, offerti dal Magistrato Municipale di
Firenze, Inghirami si accinse ad intraprendere in
modo isolato i primi esperimenti geodetici, con la
determinazione della longitudine e latitudine delle
città di Pistoia e Prato (Inghirami G., 1816), per
saggiare la fattibilità del progetto, ambizioso ma
concreto, di correggere ed ampliare le posizioni
dei principali capoluoghi del Granducato ed esaminare nel contempo la possibilità di realizzazione di una “Corografia Astronomica della Toscana”.
Questa operazione, che, nelle parole dello stesso
autore, non era all’inizio strettamente finalizzata
alla delineazione di quella carta geometrica dello
Stato, che ormai da quasi un secolo si vagheggiava senza alcun risultato, costituì però la prima
pietra di quella necessaria orditura geometrica
sulla quale si sarebbero poi appoggiati i successivi rilevamenti di dettaglio del territorio granducale.
Queste prime imprese geodetiche furono illustrate da Inghirami alla Regia Accademia Pistoiese di
Scienze, Lettere e Arti il 18 aprile 1816 e furono la
prima, concreta prova in terra toscana che “c’est
aux Astronomes à faire la premiere Carcasse ou
le Canevas d’un pays. Accoutumés à manier les
Instruments les plus compliqués et les plus délicats, et à faire des Observations qui éxigent la
plus grande précision, ils s’en acquitteront avec
bien plus d’éxactitude, que si l’on abbandonait ces
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Localizzazione della base geodetica misurata dall’astronomo ungherese
Franz Xaver von Zac, nel 1808, in sinistra idrografica dell’Arno,
tra il ponte di Santa Trìnita e la torre della Sardigna (tratto di colore giallo).
travaux à des simples Arpenteurs. D’ailleurs ces
méthodes qu’on a tant perfectionnées aujourd’hui,
ces Instruments a répétitions si difficils à bien
manier, demandent et des connaissances en
théorie et des habitudes dans la pratique, qui ne
sont que le partage des Observateurs consommés. Il ne suffit pas de mensurer une Base, et
de former un réseau de triangles; il faut aussi
savoir les orienter, savoir reduire tous les points à
la Meridienne, et à la pérpendiculaire d’un lieu sur
une spheroide terrestre. Il faut pour cela savoir
faire l’Observation très délicate des Azimuths,
celle de la longitude et de la latitude d’un lieu,
savoir déterminer avec la plus grande précision le
temps vrai [...] on ne le conteste plus et on est
generalement d’accord aujourd’hui que les
methodes astronomiques sont les seules veritable
pour léver les cartes d’un pays. Toutes les autres
méthodes dont on faisait autrefois usage sont trés
imparfaites, et ont donné lieu à des fautes très
graves et à des contestations trés facheuses dont
je puorrai citer plusieurs exeples» (Lettera del
barone Franz Xaver von Zach al P. Inghirami,
Genova, 15 agosto 1817, cit. in Inghirami G.,
1818, pp. 78-79).
I risultati incoraggianti, ottenuti con la determinazione delle coordinate di Pistoia e di Prato mostrarono al padre scolopio la fattibilità del suo progetto e lo predisposero ad un lavoro sistematico, che
procedette all’inizio “seguendo l’invito delle opportunità [...] più che il giro di un piano premeditato”
(Inghirami G., 1831, p. 72), ma che fu il necessario preludio alla realizzazione della Carta geometrica della Toscana.
A rileggere oggi il testo della Memoria del P.
Giovanni Inghirami [...] per servire da saggio ad
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una generale Corografia Astronomica della
Toscana spiccano tanti elementi di interesse per
la storia delle discipline geotopocartografiche, ma
si può anche tentare di ricostruire il clima culturale del periodo, caratterizzato certamente da una
consapevolezza generale da parte degli scienziati toscani del richiamato ritardo in campo geodetico. E proprio a tal riguardo, colpisce soprattutto
un singolare atteggiamento di giustificazione di
tale ritardo scientifico da parte di Inghirami, che
appare quasi un atto di captatio benevolentiae nei
confronti degli accademici pistoiesi. Lo scolopio,
che solo due anni dopo questa memoria non esitò
a definire “disonorante indolenza” (Inghirami G,
1818, p. 73) tale ritardo nel campo della cartografia geodetica, pronunciò infatti nella citata
Memoria una difesa della comunità scientifica
toscana, affermando “che se per rapporto alle
operazioni Geografiche ed Astronomiche siamo
per qualche tempo comparsi inoperosi, mentre
tutto era movimento d’intorno a noi; sappiano i
nostri detrattori, che altre più interessanti cure ci
deviavano allora dall’arrenderci al pubblico incitamento; che ce ne sconsigliavano dei potenti
riguardi; che l’oggetto di queste intraprese non era
in quel momento per noi tanto interessante, quanto pei nostri vicini, e che infine neppure tutti i
mezzi per ben riescire erano in nostro potere: ed
è massima assai commendevole di prudenza, che
non conviene accingersi ad un lavoro, il cui buon
esito non possa per ogni parte preconizzarsi felice” (Inghirami G., 1816, pp. 2-3).
La spiegazione di questo episodio potrebbe essere forse trovata nel fatto che quelle parole di preliminare giustificazione, pronunciate dal giovane
scienziato, furono probabilmente dettate da una
necessità di prudenza, dal momento che l’operazione che lo studioso scolopio stava per illustrare
agli accademici di Pistoia e che era stata condotta brillantemente a termine, pur senza ingenti sforzi finanziari, interrompeva una colpevole stasi
scientifica, che non poteva certo essere presentata in uno dei templi del sapere toscano, contestando il ritardo e le colpe altrui, pena un’inevitabile accusa di sfrontatezza, con conseguenze
negative su tutto il possibile prosieguo delle attività di triangolazione nel resto del granducato.
Prudenza e mai esaltazione dei propri meriti furono infatti constanti delle argomentazioni della
memoria presentata alla regia accademia pistoie60
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se, anche se lo scienziato scolopio non aveva mai
dubitato della bontà dei suoi progetti, forte come
era legato ad una fede, profonda e totale, nelle
conoscenze scientifiche del suo tempo e, soprattutto, nel mezzo tecnologico, che gli consentì di
risolvere problemi altrimenti irresolubili.
