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La mafia siciliana: un´analisi razionale

«E’ generalmente significata con questo nome quella popolazione di facinorosi la cui occupazione principale è d’essere ministri ed instrumenti delle violenze, e coloro che sono con essi in relazioni dirette e continuate». L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, 1876. PAGE 3 INDICE Introduzione p. 3 Capitolo I La mafia come scelta razionale p. 5 Capitolo II La sfiducia siciliana e la “fiducia mafiosa” p. 8 Capitolo III L’associazione mafiosa p. 17 Capitolo IV Le attività mafiose p. 25 Conclusioni PAGE 3 p. 30 INTRODUZIONE La curiosità degli scienziati sociali, che vogliono occuparsi del Mezzogiorno d’Italia e più specificatamente di quella Regione a Statuto Speciale che è la Sicilia, cozza ormai da lungo tempo con il fenomeno cosiddetto “mafioso”, il quale sembra permeare ogni aspetto della vita dell’isola rendendo superfluo, o quantomeno avventuroso, qualsiasi tipo di studio che miri a fotografare o migliorare le sue condizioni economiche e politiche. Ogni indagine, infatti, si troverà di fronte delle anomalie -teoriche ma più spesso empiriche- difficilmente spiegabili se si considera il carattere democratico dello Stato italiano. Queste “stranezze”, anche ad un occhio poco allenato, risulteranno essere di provenienza mafiosa. Le molte discipline, che si sono occupate del problema attraverso le ‘lenti’ dei loro variegati approcci, hanno contribuito sensibilmente alla concettualizzazione del fenomeno. Gli sforzi intellettuali e materiali degli storici e degli antropologi1 , degli economisti e dei sociologi2 hanno sviluppato un ventaglio molto largo di spiegazioni che però, come tristemente dimostrato dall’evidenza dei fatti, non ha ovviamente influenzato il pensiero di Riina o di Provenzano. Nell’ultimo decennio, all’indomani degli omicidi eccellenti come quello di Salvo Lima e delle stragi di Capaci e via d’Amelio, scrivere di mafia siciliana, se non addirittura parlarne, è peraltro sempre più problematico. Nonostante il tema sia quasi invisibile, ostico, per certi versi caustico, la produzione giornalistica e scientifica è giustamente rimasta corposa, spesso interessante per l’aneddoto, a volte utile per dare spunto a nuove chiavi di lettura. In questo saggio si prenderà in considerazione una tesi “anglofona” che, seppur edita dodici anni fa, è ancora oggi letta, vivacemente discussa, di sicuro molto I principali studiosi che si sono occupati della storia della mafia sono i siciliani Giuseppe Carlo Marino e Salvatore Lupo; gli antropologi più importanti sono invece il tedesco Henner Hess e Anton Blok, i cui studi rappresentano delle pietre miliari sull’ argomento. 2 Tanti sono i sociologi da annoverare, quali i siciliani Michele Pantaleone, concittadino del famoso don Calò Vizzini, Umberto Santino, direttore del Centro Studi “Peppino Impastato”, Enzo Fantò. Ultimi, ma soltanto in ordine cronologico, sono Nicola Tranfaglia, Pino Arlacchi, Fabio Armao e Rocco Sciarrone. 1 PAGE 3 interessante sia ad un profano che ad un esperto. Santoro, tra i tanti mafiologi dell’accademia italiana, la fa rientrare nella cornice dell’economia istituzionalista3, Pezzino la ritiene una spiegazione in termini di sociologia economica4, Catanzaro la definisce una teoria economica generale della mafia5. Al di là di queste aggettivazioni un po’ oscure, Diego Gambetta, unendo deduzioni empiriche a concetti di natura socio-economica, giunge ad una caratterizzazione più razionale (e molto poco ancestrale) dell’organizzazione criminale. Nel suo libro La Mafia Siciliana egli interpreta la criminalità organizzata isolana come un’industria. L’argomentazione, o se si preferisce l’analogia, non è nuova, ma risale alla celeberrima Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino dove la mafia è definita come industria della violenza. L’autore parte quindi da questo suggerimento, per fornire una nuova definizione più universalizzabile: la mafia come «a loose cartel of indipendent firms», «un cartello lasco di imprese indipendenti in grado di fornire protezione in qualunque contesto e a qualsiasi cliente ritengano conveniente» 6 . Per comprendere cosa intende l’autore, occorrerà preliminarmente spiegare in termini teorici il nucleo del suo ragionamento. Si esamineranno poi le cause della sfiducia endogena in Sicilia per capire da dove derivi il bisogno, naturale o indotto, presunto o reale, di protezione della res privata a cui, nelle democrazie occidentali, è in realtà preposto unicamente o prevalentemente lo Stato. Successivamente, l’attenzione si sposterà sugli attori individuali, sul comportamento mafioso che, efficientemente organizzato in una struttura complessa di relazioni, porta ad un accumulo di risorse, di reputazione che, per dirla con l’autore, sono il “marchio” registrato di questa sfuggente entità. L’ultimo capitolo sarà dedicato invece alle interazioni tra domanda e offerta di protezione. M. Santoro, La mafia e la protezione. Tre quesiti e una proposta, in «Polis», a. IX, n. 2, 1995, p. 287. 