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Viaggio attraverso i femminismi. Giovanna Capelli intervista Eleonora Cirant in: “Su la testa. Materiali per la rifondazione comunista”, 2010, n. 9 Laureata in filosofia, giornalista free lance, è documentalista all'Unione Femminile Nazionale di Milano. Impegnata dal 2001 nell'associazionismo femminile e nell'attivismo femminista, nel 2003 inizia ad occuparsi del tema della fecondazione artificiale. Decide poi di approfondire i temi inerenti la salute, la bioetica, il sistema socio-sanitario. Insieme ad altre donne a vario titolo interessate e impegnate in quel crocevia sociale, politico e culturale che è la riproduzione biologica e sociale, formano nel 2005 l'Osservatorio salute donna, dalla cui esperienza nasce nel 2008 l'associazione Blimunde – sguardi di donne su salute e medicina, di cui è fondatrice. E' autrice di saggi, articoli, e del libro “Non si gioca con la vita. Una posizione laica sulla procreazione assistita”. Raccontami di te e di come sei arrivata al femminismo in una città come Milano A diciotto anni, i primi due libri-rivelazione: “Dalla parte delle bambine”, di Elena Gianini Belotti, e “Contro la famiglia”, di David Cooper. In contemporanea, lo stacco forte dalla mia famiglia, l'ingresso nel mondo del lavoro, l'università, l'incontro con un uomo che aveva vissuto il femminismo da parte maschile. Quando poi, a metà degli anni Novanta, ho frequentato un seminario estivo di Storia delle donne, la sensazione era quella di essere stata derubata non solo di memoria storica, ma anche della mia memoria personale. Volevo impegnarmi per cambiare le cose – ma continuavo a rimanere una. L'impatto con “le altre” è arrivato con il convegno “Punto G” a Genova, nel giugno 2001. La prima volta che incontravo tante donne insieme, e che urlavo in strada la mia rabbia. Quel giorno sono tornata a casa senza voce, più leggera, più forte. Genova, luglio 2001, è stato uno shock. Avrei voluto uscire dal guscio, ma per andare dove non sapevo, né con chi e né per fare cosa. Nei mesi successivi ho conosciuto quelle che sarebbero state le compagne del collettivo “sconvegno”, con l'organizzazione di un'assemblea molto partecipata e piena di donne giovani. In tante avevamo partecipato a Genova 2001. L'episodio ha inaugurato, per me, un lungo e intenso periodo di attivismo. Di qualsiasi cosa parlassimo – lavoro, famiglia, amore, mass media, scuola, sessualità – cercando di analizzare le forme del dominio e le situazioni in cui stavamo male o che ci parevano ingiuste, c'era questa cosa da cui non potevi mai prescindere, se non volevi rimanere astratta. Ed era il corpo. Un corpo femminile che ci collocava immediatamente. Perché hai deciso di lavorare alla Unione Femminile e soprattutto di impegnarti su temi relativi alla salute della donna? All'Unione femminile avevo svolto le ricerche per la mia tesi di laurea. Poi è stato naturale accettare la proposta di lavoro alla biblioteca e al sito dell'organizzazione. Anche perché dopo dieci anni di lavoro nero e precariato, dai 18 ai 28 anni, un contratto a tempo indeterminato era una vera manna. Di tutte le angolature possibili nella dinamica del dominio ho finito per interessarmi in modo particolare a quelle che riguardano la riproduzione della vita. Dentro al generare c'è un magma di pensieri, sentimenti profondi, contraddizioni, chiaroscuri e ipertesti. Nel generare ci si gioca il rapporto con la morte, il rapporto tra i sessi, il rapporto tra l'individuo e il collettivo, tra istituzioni dello Stato e norme di carattere religioso, tra individui e diritti. Il controllo del corpo femminile e della sua fecondità è l'ossessione di tutti i fondamentalismi. Tutte le epoche rivoluzionarie si accompagnano ad un discorso di liberazione sessuale. Parlare di trasmissione della vita ti mette in relazione con il ruolo socialmente