La fiducia incondizionata nel suo teodolite di
Reichenbach, che egli usava chiamare per brevità “macchina” o “Teodolito” (con l’iniziale maiuscola!), vero e proprio gioiello della meccanica di
precisione dell’epoca, lo dispose a frequenti esaltazioni del medesimo strumento, richiamandolo
in varie occasione come fonte di sicuro risultato,
se “destramente maneggiato”, e giungendo quasi
ad attribuire prevalentemente alla “macchina” i
meriti degli sforzi compiuti da lui e dai suoi collaboratori nelle difficili e complesse imprese che lo
avevano visto impegnato per tutte le terre della
Toscana: “Forse troppo mi sono diffuso in riscontri: mentre il solo nome di Reichenbach bastar
poteva a convincere, che un Teodolito di lui
destramente maneggiato non può portare che ai
più precisi risultati. Ma questo nome sì grande
non risuona ancora bastantemente fra noi, né è
ancora quivi diffuso con la corrispondente celebrità: e pur troppo può esservi chi pago dei propri
mezzi e vano di meschinissime cognizioni, osi
contrapporre le proprie alle operazioni fatte con
tal nuovo genere d’Istrumenti. Possa questo saggio illuminarne la cecità! possa confonderne la
stolida presunzione! e spargendo nella nazione
dei nuovi lumi, e delle idee più precise intorno alla
perfezione a cui oggi giorno l’arte è pervenuta,
tolga all’ignoranza gli ammiratori, spogli della mal
carpita gloria chi ingiustamente la possiede ed
obblighi chi vuol meritarla a quegli studj, a quegli
sforzi, all’acquisto insomma di quelle doti, senza
le quali difficilmente può guadagnarsi una ben
giusta e ben fondata riputazione” (Inghirami G.,
1816, p. 78).
Anche i meriti del risultato finale di questa prima
esperienza di trasporto delle coordinate geografiche in Prato e Pistoia sembravano quindi essere
riconosciuti dall’autore più alla precisione del teodolite che non alle sue conoscenze scientifiche,
abilità ed attenzione: “le circostanze erano tali da
dover presupporre un successo molto meno felice
quando la macchina non fosse stata eccellente in
sommo grado. Infatti assai poche volte abbiamo
potuto osservare più di due angoli; bene spesso
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Grafico della rete trigonometrica toscana, realizzata da P. Giovanni Inghirami:
in rosso sono indicati i triangoli fondamentali;
in verde sono indicati i triangoli secondari o d’appoggio;
in nero sono indicati i triangoli di dettaglio;
Firenze, Osservatorio Ximeniano, Fondo cartografico.
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non ne abbiamo osservato che uno solo, talora
abbiamo dovuto dedurgli dal calcolo tutti e tre; ed
inoltre non sempre si sono potute scegliere le
migliori stazioni, per lo che ci è convenuto assai
spesso abbracciare e porre in calcolo triangoli pessimamente condizionati fino ad averne ammessi
alcuni con un angolo poco maggiore di tre gradi;
anzi la maggior parte delle operazioni neppure
sono state fatte fin qui con quella maggior diligenza di cui esser potrebbero suscettibili, poiché né
l’estremo scrupolo era essenzialmente necessario
al mio scopo, né io, con l’incarico delle lezioni
quasi giornaliere d’Astronomia e Matematica, o
con l’opera che debbo prestare ai due osservatori
di Firenze, ero in grado di consacrare a questo
lavoro altro tempo che quanto il puro bisogno
richiedeva” (Inghirami G., 1816, pp. 14-15).
Ancora in merito agli aspetti metodologici del rilevamento, va rilevato che nelle determinazioni
degli azimut non furono impiegate tutte quelle
attenzioni e precauzioni che sarebbero invece
divenute di li a poco norme inderogabili.
Le procedure di rilevamento messe in atto dal
padre scolopio prevedevano la misura degli angoli azimutali in serie di ripetizioni, variabili tra quattro e quindici, oltre che dalle medie delle letture
consentite dai quattro noni collocati sul teodolite;
talvolta, gli angoli misurati fuori centro non furono
ridotti in centro; per ciascun triangolo della rete
non furono sistematicamente misurati tutti gli
angoli interni, ma fu talvolta eseguita anche la
misura di soli due valori angolari, ricavando il
terzo con operazioni di calcolo; le osservazioni
angolari non furono corrette dell’eccesso sferico,
contrariamente a quanto lasciò intendere in seguito Giovanni Boaga (Boaga G., 1951, p. 163),
mentre lo stesso Inghirami aveva all’epoca precisato al riguardo: “neppure ho loro applicata quella
piccola correzione voluta dal divario che passa fra
l’angolo degli archi e quello delle loro corde, e a
cui vien dato il nome di eccesso sferico”
(Inghirami G., 1816, p. 21).
Di contro, il P. Giovanni curò, ma non sempre, la
disposizione dei segnali sui vertici dei triangoli;
tenne in considerazione il rischio derivante da
possibili errori di fase; verificò sistematicamente
l’arco complessivo del giro d’orizzonte osservato,
compiendo per ogni stazione un’osservazione
supplementare dell’ultimo vertice con il primo,
curando di evidenziare la differenze tra la somma
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degli angoli parziali e l’angolo complessivo del
giro e di ripartirne il piccolo divario tra le varie
misure parziali componenti il medesimo giro d’orizzonte, con una compensazione empirica, che lo
rassicurava nell’utilizzazione di tali valori angolari
“senza scrupolo alcuno” (Inghirami G., 1816, p.
17); verificò le eventuali differenze intercorrenti tra
valori angolari rilevati da operatori diversi o in ore
e temperature diverse; verificò l’entità degli errori
derivanti dalla determinazione indiretta di taluni
angoli, provvedendo, evidentemente con intereventi a campione, ad osservare qualcuno di tale
categoria di angoli, senza mai trovarli sensibilmente discordi da quelli che aveva ricavato per il
tramite del calcolo; verificò inoltre singolarmente
alcune delle numerose ripetizioni effettuate su
vertici di particolare importanza, constatandone la
generale concordanza e giungendo erroneamente alla conclusione della “assoluta superfluità di
questa cautela” (Inghirami G., 1816, p. 18).
Il numero complessivo degli angoli misurati da
Inghirami risulta pari a 103, mentre quelli impiegati per il calcolo finale risultano 124, con una differenza di 21 valori angolari, derivanti evidentemente da quelli osservati con operazioni di
somma o differenza. Il calcolo fu esteso a 51 triangoli, dei quali il lato più lungo risultò di circa 30 chilometri, i cui vertici risultarono coincidenti con i
seguenti dodici punti trigonometrici:
- Torre dell’Osservatorio astronomico del Museo
di Fisica di Firenze;
- Cupola mobile dell’Osservatorio astronomico
delle Scuole Pie di Firenze;
- Angolo meridionale del terrazzo del Palazzo
arcivescovile di Pistoia;
- Villa del marchese Adiutore Andrea della Stufa,
presso S. Maria a Castagnolo, Lastra a Signa;
- Casino di Pietra Marina, sulla vetta del Monte
Albano;
- Villa del dottor Jacopo Ambrogio Tarantini
Salvatici, Santa Lucia a Trespiano;
- Villa del marchese Leopoldo Carlo Ginori a
Doccia, Sesto Fiorentino;
- Vetta del Monte Rinaldi, Fiesole;
- Villa Mancini a Poggio Imperiale, Firenze;
- Terrazza a levante dalla casa di campagna del
marchese Giuseppe Stiozzi Ridolfi, già proprietà
Franceschi, a Bellosguardo;
- Finestra superiore al loggiato di ponente dalla
stessa casa di cui al punto precedente;
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Grafico della rete trigonometrica della Comunità di Orbetello,
Firenze, Osservatorio Ximeniano, Fondo cartografico, III, 1.
