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PIETRO NENCINI TRADUZIONI E TRADUTTORI DI ALBERICO GENTILI. ANTONIO FIORINI, GIURECONSULTO E POETA LIVORNESE, PRIMO VOLGARIZZATORE DEL DIRITTO DI GUERRA Ringrazio anzitutto i professori Franco Todescan e Diego Quaglioni, organizzatori di questo Convegno, per l’invito che mi è stato rivolto (1). Due mesi fa a San Ginesio, nella patria di Alberico Gentili, dove ho avuto l’onore di essere annoverato tra i cittadini onorari di quella comunità (2), ho raccontato come il destino abbia voluto che la mia vicenda personale si intrecciasse con la storia, tanto più ricca e complessa, del grande giurista vissuto cinque secoli fa. Oggi vorrei raccontare la storia di un altro personaggio che ha legato il suo nome a quello di Alberico Gentili e alla sua opera maggiore. Alberico Gentili scrisse il De iure belli in latino, così come in latino era elaborato il suo pensiero, basato per lo più su fonti latine. La lingua di Alberico Gentili è un latino raffinato, destinato a un pubblico colto, a una ristretta cerchia di intellettuali. L’opzione per il latino, lingua della scuola del diritto, rendeva l’opera conoscibile a un pubblico internazionale, tuttavia la confinava entro l’area ristretta dei dotti. L’esigenza di rendere il De iure belli fruibile al di là di quella limitata cerchia di lettori coincide con il rinnovamento culturale che accompagna l’unità d’Italia (3). Nel 1865 Pasquale Fiore (4), professore di diritto internazionale nell’Università di Pisa, pubblicò un libro dal titolo Nuovo Dritto Internazionale Pubblico secondo i bisogni della cultura moderna (5). L’opera del giovane professore pugliese si ispirava dichiaratamente al pensiero di Pasquale Stanislao Mancini, riecheggiandone la celebre prolusione accademica Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti, pronunciata a Torino il 22 gennaio 1851 (6). Il libro di Fiore si apre infatti con un’eloquente dedica «al Chiarissimo Commendatore Pasquale Stanislao Mancini, Deputato al (1) Si riproduce qui, con qualche modifica e con il corredo delle note, la relazione svolta il 20 novembre 2008 nella sala dell’Archivio Antico di Palazzo del Bo, in occasione della presentazione della traduzione italiana annotata del De iure belli: ALBERICO GENTILI, Il Diritto di Guerra (De Iure Belli libri tres). Introduzione di Diego Quaglioni, traduzione di Pietro Nencini, apparato critico a cura di Giuliano Marchetto e Christian Zendri, Milano, 2008. [Data la particolare rilevanza, in questa relazione, delle case editrici ottocentesche, in via eccezionale esse vengono menzionate nelle presenti note]. (2) Il 12 settembre 2008 l’Amministrazione Comunale di San Ginesio ha conferito allo scrivente la cittadinanza onoraria, con la seguente motivazione: «All’Avvocato Pietro Nencini, per essersi dedicato appassionatamente allo scioglimento in lingua italiana di un testo complesso e monumentale di difficilissima interpretazione e resa. Per averlo fatto disinteressatamente sotto la spinta di una grande passione per gli studi giuridici classici e di una grande ammirazione per l’opera e il pensiero di Alberico Gentili». (3) P. NENCINI, La traduzione del De Jure Belli: qualche riflessione, in Alberico Gentili nel quarto centenario del “De Jure Belli”. Atti del Convegno, Ottava giornata gentiliana (San Ginesio-Macerata, 26-27-28 Novembre 1998), Milano, 2000; G. BADIALI, Saluto, in Alberico Gentili e la dottrina della guerra giusta nella prospettiva di oggi. Atti del Convegno, Terza giornata gentiliana (San Ginesio, 17 Settembre 1988), Milano, 1991, p. 8 ss. (4) Pasquale Fiore (Terlizzi, 1837 – Napoli, 1914) compì gli studi liceali nel seminario di Molfetta, quindi si laureò in Giurisprudenza nell’Università di Napoli e fu professore di filosofia nel liceo di Cremona. Ebbe in seguito la cattedra di diritto internazionale nelle università di Urbino (1861), Pisa (1865), Torino (1875) e Napoli (1882), dove insegnò anche diritto privato (A. DE GUBERNATIS, Piccolo Dizionario dei contemporanei italiani, Forzani e Tipografi del Senato, Roma, 1895, p. 396). L’autore lo definisce «ex prete». Dal 1910 Fiore fu senatore del Regno. (5) Nuovo Dritto Internazionale Pubblico secondo i bisogni della cultura moderna, per P. FIORE, professore di detta scienza nella R. Università di Pisa. Presso la Casa Editrice e Tipografica degli Autori ed Editori, Milano 1865. (6) P. S. MANCINI, Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti. Prelezione al corso di diritto internazionale e marittimo pronunciata nella R. Università di Torino nel dì 22 gennaio 1851, Eredi Botta, Torino, 1851. 1 Parlamento e Professore di dritto internazionale nella R. Università di Torino» (7). Nel secondo capitolo, intitolato Diverse scuole di scrittori di dritto internazionale, l’autore afferma che «la prima scuola è quella fondata da Ugone Grozio, ritenuto il fondatore di questa scienza»; subito dopo però ammette che uno dei primi trattati didattici di diritto delle genti uscì dalla scuola teologica, annoverando perciò tra i fondatori del diritto internazionale il domenicano spagnolo Francisco Vitoria e il portoghese Domingo de Soto; cita poi Balthasar Ayala e Francisco Suárez, il celebre l’autore del De legibus ac Deo legislatore, come il primo che distinse il diritto naturale da quello convenzionale. Passando agli italiani, Fiore menziona Pierino Belli d’Alba, che «per le materie trattate, per l’ordine delle dottrine, per la sana erudizione e per la forma logica, servì all’uno e all’altro scrittore d’esempio e di guida», trovando tuttavia degni di menzione i più risalenti Giovanni da Legnano e Martino Garati da Lodi; giunge infine al Gentili, su cui si esprime con queste parole (8): Siamo lieti di rivendicare pel nostro italiano Alberico Gentili, l’onore di aver trasformato la scienza del diritto delle genti e di salutarlo come il legittimo precursore di Grozio, sia che si consideri la vasta erudizione, sia l’assetto definitivo che dette a questa scienza sceverando tutte le estranee dottrine e stabilendola nel suo vero terreno. Siffatto giudizio, probabilmente mutuato da Mancini (9), secondo cui al Gentili andrebbe ascritto il merito di avere emancipato il diritto internazionale dalla teologia, sarebbe divenuto un luogo comune della letteratura storico-giuridica in ambito internazionalistico (10). A un tale orientamento, presente anche nelle lezioni pisane di Fiore, si deve l’idea di tradurre il De iure belli per dare fondamento storico alla moderna scuola di diritto internazionale, ispirata al principio di nazionalità (11), come il suo allievo livornese Fiorini avrebbe ricordato oltre un decennio (7) «Illustre Commendatore, fin da quando nel 1852 Ella iniziava nell’Università di Torino una scuola di Dritto Internazionale per incarico ricevuto dall’antico governo del Piemonte esprimeva nella prolusione al suo corso il bisogno generalmente sentito nell’epoca moderna, di tentare una generale riforma del dritto, e di rivendicare soprattutto il principio di nazionalità dal dispregio in cui l’avevano gittato i politici della vecchia scuola. In tal modo Ella preveniva i tempi con le sue dottrine e mentre nell’Italia nostra l’idea di nazionalità era un’aspirazione delle sole anime generose che vivevano della vita del pensiero, e che nutrivano il cuore agli onesti sentimenti di patriottismo, Ella scientificamente dimostrava come l’Italia nostra, per la sua morale unità, per la sua posizione geografica, per la sua storia tradizionale, avea dritto di essere una nazione, come poi realmente si è costituita. Certamente se le sue molteplici occupazioni non avessero richiamato altrove le sue cure, Ella avrebbe svolto i suoi concetti in un lavoro sistematico, ed avrebbe stabiliti i principii del nuovo dritto pubblico internazionale con tanta profondità di dottrina, con tanta forza di argomentazione, e con sì vasta erudizione da convincere i più ostinati nemici della civiltà e del progresso. Né debbo nasconderle il rincrescimento di molti perché Ella non pone mano a questo lavoro che chiarirebbe il nuovo indirizzo della scienza con grande profitto dei suoi cultori. Avendo sentito anch’io il bisogno di studiare razionalmente il grande movimento europeo, e di tentare una generale riforma del dritto internazionale, stabilendo le sue basi sul principio di autonomia nazionale, ho divisato di offrire a Lei il mio libro». (8) FIORE, Nuovo Dritto Internazionale Pubblico secondo i bisogni della cultura moderna, cit., p. 23. (9) A. DROETTO, Pasquale Stanislao Mancini e la scuola di Diritto Internazionale del secolo XIX, Milano, 1954, p. 117. Mancini riteneva che «con il Gentili esulò dall’Italia il diritto delle genti . E anche quando il Wolff ne condusse a termine la scientifica sistemazione, non ebbe discepoli in Italia, dove i rapporti tra le Signorie ed i Principati erano regolati più dall’arte dei politici che dalla scienza dei giuristi». (10) Ad esempio: Santi ROMANO, Corso di Diritto Internazionale, Padova, 1929, p. 24: «[Alberico Gentili] è considerato come il precursore di colui che fu detto il padre del diritto internazionale, cioè del Grozio, e anzi, sotto certi aspetti, è stato ritenuto superiore a quest’ultimo […]. Il suo carattere fondamentale è quello di avere emancipato, in certo senso, il diritto internazionale dalla teologia». (11) Le prime pagine dell’opera di Fiore contengono un vero e proprio manifesto della sua concezione del diritto internazionale: «Mi proposi di esaminare se i nuovi principii che si volevano sostenere erano razionalmente veri, e se gli antichi dovevano cedere ai nuovi. Con siffatto proponimento io studiai le diverse scuole ed i diversi sistemi, e fui obbligato a conchiudere che il fondamento del dritto internazionale non era stato determinato in modo da prevenire i possibili conflitti, che anzi la lotta e l’agitazione che commovevano le nazioni, altro non era che l’effetto della sviluppata coscienza nazionale che si sforzava di scuotere il giogo che la scienza e l’arbitrio le avevano imposto giustificando con falsi principii le usurpazioni dei potenti e l’avvilimento dei popoli. Essendo persuaso che la scienza dev’essere il principale fattore del progresso perché l’azione non è altro che l’attuazione delle idee e che non è possibile un progresso reale senza un progresso ideale ben determinato e preciso, io stimai essere obbligo della scienza del dritto internazionale di esaminare i nuovi principii diffusi nella società, di criticarli sceverando il vero dal falso, ordinarli razionalmente per illuminare l’opinione sociale e dirigere il movimento internazionale imprimendovi un indirizzo ideale che assicurasse i buoni effetti 2 dopo, nel 1877 (12): Il Signor Pasquale Fiore, professore a Pisa di diritto delle genti, fino dal 1866 dimostrava a’ suoi scolari, tra’ quali era io, l’importanza scientifica del De Jure Belli e dolevasi che il libro latino di Alberigo Gentile non fosse conosciuto che da pochi eruditi. Il suo dire era quale si conviene a chi parla da una cattedra dell’Ateneo Pisano, e dalla gravità della scienza e, dal nome d’Italia era fatto austero e solenne, però autorevole ed efficace. Onde a me fino da quel tempo venne desiderio di studiare quest’opera, e in quello stesso anno 1866 posi mano a tradurla. Nelle prime intenzioni, sembra che il giovane Fiorini si fosse messo a tradurre il De iure belli sulla spinta dell’entusiasmo di ideali patriottici e risorgimentali. Tuttavia, a causa delle molte difficoltà della traduzione, il lavoro fu accantonato per essere ripreso una decina d’anni dopo, nel marzo del ’75. Infatti, sull’impulso della prolusione oxoniense di Thomas Erskine Holland del 1874 (13), anche in Italia si era rinnovato l’interesse per la figura di Gentili (14). Il primo marzo 1875 il comune di San Ginesio ringraziò pubblicamente Holland e il 23 marzo il consiglio accademico dell’Università di Macerata, su proposta di Pietro Sbarbaro (15), deliberò di promuovere la costituzione di un comitato, sotto la presidenza di Pasquale Stanislao Mancini, per innalzare un monumento ad Alberico Gentili. Subito dopo si costituì a Roma un comitato nazionale, la cui presidenza onoraria fu assunta dal principe ereditario Umberto di Savoia. Nello stesso anno, Emilio Visconti di Venosta, ministro degli esteri nel secondo governo Minghetti, prese contatti con l’Inghilterra per riportare in Italia i resti del Gentili (16). della grande rivoluzione umanitaria ed impedisse gli eccessi che l’esagerazione e l’ignoranza avrebbero potuto produrre. Avendo perciò conosciuto il bisogno di modificare in molte parti l’antico dritto internazionale, sentii l’obbligo nell’insegnamento di conciliare gli antichi principii con il progresso umanitario e di porre in armonia le aspirazioni dei popoli coi principi razionali del dritto»: FIORE, Nuovo Dritto Internazionale Pubblico secondo i bisogni della cultura moderna, cit., p. 6. (12) Del diritto di guerra di Alberigo Gentile, traduzione e discorso di A. Fiorini, Vigo, Livorno, 1877, p. CXXVII. Per la biografia di Antonio Fiorini (Livorno, 1846 – Montecassino, 1905) si vedano: F. PERA, Nuove biografie livornesi, Bastogi, Livorno, 1906 (reprint 1972), pp. 214-224; A. DE GUBERNATIS, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, ornato di oltre 300 ritratti, Coi tipi dei successori Le Monnier, Firenze, 1879, p. 448; ID., Piccolo Dizionario, cit., p. 397 ss.; G. WIQUEL, Dizionario di persone e cose livornesi, in La Canaviglia, Livorno 1976-1985, p. 239. (13) Thomas Erskine Holland (1835 – 1926) fu professore di diritto internazionale e diplomazia nell’All Souls College di Oxford. La prolusione su Gentili fu pubblicata col titolo: An Inaugural Lecture on Albericus Gentilis delivered at All Souls College (November 7, 1874), Macmillan and Co, London, 1874. In Italia fu pubblicata, dieci anni dopo, la versione di Aurelio Saffi, Alberico Gentili, discorso inaugurale letto nel Collegio dei Fedeli Defunti in Oxford il 7 novembre 1874 dall’Avvocato Tommaso Erskine Holland professore di diritto internazionale e di diplomazia in quella università, Loescher & C. Roma, 