previsto in quanto donna. Insomma, ti sbatte nel pieno di un discorso politico. Ti chiede di scegliere come situarti al crocevia tra biologia e cultura. Il che equivale, per una donna come per un uomo, a una scelta politica. La resistenza degli uomini a fare questo tipo di scelta, uomini politicizzati di sinistra inclusi, è molto forte. Questa resistenza è anche stata all'origine di tanti gruppi femministi dopo Genova 2001. La tua generazione ha vissuto con interesse e partecipazione il dopo Pechino e poi il movimento antiglobalizzazione. Quale è stata la tua esperienza e come hai incrociato i movimenti misti (quelli contro la guerra, per i beni comuni, etc.). Di quanto era accaduto a Pechino e con le conferenze ONU le donne della mia generazione, a quanto mi risulta, ne sapevano quanto quella delle ventenni di oggi: poco o nulla. Dalle tante assemblee scaturite dallo shock di Genova sono nati gruppi che cercavano di approfondire i temi all'ordine del giorno della manifestazione anti-G8. E mentre nei collettivi si mettevano a fuoco la violenza neoliberista, il potere delle multinazionali, le proposte per realizzare un'altra economia, le ragazze si accorgevano che in quelle stesse assemblee le diseguaglianze fondate sul genere non erano considerate “abbastanza” politiche. Si è ripetuto in piccolo quello che era già accaduto negli anni Settanta, quando le donne si stancarono di fare gli “angeli del ciclostile”, di applaudire alla prolusione del leader di turno. Così molte hanno scelto l'opzione separatista. Accanto alle assemblee coi ragazzi, si facevano le riunioni tra ragazze. Il mio attivismo è sempre stato “come donna”, e da questo punto di vista e di azione ho incrociato i movimenti misti. Il movimento anti-globalizzazione è stata occasione di incontro e tessitura di reti nazionali e internazionali, come è accaduto con il Social Forum del 2003, a Firenze. Però era sempre come se il discorso femminista avvenisse a latere, e i maschi non se ne sentissero granché coinvolti. Il momento più interessante di sinergia politica con uomini l'ho vissuto nell'organizzazione della manifestazione dell'8 marzo nel 2008, a Milano. Pensi che il femminismo debba lavorare sulla trasversalità, sull’unione di tutte le donne attenuando le differenze fra destra e sinistra o che non possa esistere un femminismo se non si colloca nella prospettiva del cambiamento di sistema? Sono d'accordo con quello che ha scritto Paola Melchiori il mese scorso su questo giornale: dovrebbero essere possibili alleanze circostanziate su questioni precise, isolando terreni comuni ed eliminando quelli controversi. Come quando la sinergia tra comuniste, socialiste e democristiane ha permesso di promulgare la legge sull'adozione, nel 1963, o la riforma del diritto di famiglia, nel 1975, con l'acquisizione del diritto al divorzio. In questi casi una parte delle democristiane andò contro la linea del proprio partito e per votare con il gruppo comunista. Purtroppo la storia del movimento delle donne italiano racconta, in questo senso, anche grandi sconfitte. Nella lotta per il diritto di voto, ai primi del Novecento, ha prevalso la divisone tra le socialiste e le borghesi. Nel 1912 il fronte si spaccò quando le socialiste seguirono l'indicazione del proprio partito a non allearsi con le borghesi perché la vittoria del proletariato avrebbe risolto anche la contraddizione uomodonna. Qualche anno prima, nel 1908, la spaccatura fra laiche e cattoliche sul tema dell'insegnamento della religione a scuola ha comportato l'uscita delle cattoliche dal Consiglio delle donne italiane, che aveva cercato di porre obiettivi comuni. Oggi gli schieramenti attraverso cui si giocherebbe una trasversalità sono sempre più frammentati e spezzettati in nuclei identitari. Ho perso il conto dei partiti di sinistra esistenti in Italia. Non ricordo una sola azione forte e trasversale