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- Finestrone meridionale dell’ala destra del
Convento di San Francesco a Fiesole.
Successivamente alla prima esperienza di trasporto delle coordinate, Inghirami procedette in
un’ulteriore operazione di misura, portando a 74
gli originari 51 triangoli della prima rete ed
ampliando anche il numero degli angoli misurati.
In merito a tutto il procedimento operativo, messo
in atto nell’operazione di trasporto delle coordinate geografiche di Firenze su Prato e Pistoia,
Inghirami affermò che, pur se “in operazioni di tal
natura niuna delicatezza esser può eccessiva”
(Inghirami G., 1816, p. 15), trattandosi “dell’illustrazione soltanto della ristretta nostra Corografia,
potrà sembrar forse anche troppo il rigore a cui mi
sono attenuto” (Inghirami G., 1816, p. 15), volendo evidentemente sottolineare che la finalità delle
sue operazioni geodetiche, più che essere rivolta
a successivi studi della porzione di superficie terrestre insistente sui territori granducali, riguardava
principalmente la verifica della possibilità di conseguire un inquadramento geometrico per finalità
corografiche.
A queste prime operazioni trigonometriche lo
scienziato scolopio fece seguire poi ulteriori lavori geodetici per la determinazione “della longitudine e latitudine geografica delle città di Volterra, S.
Miniato e Fiesole” (Inghirami G., 1817, p. 88) e
della lunghezza di “una base trigonometrica misurata in Toscana nell’autunno del 1817” (Inghirami
G., 1818), dai quali derivò la conferma definitiva
della fattibilità del suo progetto geotopocartografico complessivo.
Nella seconda campagna geodetica, riguardante la
posizione di Volterra, S. Miniato e Fiesole, seguì
grossomodo le medesime procedure prima esposte e, nel renderne conto alla comunità scientifica,
accompagnò l’illustrazione dei risultati conseguiti
con una dissertazione sui possibili errori delle
determinazioni trigonometriche, trattando ulteriormente il problema delle rifrazioni laterali della luce
sui segnali e non rinunciando a porre uno dei problemi fondamentali delle osservazioni di direzioni
nell’atmosfera, con il formidabile quesito: “è poi
altrettanto certo che la luce attraversando un lungo
tratto di questo fluido orizzontalmente e in somma
prossimità alla superficie terrestre produca delle
notabili deviazioni?” (Inghirami G., 1817). In merito
alla effettiva misura dei tre angoli di ogni singolo
triangolo della rete, riconobbe l’importanza dei
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riscontri sulle somme degli angoli interni, pur non
rinunciando ancora a sostenere la validità di procedure di determinazioni indirette di angoli non osservabili e quindi il ricorso al calcolo per somme e differenze. Preferì al riguardo adottare quale mezzo di
verifica il riscontro della lunghezza di un lato incognito, procedendo per il tramite di catene indipendenti di triangoli, insistenti sullo stesso lato da verificare (Inghirami G., 1817), ma gli sviluppi successivi della geodesia operativa gli avrebbero dato
torto.
Il prosieguo dei lavori e la determinazione di quelle
verifiche incrociate che egli andava ricercando per
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Grafico di calcolo della rete trigonometrica toscana, compresa tra Sasso di Castro e Budrialto,
con indicazione dei valori angolari delle direzioni osservate
e delle lunghezze dei lati dei triangoli, Firenze, Osservatorio Ximeniano, Fondo cartografico.
diverse vie non gli diedero però i risultati attesi e,
pur se in tante occasioni si era speso in grandi lodi
nei confronti della base geodetica determinata da
von Zach nel 1808, che pure ritenne fin dal primo
momento inadatta ad “affidarvisi per la totale triangolazione del Granducato” (Inghirami G., 1816, p.
23), giunse alla fine a ritenere quest’ultima di lunghezza troppo esigua per poter supportare lo sviluppo di una rete così estesa, come quella che egli
andava configurando per tutta la Toscana. Non
restava quindi che porre mano ad un più ampio
progetto ed avviare i lavori di misurazione di una
nuova base, che avrebbe richiesto molto più che
l’impegno di un solo uomo, ancorché coadiuvato da
uno o due assistenti.
Le vicende della base di padre Inghirami denunciarono però ancora una volta le difficoltà di un’impresa di grande utilità sociale, condotta in quasi totale
assenza dello Stato, il quale, pur se aveva concesso il proprio assenso ed un esiguo contributo in
danaro per la costruzione degli strumenti e di alcune suppellettili, non pose nelle disponibilità dello
studioso quegli ampi mezzi che una simile impresa
avrebbe invece richiesti. Ancora una volta la celebre parsimonia dei granduchi di Lorena non assicurò il necessario sostegno all’impresa e lasciò lo
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Toscana geometrica. La prima corografia geodetica regionale e il contributo dell’Osservatorio Ximeniano.
Monografia geodetica del vertice di
San Piero a Grado, 1880, Firenze, AGIGM.
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scienziato scolopio senza quella necessaria assistenza di mezzi e di risorse, che non solo avrebbero consentito una maggiore accelerazione dei
tempi di esecuzione dei lavori, ma ne avrebbero
maggiormente garantito il risultato, senza costringere Inghirami a ricorre talvolta a soluzioni estemporanee ed a ripieghi, al limite del rigore scientifico.
Ben cinquantasei pagine, su settantadue, della
sua memoria, avente per oggetto “la base trigonometrica misurata in Toscana nell’autunno del
1817” (Inghirami G., 1818), furono dedicate ai tentativi ed alle verifiche incrociate, fatti da Inghirami
per evitare la misurazione della stessa base, ma,
dopo l’ennesimo, insoddisfacente esito nella ricerca di riprove al suo lavoro, giunse alla conclusione dell’inevitabilità di una nuova misura lineare ed
affermò “or io ben vedendo che per tale incertezza, qualunque essa si fosse, non avrei neppur da
questa parte ottenuto un riscontro bastantemente
preciso, né volendo cimentarmi a nuovi contrasti,
sempre dannosi all’altrui piena fiducia verso del
mio operato, abbandonata alfine ogni idea di
riprove indirette, e rinunziando a qualunque ulterior progetto d’esenzione dalla nuova misura, non
d’altro m’occupai che del pensiero d’effettuarla”
(Inghirami G., 1818, p. 39).