1884. (14) Contemporanei agli studi di Fiorini sono quelli di Giuseppe Speranza: Alberico Gentili. Studi dell’Avv. G. SPERANZA, Fratelli Pallotta, Roma, 1876. Oltre al lavoro biografico di Speranza, che Fiorini conosceva e definì «esempio di critica giudiziosa e prudente» (Del diritto di guerra di Alberigo Gentile, cit. pag. VII, nota 1), si possono citare altri lavori: A. VALDARNINI, Alberico Gentile fondatore del diritto internazionale, con una lettera di E. Laboulayle, Carnesecchi, Firenze 1875; A. DE GIORGI, Della vita e delle opere di Alberico Gentili. Commentario, Tip. Adorni Michele, Parma 1876; A. PIERANTONI, Alberico Gentili, la sua vita, il suo tempo, le sue opere, Marghieri, Napoli, 1875; A. SAFFI, Di Alberico Gentili e del diritto delle genti. Letture, Zanichelli, Bologna 1878. (15) Pietro Sbarbaro (Savona 1838 – Roma 1893) fu giornalista, scrittore e professore di diritto nelle Università di Pisa, Macerata, Napoli, Parma e Sassari. Trasferitosi a Roma diresse il periodico Le Forche Caudine, attaccando personalità politiche ed attirandosi numerose querele. Condannato a sette anni di carcere, ne scontò due alle Nuove di Torino. Eletto deputato a Pavia nel 1885, evitò di scontare i restanti anni. Da deputato continuò ad attaccare aspramente ministri e uomini politici, acclamato da popolari e democratici che vedevano in lui un perseguitato. Temendo nuove condanne riparò per qualche tempo a Lugano. Rientrato in Italia fu condannato e recluso di nuovo a Sassari, finché la pena gli fu parzialmente condonata. Uscito dal carcere, trovò per qualche tempo ospitalità in San Ginesio, presso l’amico Alfonso Leopardi, quindi fece ritorno a Savona ma, avendovi trovato un ambiente ostile, si trasferì a Roma, dove morì povero e solo. Su Sbarbaro e la «riscoperta» ottocentesca di Gentili, vedi L. LACCHÈ, «Celebrato come una gloria nazionale». Pietro Sbarbaro e il “risorgimento” di Alberico Gentili, in Alberico Gentili. Atti dei Convegni nel quarto centenario della morte, Milano 2010, pp. 189-295. (16) A. M. CORBO, Il monumento ad Alberico Gentili in San Ginesio, San Ginesio, 1994, p. 8; I. VANNI e A. SANTI, Relazione delle feste fatte in San Ginesio ad Alberico Gentili, Tip. Bartelli, Perugia 1875; P. P. ARMELLINI, Introduzione, in Alberico Gentili e la dottrina della guerra giusta nella prospettiva di oggi, Atti del Convegno (San Ginesio 1988), 3 Angelo Valdarnini (17), allora insegnante al Liceo di Macerata, scrivendo per la «Rivista Universale», dette notizia di ciò che Fiorini andava facendo. Dopo aver dato conto del grande numero di accademie e di intellettuali aderenti al Comitato (18) e di tutte le iniziative che erano state o stavano per essere adottate, Valdarnini annunziava (19): Da taluno è stato manifestato il desiderio che si faccia un’elegante e compiuta edizione di tutti gli scritti di Alberico; vogliamo credere che questo voto sarà a tempo debito esaudito: sappiamo anzi che il valente giovine di Livorno, dottor Antonio Fiorini sta preparando una bella traduzione dell’opera De jure belli. Che più? L’onorevole Municipio di Sanginesio si è rivolto al parlamento nazionale perché al nostro governo sia data la facoltà di chiedere all’Inghilterra le ceneri di Alberico Gentili, per essere quindi collocate nel pantheon de’ nostri grandi, in S. Croce a Firenze, presso il monumento di Dante e di Machiavelli. Fiorini fu indotto a rimettersi al lavoro soprattutto grazie all’incitamento di Ettore Toci, suo «buono e valente amico». Il Toci (20), avvocato, giornalista e letterato livornese, aveva appena pubblicato la traduzione dal tedesco del Goetz di Berlichingen di Goethe (21) e stava per lanciarsi nell’avventura editoriale della pubblicazione postuma della traduzione di Vincenzo Monti della Pulcella d’Orleans di Voltaire (22), traduzione che Monti aveva lasciato copiare all’amico Andrea Maffei, vietandogli però di pubblicarla, e della quale il Toci, bibliofilo e figlio di antiquario, aveva ritrovato il manoscritto in una biblioteca di Bergamo. Laureato in Giurisprudenza a Pisa, come il suo amico Fiorini il Toci esercitò la professione di avvocato poco e mal volentieri, preferendo dedicarsi agli studi di lettere e più ancora alle lingue straniere e alle traduzioni. Dopo il romanzo di Goethe, le poesie di Heine e la Pucelle di Voltaire, si sarebbe dedicato a tradurre dialoghi di Erasmo da Rotterdam (23), romanze spagnole (24), canti popolari Milano 1991, p. 18 ss. (17) Angelo Valdarnini (Castiglion Fiorentino 1847 – Firenze 1930) compì gli studi liceali ad Arezzo e si iscrisse all’università di Pisa. Nel 1870 conseguì la laurea in Filosofia presso l’Istituto di Studi Pratici e di Perfezionamento di Firenze. Fu insegnante nei licei di Caltanissetta, Città di Castello e Macerata. Nel 1876 ebbe la libera docenza presso l’Università di Macerata. Nel 1887 fu nominato professore di filosofia nell’Università di Bologna, dove dette grande impulso e fervore alla Scuola Pedagogica, di cui fu insegnante e a lungo presidente. Scrisse e tradusse numerose opere di filosofia e pedagogia. Dopo il collocamento a riposo si trasferì a Firenze. Negli ultimi anni della sua vita ricoprì la carica di consigliere provinciale ad Arezzo. (18) A. VALDARNINI, Alberico Gentili, in «Rivista Universale», 1875, p. 536: «le Università di Torino, di Pavia, di Bologna, di Pisa, di Ferrara, di Urbino, di Palermo di Catania, di Messina e di Cagliari; Vittorio Bersezio, Domenico Carutti, Antonio Allievi, Giacomo Lignana, Tullo Massarani, Pasquale Fiore, Luzzatti, G. Gorresio, P. Villari, R. Busacca, Giovanni Lanza, G.B. Vare, Giuseppe Fornari, il conte senatore Ferdinando Cavalli, autore di un pregevole e non abbastanza conosciuto libro sugli scrittori politici italiani, Cesare Trevisani, Perez, La Lumia, il principe Ruspoli, il cav. G. Pennacchi rettore dell’Università di Perugia, il segretario di Sanginesio dott. Alfonso Leopardi, il conte Tarquinio Gentili di Rovellone, presidente del consiglio provinciale di Macerata, Alberto Mario, Crispi, A. Saffi e l’On. Pierantoni autore della Storia del Diritto Internazionale; per tacere di altri uomini valenti nelle scienze, nelle lettere o che sono benemeriti della patria pei loro servigi». (19) Ibidem. (20) Ettore Toci (Livorno 1843-1899). Per i riferimenti biografici si vedano: PERA, Nuove biografie livornesi, cit., pp. 203-209; DE GUBERNATIS, Dizionario biografico, cit., p. 992 (qui Toci è definito «un poeta pieno di grazia e di sentimento, ha una gran conoscenza delle principali lingue e letterature straniere e traduce con molto buon gusto»); DE GUBERNATIS, Piccolo Dizionario, cit., p. 397; WIQUEL, Dizionario di persone e cose livornesi, cit., p. n.n. (21) Goetz di Berlichingen, di VOLFANGO GOETHE e poesie varie di ENRICO HEINE e di altri autori stranieri, voltate in versi italiani da E. Toci, Vigo, Livorno, 1876. (22) La Pulcella d’Orleans del signor di Voltaire tradotta da Vincenzo Monti e per la prima volta pubblicata per cura di E. Toci, Vigo, Livorno, 1878. Nel celebre poema eroicomico Voltaire derideva il culto religioso e patriottico della figura di Giovanna d'Arco, dissacrandola con una pungente satira anticlericale. (23) L’amante e la fanciulla: dialogo di ERASMO DA ROTTERDAM, traduzione di E. Toci, Vigo, Livorno, 1879; L’epitalamio di Pietro Gilles: dialogo di ERASMO DA ROTTERDAM, traduzione di E. Toci, Vannini, Livorno 1881; Il naufragio: dialogo di ERASMO DA ROTTERDAM , traduzione di E. Toci, professore di belle lettere nel R. Istituto Tecnico di Livorno, Meucci, Livorno, 1882; L’abate e la donna istruita: dialogo di ERASMO DA ROTTERDAM, traduzione di E. Toci, Meucci, Livorno, 1883; (24) Antiche Romanze Spagnole, pubblicate a cura di E. Toci, Meucci, Livorno, 1899. 4 portoghesi (25) e a scrivere opere letterarie e poetiche su vari argomenti ( 26). Pubblicò anche un libro di lettura per le scuole secondarie, col titolo di Antologia delle Antologie (27), che ebbe una discreta diffusione. Nel 1879, Toci accettò l’incarico di professore di Lettere nell’Istituto Tecnico e Nautico di Livorno e in seguito divenne intimo amico di Carducci (28) e di Pascoli; questi, che fu insegnante nel Liceo di Livorno, gli dedicò la poesia Edera Fiorita (29). Toci, a cui nel 1927 il comune di Livorno avrebbe intitolato una via (30), fu consigliere comunale nel 1886 e nel 1894 e ricoprì anche la carica di sindaco. Lasciò incompiuta e inedita una biografia di Erasmo. Dal 1872, Toci, Fiorini e un terzo amico, l’avvocato Alfredo Boelhouwer, «tre giovani letterati livornesi, prestanti di ingegno e forbiti scrittori», insieme all’ormai quasi settantenne Francesco Domenico Guerrazzi (31), che li aveva presi in simpatia e con i quali corrispondeva dal suo ritiro nella tenuta della Cinquantina presso Cecina, furono gli animatori de L’Eco del Tirreno, un giornaletto locale di «indirizzo liberale e anticlericale» (32). Grazie all’esortazione del Toci, persona «divertente e dalla garrula parlantina» (così, qualche anno più tardi, lo avrebbe ricordato la sorella di Giovanni Pascoli) (33), Fiorini rimise mano alla traduzione dell’opera di Gentili e finalmente la completò dopo due anni di lavoro, a dieci di distanza dalle appassionate lezioni pisane del Fiore. Il 23 aprile 1876, nel circolo filologico (34) di Livorno, Fiorini tenne un lungo discorso sulla vita e l’opera di Gentili, il cui testo pubblicò a stampa (35). L’anno seguente, mentre il Comitato non era riuscito ad innalzare il monumento a Gentili né a trovare i suoi resti in Inghilterra, Fiorini pubblicò la traduzione del De iure belli presso la Tipografia di Francesco Vigo (36), editore livornese di chiara fama, non solo di autori locali, come il Toci, ma anche di altri più illustri, come Mancini (37) e (25) Lusitania, canti popolari portoghesi, tradotti e annotati da E. Toci, Giusti, Livorno, 1888. (26) Poesie di un carmagnolese, a cura di E. Toci, Vigo, Livorno, 1864; Rime burlesche edite ed inedite di Giovanni Battista Ricciardi , con prefazione e note di E. Toci, Vigo, Livorno, 1881; Aure di Primavera, poesie di E. TOCI, Vigo, Livorno, 1878. Quattro volgarizzamenti di E. Toci, Vigo, Livorno, 1870. All’avvocato Alfredo Boelhouwer nel giorno delle sue nozze con la gentile donzella Elvira Serafini offre augurando le più desiderate fortune Ettore Toci, Giusti, Livorno, 1887. (27) Antologia delle Antologie, libro di letture per le scuole secondarie a cura di E. Toci, Giusti, Livorno, 1897. (28) F. FERRERO, Livorno e i grandi letterati da Petrarca a D’Annunzio, Società Editrice Tirrena, Livorno, 1948, p. 148. «Il Carducci poté considerare intimo anche il professore livornese Ettore Toci che, erudito quanto modesto, fu uno dei primi che si dedicarono ad un ordinato studio delle letterature straniere, e lo onorò intervenendo persino, a quanto pare, al pranzo del suo assai maturo fidanzamento». (29) G. PASCOLI, Myricae, 28, 7. Quando di maggio tu le dolci sere … (30) La via si trova nella frazione di Quercianella. (31) Francesco Domenico Guerrazzi (Livorno, 1804 – Cecina, 1873), laureato in Giurisprudenza a Pisa nel 1824, lasciò presto la professione di avvocato per dedicarsi alla politica e alla letteratura, Amico di Mazzini, fondò e diresse il quotidiano L’Indicatore livornese. Scrisse opere poetiche e romanzi storici come La Battaglia di Benevento, L’assedio di Firenze e Beatrice Cenci. Ministro dell’interno del governo granducale, nel 1848 fu triumviro con Montanelli e Mazzoni e nel 1849, dopo la fuga del granduca, fu nominato dittatore. Alla restaurazione del governo granducale rifiutò di fuggire e fu condannato a 15 anni di carcere, poi commutati nell’esilio in Corsica. Nel 1853 fuggì a Genova dove fu accolto e protetto da Cavour. Dal 1861 al 1870 fu deputato al parlamento italiano. (32) A. MANGINI, F.D. Guerrazzi giornalista, in «Rivista d’Italia», 15 agosto 1900, anno III, fasc. 8, pp. 615-635: 630. (33) M. PASCOLI, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, memorie curate da A. Vicinelli, Milano, 1961. Parte II, cap. 3. (34) I circoli filologici erano associazioni per lo studio delle lingue e per le traduzioni. Il primo circolo, costituitosi a Torino nel 1868, venne immediatamente imitato a Firenze, Genova, Ancona, Alessandria, Livorno, Roma e Napoli: A.M. BANTI, Storia della borghesia italiana. L’età liberale (1861-1922), Donzelli, Roma, 1996, p. 189. Già in epoca granducale (1823) risultava attivo in Livorno un Gabinetto letterario, istituito «con lo scopo di riunire in un centro comune le notizie dei più lontani paesi, le cognizioni di ogni progresso, i lumi di ogni scoperta, i resultati di ogni ramo scientifico, le cose d’ogni letteratura»: E. REPETTI, Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, Tofani, Firenze, 1835, II, p. 785. (35) Di Alberigo Gentile e del suo dritto di guerra, discorso del D.re A. FIORINI letto nel circolo filologico di Livorno il dì 23 aprile 1876, Vannini, Livorno, 1876. (36) Francesco Vigo (Livorno, 1818-1889), stampatore Livornese, fu avviato dal padre al mestiere di tipografo e in pochi anni, divenuto padrone del mestiere, fondò un’azienda propria. Pubblicò molti libri di svariati autori ed argomenti e fu premiato in numerose mostre nazionali ed internazionali. (37)T. MAMIANI-P. S. MANCINI, Fondamenti della filosofia del diritto e singolarmente del diritto di punire, Vigo, Livorno, 1875. 