4 P. Pezzino, Mafia e politica: una questione nazionale, in «Passato e presente», a. XIV, n. 38, 1996, p. 9. 5 R. Catanzaro, Recenti studi sulla mafia, in «Polis», a. VII, n. 2, 1993, p. 327. 6 D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, Einaudi, 1992, p. 95. 3 PAGE 3 PAGE 3 CAPITOLO I La mafia come scelta razionale Le recensioni, che si sono occupate del libro di Gambetta7 , inseriscono la sua esegesi all’interno della Rational Choice. Questa teoria micro-strutturale disegna una società composta da attori individuali che, dati i loro obiettivi e le loro risorse nonché in un ottica di massimizzazione della loro esclusiva soddisfazione8, prendono decisioni calcolando le possibili conseguenze delle loro azioni. L’individuo considerato dall’autore è innanzitutto un homo oeconomicus; così ne segue che chi sceglie o asseconda la via della mafia sta agendo in maniera strettamente razionale, scegliendo tra due strade quella apparentemente più vantaggiosa. Questa visione sacrifica però aspetti rilevanti, quali l’importanza di una particolare socializzazione o delle ritorsioni, di cui si dovrà tenere debitamente conto; essi non rientrano nel panorama delle scienze economiche, ma in un certo senso lo precedono. Deficit di fiducia La necessità di avere delle garanzie, di conferire legittimità a qualcuno o a qualcosa che assicuri la buona riuscita di un negozio o il rispetto di un contratto, sta alla base dei meccanismi dell’economia (e molto probabilmente anche delle relazioni interpersonali). Un compratore senza fiducia nei confronti del venditore che ha di fronte, così come un venditore che non si fida del compratore, difficilmente perverrà allo scambio. Di primo acchito potrebbe sembrare un non senso, in quanto nessuno alla fine guadagna, ma se s’immagina la quantità di “bidoni”, di frodi e di merci difettose Tra le tante si segnalano: B. L. Benson, in «Public Choice», n. 80, 1994, pp. 217-219; E. Bryant Rhodes, in «Acta Sociologica», n. 39, 1996, pp. 251-254; M. Marmo, Studi sulla mafia, in «Quaderni storici», a. XXX, n. 1, 1995, pp. 195-211. 8 La proposizione «individuals are self-interested, not selfish» (Friedman & Diem 1990) è importante per denotare il peso specifico attribuito agli interessi dalla teoria della scelta razionale, in altre parole per sottolineare il fatto che gli attori adotteranno la strategia migliore per soddisfare i loro interessi, siano essi beni scambiabili sul mercato o la musica di Mozart. 7 PAGE 3 immesse nel mercato, l’agire della domanda acquista un quantum di razionalità individuale. Allo stesso modo, con un ragionamento speculare, è razionale un’offerta che si ritrae dalla vendita di sua sponte quando essa ritiene la controparte inaffidabile. Questa mancanza di fiducia equivale ad un «eccesso di razionalità individuale» 9, che impedirà non solo la cooperazione e la sana concorrenza, ma perfino la transazione stessa. Per Gambetta la sfiducia costituisce il punto d’origine della merce mafiosa, del bisogno di protezione, il vulnus del contesto siciliano10. La protezione privata E’ infatti plausibile che in una transazione instabile, ovvero in uno scambio tra due parti in cui almeno una non si fida dell’altra, la protezione11 di un primus inter pares diventi razionalmente desiderabile, ossia possa fare da «lubrificante», da surrogato -anche se più costoso e meno soddisfacente- della fiducia. E, secondo l’autore, esclusivamente di protezione e del mantenimento del suo monopolio si occupa il mafioso, tanto che diventare membri della mafia significa, prima che consumare, ottenere il permesso di fornire protezione. Rimane il dubbio se sia la domanda che crea l’offerta o, più verosimilmente, il contrario. Il mafioso, seguendo l’argomentare di Gambetta, è chi ha una «buona reputazione», chi ha la capacità di fare da garante, e l’azione di questo individuo è guidata dalla convenienza, non da una ascetica saggezza o da un principio giuridico. E’ questi a decidere se, quando e a quale delle due parti affidare il suo buon nome, nonché è egli stesso ad inserire sul mercato dosi limitate di sfiducia al fine di riaffermare il suo monopolio. D. Gambetta, Mafia: i costi della sfiducia, in «Polis», 1, 2, agosto 1987, p. 283. L’autore, nella sua definizione di mafia, sostiene -ma non dimostra- che essa è in grado di agire «in qualsiasi contesto». La presenza delle famiglie mafiose è stata riscontrata infatti soltanto in Sicilia; esistono poi alcune “succursali” in luoghi dove è alta la presenza di siciliani e dove i mafiosi, essendo stati lì confinati dalla legge, sono riusciti ad imporre il loro controllo. 