Varie volte, nelle sue memorie, aveva dimostrato
una forte resistenza nei confronti di questa nuova
misura, pronunciando di contro grandi lodi al lavoro di von Zach e dichiarandosi “alieno e nemico”
(Inghirami G., 1818, p. 40) della inevitabilità di una
nuova base. Tuttavia tali dichiarazioni non appaiono completamente convincenti, dal momento che
egli stesso aveva considerato l’inevitabilità della
nuova misura fin dall’inizio delle sue prime attività.
Contrariamente a quanto sembra emergere dalle
prime pagine della citata memoria del 1818, lo
stesso Inghirami affermò nella medesima memoria che già dal 1815, cioè due anni prima dell’inizio dei lavori, aveva fatto costruire i tre longimetri
“di stagionatissimo abete del Nord”, che sarebbero stati poi impiegati proprio per la misurazione
(Inghirami G., 1818, p. 48), mentre all’accademia
pistoiese aveva ancor prima riferito: “La vera e
positiva mancanza in cui attualmente mi trovo, si
è quella di una base abbastanza estesa. Tutto è
già disposto per misurarla. L’I. e Reale nostro
Governo ha già fatto costruire un copioso assortimento di ordigni e pezzi che si sono creduti
necessarj a questa importante osservazione. Ed è
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mio proposito di effettuarla con tutto rigore, perché oltre agli usi geodesici, servir poi possa anche
agli astronomici” (Inghirami G., 1816, pp. 21-22).
Certo è però che, appena portati a termine gli
impegni scolastici in Firenze, si immerse totalmente nell’impresa, “tutto ardente e appassionato” (Inghirami G., 1818, p. 40).
Il sito, scelto prevalentemente per una certa familiarità col luogo, per le non ragguardevoli variazioni clivometriche e per la prossimità alla costa, fu la
vasta pianura appartenente ai beni della Mensa
Arcivescovile di Pisa, estesa “tra le Città di Pisa e
Livorno, e precisamente quello spazio della
medesima che compreso resta tra i così detti
Ponti di Stagno e la bella Basilica di S. Piero a
Grado a confine con la macchia denominata
Tombolo” (Inghirami G., 1818, p. 40).
Il terreno presentava un andamento alquanto
sinuoso, specialmente nella parte meridionale del
tratto interessato dalla misura, dove il dislivello
era di diversi metri rispetto al rimanente piano; era
attraversato da tre grossi canali con argini e
sostegni laterali; e presentava una zona dominata
da una pineta fitta per circa 600 metri e da qualche area paludosa, come riscontrato dal Ten.
Annibale Cornaglia, nella sua successiva “stazione di riconoscenza” (1880).
Pur non trovandosi evidentemente in presenza di
un perfetto piano orizzontale, privo di ostacoli ed
accidentalità, ma caratterizzato dalla presenza di
tomboli e canali, Inghirami non fece operare né
sbancamenti né disboscamenti, ma risolse i vari
problemi operativi che si presentavano al prosieguo delle misure con soluzioni ispirate all’economia
degli interventi e con artifici geometrici, che egli
reputò sempre degni della precisione ricercata.
Gli estremi della base furono fissati da “due grandiosi segnali, naturali, e secondo ogni umana
ragione per lunga serie d’anni invariabili e permanenti: a Mezzodì il Palazzo denominato di Stagno,
sull’angolo che volge verso Livorno; e a
Tramontana la Torre o Campanile di S. Piero a
Grado sullo spigolo che guarda a Maestro”
(Inghirami G., 1818, p. 42). La scelta di questi
estremi fu assolutamente in controtendenza,
rispetto alle precedenti esperienze di misurazione
italiane. Inghirami non predilesse volutamente la
strada della monumentazione di appositi segnali,
posti nei punti estremi della base che si accingeva
a misurare, ma preferì appoggiare quest’ultima a
Monografia geodetica del vertice di Stagno,
Firenze, 1880, AGIGM.
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Toscana geometrica. La prima corografia geodetica regionale e il contributo dell’Osservatorio Ximeniano.
A cura di Andrea Cantile
Stazione di riconoscenza del sito interessato dalla base geodetica di Giovanni Inghirami, tra San Piero
manufatti esistenti e dotati di solidità, di provata
persistenza e talmente elevati, da essere sempre
intervisibili e quasi costantemente collimabili da
qualunque punto del percorso, perché fermamente convinto “che termini di tal natura sieno preferibili di gran lunga alle piccole colonne, o piramidi, o
simili contrassegni artificiali, con cui hanno usato i
più dei Geometri di marcare i punti estremi delle
loro misure” (Inghirami G., 1818, p. 43). Ed oggi
queste parole sembrano assumere quasi un valore
profetico, specialmente se si considera la fine indegna, subita dalle tante monumentazioni di basi, di
punti trigonometrici e di capisaldi, che hanno aperto la strada alla cartografia geodetica italiana.
Collaboratori dell’Inghirami furono il professor
Giuseppe Doveri, docente di Nautica presso
l’Imperiale e Regia Marina, il giovane Giuseppe
Pedralli ed il lodatissimo Cosimo del Nacca, ai
quali si aggiunsero talvolta anche il genovese
Bonaventura Gottuzzo, il marsigliese Louis Michel
ed il livornese Giuseppe Monaldi, tutti allievi del
Doveri.
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Gli strumenti impiegati furono le tre citate aste di
abete a sezione quadrata di lato tre pollici circa e
lunghe sei braccia, che “assai prima di porle in
uso furono diligentemente segate in mezzo nel
senso longitudinale, e quindi di nuovo annestate
sulle faccie opposte: per l’oggetto manifestissimo
di por le fibre dell’una e dell’altra metà in contrasto fra di loro e coll’azione dell’atmosfera”
(Inghirami G., 1818, p. 48). All’estremità di ciascun longimetro Inghirami fece collocare due
innestature di ottone riportanti i termini della lunghezza, previamente confrontata col campione
depositato presso il Museo di Fisica di Firenze;
fece riportare una numerazione ordinale per
distinguere ognuna delle tre aste; e fece altresì
alloggiare una livella rettificata.
Durante le operazioni di misura, l’allineamento
longitudinale delle aste fu verificato per il tramite
di una diottra mobile e di apposite mire in ottone,
collocate sulle aste, mentre quello orizzontale fu
realizzato ricorrendo a sei cavalletti di legno, regolabili in altezza, con un sistema a vite capace di
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a Grado e Stagno, sezione e pianta, scala 1:15000 c.a., 1880, Firenze, AGIGM, 3024.
piccolissimi movimenti, e collocabili in piano per
garantire la messa in stazione della diottra.
Con tale sistema, l’operatore prima di eseguire la
lettura della lunghezza della singola campata,
verificava l’allineamento, lungo il medesimo piano
di collimazione, delle punte delle mire collocate
sulle aste e dello spigolo del campanile della chiesa di San Piero a Grado.