5 Carducci (38). La grande tradizione editoriale livornese risaliva almeno al secolo precedente. Va ricordato che a Livorno era stato pubblicato per la prima volta Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764) e che, sempre a Livorno, era stata stampata la prima edizione italiana della Enciclopedia di Diderot (1770) (39). L’editoria livornese dell’Ottocento aveva trovato un fortunato filone nella pubblicazione di ogni genere di traduzioni. Lo storico livornese Renzo Cecchini (40), con riferimento alla prima metà del secolo, evidenzia «la duplice funzione che le stamperie si trovarono ad assolvere in un periodo così ricco di fermenti politici e di idee nuove: quella di ritrovo dei produttori di cultura e quella di strumenti di divulgazione della cultura illuministica e del pensiero rivoluzionario che dalla Francia si venivano propagando in Europa e nel mondo». Quindi, citando gli studi di Toni Iermano ( 41), sottolinea come «Livorno poté avvantaggiarsi di una condizione del tutto soggettiva, e cioè dell’apporto di quelle ‘nazioni’ legate all’attività mercantile che, per la loro autonomia dal potere granducale concorsero, con la traduzione in italiano di tante opere straniere, a vivacizzare il dibattito politico sostanziandolo di nuovi e pregnanti argomenti. Le traduzioni rappresentarono un momento fondamentale per la società e la intellettualità nuova che veniva nascendo nella città di Livorno. Esse importarono una cultura europea il più delle volte nuova e avanzata...». Nella città, uno dei porti maggiori del Mediterraneo, tanto ricca di traffico commerciale quanto piena di contraddizioni e tensioni sociali, vivevano migliaia di persone, in prevalenza scaricatori e lavoratori a giornata, che non guadagnavano a sufficienza da sfamare i propri figli. A differenza delle altre città della Toscana, a Livorno non vi era un ceto legato alla rendita fondiaria. Il ceto dirigente era costituito da una borghesia mercantile illuminata e liberale. Livorno si distingueva nettamente dall’entroterra, che talvolta percepiva la città portuale come un corpo estraneo. Qualcuno, scrivendo la storia di quegli anni, ha coniato il termine «antilivornesismo», volendo intendere «il timore che i ceti moderati delle città storiche della Toscana nutrivano nei confronti dell’esplosiva situazione sociale di Livorno, così estranea alle consuete manifestazioni di tolleranza delle zone agricole dello stato granducale» (42). Quella in cui Fiorini e Toci erano nati e vivevano era una città vivacissima e cosmopolita, multietnica e multireligiosa. A Livorno erano rappresentate un po’ tutte le etnie e le confessioni religiose d’Europa e del bacino del Mediterraneo. Vi era una numerosissima comunità israelitica, con una propria sinagoga e una propria scuola ed erano presenti e attive comunità e chiese dei Greci Uniti, detti anche Melchiti, degli Ortodossi Greci Orientali e Russi, degli Armeni Cattolici, degli Arabi Maroniti, degli Anglicani, nelle varianti Episcopale, Presbiteriana scozzese e Metodista, dei Luterani tedeschi e Calvinisti olandesi e vi era pure una piccola comunità turco-musulmana, che se non aveva una moschea, aveva però un proprio cimitero. La Chiesa Cattolica incontrava notevoli difficoltà organizzative. La diocesi (43), piccola e dai confini ancora incerti, era stata eretta nel 1806, per scissione da quella di Pisa, ed aveva iniziato a funzionare solo nel 1821. Gli ordini religiosi erano stati molto ridimensionati, prima dalle soppressioni leopoldine e poi da quelle napoleoniche. Il Seminario fu istituito solo nel 1850. Si erano costruite e si stavano costruendo nuove chiese, ma Livorno, che a metà dell’Ottocento aveva già una popolazione di oltre ottantamila abitanti, era stata a lungo un’unica parrocchia pievana ( 44). Non si può infine tacere della forte presenza delle logge massoniche, che erano state fondate già nel secolo (38) T. BARBIERI, Giosuè Carducci e la stamperia livornese di Francesco Vigo, Firenze, 1961. (39) T. IERMANO, Frammenti di Risorgimento. Carlo Bini – F.D. Guerrazzi. L’Antirisorgimento, la cultura moderata, Napoli, 1981, p. 39. (40) R. CECCHINI, Il potere politico a Livorno, Cronache elettorali dal 1881 al fascismo, Livorno, 1993, p. 32 s. (41) T. IERMANO, Intellettuali e stampatori a Livorno tra ‘700 e ‘800. Il Forte della Stella, Livorno, 1983. (42) ID., Frammenti di Risorgimento, cit., p. 27. (43) REPETTI, Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, cit., pp. 777 e 788. (44) Nonostante un tessuto ecclesiale ancora «debole e sfilacciato», nella storia della Chiesa livornese dell’800, non mancano figure di primo piano come quella di Don Giovanni Battista Quilici (1791-1844), sacerdote distintosi per l’opera di apostolato in favore dei quartieri più poveri (V. LESSI, Un faro sulle strade degli ultimi, Cinisello Balsamo [Mi], 2008). 6 precedente per iniziativa della comunità mercantile inglese (45). Negli anni che seguirono alla presa di Roma, lo scontro tra massoni e cattolici si era fatto aspro. A Livorno, come a Roma, a Macerata o a San Ginesio, la figura di Gentili, esule protestante, perseguitato in patria dal governo pontificio, ben si prestava a essere usata come icona anticlericale, sia dai liberali monarchici, sia dai radicali repubblicani. Anche i protestanti italiani parteciparono al movimento di riscoperta di Gentili. Emilio Comba, uno dei maggiori esponenti della chiesa valdese, scrisse articoli e saggi elogiativi del giurista marchigiano (46). Il meno moderato Francesco Sciarelli (47), ex frate francescano, garibaldino ed ora pastore metodista wesleyano, mentre teneva polemiche conferenze sulla vita dei papi e partecipava alla raccolta di fondi per il monumento a Gentili (48) «come protesta universale contro la Guerra e contro la Teocrazia, i due flagelli dell’umanità», dichiarava (49): Ognuno riconosce in Alberico Gentili, in questo grande italiano, il fondatore del Diritto Pubblico Internazionale; e quell’uomo sorprendente, che, in tempo di fazioni e di guerre spietate, con accento di profeta, invocò da Dio sui popoli divisi dall’odio e dalla rivalità d’interessi, i benefici inestimabili della concordia e della pace. Ma noi cristiani evangelici consideriamo ancora Alberico Gentili il seguace della Riforma, il quale, per non chinarsi dinanzi al dispotismo di Roma sacerdotale, si rassegnò a lasciare la patria ed esulare in terra straniera. Mentre, non solo in Italia, ma in tutte le nazioni civili, uomini di cuore ed assetati di pace e di giustizia, fanno a gara per contribuire all’erezione di un tal Monumento, gli Evangelici e gli Amici della causa del Vangelo in Italia non dovrebbero trascurare di portare il loro obolo. Trent’anni dopo lo storico livornese Pietro Vigo, figlio di Francesco, avrebbe ricordato il clima politico in cui suo padre aveva stampato la traduzione di Fiorini (50): Ma fra le due supreme potestà, la Chiesa e lo Stato, le relazioni, nonché farsi più amichevoli, trovarono nuove cagioni di dissidio, negli ultimi mesi di quest’anno (1875). Si faceva strada e incontrava favore allora la proposta di innalzare un monumento al giureconsulto Alberigo Gentili (in cui onore si era celebrata una festa nella terra nativa di lui la prima domenica di giugno) scrittore politico nato in Sanginesio, antico castello del Piceno, nel 1552 e rinomato per il suo dotto trattato col quale preparava la via ad Ugone Grozio, del Diritto di guerra del quale Francesco Vigo, tipografo-editore di Livorno, pubblicò allora una traduzione accompagnata da dotte illustrazioni dell’avvocato e letterato argutissimo livornese Antonio Fiorini. I clericali che ad Alberico Gentili davano taccia di apostata e di cortigiano e gli rimproveravano d’esser stato amico a Giordano Bruno videro in queste onoranze non altro intento da quello infuori di combatter la dottrina (45) La Massoneria a Livorno, dal Settecento alla Repubblica, a c. di F. Conti, Bologna, 2006. Peraltro non ho trovato in questo volume alcun riferimento a Fiorini, né a Toci. (46) E. COMBA, Alberico Gentili. Cenno sopra la sua vita e le sue opere, estratto da La rivista cristiana, periodico mensile, Anno V, Tip. Claudiana, Firenze 1877, pp. 3-8. Emilio Comba (San Germano Chisone, 1839 – Guttannen, 1904), pastore evangelico, storico della Riforma italiana e del movimento valdese medievale, fu una delle figure notevoli dell’evangelismo italiano del XIX secolo (S. BIAGETTI, Emilio Comba, storico della Riforma Italiana e del movimento valdese medievale, Torino, 1989). (47) Francesco Sciarelli (Chieti, 1837-1899), ex frate minore conventuale a Chieti, garibaldino nel 1860, poi pastore evangelista nella missione wesleyana, nel 1872 partecipò alla grande manifestazione tenutasi a Roma per la morte di Giuseppe Mazzini. A Padova diede vita al circolo Giovanni Diodati che offriva una biblioteca, dibattiti, conferenze e lezioni di inglese, francese e tedesco. (48) A. MOLNAR-A. A. HUGON, Storia dei Valdesi, Torino, 1974, p. 148. «Nel 1875 giunse a Padova lo Sciarelli, ripeté le sue conferenze sulla vita dei papi, contribuendo a sviluppare la polemica contro il cattolicesimo, polemica che prima di lui si era cercato di evitare, o per lo meno di moderare [...] Lo Sciarelli fondò un circolo evangelico chiamato Giovanni Diodati che partecipò alla raccolta di fondi per il monumento ad Alberico Gentili». (49) F. SCIARELLI, I miei ricordi (1837-1899), Fratelli Jovane, Salerno, 1900, p. 196. Tra le conferenze anticattoliche tenutesi a Padova tra il 1875 e il 1876 Sciarelli ricorda quelle di Giacomo Roland su «Storia e leggenda del Cristianesimo», di Giuseppe Rosa su «Giovanni Diodati» e su «Aonio Paleario» e la sua su «Alberico Gentili» (pp. 195 e 197). Le stesse parole della prima parte di questo proclama sarebbero state utilizzate nel 1908 da Luigi Rava, ministro della pubblica istruzione del terzo governo Giolitti, nel discorso pronunciato sulla piazza centrale di San Ginesio nel corso della cerimonia di inaugurazione del monumento (la rassegna stampa è conservata nell’ingresso del teatro comunale di San Ginesio). (50) Annali d’Italia, storia degli ultimi trent’anni del secolo XIX, narrata da P. VIGO, Milano, 1908, vol. II, p. 72. Pietro Vigo (Livorno, 1856-1918), figlio dell’editore Francesco, studiò a Pisa e insegnò presso varie scuole di Livorno. Fondatore e direttore dell’Archivio storico comunale, fu storico della sua città. Pubblicò saggi e studi letterari. Compilò una storia d’Italia degli ultimi trenta anni del secolo XIX in sette volumi, sul modello degli Annali del Muratori. 7 cattolica, il diritto canonico, la scolastica e gli altri principii scientifici propugnati dal Cattolicismo; ed allo scrittore politico non approvato dalla Chiesa, ne contrapposero un altro, fedele in tutto alle dottrine ed alle pratiche di essa e a capo di una repubblica americana, Don Garcia Moreno 51, Presidente altamente benemerito della Repubblica dell’Equatore, poco prima fatto uccidere dall’odio settario dei mortali nemici del cattolicismo. Promotore della sottoscrizione per innalzare al Moreno un monumento in Vaticano si fece monsignor Emiliano Manacorda, vescovo di Fossano, dal quale il papa stesso accolse con gran plauso la proposta e la volle favorita con larga offerta del suo peculio. Mentre i Cattolici si scandalizzavano che i Liberali (e i Protestanti) osassero «parte per ignoranza e parte per malizia, proporre agli italiani di elevare un monumento all’apostasia tirannica e cortigiana di Alberico Gentili» (52) e gli contrapponevano il Moreno come modello di «vero eroe cattolico, vittima d’atroce assassinio ordinato e prezzolato dalla Frammassoneria», proponendo di innalzare un altro monumento per «glorificare il Governante cattolico, fedele alla sua religione, devotissimo alla Santa Sede e caldo di amor sincero verso la patria per cui spese l’ingegno, le forze e la vita», il segretario del Comitato gentiliano (suppongo fosse Pietro Sbarbaro) a nome del presidente, Pasquale Stanislao Mancini, ringraziava il pastore Sciarelli per il denaro raccolto dagli evangelici ( 53): Se tutti coloro che come V.S. rappresentano in Italia il risveglio della coscienza cristiana della nazione e la riscossa dello spirito religioso dalla servitù della Chiesa Cattolica ponessero lo stesso zelo di lei nel secondare la nostra impresa, l’esito più splendido le sarebbe assicurato. Ella ha avuto il merito di comprendere il significato profondamente religioso di questa grande manifestazione in onore dell’illustre figlio della Riforma, che pose i fondamenti primi, nell’ordine della Scienza, del Diritto Internazionale. Ella vide subito qual partito si poteva trarre, nell’interesse della Riforma Religiosa in Italia, da questa fortunata risurrezione della gloria di Alberico Gentili. Il monumento, opera dello scultore Giuseppe Guastalla, fu realizzato solo nel 1908, terzo centenario della morte del Gentili (54), mentre la traduzione del Diritto di guerra era apparsa già nel 1877. Lo Sbarbaro, appena stampata la versione di Fiorini, ne inviò copia a Garibaldi. Il generale apprezzò il dono e nella lettera di ringraziamento, data a Caprera il 29 gennaio 1878, elogiò il traduttore, scrivendo: «Mio caro Sbarbaro, ho avuto la traduzione e discorso del bravo dott. Fiorini su Alberigo Gentili, gloria dell’Italia e padre del diritto internazionale, che voi rivendicaste da tre secoli d’oblio. Tutta l’Europa che pensa ve ne sarà riconoscente...» (55). La traduzione di Fiorini fu elogiata anche da Aurelio Saffi, che, nelle sue letture bolognesi ( 56), citò «Antonio Fiorini da Livorno, uscito, or sono pochi anni, dall’aule dell’Ateneo Pisano», che «ultimamente ha fatto dono alla patria del volgarizzamento del diritto di guerra, con singolare maestria di lingua e di stile». Essa fu pure menzionata da Raffaele Schiattarella (57), autore di un (51) Gabriel Garcia y Moreno (Guayaquil, 1821 – Quito, 1875), fu rettore dell’Università di Quito e capo del partito cattolico dell’Ecuador: Fece del cattolicesimo la religione di Stato, consacrando la nazione al Sacro Cuore di Gesù. Fu assassinato sulla porta della cattedrale di Quito. Era stato l’unico capo di Stato a protestare ufficialmente per la soppressione dello Stato pontificio. (52) «La Civiltà Cattolica», XXVII, IX, s. 9 (1876), p. 235, Cronaca Contemporanea. (53) SCIARELLI, I miei ricordi (1837-1899), cit., p. 197. (54) Nel 1907 il Sindaco di San Ginesio, Vincenzo Angerilli, ammetteva che «il comitato, attivissimo in sulle prime, non si trovò poi concorde nell’azione da spiegare e nello scopo da raggiungere e cessò da ogni attività per modo che dell’opera sua tanto promettente non rimase che una piccola somma di danaro depositata presso il Monte di Pietà di Roma» e chiedeva nuove offerte da inviarsi al tesoriere comunale di San Ginesio (documento del 24 aprile 1907, conservato nella sede del Centro internazionale di