11 La protezione poggia, nonostante Gambetta non si soffermi su questo punto, su un’asimmetria informativa, in altre parole quando un mafioso per esempio conosce il nome e le attività dei parenti di un “cliente”, sarà difficile per quest’ultimo rifiutare l’offerta. 9 10 PAGE 3 Le imprese indipendenti in un sistema a legame debole La razionalità porta l’individuo mafioso ad «autonomizzare» la sua merce, così da renderla appetibile ai clienti che più gli aggradano. Maggiore è il loro numero, maggiore è la necessità di un’azione organizzata che, per l’autore, consiste in un’impresa singola radicata in uno specifico territorio, legata debolmente alle altre di altri territori. Ciò significa che l’industria mafiosa è composta da unità (da imprese) che godono di elevata autonomia e che tra esse c’è una bassa interdipendenza. Questo implica, nel caso una di loro cedesse -per esempio grazie ad una retata-, che le altre non sarebbero interessate; inoltre implica che il coordinamento sarà sicuramente meno efficiente di un processo di imitazione. L’omertà, di cui si circonda la mafia, non consente però di giungere a conclusioni circa la sua esatta struttura. Anzi, se per differenziare un sistema a legame tendenzialmente debole12 da uno a legame tendenzialmente rigido si considera il nesso tra prestazione e mantenimento del posto, o -meglio ancora- «la relazione originaria che ha fatto sì, almeno sul piano logico, che si passasse da un’azione individuale ad una collettiva»13, risulta evidente il carattere fortemente gerarchico della mafia. Considerando ciò che dice Weick nel suo famosissimo articolo Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole, ci si riferisce ad un sistema appunto a legame debole quando per esempio ci sono: i) occasioni in cui uno qualsiasi fra i molti mezzi produrrà lo stesso fine; ii) reti molto fitte in cui l’influenza si diffonde lentamente e/o debolmente; iii) assenza di regolamenti; iv) mancanza programmata di capacità di risposta; v) scarsa ispezione delle attività all’interno del sistema; vi) decentralizzazione; vii) l’osservazione che la struttura dell’organizzazione non ha gli stessi confini della sua attività. 13 M. Ferrante, S. Zan, Il fenomeno organizzativo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994, p. 79. 12 PAGE 3 CAPITOLO II La sfiducia siciliana e la “fiducia mafiosa” Ricercare ed identificare le ragioni della sfiducia generalizzata nel Sud d’Italia è un’impresa ardua su cui si sono cimentati in tanti, utilizzando differenti strumenti analitici. Nessuno è pervenuto, però, ad una spiegazione del tutto convincente di quest’incapacità di accettare, di sentirsi parte -se non addirittura di identificarsi- in una sfera che trascenda l’individuo in vista di un bene pubblico 14. Ciò si manifesta nell’assenza d’associazionismo, soprattutto laico, in tassi crescenti e financo preoccupanti di disoccupazione ed emigrazione, in una dispersione scolastica eccezionale; tutti temi che meriterebbero degli approfondimenti separati. Sciascia, a tal proposito, scrive: «L’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della vita -paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo- della collettività e dei singoli»15. Se, come è verosimile, gli orientamenti normativi (“i valori”) di un attore sono frutto delle esperienze più profonde e soprattutto della socializzazione, allora proprio nel dipanarsi della vita sua e della comunità di cui fa parte si rintracciano le premesse all’azione, il perché di un dato comportamento comunque razionale. A livello individuale un aneddoto riesce ad essere molto esplicativo. Un vecchio capomafia racconta che da piccolo, sotto l’invito di suo padre, salì su un muretto e poi saltò giù, ma suo padre non lo afferrò; piuttosto gli disse: «Non ti devi fidare mai di nessuno, nemmeno dei tuoi stessi genitori»16. Il consiglio paterno parla da «Le menti non sono in grado di distinguere l’interesse sociale dal loro interesse personale immediato» da L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, vol. I, Inchiesta in Sicilia, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 35. 15 L. Sciascia, La corda pazza, in Opere (1956-1971), Milano, Bompiani, 2001, p. 963. 16 R. Mangiameli, Banditi e Mafiosi dopo l’Unità, in «Meridiana», n.7-8, 1990, p. 74. Un’espressione simile, «ti prego di stare attento poiché il mondo è tutto infame», è riportata da P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 150. 