La lettura del valore della lunghezza di ciascuna
campata era poi effettuata senza mai porre in contatto diretto le singole aste, ma misurando con
un’apposita scala ticonica la distanza intercorrente tra la fine dell’asta precedente e l’inizio dell’asta
successiva.
Al termine di ogni sessione di lavoro giornaliera, i
collaboratori del padre materializzavano a terra
con un chiodo il punto estremo dell’ultima campata misurata, proiettandolo con un filo piombinato,
avendo cura di infiggere il chiodo nel suolo, in
assenza assoluta di osservatori estranei alla misura, e di occultarlo subito dopo per sottrarlo alla
curiosità di coloro che, attratti dalla singolarità del-
l’oggetto, potessero essere spinti dal desiderio di
estrarlo o di spostarlo semplicemente dalla sua
sede reale, inficiando così un’intera sessione di
lavoro. Tale contrassegno, alla ripresa delle attività, il giorno dopo, veniva previamente verificato
nel suo allineamento con gli estremi della base,
impiegando per l’uopo un piccolo teodolite e, constatando talvolta la presenza di errori di direzione,
“si ripartiva questo tenue sconcerto con ricondurci
sopra la vera linea per la strada più breve; ciòè per
la normale all’altra che si lasciava” (Inghirami G.,
1818, p. 54). Questi piccoli disallineamenti, pur
“non frequentemente” (Inghirami G., 1818, p. 53),
diedero al P. Inghirami qualche piccolo grattacapo,
presentandosi con le caratteristiche tipiche dell’errore sistematico, del quale lo stesso scienziato non
riuscì a determinare le cause: “D’onde poi questo
sconcerto avvenisse, non saprei per verità indicarlo; molto più che ebbe sempre luogo nel medesimo senso, e ad onta ancora che diligenti e moltiplicati riscontri ci rendesser di sera in sera sicuri
che le tre ultime aste erano situate in regola e tutte
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ugualmente distese nella linea che univa gli estremi ai segnali. Eppure da tutte le indicazioni e note
che si prendevano nella sera, e che nella mattina
diligentemente si riscontravano, venivamo fuor
d’ogni dubbio assicurati, che il contrassegno non
era da mano alcuna rimosso: né poteva esserlo”
(Inghirami G., 1818, pp. 54-55).
Singolare fu comunque l’atteggiamento dello
scienziato, che, pur nel riconoscere i limiti delle
sue investigazioni e nel dichiararli con schiettezza, non si peritò di concentrare l’attenzione del lettore sulla bontà della misura complessiva. Dopo
aver ipotizzato che l’origine di tali disallineamenti
fosse da attribuire a “forse qualche accidentale
cangiamento nel gioco della luce, forse alcune di
quelle piccole infedeltà delle quali è talvolta colpevole il Teodolito, e forse il suolo stesso in quei
pochi punti troppo soffice e sciolto” (Inghirami G.,
1818, p. 54), si arrese di fronte alla irresolubilità
del suo problema e concluse le sue brevi riflessioni, lasciando che “altri giudichi, bastando a me
di non aver omesso di farne qui la debita confessione, non solo per obbedire alle sacre leggi dell’ingenuità, sì necessarie in questo rapporto, ma
nel mantenermi altresì nel corrispondente diritto di
far valere e dar credito alla positiva asserzione,
con la quale assicuro, che tanto per la tenuità
quasi impercettibile di questo disordine (Nda: dell’ordine di circa 0,15 m,), quanto per il metodo e
cautele grande adoprate nel ripartirlo, non può
esser venuto alcun sensibile deterioramento di
certezza e di bontà nella nostra misura” (Inghirami
G., 1818, p. 55).
L’intero percorso fu misurato una sola volta, senza
la pur necessaria misura di ritorno, in considerazione della mancanza di tempo necessario al
compimento di quest’ultima e nella consapevolezza che un’eventuale misurazione a tempi serrati
non avrebbe avuto le stesse caratteristiche di
accuratezza della misura di andata e pertanto non
avrebbe che peggiorato la precisione della determinazione complessiva. L’unica verifica che
Inghirami operò sulla misura della base fu realizzata con metodo trigonometrico, ottenendo risultati che lo “empierono per verità di coraggio”
(Inghirami G., 1818, pp. 59-60) e lo rassicurarono
nell’adozione dello stesso metodo per superare gli
ostacoli costituiti dai due fossi, Reale e
Navigabile, che solcavano il tratto di pianura interessato dalla misura. Tali verifiche furono però
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A cura di Andrea Cantile
limitate solo ai primi tronchi della base a causa di
“inquieti incidenti” (Inghirami G., 1818, p. 61), che
costrinsero il padre a mutare la strategia di controllo e ad adottare un nuovo metodo di verifica,
sempre di tipo trigonometrico.
Giunto a circa tre quarti della misura complessiva
della base, “tanto si moltiplicaron gli ostacoli, e si
andava per altra parte incontro ad una stagione sì
minacciosa ed inopportuna, che per non perdere
il frutto delle fatiche già tollerate” (Inghirami G.,
1818, p. 62), il padre decise di accelerare i lavori,
spostando le operazioni di misura fuori dal terreno
prescelto in un primo momento, portandosi sulla
più agevole pubblica via, nonostante questa avesse una direzione obliqua al tronco già misurato, e
realizzando poi il raccordo del nuovo tratto al precedente per via trigonometrica.
Questa costrizione, imposta dalle circostanze,
avrebbe fatto sorgere seri dubbi a tanti, per la
disomogeneità metodologica che avrebbe caratterizzato la misura complessiva della base, ma
non al padre Inghirami, il quale non si scoraggiò
minimamente, anzi, si dichiarò fermamente convinto della bontà complessiva del lavoro e, pur
non potendo verificare la precisione della distanza
indiretta determinata per l’ultimo quarto della
base, la esaltò dicendo: “Esso infatti gode a preferenza tali doti e tali vantaggi, da potersi legittimamente concludere, che laddove gli altri hanno
sì felicemente resistito al confronto, questo lo
avrebbe sostenuto con pari e maggior fortuna.
Poiché primieramente tutte quelle scabrosità e
ineguaglianze di suolo, sorgenti non infeconde
d’errori quando non vi si opponga una raddoppiata diligenza, qui mancaron quasi del tutto, sommamente piano ed eguale essendo tutto quell’ampio tratto di pubblica strada, lungo del quale
nella massima parte si estese la linea che misurai.
In secondo luogo la maggior prossimità dell’estremo scopo, rendendolo in quest’ultimo tronco più
visibile che nei precedenti, rendeva altresì meno
difficile lo scostarsi dalla direzione lineare”
(Inghirami G., 1818, pp. 64-65).