studi gentiliani). Ai festeggiamenti del 1908 accorsero delegazioni di molte associazioni laiche, massoniche, socialiste e risorgimentali. (CORBO, Il monumento ad Alberico Gentili in San Ginesio, cit., p. 17 s.). (55) G. GARIBALDI, Epistolario, con documenti e lettere inedite, raccolto e annotato da Enrico Emilio Ximenes, A. Brigola e Comp., Milano, 1885, p. 221. In precedenza Garibaldi aveva inviato un’altra lettera allo Speranza, per ringraziarlo del suo volume su Gentili. La lettera, datata 13 maggio 1876, è conservata a San Ginesio, presso la sede del Centro internazionale di studi gentiliani. (56) A. SAFFI, Di Alberigo Gentile e del diritto delle genti, Letture, Zanichelli, Bologna, 1878, pag. 89. (57) R. SCHIATTARELLA, Organismo e storia del diritto internazionale, Torrini, Siena, 1879, pag. 59. Il giudizio di questo autore su Gentili è che «Chiunque prenda a paragone quell’opera e la paragoni con quelle degli scrittori precedenti, non potrà (fare) a meno di osservare che col Gentile la teoria del diritto internazionale comincia a subire una radicale trasformazione. Da una parte essa si estende e si allarga, dall’altra si spoglia d’ogni miscela di estranee discipline per 8 profilo storico del diritto internazionale, il quale, giunto a parlare di Alberico Gentili, aveva potuto scrivere che i principali tratti della sua vita «sono stati narrati ultimamente dal Fiorini, che ebbe il felice pensiero di volgere dal latino nel nostro idioma l’opera maggiore di lui». La pubblicazione del Diritto di Guerra valse al traduttore una menzione sul Dizionario Biografico degli Scrittori Contemporanei del De Gubernatis (58) e ricevette favorevoli recensioni o menzioni su importanti cataloghi (59) e periodici, come l’«Archivio Giuridico» diretto da Filippo Serafini (60) e l’«Archivio Storico Lombardo» (61). Il redattore di quest’ultima rivista, recensendo le letture gentiliane di Saffi ed elogiando, tra gli altri, il buon lavoro del Fiorini, notava: Forse in questo opportuno tributo d’onore ai meriti di Alberigo, non sempre, né da tutti si è conservata quella serietà di propositi, che noi non vorremmo mai dimenticata, quando l’argomento riflette davvero l’onore e la gloria d’Italia; e vi è stato anzi chi esagerando di soverchio la parte avuta da lui nella coltura del Diritto delle genti e traendone argomento a sfoghi di retorica, ha elevato d’intorno al suo nome un rumore insistente e borioso da screditare qualsiasi causa. Se non che, di fronte a questi abbiamo avuto, per buona ventura, giureconsulti e storici di merito, i quali, in degno modo, resero omaggio alla memoria del filosofo di Sanginesio, ricercandone con amorosa cura la vita ed i tempi, e illustrandone, cogli studi, la dottrina scientifica. Tali sono Speranza, Fiorini, Pierantoni, De Giorgi, oltre naturalmente a Saffi. Anche la rassegna bibliografica dell’«Archivio Storico Italiano» (62), pur elogiando l’opera di Fiorini e degli altri italiani, tendeva ad abbassare il tono della discussione: Al dotto inglese [Holland], il quale proseguendo la sua nobile missione, ha aggiunto di recente nuovi titoli alla nostra riconoscenza tennero dietro ben tosto i più illustri pubblicisti d’Europa, ma, com’era ben giusto, con maggiore fervore che altri, quelli d’Italia, quali lo Sbarbaro, il Pierantoni, lo Speranza, il Fiorini e, più recentemente di tutti il Saffi. Che se negli scritti pubblicati fra noi su tale argomento bisogna qua e là ridurre a più equa proporzione i giudizi un poco enfatici e le lodi talvolta iperboliche, non per ciò dobbiamo disconoscere il merito di questi uomini competenti, che occupandosi della vita e degli scritti del giureconsulto marchigiano, dettarono opere degne di considerazione, non meno per lo storico che pel giurista. Il recensore Alberto Del Vecchio, si esprimeva in toni abbastanza severi nei confronti dell’opera di Fiorini: Fiorini ha voluto far dono alla patria nostra di un completo volgarizzamento del De Jure Belli di Alberico Gentili: opera certamente gravissima, chi consideri la gravità dell’impresa e la difficoltà derivante dall’oscuro e ambiguo dettato dell’originale; ma forse non così utile agli studi come l’autore si è figurato. Quanti, infatti, volendo leggere il libro di assidersi definitivamente sul terreno suo proprio». (58) DE GUBERNATIS, Dizionario biografico, cit., p. 448: «Fiorini Antonio. Giureconsulto toscano, procuratore legale presso il tribunale civile e correzionale di Livorno. Nacque in Livorno il 5 giugno 1846 da Daria Mugnaini e Luigi Fiorini. Sua educatrice, sua prima ed ottima maestra la madre. Il Fiorini ricorda poi tra i suoi migliori professori il padre barnabita Giusto Berlia, il padre Alessandro Lenzi nel Ginnasio, Ottaviano Targioni Tozzetti, Antonio Lami, Paolo De Negri, nel liceo, i professori Buonamici, Gabba e Fiore nell’Università di Pisa. Degli ottimi studii fatti e del nobile ingegno, il dottor Fiorini diede un bel saggio col discorso che precede la traduzione da lui compiuta del Diritto di Guerra di Alberigo Gentile (Livorno 1877)». Francesco Buonamici (Pisa, 1832-1921) insegnava diritto commerciale, nel 1897 sarebbe succeduto a Filippo Serafini nell’insegnamento delle Pandette. Carlo Francesco Gabba (Lodi, 1835-1920) insegnava filosofia del diritto, dal 1897 fu ordinario di diritto civile. (59) I migliori libri italiani, consigliati da cento illustri contemporanei, Hoepli, Milano 1892, pag. 89. Carlo Francesco Ferraris (Moncalvo, 1850-Roma, 1924) raccomandava la lettura di Alberico Gentili tradotto da Fiorini, insieme alle opere di Speranza e di Saffi sul medesimo argomento. (60) «Archivio Giuridico», 1877, p. 453: «La traduzione è condotta con diligenza ed eleganza di stile. Ad ogni capitolo il traduttore fa precedere un sommario che ne riassume brevemente il contenuto: qua e là nel testo, si riscontrano parecchie note. Ma più rimarchevole è il discorso preliminare, nel quale il Fiorini narra la vita di Alberigo, coll’appoggio di documenti finora inediti ed assai importanti e svolge ampiamente i principii professati dall’illustre Autore. Ci proponiamo di tener parola di questa interessante pubblicazione nei prossimi fascicoli». (61) «Archivio Storico Lombardo», 1878, p. 613. «Da ultimo vogliamo qui ricordato il bel saggio dell’avvocato Antonio Fiorini, il quale recentemente ha dato in luce un buon volgarizzamento del De Jure Belli, preceduto da un pregevole discorso proemiale a commento del testo». (62) «Archivio Storico Italiano», s. IV, 3 (1879), pp. 61-79. Rassegna bibliografica. Di alcune recenti opere italiane intorno ad Alberigo Gentile ed a Pierino Belli, precursori di Grozio, p. 72. «Altro lavoro diligente e accurato, degno di particolare menzione, è pur quello che ha pubblicato l’anno decorso il signor avvocato Antonio Fiorini da Livorno». 9 Grozio, ricorrono in Francia alla traduzione del signor Predier-Fodère? Quanti in Italia ricorreranno per quello di Alberigo al volgarizzamento del signor Fiorini? Noi lo abbiamo letto a brani quasi per intero, e vi abbiamo ammirato fedeltà, accuratezza, e pregi non comuni di stile e di lingua; ma (lo diremo apertamente) non senza grave rammarico che il valoroso giurista non abbia piuttosto consacrato l’attività del proprio ingegno, ad opere di più sicuro ed immediato vantaggio all’avanzamento de’ buoni studi. Nel vivo del dibattito tra liberali e cattolici entrava invece, schierandosi a favore dei primi, la «Rivista Europea di Firenze», che così commentava (63): Un egregio livornese, il giovane avvocato Antonio Fiorini, ci manda una sua bella ed opportuna pubblicazione della quale debbono sapergli grado quanti hanno a buon cuore i buoni e severi studii. Egli ha tradotto il famoso libro di Alberigo Gentile, Del Diritto di Guerra, e ci ha premesso un suo discorso ben pensato, ed anche, cosa rarissima oggi, elegantemente scritto. Ci permetta il Signor Fiorini di rallegrarci con lui e di dirgli che riconosciamo nel suo stile l’arte del suo bravo maestro di lettere italiane al Liceo di Livorno. […] Per concludere, in poche parole diremo che l’opera del Fiorini è tra quelle non moltissime che onorano davvero l’Italia, e che ci fanno augurare lietamente del suo avvenire scientifico. Ai giovani di studii severi e di forti propositi tocca di tenere alta la bandiera della scienza, e di difenderla contro i tristi e gli sciocchi. E questo che ha dato il Fiorini è un nobile esempio. Il redattore, dopo avere lodato Fiorini ed esaltato la figura di Gentili, «nobile e travagliata, passata sotto il soffio delle persecuzioni papali» e vittima «dell’implacabile odio sacerdotale», coglieva l’occasione per mettere a confronto il lavoro di Fiorini con un altro libro, scritto Vincenzo Magnanini, stroncandolo e ridicolizzandolo, senza neanche citarne il titolo. Magnanini aveva infatti osato parlare di argomenti superati, come la religione e la teologia, nell’epoca moderna governata dal sapere scientifico (64): Dopo un libro che prenunziò l’avvenire è un brutto passaggio trovarci sotto gli occhi un libro che ci fa indietreggiare di qualche secolo. Il Signor Vincenzo Magnanini ha stampato 208 pagine per armonizzare la Religione colle scienze e collo Stato. Il tentativo è nobile, veramente, e degno, se si vuole, di molta lode. Il male è che i primi a condannarlo saranno quelli in favore dei quali esso è fatto. Giudicare questo libro sarebbe a noi piuttosto difficile. Ci pare un amalgama di medievalismo, di egelianismo, di giobertismo da fare andare in visibilio il cervello più sano di questo mondo. Supponete che l’autore ci dice che la teologia, di cui abbisogna lo spirito scientifico moderno, non solo è possibile, ma pei suoi caratteri, per il suo oggetto e per la sua natura è già una scienza, la prima delle scienze, perché deve sovrastare alle altre tutte, non solo per dignità, ma ancora non so per quante altre ragioni. Prima di tutto, chi di voi o lettori aveva mai avuto la fortuna di accorgersi che lo spirito scientifico moderno abbisognasse della teologia? E poi quando tutto il medio evo aveva creduto e predicato che la teologia sta a capo dell’albero scientifico, che bisogno c’era di venircelo a ripetere oggi? Queste dottrine medievali noi le conosciamo bene e conosciamo anche gli effetti che hanno prodotto. Tentare di risuscitarle ci pare qualche cosa peggio che tempo perduto […] suppongo che il lettore ne abbia abbastanza, e n’ho abbastanza anch’io. Fiorini, tuttavia, non si lasciò coinvolgere più di tanto nelle file degli anticattolici e mantenne su Gentili un atteggiamento distaccato rispetto alle strumentalizzazioni politiche e alle polemiche di quegli anni. Insieme al Toci, l’altro suo punto di riferimento fu il professore di lettere Antonio Lami, ricordato come «ottimo maestro ed amico [...], statomi di cortese d’aiuto a meglio intendere qualche passo più oscuro». Lami, di cui Fiorini era stato allievo, insegnava latino e greco al Liceo Niccolini di Livorno (65). Nel 1872 si era cimentato con l’idioma careliano del poema finnico Kalevala (66) e nel 1874 aveva pubblicato, anch’egli con la stamperia Vigo, una versione dal greco dei canti di guerra (63) «Rivista Europea. Rivista Internazionale», fasc. 5 del 1 dic. 1877, p. 998. (64) Ibid, p. 999 s. L’articolo redazionale è siglato A.B. Cfr. V. MAGNANINI, Armonia della religione colle scienze e collo Stato, Zanichelli, Bologna, 1877. (65) Il corpo docente del Liceo era così formato: preside Chiarini Giuseppe, direttore spirituale De Negri sac. Paolo, copista Folena Luigi. Professori: letteratura greca e latina Lami dott. Antonio, letteratura italiana Targioni Tozzetti dott. Ottaviano, storia e geografia Coen dott. Achille, filosofia De Negri Paolo … (Annuario del Ministero della Pubblica Istruzione, Istituto Poligrafico dello Stato, 1869, pag. 192). Lami, Targioni Tozzetti, De Negri e Alessandro D’Ancona, erano stati i fondatori, nel 1860, del Liceo di Livorno (Rassegna bibliografica della letteratura italiana, Mariotti, Pisa, 1898, pag. 79). (66) A. LAMI, Dal Kalevala, frammenti degli Haa Runot o canti nuziali, Prima versione italiana di Antonio Lami, Vigo, Livorno, 1872 (edizione fuori commercio stampata in soli 72 esemplari). 