14 PAGE 3 sé; sprona ad assumere un atteggiamento vigile, perfino animalesco, nei confronti di un ambiente tendenzialmente ostile, ad essere pronti a reagire, perché altrimenti -fidandosi troppo- ci si potrebbe far male17. La sfiducia si autoalimenta, si espande e potrebbe portare, secondo Gambetta, ad una razionalità individuale esasperata, generalizzata. A livello sociale, invece, evidenziare cosa sia e da dove possa nascere la mancanza di fiducia, cosa spinga a pensare che l’altro non è credibile, è più ostico, anche se necessario. La storia della Sicilia è ricca d’invasioni, di lunghe dominazioni tanto differenti in usi, costumi, destino18, e conseguentemente propone svariate interpretazioni che spaziano dal racconto storico alla riflessione socio-economica, utile in ottica comparativa, circa l’emersione ed affermazione della “fiducia mafiosa”. Etimologia del fenomeno Dalle rivelazioni del pentito Leonardo Vitale, creduto inizialmente pazzo: «Io sono stato preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino […] Bisogna essere mafiosi per avere successo. Questo mi hanno insegnato ed io ho obbedito […] La mia colpevolezza è di essere nato, di essere vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose e di essere vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per questo rispettati, mentre quelli che non lo sono vengono disprezzati». C. Stajano (a cura di), Mafia. L’atto d’accusa dei giudici di Palermo, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 14. 18 In origine vi erano i Siculi, abitanti delle coste, ed i Sikani, che vivevano nell’interno. La prima colonizzazione è ascrivibile agli antichi greci; dopo di loro fu la volta dei romani che la resero prima provincia di un vasto impero. Tramontato il mondo classico, la Sicilia divenne un protettorato del Sacro romano impero d’Oriente; poi arrivarono gli arabi che vi rimasero per ben due secoli. Gli ‘uomini del nord’ riuscirono a sottrarla al dominio musulmano e vi restarono con la benedizione della Chiesa di Roma; Palermo divenne prima capitale del regno dei Normanni nella parte meridionale della penisola e poi dell’impero di Federico II di Svevia. Morto il grande Re, il Papa affidò il Regno delle Due Sicilie agli Angiò. Con la scusa dei Vespri Siciliani, gli spagnoli entrarono nell’isola e scacciarono i francesi. Per un approfondimento si consiglia la lettura di S. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Palermo, Sellerio, 2003. 17 PAGE 3 Il dibattito tra gli storici sulla prima comparsa e uso della parola Mafia è acceso, almeno quanto quello dei linguisti che si scontrano sull’esatta etimologia19. Il primo scritto, in cui si fissa addirittura la data di nascita dell’onorata società nel giugno del 1799, è il Romanzo di un bandito di Giuseppe Petrai, illustre sconosciuto tra gli autori siciliani. Bisogna però arrivare all’agosto 1838 per trovare i primi documenti ufficiali sul fenomeno. Il vocabolo non è usato, ma si capisce chiaramente a cosa si riferisca il procuratore del re Calà Ulloa quando afferma che «la mancanza di forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero di reati ed il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei»20. Nel 1863 il termine Mafia, con il significato di lega di uomini coraggiosi e vendicativi, diventa famoso grazie all’opera di Giuseppe Rizzotto I mafiusi di la Vicaria. La pièce ebbe così tanto successo da far inserire il lemma nel Nuovo Vocabolario siciliano-italiano cinque anni dopo21 come neologismo e nome collettivo di chi mostra braveria, baldanza, tracotanza. L’influenza spagnola Per introdurre questa affascinante intuizione storica, qui soltanto brevemente accennata, è doveroso riportare ciò che scrisse Tocqueville, in un’immaginaria ma eloquente esternazione del siciliano Don Ambrosiano al cospetto del napoletano Don Carlo: «La nostra nobiltà non è più siciliana. L’avete attirata tutta quanta a In arabo esistono parecchi termini che aiutano a capire cosa possa essere stata la mafia in origine: Ma’àfir è il nome della tribù saracena che dominò Palermo, mahyiàs è il prepotente, lo spavaldo; maehfil è il luogo di incontro; mohafat significa protezione, immunità, esenzione. Marfud è invece chi rifiuta, mentre mohafi è l’amico riconoscente. Altre parole simili, non solo per pura coincidenza fonetica, sono il toscano malfusso, che descrive l’infedele, il miscredente ma anche il delinquente, ed il piemontese mafiun, attribuibile ad un uomo basso, incivile, “che non parla, non risponde, non cura altrui”. In francese esiste invece mafler, mangiare, ingozzarsi. Per una dissertazione più vasta, si suggerisce il capitolo Filologia in Il mare colore del vino di L. Sciascia, Opere (1956-1971), Milano, Bompiani, 2001, pp. 1324-1330. 