È da notare inoltre che per questo ultimo tratto
nulla riferì il padre circa le sue estreme e legittime
preoccupazioni sulla disposizione dei segnali a
terra e sulla loro protezione, così come aveva precedentemente fatto pur operando in un terreno
escluso dagli occhi dei curiosi, ma più volte si
preoccupò di giustificare il motivo della scelta ope-
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rativa e di esaltarne il risultato: “Del resto il partito
di romper, come noi facemmo, la linea al punto in
cui non era più possibile continuarla senza imbattere in enormi imbarazzi, non è punto da condannarsi. I mezzi indiretti si debbono sempre prudentemente preferire tutte le volte, che l’ostinarsi a
usare i diretti porti a tali difficoltà, quali malamente possan vincersi senza grave rischio d’errore”
(Inghirami G., 1818, p. 65).
Non disponendo di metodi di compensazione
delle misure, completò alla fine le verifiche dei
suoi calcoli, confrontando la lunghezza complessiva della base misurata, con un’altra ricavata per
via trigonometrica. Calcolò cioè due nuove lunghezze della stessa base, sviluppando la sua
triangolazione appoggiata sulla piccola base di
von Zach, secondo due provenienze differenti, ed
ottenne così due diversi valori, che mediò e poi
confrontò con quello proveniente dalla misurazione. Alla fine, constatando una differenza complessiva tra le due misure di soli 55 centesimi di tesa
su 4488,96, pari a braccia fiorentine 14988,091, si
dichiarò talmente soddisfatto dell’opera da concludere con l’auspicio che il suo lavoro fosse in
futuro “degnato dal Pubblico di qualche considerazione; e che in forza dell’eloquente argomento
di verificazioni si belle, si passerà facilmente
sopra alla povertà dei miei mezzi, non mi si rimprovererà di aver usate aste di legno piuttosto che
di metallo, né si farà neppur conto di quei medesimi piccoli sconcerti, che io stesso ho candidamente accusati. [...] Del resto sarò sempre io il
primo a convenire che in operazioni di questa
natura non vi è mai grado di certezza che possa
dirsi veramente assoluto: e se io medesimo, ad
onta ancora di tante riprove, non diffido affatto dei
miei risultati, questo è perché ben so la diligenza,
la pazienza e cautele con le quali mi sono diportato in questa fatica” (Inghirami G., 1818, p. 70).
L’apporto di questa nuova distanza, della lunghezza complessiva di 8243,45 m, alla generale
triangolazione toscana fu grande, ma grandi furono anche i contrasti che le imprese geodetiche di
Inghirami avrebbero di lì a poco incontrati.
La rete trigonometrica della Toscana fu dopo vari
anni completata anche grazie all’istituzione del
catasto geometrico-particellare, che richiese per
la prima volta nella storia un previo inquadramento geometrico delle sue mappe. Il raffittimento dei
vertici della rete fu condotto da Inghirami in modo
da avere materializzati in ciascun territorio comunale almeno due o tre punti trigonometrici, “affinché la loro rispettiva distanza servir potesse da
Base ad una triangolazione secondaria, che per
ogni Comune sarebbe stata successivamente
eseguita dagli Ingegneri Ispettori. Questa
Triangolazione secondaria doveva in guisa condursi, che un lato o due si trovassero dentro il
perimetro di ciascuna delle Mappe matrici: e
aveva per oggetto di stabilir con rigore l’orientamento di esse; di portare sulle Mappe medesime
verificazioni sicurissime in quanto che indipendenti dagli errori inevitabili del lungo e continuato
canneggiamento dei Geometri subalterni
(Antonelli G., 1854, pp. 60-61). “Con questo
mezzo tutte le innumerevoli parti di un’operazione
così suddivisa vennero ad essere strettamente
collegate in maniera, che gli errori di fatto non
potevano mai spaziare tra vasti limiti; l’uno non
poté mai influire sull’altro, e compensandosi tra di
loro non ebber campo di poter comparire nella
carta, né di viziarne in alcun modo la tessitura”
(Inghirami G., 1831, p. 77).
L’opera si concluse con 767 stazioni angolari, con
7515 visuali, “tutte di lunghezza e di posizione
nota, e sempre due e tre volte verificata: molte
delle quali estendendosi oltre le quaranta, cinquanta ed anche sessanta miglia toscane, hanno
mirabilmente contribuito a collegare insieme in un
modo irrefragabile le parti più fra loro disgiunte di
tutto il lavoro” (Inghirami G., 1831, pp. 77-78),
dalle quali visuali derivarono infine a 2505 triangoli, dei quali 157 osservati su tutti i vertici.
Ma uno scienziato di par suo non poteva certo
accontentarsi di aver compiuto un’opera sì monumentale per il suo Paese, limitandone la realizzazione ai soli limiti di Stato. Egli ben conosceva l’inderogabile necessità di dare a tale monumento
scientifico una dimensione sovranazionale, curandone il collegamento con le analoghe realizzazioni degli Stati confinanti.
Con questo chiaro obiettivo, tentò a più riprese
e riuscì ad effettuare l’attacco della sua rete con
quella dello Stato Lombardo-Veneto, collegando l’Osservatorio Ximeniano con quello di
Brera, grazie a degli appositi segnali luminosi,
effettuati di notte con polvere pirica, dalla sommità del Monte Cimone, vertice intervisibile da
Milano e da Firenze, in particolari condizioni
atmosferiche.
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I grandi meriti dello scienziato volterrano non si
esaurirono però con questa memorabile opera,
dal momento che ad essa, si aggiunse anche un
altro indiscusso primato, con la realizzazione della
prima rete di livellazione geometrica italiana, grazie alle campagne condotte per la determinazione
altimetrica delle “principali eminenze” della
Toscana. Mentre ancora era diffuso il metodo del
rilevamento barometrico per la determinazione
delle quote, “egli fu il primo ad effettuare le determinazioni di differenze di quote col metodo trigonometrico” (Coppedè C., 1951, p. 162), fornendo
ben 416 punti quotati, dei quali 20 ubicati nei territori confinanti dei ducati di Modena, di Parma, di
Lucca, di Massa e dello Stato Pontificio.
La raccolta di questi dati altimetrici fu avviata da
Inghirami durante le operazioni di triangolazione
della rete: “avrei molto malamente lasciato di
cogliere uno dei più bei frutti delle mie fatiche e
della mia situazione, se dopo aver coperto di triangoli presso che tutto il Granducato Toscano, non mi
fossi prevalso dei mezzi in tanta abbondanza raccolti, come pure della bella macchina di cui sono al
possesso, per determinare ancora l’altezza dei
numerosi miei punti trigonometrici al di sopra del
livello del mare” (Inghirami G., 1841, p. 8).