promossa dai diversi partiti della sinistra da dopo Prodi, e neppure tra le donne impegnate nei diversi partiti di sinistra. La mia esperienza è piuttosto quella di una mancanza di sinergia su questioni che nei discorsi ci vedono unite. Penso ad esempio al tentativo, fallito, di avviare di un tavolo di coordinamento in Regione Lombardia tra associazioni e partiti dell'opposizione che aveva l'obiettivo di contestare il fatto che i consultori privati cattolici della nostra Regione possono fare “obiezione di coscienza di struttura”, grazie ad una delibera regionale. Episodi come questo sono assai demotivanti, anche se ti rimangono relazioni belle con le singole persone. Da soggetto del territorio hai l'impressione che a immischiarti nello scacchiere della politica partitica non sai mai quali siano i giochi veri, perché lì prevalgono tattiche spesso oscure e non esplicitate, legate all'equilibrio omeostatico del palazzo. In sintesi, se postuliamo che l'azione politica si nutra tanto del conflitto, quanto del compromesso, allora il postulato vale anche per le donne, e quindi sì, dovrebbero essere possibili e necessarie alleanze trasversali agli schieramenti. Ma oggi si ha difficoltà a creare sinergie e azioni comuni sia all'interno dello stesso schieramento, sia all'esterno. Quanto alla destra e alla sinistra... c'è una gran confusione. Quando vedi rappresentanti di destra dire in televisione che loro vogliono le unioni di fatto e una legge più permissiva sulla procreazione artificiale. Quando vedi un governo di centro-sinistra che non riesce a fare una legge sulle unioni di fatto, che non riesce a cambiare la legge 40 (una legge di stampo teologico che postula il diritto dell'embrione a nascere), che non prende di petto il tema dell'obiezione di coscienza (la quale rende di fatto inapplicata la legge 194 sull'interruzione di gravidanza). Quando vedi che in una Regione come la Puglia la pillola abortiva Ru486 è accessibile soltanto in uno o due ospedali, affidata alla buona volontà di pochissimi medici - con l'Assessore alla salute che ad aprile promette un regolamento regionale che non costringa le donne al ricovero obbligatorio, e ad ottobre la vicenda è ancora in alto mare. Quando vedi tutte queste cose, è difficile capire bene quali sia il prezzo che i partiti politici di destra e sinistra sono disposti a pagare per realizzare obiettivi che riguardano direttamente la vita delle donne. Attualmente la mia strategia è quella della “militanza a progetto”: impegnarsi su obiettivi molto precisi, con chi ci sta, lasciando da parte le grandi visioni sistemiche. Il sistema stesso non è che un gran bazaar omologante. Cambiare il sistema penso che non si possa se intanto non cambiamo noi e le relazioni con gli altri. Questo è il mio impegno politico oggi. Frequento molto luoghi non politicizzati e, appena mi si apre uno spiraglio, parlo con le persone a partire da quel che ho imparato. Cercando di fare domande, più che offrire ricette. Spesso non ci riesco, a volte sì. Come incide questa crisi sulla vita delle donne dal tuo punto di osservazione ? Nel mio caso incide moltissimo. Avere una maternità è un lusso che io e il mio compagno non possiamo permetterci. Il solo stipendio sicuro è il mio, e arriva a mille euro mensili. Come scriveva un gruppo di ragazze nel volantino che hanno distribuito durante la grande manifestazione del 2006 a Milano: la precarietà è il nostro contraccettivo. Non conosco, tra le mie coetanee, donne che abbiano avuto figli senza almeno uno di questi due “pilastri”: un salario stabile (almeno uno nella coppia) oppure una casa di proprietà. Ne conosco tante che sono state lasciate a casa dopo la maternità. Viceversa, noto anche il fenomeno opposto. Appena c'è la possibilità, si fa un figlio. Mentre l'opzione dell'impegno sociale e politico rimane qualcosa di poco diffuso, da “addette ai lavori”.