20 P. Calà Ulloa, Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia, Trapani, 3 agosto 1838, in E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e Ottocento, Napoli, Esi, 1965. Qui alcuni passi del brano: «Non vi è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente o che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore e senza scopo politico, senza altro legame che quella della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete […] Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo». 21 Il vocabolario fu redatto da A. Traina nel 1868. 19 PAGE 3 Napoli…avete imbastardito il suo cuore sostituendo l’ambizione di corte al desiderio di gloria e il potere del favore a quello del merito e del coraggio. […] Snaturata dall’oppressione, (l’energia) profonda (del nostro carattere nazionale) si rivela solo attraverso i crimini. Negandoci la giustizia, anzi facendo di meglio, vendendocela, ci avete insegnato a considerare l’omicidio come un diritto»22. Utilizzando alcuni frammenti di Paolo Mattia Doria e Antonio Genovesi, due scrittori settecenteschi d’origine napoletana, lo storico Padgen23 cerca di spiegare quello che sosteneva Don Ambrosiano. Furono gli Asburgo di Spagna e la loro politica di divide et impera, disgregatrice della sfera pubblica, a spingere le popolazioni delle Due Sicilie in una “fede privata”, ovvero obbligandole a trovare nei legami parentali e amicali l’unica sicurezza. Una lettura, in un certo senso opposta, la fornisce anche Tranfaglia, interpretando stavolta lo Stato spagnolo come Leviatano, «come modello di Stato assoluto, nel quale le leggi valgono contro i nemici e non sono osservate per gli amici, nel quale la pubblica amministrazione è incapace di seguire regole uniformi e generali»24. Sarebbe però troppo semplicistico e fuorviante fermarsi qui. L’autore si chiede, infatti, come sia possibile che i primi sintomi mafiosi siano rintracciabili soltanto nella parte occidentale della Sicilia e non negli altri territori di dominazione spagnola. Il mercato della protezione Anche se poco ortodosso, è bene soffermarsi sulla morfologia dell’isola per spiegare il perché delle diverse densità mafiose25 e perché risultò sempre disagevole o non vantaggioso, per un potere centrale, controllare tutto il territorio. L’autore lega l’assenza, o la debole influenza, di mafia nelle province orientali alla costante presenza dei grandi proprietari, ma rimane il dubbio di chi essi fossero. 22 A. Tocqueville, Voyage en Sicilie, in Oeuvres complètes, Parigi, vol. I, trad. it. in L. Sciascia (a cura di), Delle cose di Sicilia, Palermo, Sellerio, vol. III, 1984, pp. 157-158. 23 A. Padgen, “Fede pubblica” and “fede privata”: trust and honour in eighteenth century Naples, in D. Gambetta, Le strategie della fiducia, Torino, Einaudi, 1989, pp. 165-182. 24 N. Tranfaglia, La Mafia come metodo, Bari, Laterza, 1991, p. 23. 25 Da più indagini risulta, infatti, una presenza predominante nelle province occidentali a fronte della assenza di famiglie in quelle orientali. PAGE 3 Per cui, anche se omesso dall’autore, è indispensabile un breve chiarimento di cosa fosse stato il tardo settecento in Sicilia. Il tardo settecento borbonico L’aspetto dell’isola era inospitale, «il paesaggio -scrive Pantaleone per descrivere le zone occidentali- muta d’improvviso”26, le vie di comunicazione erano praticamente inesistenti, se si eccettuavano le tre vie militari fatte costruire dai Borboni e per la maggior parte dell’anno impraticabili»27. Le condizioni igieniche erano altrettanto arretrate come quelle politiche; era il sovrano a decidere la distribuzione dei feudi, con tanta soddisfazione sua e del baronaggio locale libero di amministrare come meglio credeva. L’estensione dei grandi appezzamenti richiedeva una suddivisione in unità più piccole che spesso furono date in “gabella”, cioè in cambio di un comodo reddito annuo fisso che veniva pagato in derrate. La classe imprenditrice dei gabelloti, fornita più di coraggio che di capitale, frazionò ulteriormente le terre dandole in mezzadria ai borgesi, che assicuravano una regolare coltivazione. Gi unici a fare fortuna, alla fine della fiera, furono i gabelloti posti a vigilare il fondo: «le contrattazioni venivano fatte per consuetudine verbalmente, il che dava al gabellotto la possibilità di disdire, anche durante l’anno agricolo, i patti stabiliti, per imporre nuovi patti, ogni volta che l’andamento della stagione non gli prospettava quelle condizioni di vantaggio che si era assicurate»28. Qui s’intravede la violenza e si rintraccia la «convenienza» che Gambetta attribuisce al M. Pantaleone, Mafia e Politica, Torino, Einaudi, 1972, p. 7. Il brano continua così: «Il verde della costa si riduce a poche macchie di fichi d’india e di carrubi e la terra, destinata quasi esclusivamente alle culture estensive, appare di un colore uniforme che d’estate è il giallo arido e opprimente delle restoppie, e d’inverno il colore scuro della terra stessa, nuda, bruna, o giallastra d’argilla, quasi sempre spaccata dalla siccità o rosa dalle erosioni delle acque piovane». 