10 di Tirteo (67). Di lui ci restano anche alcuni opuscoli, per lo più resoconti di discorsi pronunciati in varie occasioni di vita scolastica (68). Antonio Fiorini, «giureconsulto e poeta» (69), non aveva bisogno di lavorare per guadagnarsi da vivere, essendo nato da famiglia agiata. Suppongo che il traduttore, figlio di Luigi, fosse il nipote di quell’Antonio Fiorini, impresario di navicelli, citato dall’avvocato Tommaso Corsi nella nota dei clienti continui ed occasionali, allegata alla pubblicazione della sua famosa difesa del Guerrazzi nel processo di lesa maestà per la dittatura del 1849 (70). Il Pera chiosa che il nostro Antonio, «provvisto di largo censo paterno e proclive anche a largheggiare con più che signorile prodigalità, non esercitò mai la professione legale, quantunque ne possedesse la capacità e la dottrina in modo superlativo» (71). La sua prima opera, la traduzione e il discorso su Gentili, gli diede modo di coniugare gli studi giuridici con l’amore per le lettere. La sua seconda fatica fu la traduzione dell’orazione funebre per il re Vittorio Emanuele II, morto il 9 gennaio 1878, scritta in latino dal barone Domenico Carutti di Cantogno e da lui pronunciata nell’Accademia dei Lincei. La traduzione di Fiorini, col testo latino a fronte, fu pubblicata da Vigo in quello stesso anno (72). Da quel momento Fiorini trascurò del tutto gli studi di diritto e di dottrina politica e pure quelli di argomento patriottico, per dedicarsi a lavori letterari, anche se di piccole dimensioni, come la traduzione di alcune Facetiae di Poggio Bracciolini (73), lettere di esortazione per giovani studenti 74 ed anche componimenti di poesia religiosa, come il poemetto in versi di stile ariostesco sul martirio di S. Giulia, patrona della Corsica e di Livorno, che scrisse e fece stampare in occasione delle nozze della nipote Giulia Bandini (75). In quegli anni troviamo ancora Fiorini insieme all’amico Ettore Toci, entrambi membri di una commissione, presieduta da Adolfo Mangini, incaricata di «porre lapidi a ricordo di livornesi illustri e di dimore in Livorno di illustri italiani e stranieri» ( 76). Fiorini fu, per qualche tempo, procuratore del Re presso il Tribunale civile e correzionale di Livorno, e assessore comunale all’istruzione pubblica nel 1881 col sindaco Piero Donnini e poi nel 1883 col sindaco Olinto Fernandez. Francesco Pera divide la vita di Fiorini in due parti: la prima dedicata allo studio e alla traduzione di Gentili, caratterizzata da un’ottima conoscenza della lingua latina, da grande erudizione e da una «critica sottile», che il biografo giudica «non sempre conforme a sani principi di filosofia cristiana». (67) TYRTAEUS, I canti di guerra e i frammenti, raccolti e illustrati da A. Lami, Vigo, Livorno, 1874. (68) Alcune parole sull’educazione cristiana, profferite il 27 settembre 1856 alla solenne distribuzione de’ premi nel suo istituto, per A. LAMI, La Minerva, Livorno, 1856; Museo dantesco: ritratti consacrati alla gioventù italiana per A. LAMI, Vigo, Livorno, 1857; Sul papato civile rispetto all’Italia e al mondo cattolico: riflessioni di A. LAMI, Vigo, Livorno, 1859; Sugli studi primari e secondari e massimamente sull’istruzione religiosa: parole dette nella solenne riapertura del R. Liceo di Livorno il 12 novembre 1860, Tipografia Galileiana, Firenze, 1860; Cenni sulla vita e l’opere di Agnolo Poliziano letti nel R. Liceo Niccolini dal Prof. A. LAMI il 21 marzo 1869 unitovi due epigrammi greci e una iscrizione latina da esso dettati in lode del medesimo, Vigo, Livorno, 1869; Il Vico, la filosofia della storia e l’odierna linguistica, parole d’ A. LAMI lette nel R. Liceo Niccolini il 1 giugno 1873, Vigo, Livorno, 1873. (69) L’espressione è in DE GUBERNATIS, Piccolo Dizionario dei contemporanei italiani, cit., p. 397. (70) T. CORSI, Memoria a difesa di Franc. Dom. Guerrazzi per il ricorso avanti la Suprema Corte di Cassazione, Tipografia Soliani, Firenze, 1851, p. XXXII. (I navicelli si distinguevano dai bastimenti per il fatto di essere destinati alla navigazione interna). Ho creduto inoltre di poter identificare l’avo del traduttore in Luigi Fiorini di Livorno, tenente del battaglione toscano nel 1801, comandato da Francesco Pignatelli, al tempo della seconda occupazione francese della Toscana (N. CORTESE, Memorie di un generale della repubblica e dell’impero: Francesco Pignatelli principe di Strongoli, Bari, 1927, p. CLXXXIV). (71) PERA, Nuove biografie livornesi, cit., p. 215. (72) D. CARUTTI, Dies 9 Mensis Januarii, il Nove Gennajo, volgarizzamento di A. Fiorini, Vigo, Livorno, 1878. L’orazione ripercorreva con rapidi cenni la vita di Vittorio Emanuele e l’unità italiana da lui costituita, ammonisva che il luttuoso giorno imponeva gravi doveri e significava le speranze della nazione nel re Umberto. (73) Natalitia: All’Avvocato Adolfo Boelhouwer offrono C.F. Borgi, A. Fiorini, Ettore Toci, Vigo, Livorno 1882. Contiene un sonetto inedito di Lazzaro Migliorucci, una novella inedita di Giovanni Forteguerri e alcune facezie di Poggio Bracciolini tradotte da A. Fiorini. (74) FIORINI, A un alunna dell’accademia di belle arti, Meucci, Livorno, 1886. (75) Nozze Bandini Giulia-Fagioli Valentino. E’ un componimento poetico devozionale in 24 ottave. Altro esempio di poesia religiosa è quello dedicato all’amico Michele Bonamici. (76) D. PROVENZAL, Il Manzoni a Livorno, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 1923, p. 374. 11 Nella seconda fase della vita, invece, Fiorini si sarebbe sentito «più illuminato dalla luce della Fede cattolica», e ne sarebbe stato «seguace esemplare, con pentimento manifesto della sua vita anteriore, delle cui opinioni sono rimaste non lievi tracce nel medesimo suo diffuso discorso d’introduzione al volgarizzamento» (77). Oltre al discorso e alla traduzione del De iure belli e alle successive operette letterarie, le biblioteche di Livorno conservano altre opere di Fiorini, tutte pubblicate da editori labronici, che testimoniano una sincera passione civile, contrassegnata da autentico amore per la sua città e da aperto dissenso verso alcune decisioni del ceto politico che la governava. Nel 1884, Fiorini pubblicò, in forma di corrispondenza con il cugino Luigi Rinaldi, una dettagliata critica alla proposta di appaltare a privati la concessione pubblica per la fornitura dell’acqua potabile alla città di Livorno ( 78) e, in quello stesso anno, fu costretto a ritornare sull’argomento con un’altra accorata pubblicazione (79). Vi era il timore che le acque del torrente Savolano, ricche di sali di magnesio, fossero nocive per la salute. Nel 1885, la giunta presieduta dal sindaco Olinto Fernandez, di cui Fiorini era membro, sarebbe caduta, per dissensi interni, proprio sulla questione dell’acquedotto. Nel 1887 Fiorini pubblicò un altro libello polemico, in cui esprimeva serrate censure alla nuova amministrazione del Comune di Livorno 80, ora governato dal sindaco Nicola Costella, esponente locale della sinistra crispina 81. In particolare, Fiorini criticava l’allargamento della cinta daziaria, con conteggi molto dettagliati sulle entrate comunali, contestava la legge Coppino sulla pubblica istruzione ed i metodi con cui la si voleva attuare nelle scuole cittadine e, se da una parte condivideva il desiderio di «nobilitare Livorno elevandola al livello delle città più civili», non apprezzava il programma della giunta che, a suo modo di vedere, sperperava denaro in cose voluttuarie ed appaltava a privati importanti attività. Veniva spontaneo al Fiorini richiamare l’esempio di virtù civica del Cacciaguida dantesco e di rimpiangere l’esemplare modello di vita cittadina della mitica «Fiorenza dentro da la cerchia antica», nell’età in cui i cittadini stavano «in pace, sobria e pudica». Questo scritto di Fiorini ricevette il plauso della «Civiltà Cattolica», che, recensendolo, scrisse: «Piacesse al cielo che i Municipii di parecchie, fra le maggiori, città d’Italia incontrassero censori del loro operato, delle loro spese e dei loro conti, arguti, savii e perspicaci, come nel ch. Avv. Sig. Fiorini lo ha quello di Livorno! Quanti equivoci, quanti castelli di Spagna e quante prestigie aritmetiche si dissiperebbero» (82). (77) PERA, Nuove biografie livornesi, cit., p. 215. (78) Sulla questione dell’acqua, parole di A. FIORINI e lettera di L. RINALDI, Meucci, Livorno, 1884. (79) FIORINI, Ancora sulla questione dell’acqua, Meucci, Livorno 1884. «Debbo io scusarmi nel prendere che fo per la seconda volta la penna nella questione dell’acqua? Sono forse temerario io non ingegnere, non chimico a entrare in un campo che, a prima vista, parrebbe riservato agli scienziati soltanto? Non credo: pure se fosse luogo qui a scusa, mi scusi l’amore della città in cui sono nato e cresciuto, l’amore dei cittadini e dei congiunti carissimi, i quali se un giorno (che Dio non voglia!) avessero danno nella salute dall’acqua malvagia, sappiano almeno che io feci di tutto perché questo regalo fosse risparmiato a Livorno». (80) Del “resoconto” della Giunta municipale livornese per l’anno 1887, note di A. FIORINI, Vigo, Livorno, 1887. «Ma sicuro se poi anche in questi asili dovesse penetrare il contagio di quella morale civile e di quel vanissimo e rancido pregiudizio che si possa al tempo nostro e nel nostro paese fare dei buoni cittadini senza fare dei cristiani allora sarebbe meglio non farne nulla e risparmiarci fatica e spesa. E meglio ancora sarebbe, facendo la campana tutta d’un pezzo, chiudere le scuole che già ci sono, e gli edifizi scolastici in costruzione volgere ad usi diversi, per esempio a quello di caserme per le guardie daziarie, posto che alla prosperità del comune tanto conferisce il Dazio Consumo quanto alla nobiltà di esso non conferiscono le stragi canine, i bei passeggi, la nuova cinta, le barriere monumentali, i chioschi di Piazza Grande e, coi nuovi criteri, le scuole» (p. 71). L’esemplare conservato nella biblioteca comunale di Livorno reca la dedica autografa di Fiorini «All’onorando Signore Cavaliere Alessandro Malenchini, omaggio dell’autore». (81) CECCHINI, Il potere politico a Livorno, cit., p. 29. (82) «La Civiltà Cattolica», s. XIV, 1, 925 (1889), p. 350 s. La recensione prosegue: «Si domandava da un tale che differenza corre nella nuova Italia fra Municipio e Comune; e si sentì rispondere – Questa sola, che l’uno fa gli spropositi e l’altro li paga. Il Fiorini questa verità mostra quasi in ogni pagina del suo sagace lavoro, fino dal principio scoprendo il giuoco dei bussolotti di chi ha stesa la relazione. “Peccato, osserva egli, che il Resoconto della nostra Giunta non faccia, per ora almeno, testo di lingua: che tesoro di riconoscenza non verrebbe ai relatori da quei meschini che, andati a letto coi debiti, si trovassero la mattina a campar d’entrata!” E sono appunto i mutui, cioè i debiti, che si fanno passare nel Municipio di Livorno per entrate, ossia adoperando un eufonismo, per movimento di capitali, i quali dalle tasche del creditore si son mossi fino a quelle del debitore. Ma per gustare le finezza e l’atticismo dei sali, onde il chiaro Autore ha 12 A parte qualche battuta, in tutte le sue opere, operette e opuscoli, Fiorini mantenne sempre un tono abbastanza austero, senza mai cedere agli atteggiamenti giocosi e scapigliati dell’amico Toci ( 83). Trattato con ironia e dileggio da certi giornalisti, Fiorini fu costretto a rispondere anche con pubblicazioni a stampa a proprie spese (84). Peraltro è da credere che nello stesso modo, cioè a sue spese, fossero stati stampati anche la traduzione del Gentili e tutte gli altri suoi lavori, tranne gli ultimi, di cui dirò tra breve. Nel 1889 pubblicò un altro saggio per criticare ancora l’operato della Giunta municipale, che aveva appaltato a un privato l’esercizio dei pubblici macelli ( 85) e, nel 1891, tornò a trattare di argomenti giuridici, pubblicando la discussione a stampa sul Reato di Fra’ Pacifico da Montemurlo (86), un’erudita dissertazione sul diritto dei religiosi di praticare pubblicamente la questua, scritta in difesa di un frate accusato di accattonaggio. In quello stesso anno Fiorini si trasferì a Montecassino, dove accettò l’incarico di insegnante di letteratura italiana nel liceo della grande Abbazia benedettina. «Dopo amari disinganni e dure avversità sofferte in patria, colpa il suo troppo buon cuore», Antonio Fiorini si ritirò in monastero, dove giunse «come una navicella sbattuta da fiera tempesta» e dove, pur senza vestire l’abito religioso, trovò pace e serenità nello studio e nell’insegnamento (87). La conversione alla fede cattolica dell’ex discepolo di Fiore e Mancini risaliva a qualche tempo prima, come afferma il Pera commentando la discussione sul «Reato di frà Pacifico» stampata nei primi mesi del 1891 e scritta «quando più assennati consigli avevano già da tempo governato l’eletta sua intelligenza». Non sono riuscito a scoprire quale grave motivo abbia allontanato così repentinamente il nostro Fiorini dalla sua Livorno. Il biografo Pera, che pure scrive nel 1906, solo un anno dopo la sua morte, tace sui motivi dell’allontanamento. Le cronache di Livorno registrano due gravi fatti accaduti nella primavera del 1891. Il primo è quello del 15 marzo, diciannovesimo anniversario della morte di Giuseppe Mazzini. Al cimitero vi fu una sparatoria che portò all’uccisione di un poliziotto e all’arresto di 67 cittadini. Il fatto si trova così narrato nel già citato libro di Cecchini (88): condito queste sue Note, conviene assaporarle tutte. E noi crediamo che potrebbero servire di modello a chi si diletta di studii critici dell’economia municipale della moderna Italia». (83) Toci faceva parte del Circolo dei letterati scapigliati livornesi, che si ritrovavano nella fiaschetteria al n. 6 di via Maggi, una brigata di professori (Bevilacqua, Marradi, Micheli, Martini, Zuccagni, talvolta Carducci e Pascoli) che «si riunivano nella cosiddetta ‘saletta della scienza’ a bere buon vino chianti, il quale a tutti, a quanto pare, molto piaceva». WIQUEL, Dizionario di persone e cose livornesi, cit., pag. non numerata. «Nella fiaschetteria del Cipriani (chi lo crederebbe?) il Pascoli per molto tempo tenne cattedra anticarducciana. Particolarmente si sfogava con questo e con quello e ripeteva fino alla sazietà certi versi carducciani che a lui, dotato di finissimo orecchio musicale, parevano disarmonici e brutti come questi: … al cristian petto italo Amleto, e citandoli faceva scoppiettare tutti quei ti, ta, to come tanti martelletti per farne risaltare la cacofonia. Dal Carducci – concludeva – ho imparato come non si deve scrivere! Ma in realtà dinanzi all’autore delle Odi Barbare, provava la commozione, l’ammirazione trepida e quasi la soggezione dello scolaro»: CECCHINI, Il potere politico a Livorno, cit., p. 82; FERRERO, Livorno e i grandi letterati da Petrarca a D’Annunzio, cit., p. 182. (84) Al giornale il Popolano e al suo perito ragioniere anonimo. Risposta di A. FIORINI, Meucci, Livorno, 1888; Al critico cronista del Telegrafo e della Gazzetta Livornese. Risposta di A. FIORINI, Meucci, Livorno, 1889. (85) La concessione del pubblico macello livornese, esaminata da A. FIORINI, Sardi, Livorno 1889. «Il contratto dei macelli è una rovina pel Comune ed una speculazione ingorda per l’impresario a tutto danno dei cittadini» (p. 8). (86) FIORINI, Il reato di Fra’ Pacifico da Montemurlo, esposto e discusso da Antonio Fiorini e dal Tribunale di Pisa ritenuto insussistente, Meucci, Livorno, 1891. Anche qui non manca il gusto per la citazione letteraria, quando Fiorini paragona il fiasco d’olio di fra’ Pacifico alle più famose noci di fra’ Galdino nei Promessi Sposi. (87) Dall’elogio funebre di Antonio Fiorini scritto dal Priore Cassinese D. Ambrogio Amelli nel 1906, riportato per ampi stralci da PERA, Nuove biografie livornesi, cit., p. 222. FERRERO, Livorno e i grandi letterati da Petrarca a D’Annunzio, cit., p. 204, passando in rassegna numerosi letterati livornesi dell’ottocento cita anche «Antonio Fiorini, poi monaco di Montecassino». (88) CECCHINI, Il potere politico a Livorno, cit., p. 74. «Sui fatti di Livorno si era svolta alla Camera il 17 marzo di quel 1891, un’interrogazione dell’onorevole Imbriani, alla quale aveva risposto il ministro dell’Interno Nicotera, sostenendo che ‘democrazia non vuol dire disordine’ e che pertanto le autorità ‘giunte all’estremo limite non debbono lasciarsi sopraffare ma, anzi, farsi rispettare’ Anche con le armi se necessario». Nel 1894 Merga fu eletto consigliere comunale a Livorno ma l’elezione, per ovvi motivi, non fu convalidata. Sarebbe morto in carcere a Lucca nel 1896. 