Particolarmente preziosa fu ancora questa seconda impresa, in parte connessa alle regolari operazioni di triangolazione ed in parte realizzata separatamente a queste, per l’ultimazione del progetto
di livellazione trigonometrica dello Stato, perché
consentì al Nostro l’osservazione da un’unica stazione, posta in località Castel Guerrino, delle
quote del livello del Mare Adriatico, nello specchio
antistante Ravenna, e del Mar Tirreno, al largo
della rada di Livorno, e la constatazione di una
depressione del secondo rispetto al primo di circa
52 centesimi di tesa. Da tale inferenza, che
Inghirami non riuscì a spiegare, e della quale egli
stesso non si capacitava, ma che rientrava a
pieno nell’ordine “degli ordinari errori medi della
livellazione trigonometrica” (Boaga G., 1951, p.
168), unita ad analoghe osservazioni compiute a
Barcellona ed a Dunkerque, sarebbero in seguito
nate le esigenze di collegamento altimetrico dei
A cura di Andrea Cantile
mari con lunghe osservazioni mareografiche che
ne avrebbero fornito il livello medio e le metodologie di livellazione geometrica di precisione, prima,
e quelle di alta precisione, in tempi recenti, mentre colui che aveva riscontrato il divario altimetrico
tra i due bacini, Adriatico e Tirreno, concluse:
“qualunque queste differenze sieno, qualunque il
giudizio che debba formarsene, e si possa o no
ricavarne alcuna soda e legittima conseguenza
sullo stato di livello dei mari, è questo un tema
attualmente inopportuno per me, e lascio ben
volentieri all’altrui discussione” (Inghirami G.,
1841, p. 15).
Il plauso principale, oltre ai riconoscimenti in patria
da parte del governo granducale, pervennero al P.
Inghirami, in special modo dal suo mentore, Franz
Xaver von Zach, che lo incoraggiò ad ogni piè
sospinto e ne tessé le lodi finali, difendendolo
anche da alcuni attacchi sul piano scientifico.
Nella corrispondenza tra i due scienziati (AOX,
Corrispondenza De Zach-Inghirami) una particolare attenzione merita la dibattuta questione delle
divergenze riscontrate dallo scolopio tra le due
strade, quella astronomica e quella geodetica, per
la determinazione delle coordinate dei punti sulla
superficie della Terra, rese evidenti in varie circostanze già dal secolo XVIII, dalle epiche imprese
del Perù, alle misure di Boscovich e Maire nello
Stato della Chiesa, a quelle di Beccaria in
Piemonte. Le considerazioni degli scienziati del
tempo, in proposito, ancora erano controverse. Gli
uni ritenevano ancora insufficientemente precisi
gli strumenti goniometrici disponibili ed gli altri
imputavano all’effetto della deviazione della verticale la causa delle discordanze tra i due metodi di
determinazione di posizione.
Il celebre von Zach, particolarmente attento agli
sviluppi dei lavori geodetici nel granducato, entrò
nel merito delle lamentate differenze riscontrate
dallo scolopio, affermando in una lettera del 16
maggio 1818, che quella che Inghirami definiva
“differenza scandalosa tra l’Astronomia e la
Geodesia”, era in effetti una scoperta scientifica di
grande portata a cui ancora si doveva dare una
risposta definitiva e che egli era lieto di constata-
A lato: Stazione di riconoscenza alla Base dell’Inghirami,
effettuata dal tenente Annibale Cornaglia, 1880,
Firenze, AGIGM, 3024.
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Toscana geometrica. La prima corografia geodetica regionale e il contributo dell’Osservatorio Ximeniano.
re che tale discrepanza si manifestasse anche in
Toscana, costituendo quest’ultima l’ennesima
riprova della teoria della “Attrazione delle montagne”, attribuibile essenzialmente a tre fattori:
- errori degli strumenti e delle operazioni condotte nelle campagne di rilevamento;
- deviazione della verticale degli strumenti per
effetto delle forze di attrazione terrestri e locali;
- variabilità della conformazione del pianeta.
Il maggior motivo del contendere derivò tuttavia
dalle dispute comparse dopo la pubblicazione dei
risultati della determinazione della base geodetica
di San Piero a Grado e, più in particolare delle differenze riscontrate dallo scolopio nella distanza
della Torre di Populonia dal Fanale di Portoferraio,
rispetto alle determinazioni dell’ingegnere geografo francese Luois Puissant (1769-1843). La
querelle generò uno scambio di vedute particolarmente acceso, che rischiò addirittura di trascendere e che vide duramente contestati ad Inghirami
i suoi procedimenti operativi, posti da Puissant
alla base delle richiamate discordanze. Si trattò di
una ferita piuttosto dolorosa per lo scolopio, che
neppure le accomodanti parole di von Zach riuscirono probabilmente ad alleviare e che lasciarono
gli studiosi del tempo nel dubbio.
A distanza di 36 anni da questi avvenimenti, l’astronomo scolopio, P. Giovanni Antonelli, successore di Inghirami all’Osservatorio Ximeniano, confermò quelle perplessità sul metodo dell’illustre
volterrano, che gli sviluppi successivi della
Geodesia operativa avrebbero più tardi definitivamente sanciti: “Primieramente tutto il discorso che
Egli fa sulla sufficienza della osservazione di due
angoli, lasciandone il terzo alla deduzione, starebbe egregiamente qualora fosse quasi impossibile il prendere abbaglio nella vera collimazione
degli oggetti, tra i quali misuransi gli angoli di una
determinata stazione, o in altri termini, qualora
non potesse darsi il caso di equivocare su qualche punto da prendersi di mira, e già destinato
come vertice di un triangolo, né occorressero altre
operazioni, oltre quelle delle osservazioni propriamente dette, capaci di contenere sorgenti di errore: ma se invece non è niente difficile ingannarsi
nel distender le visuali ai punti che si dovrebbero
osservare, o perché molto remoti, o perché
alquanto avvolti nella caligine, o perché poco spiccati tra varj oggetti che ne contrastano la libera
visione, o perché non benissimo determinati, o
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perché debolmente o malamente illuminati, o su
fondo svantaggioso proiettati: se la linea di fiducia
e l’asse di rotazione del cannocchiale non sono
opportunamente rettificati; se nel passaggio da
una all’altra stazione fosse stato rimosso qualche
segnale, da chi gran diletto si prende a guastare
ogni cosa; se di più denno aver luogo delle riduzioni in centro ed all’asse; e se infine in quest’ultima specie di riduzioni è facile errare o pel rovesciamento dell’immagine prodotta dal cannocchiale astronomico, o per inavvertenza, per fretta
e simili; ognun vede per tante fonti d’incertezza,
che in molte circostanze possono aver luogo,
quanto muti d’aspetto lo stato della questione
attuale, e quale importanza quindi venga ad
acquistare l’osservazione del terzo angolo in un
triangolo, per cui viene quasi a togliersi ogni dubbio di sì essenziali elementi. Che se è verissimo
non provarsi rigorosamente la sicurezza delle
osservazioni dal riscontro della equivalenza tra la
somma dei tre angoli e due angoli retti, essendo
possibile che gli errori commessivi si compensino
in quella sintesi; è vero ugualmente che tale equivalenza non conseguiscasi (dentro quei limiti, ben
s’intende, che la natura della operazione e la
umana industria posson concedere), siam fatti
certi che il lavoro correlativo è infallibilmente più o
meno viziato; il perché la riprova della somma dei
tre angoli di un triangolo viene ad essere in
Geodesia, ciò per lo meno che in Aritmetica è la
riprova del nove, lo che non è piccolissimo sussidio. Or, se non facendosi uso di questo semplice
e prezioso modo di verificazione, sventuratamente s’incorra in qualche sbaglio per alcuna delle
cause sovraccennate; come potremo accorgerci
della erroneità dei conseguiti resultamenti? Chi ce
ne renderà intesi? – La riprova per eccellenza,
quella dei lati, risponde il P. Inghirami; giacché
«La miglior prova della bontà di una triangolazione, dice Egli nella sua Difesa, è quella del valore
identico dei lati ottenuto per diverse serie di triangoli indipendenti».