27 S. Cantarella, Sullo stato delle comunicazioni in Sicilia, Modica, 1861, p. 4. Per le prime vere strade bisognerà aspettare fino al 1861, quando iniziò la costruzione delle tre vie che collegavano i centri di produzione interni ai magazzini portuali; vedi F. Brancato, Storia della Sicilia post-unificazione, vol. I, Bologna, Dott. Cesare Zuffi Editore, 1956, pp. 12-14. Per parlare di ferrovia bisognerà attendere invece fino al 1895; vedi S. F. Romano, Storia della Sicilia post-unificazione, vol. II, Palermo, Industria Grafica Nazionale, 1958, pp. 9-12. 28 Circa l’arbitrio dei gabelloti nelle contrattazioni, cfr. Memoriale di Gaetano Mondino, da Villafrate, s. d., nel dic. 1873, inviato in forma confidenziale al prefetto di Palermo, in ASP, Pref. Gab., b. 30, cat. 20. 26 PAGE 3 comportamento mafioso; ma rimane in dubbio se i gabelloti fossero veramente una proto-mafia. La nascita della proprietà privata Soltanto dopo i moti popolari del 1812, i privilegi feudali furono aboliti e risuonarono le trombe delle libertà borghesi. Ma se il Gattopardo all’epoca fosse stato già maturo, avrebbe esclamato: «cambiare tutto, per non cambiare niente». I feudi vennero rinominati latifondi; dal vincolo fiduciario tra signore e barone, si passò a quello tra gabellotti e campieri e soprastanti. La nobiltà dell’isola rimase ricca, e mentre essa si defilava dalla campagna turbolenta per godere delle rendite in città, la cruenta corsa verso l’accaparramento della proprietà altrui era iniziata. Al fine di difendere il vasto fondo ci fu, per dirla alla Franchetti, una democratizzazione della violenza: «la plebe dei ladri fu sopraffatta, ma in mezzo allo scadere della aristocrazia della nascita sorse fuori l’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata»29. Questo nuovo vincolo, questa nuova forma di subordinazione non fu contrastata da un processo di centralizzazione tipico della formazione dello stato liberale, anzi. Laddove le istituzioni non arrivarono ad imporre il loro esclusivo controllo del territorio e monopolio della forza30, laddove non conquistarono fiducia, dove i padroni -principalmente nelle province occidentali- non erano presenti perché risucchiati dalla bella vita palermitana31, il mafioso si ritrovò in condizioni di autodeterminazione, tanto da imporre prezzi sempre più alti per il suo servizio, a volte rosicchiando gli averi del barone o comprandoli direttamente. La piccola proprietà cominciò ad esistere sulle coste, specialmente nella piana di Catania, nella provincia di Messina e in quella di Siracusa, ma non per l’effetto della legislazione antifeudale. I contadini, con grandi stenti e sacrifici, riuscirono a 29 A. Ciotti, I casi di Palermo, Palermo, Prilla, 1876, p. 7. «Dietro l’imprevedibilità e l’iniquità della legge non c’erano solo le intenzioni dei governanti, ma anche certe condizioni obiettive come l’isolamento della Sicilia e la scarsità delle strade interne, per cui era ben difficile applicare una legge che non fosse locale» da P. Pezzino, Alle origini del potere mafioso: stato e società in Sicilia nella seconda metà dell’Ottocento, in «Passato e Presente», a. VIII, 1985, p. 42. 31 F. Brancato, Storia della Sicilia post-unificazione, vol. I, cit., pp. 41-68. 30 PAGE 3 comprarne degli scampoli, poichè le coste offrivano migliori possibilità di guadagno, perché piu alto era il prezzo delle derrate e maggiore la facilità di smerciarle32. Seguendo le Lettere Meridionali di Pasquale Villari e quelle di Bonfadini, la mafia nacque invece sulla costa tirrenica per “generazione spontanea”, dai generosi proventi degli agrumeti della Conca d’Oro, ormai non più grande proprietà terriera33. La “fiducia mafiosa” Chi era dunque il mafioso: il barone, il gabelloto e i suoi campieri, il semplice contadino di agrumi? Dalle deduzioni di Blok o di Hess, s’intende che la professione34 del capomafia locale, in questo caso l’archetipico “don Peppe” immaginato dall’autore, non fosse rilevante. Era sufficiente assicurare una protezione credibile, era sufficiente “la parola d’onore”. Paul Violi, intercettato dalla polizia canadese, si descrive così: «la vita nostra è sempre fatta di ragionamenti, di arrangiare le cose per uno o per l’altro…perché una persona, quando ha