13 Quella domenica il circolo repubblicano di “Venezia”, il Circolo Democratico degli Studenti, il Circolo Eugenio Valzania e l’Associazione dei Repubblicani Intransigenti, ottenuto il nulla osta dalla Questura avevano promosso una cerimonia presso il cimitero comunale dei “Lupi” per inghirlandare il monumento a Mazzini nel 19° anniversario della morte. Vi avevano aderito alcune centinaia di cittadini. Nel corso della dimostrazione, l’inopportuno e provocatorio intervento di un delegato di Pubblica Sicurezza aveva fatto scoppiare una violenta baruffa. Erano stati sparati, fra i manifestanti e le forze dell’ordine, diversi colpi di arma da fuoco. Una guardia era rimasta uccisa e molti civili e militari feriti. La repressione ordinata dal Questore e dal comando dei Carabinieri aveva condotto all’arresto di 67 cittadini. Fra questi Giuseppe Merga, che nonostante le sue reiterate dichiarazioni di innocenza e la brillante perorazione in sua difesa di Dario Cassuto, venne processato e condannato a 11 anni di carcere per responsabilità nell’uccisione del giovane poliziotto. Quel grave episodio testimonia le forti tensioni politiche di Livorno, e di altre parti d’Italia, in quel periodo storico, ma stento a credere che possa essere messo in relazione con il ritiro a vita monastica del traduttore del De iure belli. L’altro fatto di cronaca accaduto in quel marzo 1891 fu il fallimento Corradini, che ebbe ripercussioni gravissime su molti cittadini livornesi: taluni complici dello spregiudicato imprenditore, altri semplicemente (come più verosimilmente potrebbe essere stato Antonio) sue ingenue vittime. La storia è così narrata da Pietro Vigo, che ne fu testimone diretto (89): Fra le città alle quali la floridezza commerciale, grandissima per lungo volger di tempi, era venuta meno, si additava Livorno, dove nella terza decade di marzo avvenne un fatto che segnò nella storia delle finanze di quella città un grande disastro e la voce ne corse in tutta Italia: voglio parlare del fallimento e del suicidio del banchiere Giovanni Corradini, venuto dalla Confederazione Elvetica, ma per lunga dimora e per i rapporti di famiglia da considerarsi come livornese. Egli aveva concentrato nelle proprie mani il commercio dei coloniali in Livorno ed aveva poi fondato in tutte le città e terre più cospicue della Toscana e delle isole vicino, spacci e vendite di coloniali, ossiano drogherie: desideroso di allargare ancora il suo traffico, il Corradini fondò in Ancona quella raffineria di zuccheri che fu occasione e causa dei suoi dissesti, e strada quindi alla sua rovina, perché fatto segno all’accanita ed incessante guerra che gli mossero i rivali, i quali non intendevano desistere finché la raffineria d’Ancona non fosse stata abbattuta. Indi i conati del negoziante svizzero per far fronte a quel conflitto, che, conoscendosi il Corradini per uomo retto, e ricchissimo, allettò molte doviziose persone a prender parte all’impresa, dalla quale faceva credere sarebbero derivati guadagni lautissimi, sicché dal suo fallimento molte ditte livornesi e forestiere e moltissimi privati ebbero immensi danni; la Banca Livornese sospese i suoi pagamenti e donna Francesca Garibaldi che dimorava in Livorno, anche perché il figliuolo Manlio studiava all’Accademia Navale, accorsa a quell’istituto di credito per ritirare i suoi depositi, non poté riscuoter nulla. Il Corradini, disperato si uccise, il cassiere ed il figlio di lui si tolsero parimenti la vita e le autorità scuoprirono che cinque obbligazioni di nove mila lire ciascuna erano state portate a quaranta nove mila; e non furono quelle le sole cambiali falsificate. Stimato era il Corradini in Livorno e fuori; e quando tra i gorghi dell’Arno riapparve il cadavere di lui, un senso di raccapriccio e di compassione occupò gli animi di tutti. Le colpe di un figlio, si disse, troppo da lui ciecamente amato, gli furono principio e cagione del disonore e della rovina. E dello sfacelo commerciale del Corradini molti furono partecipi […] Questo fatto del quale si occupò la stampa in tutta Italia danneggiò dunque molte persone in Livorno, città che precipitava allora in vera decadenza. Il quotidiano «La Nazione» di Firenze, nella domenica del 28 marzo 1891, scriveva in prima pagina: Crisi commerciale: conseguenze, Livorno 27- note dolorose, suicidi, particolari … persone rispettabilissime, mitissime, degnissime in tutto e per tutto della fede più ampia […] ad alta voce e pubblicamente si proclamano vittime di falsificazioni, di adulterazioni di cifre […]. E’ indubitabile che molte responsabilità civili e qualche responsabilità penale fa capolino nel crak: è indubitabile che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio nido di processi civili e penali, triste doloroso spettacolo e tristissimo, dolorosissimo fatto, dal quale il credito di Livorno commercialmente parlando, non può se non ricevere fiero colpo. Il pubblico è sbigottito e si domanda di chi fidarsi ormai, se fra colpevoli e ingenui tutti sono causa di rovina? […] Come danno immediato è incalcolabile: fra grossi e piccini i colpiti si contano più che a centinaia: gente che si trova priva ad un tratto di qualunque punto d’appoggio: una caterva d’impiegati a spasso; gente che in un attimo si vede sparire in un baratro orrendo i risparmi raggranellati in tutta una vita di privazioni […] Se voi vedeste Livorno oggi, ne ricevereste l’impressione di una città piombata in un pubblico lutto. Ai caffè, nei ritrovi familiari, nei negozi, alla borsa, è una desolazione, uno squallore da non potersi rendere a parole. Frattanto si parla di mandati d’arresto, si parla di gente che ha spiccato il volo per lontani lidi; e l’indignazione si mesce al dolore e doventa spavento. Al fallimento Corradini seguirono a catena altri fallimenti: Rodocanacchi, Maurogordato, Kasser (89) P. VIGO, Annali d’Italia, storia degli ultimi trent’anni del secolo XIX, cit., vol. VI, p. 47 ss. 14 e Meyer, Koffler, Del Moro, solo per citarne alcuni (90). Non so dire se Antonio Fiorini avesse a che fare con questi fatti di cronaca: questa era, comunque sia, l’atmosfera di Livorno quando egli partì per Montecassino, senza fare più ritorno. Le scarse notizie di Pera sulla famiglia di Antonio Fiorini nulla dicono sul suo matrimonio (il nome della moglie era Corinna), ma solo che aveva delle figlie, di cui il biografo ricorda i cognomi da maritate (Ganni e Caldelli) e di una, Anna, anche il nome di battesimo. A me pare che questa sorta di esilio volontario abbia in qualche modo accomunato Fiorini a Gentili (91). A Montecassino Fiorini fu molto apprezzato come insegnante da allievi e colleghi. Fu visto in lui, come sostiene ancora il Pera (92): uno di quei rari maestri che veramente comprendono esser la scuola una nuova famiglia, in cui l’educatore assume le veci di padre verso gli alunni: e questa norma lo guidò sempre nel difficile e delicato suo ufficio: pel quale preveniva la sveglia mattutina, e non cessava da lavoro fino a notte avanzata; sempre puntuale all’orario scolastico, tratteneva gli scolari di liceo con serenità confidente e dignitosa piacevolezza, condita da un tesoro di nobili cognizioni e di utili ammonimenti educativi, che lo rendevano caro ai giovinetti uditori; ma questi lo conoscevano altresì modello esemplare di quella vita a cui con l’esortazioni gl’indirizzava. Nel monastero Fiorini riuscì a dedicarsi al suo genere letterario preferito: la traduzione. Questa passione lo portò a lavorare sui versi in lode del lago di Como, composti nell’VIII secolo da Paolo Diacono (93). Di questa elegia Fiorini fece una bella traduzione poetica, che fu pubblicata nel 1900 a Cividale, negli Atti del convegno che si era tenuto l’anno prima nella città friulana per celebrare l’undicesimo centenario della morte dell’autore della Historia Langobardorum, che per due volte aveva trovato sicuro rifugio tra le mura di Montecassino. In seguito Fiorini si dedicò a tradurre il secondo libro dei Dialoghi di Gregorio Magno. Quest’ultima traduzione, pubblicata per la prima volta nel 1904, ebbe un certo successo editoriale e fu ristampata più volte, fino a cinquanta anni dopo ( 94). Pera definisce quest’ultimo lavoro di Fiorini «una volgarizzazione in pura lingua toscana di stile moderno, e qualche volta con parole e frasi vernacole, che riproducono il testo latino di un dialogo antico, ove si narrano da san Gregorio, i miracoli di san Benedetto» ( 95). Il P. Ippolito Boccolini, il benedettino che nel 1954 curò l’ultima edizione della traduzione, aggiungendovi un ricco corredo di note e illustrazioni, nel farne la prefazione, avrebbe paragonato il Fiorini ai migliori volgarizzatori del Trecento (96). (90) «La Nazione», 10 aprile 1891. (91) A proposito dell’esilio di Alberico Gentili, parlando al circolo filologico di Livorno, quindici anni prima del suo ritiro a Montecassino, Antonio Fiorini aveva detto queste parole: «Obbediente alla legge del suo Divino Maestro (dura legge dell’uomo, e tuttavia da osservare) erasi allontanato per sempre dalla patria diletta, per non esserle cagione, sia pure involontaria di scandalo. Ecco, a parer mio, il perché dell’esilio. Al quale mi riconducono le ultime parole citate, e volentieri, conchiudendo questa prima parte del mio discorso, io ritorno su questo caso della vita del Nostro come quello che ne porge esempio di devozione magnanima, di coscienza dignitosa e netta di cristiano e di cittadino. Così, o Signori, dalle dottrine del filosofo abbiamo conosciuto l’uomo. Ora vediamone l’opera». FIORINI, Di Alberigo Gentile e del suo dritto di guerra, cit., pp. 17-18). (92) PERA, Nuove biografie livornesi, cit., pp. 222 -223. (93) «La Civiltà Cattolica», s. XVII, 10, 1198 (1900), a. 51. Paolo Diacono (sec. VIII), Studii recenti, pp. 398-415. Vi è pubblicata la traduzione dei Versus in Laude Larii Laci, con la seguente recensione: «Scrivendo noi per una cerchia più vasta di lettori, che non sono i soli specialisti di Paolo Diacono, non sarà discaro avere qui sotto gli occhi il grazioso carme con la non men graziosa versione che ne dettò il ch. Prof. Antonio M. Fiorini del Liceo di Montecassino. Il Fiorini mantiene felicemente non solo il metro dell’elegia originale, ma il verso cosiddetto reciproco in ogni distico». (94) S. GREGORIO MAGNO, Vita e miracoli di S. Benedetto, volgarizzata da A. Fiorini. Stampata in varie edizioni a Montecassino, Sora, Firenze, Roma. L’ultima, con un saggio iconografico di Ippolito Boccolini, a Roma nel 1954, presso Abbazia di S. Paolo (con 71 illustrazioni). (95) PERA, Nuove biografie livornesi, cit., p. 219. (96) Dalla prefazione: «Nel pubblicare la vita di S. Benedetto, tratta dai Dialoghi di S. Gregorio, s’è data la preferenza alla traduzione del Fiorini poiché si accosta con la freschezza delle lingua alla semplicità propria del racconto gregoriano. Il Fiorini infatti, come i migliori volgarizzatori del Trecento, non si preoccupa tanto della traduzione letterale del testo, quanto dell’interpretazione; ne nasce quindi un’opera nuova. Il critico forse non approverà certe licenze, trasposizioni od omissioni, ed alle volte può avere ragione; ma pure il racconto scorre sempre limpido, incantevole nella formazione dei periodi, che si legge con vero piacere, come con piacere si ammirano le composizioni ingenue e così gustose di Consolo al S. Speco e di Spinello a S. Miniato, anche se poco fedeli alla lettera del racconto gregoriano». 