Questo concetto è giusto. Ma si può domandare
in secondo luogo: Sarà poi di molta semplicità ed
agevolezza nella generalità dei casi l’ottenere
delle reti trigonometriche indipendenti? [...] Le reti
trigonometriche dalle quali il P. Inghirami otteneva
la distanza della Torre di Populonia dal Fanale di
Portoferraio, sono poi indipendenti tra loro? [...]
Facendoci ad esaminarle accuratamente, vedre-
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Stazione di riconoscenza alla Base dell’Inghirami,
effettuata dal tenente Annibale Cornaglia, 1880,
(continuazioine dalla pagina precedente) Firenze, AGIGM, 3024.
mo senza gran difficoltà che, in virtù di certi elementi comuni, esse non hanno questo bel pregio
d’indipendenza” (Antonelli G. 1854, pp. 105-108).
Ancora ulteriori attenzioni doveva però destare
l’opera dello scienziato scolopio ed ancora nuovi
plausi giunsero in prosieguo di tempo al padre
Inghirami, dal suo primo referente scientifico, l’astronomo Xaver von Zach, fino alle più tarde e
lusinghiere considerazioni di Giovanni Boaga,
apparse in un saggio pubblicato sulla Rivista del
Catasto e dei Servizi tecnici erariali, nel 1951, su
invito del P. Cesare Coppedè, allora Direttore
dell’Osservatorio Ximeniano.
Quest’ultimo saggio, oltre a ripercorrere brevemente le vicende dei cimenti geodetici dello scienziato scolopio, recò per la prima volta un quadro
delle precisioni conseguite da Inghirami, pur contenendo in premessa alcune inesattezze sul piano
storico, nel collocare le operazioni di Boscovich e
Maire nello Stato della Chiesa dopo quelle degli
astronomi di Brera nel Ducato di Milano e riferendo che “nel Granducato di Toscana [...] nessun
lavoro di tal genere era stato non solo iniziato, ma
nemmeno progettato” (Boaga, 1951, p. 162),
ignorando evidentemente i vari tentativi del gesuita trapanese Leonardo Ximenes.
Anche se all’epoca in cui si svolgevano i lavori di
Inghirami non erano ancora noti i principi gaussiani di trattamento delle misure per il calcolo delle
precisioni conseguite nelle operazioni di rilevamento, il professor Giovanni Boaga fornì, secondo i principi della Teoria degli errori, i valori di errore della media per le seguenti distanze calcolate
da Inghirami nella seconda impresa geodetica,
relativa alle posizioni di Volterra, San Miniato e
Fiesole: Doccia-San Cassiano: + 0,22 tese, San
Cassiano-Pietramarina + 0,25 tese, PietramarinaVolterra + 0,19 tese, Volterra-San Miniato + 0,20
tese; stimò la precisione delle misure angolari
osservate dal padre scolopio e dai suoi collabora75
Libro Inghirami nuovo
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Toscana geometrica. La prima corografia geodetica regionale e il contributo dell’Osservatorio Ximeniano.
tori nell’intervallo compreso tra 1 e 4 secondi; e
valutò, sempre per le operazioni relative alla
seconda impresa, gli errori di chiusura dei cinque
triangoli concorrenti nella determinazione della
distanza Doccia-San Cassiano, ottenendo un
valore di + 3”,5, con un’incertezza per ogni direzione di + 2”,5; “risultato questo ottimo, trattandosi in fondo di triangoli con lati non eccessivamente lunghi” (Boaga G., 1951, p. 166).
Riguardo alla determinazione della base di San
Piero a Grado, lo stesso Boaga si espresse con
parole di tale apprezzamento, concludendo che la
memoria con la quale Inghirami espose le modalità
di esecuzione del rilevamento ed i risultati del calcolo finale era talmente preziosa che “non si esagera se si osa dire che essa costituisce un perfetto
trattato di «basimensura», che con molto profitto
A cura di Andrea Cantile
potrebbe essere letto e considerato anche oggi
giorno” (Boaga G., 1951, p. 167).
Quanto infine alla vexata questio delle discordanze derivanti dalla deviazione della verticale,
Boaga mostrò definitivamente il “buon accordo”
dei calcoli di Inghirami con le determinazioni che
a distanza di oltre un secolo avevano stabilito le
coordinate geografiche ellissoidiche della rete
geodetica dello Stato (Boaga G., 1946).
In tempi recenti, ancora ulteriori considerazioni
sono state stimolate dal lavoro di Inghirami in una
valutazione generale, condotta da Enrico Vitelli,
che nel 1996 curò la pubblicazione anastatica
della Memoria del 1816 ed effettuò un “calcolo ed
elaborazione in chiave moderna dei dati forniti
dalla triangolazione di padre Inghirami” (Vitelli E.,
1996, pp. XIX-XXXVII).
BIBLIOGRAFIA
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Boaga dal titolo “Padre Giovanni Inghirami e la
sua triangolazione della Toscana”, in “Rivista del
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serie anno VI, n.3, 1951, pp. 161-162.
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Catasto e dei Servizi Tecnici Erariali”, nuova
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in Toscana nell’autunno del 1817, letta in Livorno
all’Accademia Labronica il dì 7 febbraio 1818, con
addizioni, Firenze, Calasanziana, 1818.
76
INGHIRAMI G., Delle operazioni trigonometriche
eseguite l'anno 1816 nella costa occidentale
della Toscana. Lettera apologetica, in
"Antologia", III (1821), pp. 369-402.
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della Toscana determinata trigonometricamente
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VITELLI E. (a cura di), Di una triangolazione in
Toscana agli inizi dell’Ottocento, supplemento
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1996, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato, 1996.