a che dire con altra gente e non sa dove mettere le mani, sa che ci siete voi…che se viene da voi sa che voi questa situazione la potete…in un modo o nell’altro…risolvere»35. Ibidem, pp. 19-20. Villari scrive che: «Nella Conca d’Oro l’agricoltura prospera; la grande proprietà non esiste; il contadino è agiato, mafioso, e commette un gran numero di reati» (cit. in S. Lupo, Agricoltura ricca e sottosviluppo. Storia e mito della Sicilia agrumaria, Catania, Idoneo Editore, 1984, p. 61). Bonfadini invece è più analitico: «Dove i salari sono minori (Siracusa e la Piana di Catania, ndr) non v’è sintomo di mafia. Invece Partinico, Monreale e Bagheria, dove la proprietà è divisa, dove il lavoro è assicurato, dove l’agrumeto arricchisce, sono le sedi ordinarie dell’influenza mafiosa» (cit. in M. Aymard e G. Giarrizzo, La Sicilia, Torino, Einaudi, 1897, p. 939). 34 «La considerazione di cui un mafioso gode all’interno di Cosa Nostra –dice Antonino Calderone- non è legata alla sua professione o al suo titolo di studio» da P. Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Milano, Mondatori, 1996, p.29. Tra tanti rilevanti gli esempi dei notabili Giuseppe Navarra, medico e capo della cosca di Corleone, o di Filippo Calderone, notaio di Marineo. La parola “professione” non viene usata a caso, ma in riferimento a ciò che sostiene Santoro, ovvero che la mafia sia una casta di professionisti e non di imprenditori, poiché essa vanta forme di netta chiusura sociale e d’autorità, un codice deontologico e la custodia di un sapere ‘esoterico’. «Il professionista, infatti, offre servizi personali, gestisce relazioni umane, si pone standard di comportamento, punta alla costituzione di nicchie di mercato, esercita autorità morale» da M. Santoro, La mafia e la protezione, in «Polis», a. IX, n. 2, agosto 1995, p. 289. 35 La protezione è quindi un prodotto ad alta intensità di lavoro. C. Stajano (a cura di), Mafia. L’atto d’accusa dei giudici di Palermo, pp. 59-60. 32 33 PAGE 3 Difendere era un’azione degna di rispetto, significava dare e ricevere fiducia (fosse al barone o ai contadini nullatenenti), prestare il proprio nome; in cambio riconoscenza36. E disponibilità nel caso in cui ce ne fosse stata necessità, ovvero in cambio di potere. Dahl definisce questo concetto come la capacità di A di far fare qualcosa a B, che B non avrebbe fatto senza l’intervento di A. All’interno della sfera del potere, si trovano quindi l’autorità (che, secondo Weber, può essere carismatica, tradizionale o legale-razionale e che, in sostanza, è potere legittimato) e il potere come influenza (“conosco i miei polli”), i quali, nel caso della mafia siciliana, possono essere ascritti a Don Peppe all’interno dell’impresa. Il potere di cui si serve in genere il mafioso nei confronti del suo ambiente, invece, è quello basato sullo scambio asimmetrico di risorse37: egli ha potere su un individuo quando l’individuo è in possesso di una risorsa che interessa al mafioso, il quale -a sua volta- controlla una risorsa di cui l’individuo ha assolutamente bisogno, che non si può procurare altrove, che non si può strappare con la forza al mafioso; in tal modo il potere sarà personale e teoricamente illimitato38 La sfiducia generalizzata divenne un affare remunerativo; la fiducia si tramutò in un bene individuale e posizionale, ossia un bene non pubblico39 -endemicamente scarso- che poteva essere “consumato” soltanto con l’eliminazione, spesso anche fisica, di altri potenziali fornitori40. La riconoscenza va dal saluto riverente -“baciamo le mani”- alla regalìa (secondo le possibilità d’ognuno: una cassa d’arance o un compenso in denaro). 37 Il concetto di Dahl è stato tratto da Zan, Il fenomeno organizzativo, cit., p. 152-155. 38 L’esempio più lampante di risorsa da cui un individuo non può prescindere è la sua stessa vita; la mafia possiede infatti il potere di annullare l’esistenza altrui. E’ interessante notare che il potere ha la capacità di controllare l’impiego e la crescita della risorsa sociale fondamentale, ovvero l’attività degli individui; ed inoltre che ciascuna forma di potere quella politica così come quella economica o normativa- cercherà di rendere quanto più salienti e l’importanza degli scopi in vista dei quali essa può essere impiegata e le risorse che le sono proprie. 39 «L’amministrazione governativa è come accampata in mezzo ad una società che ha tutti i suoi ordinamenti fondati sulla presunzione che non esiste autorità pubblica» da L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, cit., p. 37. 40 U. Pagano, The economics of positional goods, Cambridge, mimeo, 1986. 