15 Antonio Fiorini, colto da malore, morì improvvisamente a Montecassino il 19 gennaio 1905 all’età di cinquantanove anni. Era nato a Livorno il 5 giugno 1846. Aveva quindici anni quando il Granducato di Toscana fu annesso al Regno d’Italia; a venti, studente universitario, aveva iniziato a tradurre il De Jure Belli, che pubblicò all’età di trentuno. Per venti anni aveva partecipato attivamente alla vita culturale e politica della sua città. Ne aveva solo quarantacinque quando si ritirò a Montecassino. L’ultima sua pagina scritta fu un pensiero di nostalgia per la sua Livorno, verso la quale sognò di volare, col suo libretto su S. Benedetto (97), e di fermarsi a guardarla dall’alto del colle di Montenero. Nell’elogio funebre fu scritto di lui che «ornò la sua giovinezza nello studio dei classici, e nell’assimilare il pensiero e lo spirito dei grandi. Autore della prima traduzione italiana di Alberico Gentile, rendeva alla patria il primato del diritto nazionale. […] Obliatosi nella pace della storica Badia Cassinese, ebbe il vero spirito dei grandi Benedettini» (98). Pera aggiunge che «dopo una serie di anni pasciuti d’illusioni e dolori finalmente trovò la pura serenità della quiete sulle alture di Monte Cassino protetto dall’antica Badia dei Benedettini, celebri cultori della Fede unita agli studi» (99). La traduzione del Diritto di guerra, tanto attesa durante la sua gestazione, quanto favorevolmente accolta dalla maggior parte dei recensori del suo tempo, non sembra tuttavia avere avuto molta fortuna editoriale, se è vero che tra tutte le biblioteche di Toscana può farsene lettura solo alla Nazionale di Firenze (Magliabechiana), alla Comunale delle Oblate, sempre a Firenze, e naturalmente alla Labronica (Guerrazzi) di Livorno, dove se ne conserva più di una copia. Un altro esemplare è custodito nella biblioteca di San Ginesio, al cui Municipio Fiorini dedicò la sua traduzione. Non credo che il Vigo, benché editore di qualche fama, ne abbia stampate un gran numero di copie. Ho l’impressione che in giro per l’Italia, anche nei mercati antiquari, ne siano rimaste veramente poche. Quando mi misi a tradurre il De iure belli, seppi di dover “mettere tra parentesi” la versione ottocentista di Fiorini, così come quella inglese della Fondazione Carnegie (100), perché buon metodo vuole che non si ceda alla tentazione di riadattare l’altrui interpretazione, pur confrontandone l’esito a lavoro ultimato. Questa traduzione che oggi si presenta è nata libera dal condizionamento delle precedenti traduzioni. Volendo comparare questa a quella di Fiorini, potrei dire che, mentre io sono giunto a conoscere l’importanza del Gentili nella prospettiva della Storia del diritto, Fiorini fu attratto verso l’opera di AlbericoGentili dai suoi interessi per il diritto positivo e dai suoi stessi ideali politici giovanili. Nelle intenzioni del Fiore la traduzione di Fiorini avrebbe dovuto attualizzare il pensiero di Gentili, per dare fondamento storico ad una nuova teoria del diritto internazionale moderno, basato sul principio di nazionalità. Chi avesse seguito il solco tracciato da Mancini e dal Fiore, nel testo di Gentili avrebbe potuto sperare di trovare argomenti per legittimare le guerre d’indipendenza, l’abbattimento del potere temporale della Chiesa (101), l’irredentismo e infine anche l’espansione (97) Ibidem: «Va’ ora o libretto. Gira per tutte le terre e […] fermati sur un dolce e sacro colle toscano; e dalla cima di esso, dov’è un bel santuario a Maria, volgi gli occhi a una città che a’ tempi di Benedetto e di Gregorio, e per molto secolo dopo, non era altro che un povero e oscuro castello in un gran porto famoso. Guardala, quella città, salutala, perché da essa avesti il tuo nuovo idioma che ti farà intendere, e forse anche ben volere da tutti». (98) PERA, Nuove biografie livornesi, cit., p. 223. (99) Ibid., p. 224. (100) ALBERICO GENTILI, De iure belli libri tres, I, The photographic reproduction of the edition of 1612; II, The translation of the edition of 1612 by John C. Rolfe and an introduction by C. Phillipson, Clarendon, Oxford e Humphrey Milford, London, 1933 («Classics of International Law», Carnegie Endowment for International Peace, 16), William S. Hein & Co., Buffalo, New York, 1995. (101) Ancora nella data del 20 settembre 1908, alla vigilia dell’inaugurazione del monumento a Gentili sulla piazza di San Ginesio, tale Luigi Falchi, presidente della Società Reduci delle Patrie Battaglie e Soldati in Congedo, invitando i suoi a raccogliersi intorno al monumento a Gentili, avrebbe pubblicato un proclama in cui si leggeva «il potere temporale dei papi, nato dal tristo amplesso di Pietro e Cesare finì, e per sempre il 20 settembre 1870, e Roma generatrice si ricongiunse indissolubilmente alla figlia Italia … è necessario che l’Italia si liberi della nefasta influenza che sulle coscienze esercita ancora il nostro secolare nemico, è necessario che la terza Roma del popolo saluti presto la sua affrancazione dalla bieca tirannia dello spirito. La società dei soldati in congedo trae lieto auspicio per il grande evento, anche dalla imminente inaugurazione del monumento ad Alberico Gentili, il figlio più illustre di Sanginesio, l’austero ribelle alla iniqua teocrazia l’araldo glorioso della libertà di pensiero e di coscienza»: (manifesto conservato a San Ginesio nella sede del Centro internazionale di studi gentiliani). 16 coloniale. Per converso, il proliferare di scritti, per lo più superficiali, su Alberico Gentili, al pari di quelli su altre personalità di “eretici” come Giordano Bruno, Aonio Paleario e Arnaldo da Brescia, le cui figure si prestavano ad esser fatte strumento per le battaglie politiche ottocentesche, erano percepiti dal mondo cattolico come pesanti attacchi contro la Chiesa, la società cristiana e i suoi valori. L’autore anonimo del racconto dal titolo Massone e Massona, pubblicato a puntate nel 1888 sulla «Civiltà Cattolica», faceva dire al protagonista Armodio (102): Né solo dalla massoneria si origina la democrazia, che a luoghi e tempi è onesta, ma ben anco il socialismo, l’anarchia graduale sino allo sfacelo della società civile nella Rivoluzione francese sino all’annientamento di ogni legge e diritto, come nel Nichilismo russo […] La sola società che non trova grazia è la società cristiana: questo è il tiranno per loro più intollerabile, il gran colpevole a cui non si perdona. L’odio contro essa è l’alito vitale della setta. Vediamo monelli di liceo, arrolati pur ieri, già scagliarsi alla prova, già contrastare la pietà della famiglia, già urlare contro gli atti della religione cittadina, già zelare ciò che adonta il clero o la Chiesa, già dichiararsi campioni di Alberico Gentili, di Arnaldo da Brescia, di Giordano Bruno, de’ cui fatti e scritti sono tuttavia ignorantissimi: è l’istinto massonico. In maniera ancor più diretta si esprimeva due anni dopo, la rivista napoletana «La Scuola Cattolica» (103), che protestava per la decisione del municipio romano di celebrare Alberico Gentili con un busto o una lapide, negando lo stesso onore a S. Gregorio Magno papa: E’ vero che [...] dallo studio delle opere e dalla “concordia dei lodatori e degli impugnatori”, Alberico si prova “uomo invidioso, altero e vago di contraddirsi”; è vero che egli fa ancora superbo e mentitore, vantandosi di avere per primo tolto dalle tenebre il diritto della guerra e delle legazioni, che pure da altri erano stati fatti conoscere prima di lui … Alberigo Gentili, mediocre scrittore che le migliori dottrine del suo meno ignoto trattato che nessuno ormai più legge, tolse ai due cattolici Francesco da Vittoria e Pierino Belli d’Alba, che fiorirono prima di lui e valgono più di lui … Alberigo Gentili ha fatto la apologia della più esosa tirannide, ha posto lo stato sopra Dio, ha insegnato il popolo dovere essere schiavo dei re, dei ministri dello stato; ma che importa? Alberigo Gentili rinnegò la fede degli avi e si fece protestante; Alberigo è degno degli onori dell’Italia ufficiale che Gregorio non merita … . Egli fu apostata e avrà lapidi, quantunque fautore di barbarie; Gregorio fu papa e non avrà nulla, quantunque promotore della civiltà del mondo. Tornando al nostro Fiorini, io credo che, svanito l’entusiasmo giovanile e perduto, dopo la laurea, il contatto con l’Università di Pisa e con il Fiore, egli abbia ripreso e portato a termine la traduzione, più per il semplice gusto di tradurre che per la spinta di un’ideale risorgimentale e anticattolico, tanto più che la sua vicenda personale lo portava su posizioni assai più moderate. Su Alberico e sul De iure belli, Fiorini aveva comunque potuto farsi una propria opinione, che era quella di una vasta complessità di pensiero, non riconducibile ai facili schemi di chi avrebbe voluto farne il campione del giurista laico, protestante (104), anticattolico, antipapista, nazionalista o all’occorrenza pacifista (105) e internazionalista (106). Il traduttore rimase tuttavia fedele alla lezione dei suoi maestri, nel (102) «La Civiltà Cattolica», XXXIX, 10, s. 13 (1888). Massone e Massona, cap. 72, La massoneria dei moderati, p. 703. (103) «La Scuola Cattolica», Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli, 1890, pag. 201. (104) Riguardo al protestantesimo di Gentili, già il DE GIORGI, Della vita e delle opere di Alberico Gentili, cit., p. 23, aveva già osservato che «pure a giudizio di scrittori protestanti e che parlano da protestanti, l’apostasia così solenne di Alberico Gentili non bastò a torgli dall’animo del tutto i ricordi delle dottrine cattoliche». (105) T. MASSARANI, Carlo Tenca e il pensiero del suo tempo, con una scelta di poesie postume inedite e ritratto, Hoepli, Milano, 1886, p. 287. «Certo v’ebbe qualcosa di magnanimo e di grande nella difesa che la scuola filosofica del diritto esercitò attraverso i secoli, contro la forza; e ad incitarla al culto dell’idea più che alla indagine del fatto dovette naturalmente contribuire l’aver sotto gli occhi sempre lo spettacolo miserabile del fatto ingiusto e violento: la guerra di conquista, di religione, di parte; il rogo, il bando, l’albinaggio, la confisca. Gli è contro il fatto brutale che si levava Alberigo Gentile a proclamare ‘la città del mondo nella quale tutti i popoli sono cittadini’; gli è in faccia ‘a una licenza sfrenata di cui dovrebbero arrossire le nazioni più barbare’ che Ugone Grozio affermava ‘madre del diritto essere la natura umana medesima e Dio medesimo non poter fare che quel che è tristo in se stesso tristo non sia’ ». (106) Nel 1934, il podestà di San Ginesio, conte Giuseppe Onofri, nel manifesto per le celebrazioni gentiliane di quell’anno, avrebbe definito Alberico come «il giurista insigne che con i suoi insegnamenti ha dato stabile e moderno assetto alla scienza del diritto internazionale ed ha propugnato gli ideali di pace ed i componimenti amichevoli dei conflitti a mezzo di forme prestabilite, che le Società delle Nazioni e della Pace hanno poi invocato con ansia affannosa, volendo 17 riconoscere a Gentili il ruolo di emancipatore del diritto internazionale dalla teologia. Nel discorso tenuto al circolo filologico del 1876, Fiorini si era lasciato sfuggire la constatazione che «Alberigo nostro fu anche teologo» (107), ma l’anno seguente, nel discorso introduttivo alla traduzione del De Jure Belli, precisava: «A buon conto possiamo intanto affermare che nel Diritto di Guerra Alberigo è teologo sol quanto basta a salvar la concordia (a cui egli crede sinceramente) fra l’autorità e la ragione. Riesce ne’ suoi sforzi? Non m’importa rispondere a questa domanda: veda da sé chi legge» (108). Forse Fiorini non seppe rispondere a quella, né ad altre domande. Capì però prima di ogni altro che non era possibile ridurre Gentili allo stereotipo della sua celebre espressione silete theologi, anche se più avanti aggiungeva (109): Confonderemmo noi primi quello che vogliamo tenere distinto: il teologo dal filosofo. Non è il De Jure Belli un trattato di teologia, come non è di morale, di politica, di letteratura, di medicina e via dicendo, ancorché qua e là ci accorgiamo esser l’Autore in queste e in altre discipline versato ( 110) […] adunque, con tutto l’amore e venerazione che professa alla teologia, il nostro Autore nel dare opera alla scienza del diritto delle genti seppe molto bene tenersene lontano. Nella già citata rassegna bibliografica dell’«Archivio Storico Italiano» (111), il redattore Alberto Del Vecchio, commentando le opere di Fiorini, Sbarbaro, Speranza, Pierantoni e Saffi aveva così sintetizzato il loro parere: La scienza del giure internazionale […] ai tempi di Alberigo Gentili, lungi dall’essere ancora una scienza, giaceva confusa fra le pastoje del diritto canonico e la casuistica della teologia morale: la sacra scrittura consideravasi come l’unica fonte del diritto, né si accordava alla ragione che la semplice facoltà d’interpretarla: fra i doveri dell’uomo non sapevansi distinguere quelli il cui compimento non sorge che dalla sua coscienza, da quelli all’esecuzione dei quali egli può e deve essere costretto: in una parola, la scienza del diritto naturale era confusa coi precetti della religione cristiana: l’idea politica tuttavia inviluppata nell’idea religiosa. E il nostro Alberigo tentò per primo di sopperire scientificamente a così gravi difetti, prendendo dalle Sacre Carte sol quanto si conforma al senso umano e alla giustizia civile, e respingendo (dice un suo biografo) come arcano da lasciare ai teologi, ciò che egli giudicava dall’uno e dall’altra discorde. Opera questa grandemente proficua, s’egli è vero, come noi crediamo, che stadio principale della vita di una scienza è quello appunto in cui vengono determinati i limiti che la distinguono dalle altre, e assegnate con esattezza le attinenze che la congiungono al corpo intero dello scibile. Dacché i principi veri delle scienze morali non furono mai assolutamente ignorati, la novità principalmente consiste nell’ordinamento delle idee. Né l’aver ridotto ad una prima forma di scienza la ragion delle genti fu l’unico suo titolo di gloria, ché egli ebbe pur quello di averla rivocata a più giusti e salutari principi, propugnando fervidamente la pace universale, e tentando di sostituire, nelle questioni fra gli stati, al predominio della forza la discussione giuridica: dottrine proseguite oggi dai moderni promotori degli arbitrati pacifici. Sono, in fondo, le stesse conclusioni che, trent’anni dopo, sarebbero state sintetizzate nell’editoriale intitolato L’umanista e il giurista a firma il Rapsodo, pubblicato dal giornale «L’Ordine-Corriere delle Marche» il 25 giugno 1908, per l’inaugurazione del monumento sulla piazza di San Ginesio: L’opera più insigne del giurista ginesino è il De Jure Belli, dove si disgiunge l’antica alleanza della teologia con la giurisprudenza. Il Gentili vi esamina egualmente i diritti dell’impero, difende l’autonomia dei popoli, consiglia la buona fede e la moderazione in guerra, raccomanda la inviolabilità pei forestieri, insegna al vincitore i doveri verso i vinti, limita i privilegi, insegna ai principi, con riflessioni acute, con straziante mestizia, i limiti naturali del loro potere […]. Egli venne così a recidere d’un colpo le basi fondamentali del potere sociale d’allora, colpì in pieno petto la teocrazia e il monarcato assoluto, divinò la via della costituzione, dando ai popoli una coscienza. che alla forza brutale fosse sostituito l’impero immutabile del diritto». Il manifesto, datato 15 agosto 1934, è conservato a San Ginesio nella sede del Centro internazionale di studi gentiliani. (107) FIORINI, Di Alberigo Gentile e del suo dritto di guerra, cit., p. 13 (108) FIORINI, Del diritto di guerra di Alberigo Gentile, cit., p. LXIII. (109) Ibid.,p. LXVII. (110) Ibid., p. LXIV. (111) «Archivio Storico Italiano», 1879, Rassegna Bibliografica (Alberto Del Vecchio), p. 65. 18 Quando, ultimata la mia traduzione, mi sono posto all’esame della precedente versione di Fiorini, ne sono rimasto affascinato, sia per l’intonazione toscaneggiante, sia per la ricchezza di un lessico dai colori vivaci. Lo stile di Fiorini, caratterizzato da lunghi periodi, talvolta fioriti con volute e ghirigori, risente dell’eclettismo proprio del suo tempo, ma rifugge quella retorica ottocentista, magniloquente e ampollosa, tipica dell’età risorgimentale. Tuttavia non vi rinvengo alcun tentativo di andare verso uno stile più moderno, cioè a quella che sarà la prosa del Novecento, caratterizzata da periodi brevi e lineari. Ciascuna delle due traduzioni, insomma, appartiene all’epoca in cui è stata fatta. Definirei la mia una traduzione tardo-novecentesca, nel senso che si è posta come obbiettivo, almeno nelle intenzioni, l’aderenza più stretta al testo al fine di una sua piena fruizione sul piano scientifico. Quel latino di Gentili, che prima ho definito elegante, fu invece definito «inelegante ed astruso» dal biografo di Fiorini, che giudicò la sua versione «ardua», ma al tempo stesso «fedele e forbita» (112). Non è poi mancato chi, in tempi più recenti, ha inopinatamente giudicato la traduzione di Fiorini addirittura pessima (113). Certo è che sia dall’una come dall’altra traduzione, ciò che emerge è pur sempre la presenza – direi lo spirito – dell’autore, di quell’Alberico Gentili che, come già aveva colto Fiorini, «vive ancora in questo libro» (114). Può darsi che, come Fiorini, anche io abbia commesso degli errori e, per scusarmene mi piace usare le stesse parole del mio predecessore nel compito di traduttore: Quanto alla mia versione credo che il lettore benevolo potrà facilmente esserle liberale di quella critica salutare che fa accorti degli errori, da cui non basta a salvarci il proposito di far bene. E appunto ad eccitar questa critica, che io desidero e invoco, debbo avvertire che il latino col quale fui alle prese per oltre due anni è tutt’altro che agevole. […] Certo è che io ho la coscienza di aver fatto quanto potevo a render chiaro ed anche piacevole quel che parve oscuro e tedioso. Nel che se a taluno paresse che io fossi alcuna volta riuscito, ne dia merito alla nostra lingua italiana, in cui mi sono ingegnato di scrivere. Oggi mi piace ricordare Fiorini, perché egli è stato – se così si può dire – la voce, il veicolo attraverso cui l’opera di Gentili ha potuto essere conosciuta nell’ultimo quarto dell’ottocento e per tutto il novecento. Ora, questa nostra recentissima edizione sta per prenderne il posto, ma non per questo la traduzione di Fiorini dovrà essere dimenticata, quantunque essa risulti quasi completamente sprovvista di strumenti critici. Per l’introduzione il Fiorini poté cavarsela da solo, scrivendo con la sua agile penna un discorso di oltre centoventi pagine. Benché dotato e volenteroso, egli non poté però assolvere al compito di scioglimento, verifica e revisione delle allegazioni legali ed erudite: la sua traduzione del Diritto di guerra, salvo rarissime eccezioni, non riporta le note di cui Gentili ha disseminato il suo testo. L’edizione ottocentesca stampata dal Vigo presenta solo pochissimi appunti personali del traduttore, taluni anche molto originali (115), e dei sommari che, messi all’inizio di ciascun capitolo, ne riassumono il contenuto. L’autore-traduttore giustificava così la mancanza delle note: Non vorrei mi fosse apposto a negligenza l’aver lasciato da parte le citazioni di cui ribocca il testo. Ma trascriverle come erano senza confrontarle con le innumerevoli opere da cui son tratte sarebbe stato inutile e peggio avendo trovato errori in alcune di esse; ed a fare tali riscontri con la debita diligenza non bastavano anni, quando pure fosse stato possibile. Questo enorme lavoro critico, che scoraggiò Fiorini e chiunque altro dopo di lui, è stato svolto per la prima volta in maniera eccellente da Giuliano Marchetto e da Christian Zendri. Lavoro (112) PERA, Nuove biografie livornesi, cit., p. 215. (113) V. ILARI, “Ius civile” e “ius extra rempublicam” nel “de iure belli” di Alberico Gentili, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, III, Milano, 1982, p. 538: «Nel 1877 uscivano l’ottima edizione del De jure belli curata da Holland, e la pessima traduzione italiana di quest’opera fatta da Antonio Fiorini (Livorno), preceduta da un discorso». (114) La traduzione del De Jure Belli pubblicata da Vigo nel 1877 reca la seguente dedica: «Dedico al Municipio di Sanginesio questo libro in cui vive ancora Alberigo Gentile. Livorno, 1877. A.F.». (115) Per citarne una: a proposito delle donne soldato, in calce a una citazione di Gentili sulle Amazzoni, Fiorini chiosava: «Alberico ha ragione. Il re di Dahomey, per esempio, sovrano di una gran parte della Costa degli Schiavi nella Guinea, ha una guardia di donne che non la cedono punto al nostro sesso nel maneggio delle armi. Viaggiatori degni di fede narrano cose incredibili sulla ferocia di quelle megere» p. 336 (lib. II, cap. 21, n. 1). 19 fondamentale, perché costituisce la premessa indispensabile per ricostruire compiutamente la trama strettissima delle autorità normative e dottrinali alla quale Gentili intrecciò il suo pensiero, senza la quale il De iure belli non sarebbe un’opera di scienza giuridica, ma semplicemente letteratura. E proprio questa era la critica maggiore, che è stata mossa per tutto il Novecento ad Antonio Fiorini: quella di averci dato una traduzione letteraria, che il mondo accademico non ha mai ritenuto seriamente utilizzabile a fini scientifici. Questa critica era stata espressa dai recensori della «Nuova Antologia» già nel 1878 (116): Noi dobbiamo grandemente compiacerci che il Fiorini abbia dato la traduzione dell’opera più importante del celebre Esule di San Ginesio, quella che gli ha procurato i maggiori titoli alla gloria, se non di creatore della scienza del Diritto internazionale, certo di essere stato il più illustre precursore di Grozio. Se i dotti di professione e i giuristi avrebbero amato una ristampa, non ostante la sua oscurità, del testo latino, il pubblico colto non può fare che buon viso al vedersi innanzi il Gentile in buona veste italiana più accessibile a tutti. In verità il Fiorini merita le più ampie lodi per un tal lavoro, che offre ad ognuno il modo più facile di rimontare alle sorgenti della scienza del Diritto Internazionale, e di poter verificare l’esattezza degli opposti giudizi, di coloro che vorrebbero tanto esagerare i meriti dell’autore, comparativamente a Grozio, e di quelli che vorrebbero troppo deprimerli. […] Una cosa però ci dispiace nell’edizione del Fiorini, l’aver egli stimato di omettere le numerose citazioni di cui ribocca il testo. Egli se ne scusa dicendo, che trascriverle come sono, senza confrontarle con le innumerevoli opere da cui son tratte, sarebbe stato inutile, e peggio avendo trovato errori in alcune di esse. Ci duole di non poter essere dello stesso avviso. Se ci fossero delle edizioni del De Jure Belli in latino, alla mano di tutti, sarebbe minor male, ma ci sembra evidente il difetto in un libro simile, di non aver sott’occhio le fonti delle dottrine discussevi e insegnate. Più caustico il giudizio dell’Archivio Storico Italiano nella già citata recensione di Alberto Del Vecchio del 1879: Altri ha già mosso giustamente rimprovero al volgarizzatore di aver tralasciato nella sua edizione le copiose note di cui ribocca il trattato originale. Egli, prevedendo l’appunto, se n’era già anticipatamente scusato … ma il prof. Holland, colla sua edizione, gli ha mostrato, invece, come ciò fosse possibile, e anche in non lungo spazio di tempo. Senza il meticoloso lavoro sulle fonti, anche questa seconda traduzione non sarebbe forse altro che letteratura, benché letteratura su una materia grave come la guerra, frutto da una mente di grande ingegno e di immensa cultura come quella di Alberico Gentili. POST SCRIPTUM 1. Prima ancora che a P.S. Mancini e Pasquale Fiore, la “riscoperta” di Gentili da parte degli autori italiani deve essere fatta risalire a Gian Domenico Romagnosi, che tuttavia nel 1832 scriveva perplesso: “I diritti del principato e del sacerdozio furono chiamati in discussione dalle rispettive parti ed un forte bisogno ed un’acerba e lunga flagellazione eccitava a discuterne i titoli, i limiti e le massime direttive. Fino al secolo decimo quarto in Bartolo troviamo discussioni di pubblico Diritto. Dopo nel secolo decimo sesto, esiste l’opera di Alberico Gentile, su cui ultimamente scrisse il celebre inglese James Mackintosh. Gentile trattò della ragione della guerra e della pace, come Grozio, facendo uso del diritto riconosciuto dall’autorità, come comportava un primo tentativo anteriore alla buona filosofia. Per alcuni cervelli moderni, che per amore di singolarità tentano di ripudiare la eredità dei principj per sostituirvi un senso commune non verificabile, l’Opera di Alberico dovrebbe essere un tesoro. Malgrado tutto questo, la scienza non fu che avviata, ma non ordinata, né assoluta al punto di meritare il nome di scienza, vale a dire di dottrina (116) «Nuova Antologia», S. II, VII, 37 (1878), p. 621 e seg. La recensione era firmata dal direttore del periodico, Francesco Protonotari. 20 dimostrata co’ i fatti e con la ragione. Ciò non deve recar meraviglia …” (Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia, aggiuntevi le vedute eminenti per amministrarne l’economia, in OPERE DI G.D. ROMAGNOSI, riordinate e illustrate da Alessandro De Giorgi, dottore in filosofia e in leggi, con annotazioni, la vita dell’autore etc. vol. II, Milano, presso Perelli e Mariani Editori, coi tipi di Angelo Sicca in Padova, 1844, p. 209). 2. Ad Antonio Fiorini si deve anche la narrazione degli ultimi giorni di vita dell’abate benedettino Luigi Tosti (Napoli 1811 – Montecassino 1897), che egli raccolse dalla viva voce del di lui segretario Francesco Bindangoli Bini. Questo manoscritto di Fiorini risulta essere stato pubblicato da Tommaso Leccisotti sulla rivista <<Echi di Montecassino>>, vol. 5 del 1977. (vedi Rivista di Storia della Chiesa in Italia, 1978, vol. 32, p. 301). Purtroppo non ho potuto consultare il fascicolo degli Echi di Montecassino che risulta disponibile nelle sole biblioteche di Montecassino e di Praglia. 3. Solo nel 2014 ho potuto consultare presso la Biblioteca Comunale di Livorno il raro opuscolo dal titolo “In memoria di Antonio Fiorini di Livorno nell’anniversario della sua morte”, stampato dalla Tipografia di Montecassino nel 1906. Contiene ricordi personali di colleghi e studenti sui quattordici anni di insegnamento liceale; vi ho trovato solo fugaci e reticenti accenni alla prima parte della vita del traduttore del De Jure Belli. Trascrivo quelli che ho ritenuto più interessanti: << Che dirò poi del suo cuore caritatevole e generoso verso gl’infelici, che non di rado l’indusse a privarsi del necessario, e perfino ne lo rese vittima espiatoria? Che dire di quel tenero affetto alla sua veneranda madre, alla sua cara famiglia? Tramandava un sì delicato profumo da restarne imbalsamati. Basti dire che per amore e per il bene di essa s’immolò ad un volontario esiglio di ben 14 anni, lontano dalla diletta consorte e dalle amate figlie, le quali peraltro non mancava di consolare con frequenti lettere, ripiene di sì alto sentire e di sì preziosi ammonimenti, e condite di una forma così eletta e di un sì squisito gusto letterario, da farne un vero giojello e quasi un capolavoro nel suo genere, ben degno di vedere la luce. Provato e purificato come oro nel crociuolo della tribolazione, seppe virilmente mostrarsi tetragono a’ suoi colpi, offrendo esempio di fortezza, di rassegnazione di pazienza cristiana >> (Padre Ambrogio M. Amelli). <<Mosse col Gioberti, col Mamiani, col Tommaseo, che ebbe familiarissimi e cari, da Dante e da Tomaso d’Aquino, da Pascal e da Montaigne, e temperò la profonda sintesi cristiana delle loro opere di studi storici e giuridici positivi. Autore della prima traduzione italiana di Alberico Gentile rendeva alla patria il vanto del primato del diritto internazionale e, offertagli a ventitré anni la cattedra universitaria di Modena, la rifiutava modestamente per la pace del proprio studiòlo. L’Archivio di Montecassino lo ebbe illustratore solerte ed umile nell’amicizia fraterna dell’illustre P. Amelli; la storia del Muratori ridusse con ammirabile robustezza e con breviloquenza tacitiana ad “annali” in cui nulla si perde nell’arguta imparzialità e della impronta individuale del grande raccoglitore. Obliatosi nella pace della storica Badia cassinese, ebbe lo spirito vero dei grandi benedettini e non vestì l’abito, ma per lunghi anni insegnò con rara eleganza, lettere italiane e con profonda coscienza filosofica sensi di italianità, di dignità umana e di cristianesimo a una folla di giovani che ebbero in lui un padre, un Maestro di sogni eroici e di grandi propositi temperati da quella profonda abitudine della misura, che era la caratteristica suprema della su anima, e che egli aveva derivato senso di equilibrio meraviglioso, dai grandi del cattolicismo …>> (Avv. Carlo Majo suo antico alunno). Dopo il funerale a Montecassino la salma fu trasportata a Livorno e là fu sepolta nel cimitero comunale. La lettera di Fiorini con la quale aveva chiesto di essere assunto come insegnante al liceo di Montecassino daterebbe al settembre 1890 da San Giovanni d’Andorno, presso Biella. Ciò escluderebbe il coinvolgimento di Antonio nei fatti di cronaca livornese del marzo 1891, fatti che tuttavia non ho ritenuto opportuno cancellare da questo testo, ritenendoli comunque espressione del contesto storico dell’epoca in cui la persona ha vissuto. 4. Nel 2014 lo Studio bibliografico Lim Antiqua di Lucca (Catalogo 78) metteva in vendita un Ritratto fotografico (cm. 10 x 6) del letterato livornese Antonio Fiorini con acclusi una cartolina fotografica raffigurante lo studioso nella sala dei codici dell’Archivio Cassinese e un biglietto autografo del seguente contenuto: 21 <<Poco reverendo Don Antonio, o lo stile? O la carta? O il porta processi. Lo stile, sopra tutto lo stile, mi raccomando. Quando ho svinato mi porterai l’imbuto? Quando questa po’ po’ di tempesta di bastonate che mi sovrasta si sarà scatenata sulle mie povere spalle, allora eh? Mi porterai lo stile? Bravo davvero!>>. La foto e il biglietto furono tempestivamente acquistati dal Comune di Livorno. 22