36 PAGE 3 Il processo di razionalizzazione, di «autonomizzazione» così come lo chiama Gambetta, fu la condicio sine qua non per l’emergere dell’industria. Don Peppe ebbe la possibilità di speculare, intellettualmente e materialmente, sul consenso concessogli o estorto- nel suo territorio: la protezione era una merce astratta, vendibile in più campi, possibilmente ad un numero cospicuo di clienti che assicurasse profitti e indipendenza41. E la formula della protezione poteva essere adottata pure nei mercati urbani e nei conflitti locali42: anche e soprattutto gli scambi commerciali e politici necessitavano di garanzie. Don Peppe si ergeva, quindi, da «protettore nelle transazioni che necessitavano di fiducia e ad arbitro dei conflitti che sarebbero potuti sorgere»43. Ma l’offrire protezione non era roba da poco. Bisognava mantenere alta la reputazione44 assicurando “il tranquillo svolgersi delle transazioni”, per esempio difendendole da intoppi, imbrogli, da nuovi potenziali protettori; o magari inserendo in esse «dosi limitate di sfiducia»45, in maniera tale da persuadere, chi non ne era ancora persuaso, che avere fiducia in lui rendeva di più. D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 111. Indipendenza, qui, va intesa non solo come indipendenza economica, ma anche e soprattutto come indipendenza dai clienti, in maniera tale da aiutarli e scaricarli secondo convenienza, cioè secondo calcoli razionali. 42 G. Barone, Comunicazione orale al seminario dell’Imes su “Mafia, ‘Ndrangheta e Camorra dall’ottocento a oggi”, Copanello (Catanzaro), 13-15 aprile 1989. Considerando che i primi traffici di stupefacenti avvenuti in Sicilia risalgono almeno agli inizi degli anni sessanta, la mafia si è globalizzata molto prima dell’avvento della stessa globalizzazione. 43 D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 23. 44 Ibidem, p. 49. «Una reputazione di protezione efficace tende a coincidere con la protezione stessa». Difficilmente, infatti, qualcuno cercherà di scoprire se si tratta di un bluff, considerando che la protezione si basa sulla violenza. 45 Ibid., p. 18. Gambetta definisce così quelle transazioni che, pur essendo garantite dal mafioso, non vanno a buon fine, aumentando così la domanda della sua merce. 41 PAGE 3 CAPITOLO III L’associazione mafiosa (art. 416 bis c.p. 46) La nascita dell’impresa Don Peppe fu un tipo pro-attivo nei confronti del suo ambiente: aveva un prodotto da vendere, una serie di mercati su cui proporlo (forse è più calzante imporlo). Mancava una struttura, un gruppo, tanto meglio se un gruppo di gruppi, con cui operare. Servivano uomini alle sue dipendenze, che fossero «la stessa cosa»47, per controllare le transazioni e il territorio: pronti ad eseguire i suoi comandi d’intimidazione o d’esecuzione; capaci di vedere, sentire, scambiarsi informazioni e agire, senza essere notati. Dove trovare uomini così fidati e fedeli, desiderosi di potere, che potessero gestire il marchio di protezione a nome suo48, se non in famiglia e tra gli amici più stretti? Attorno all’autorità carismatica nacque così il clan49, un insieme di attori individuali -organizzati gerarchicamente- che, avendo imposto il proprio monopolio della violenza su uno specifico territorio, godevano del consenso silenzioso di una parte della popolazione. Questa impresa indipendente sarà più L. 646/1982. La legge La Torre-Rognoni, modificativa dell’art. 416 del c. p., così recita: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri». 47 Il giudice Salamone: «Ciascuno degli associati può usare la forza di intimidazione come un bene immateriale proprio dell’associazione, costituendo essa un patrimonio comune a tutti gli associati e quindi appartenente pro indiviso a ciascuno di essi» dall’Ordinanza Sentenza per la Corte di Assise di Agrigento contro Ferro Antonio e altri 55, Agrigento, maggio 1986, 4 voll., p. 280. Pares cum paribus facillime congregantur (Cicerone). 48 Contorno spiega che non è il nome della famiglia a fare la differenza, quanto quello del capo. Dalla testimonianza di Salvatore Contorno resa ai giudici istruttori di Palermo, pubblicata dal «Giornale di Sicilia» il 25 aprile 1986. 49 Per Ouchi è la forma di governo delle transazioni che, fondandosi sulla fiducia interpersonale, elimina le possibilità di opportunismo e riduce l’incertezza in quanto gli attori hanno una elevata congruenza sui fini e c’è una bassa misurabilità delle prestazioni (“equità seriale”). 46 PAGE 3 tardi riconosciuta come “famiglia”50, ovvero l’unità più piccola di socializzazione ed attività, analogia fondante della mafia. Un bravo picciotto Non si veniva assunti: si veniva affiliati, si diventava parte attraverso un rito d’iniziazione51 in cui si giurava lealtà, si diventava appunto la stessa cosa52. Durante il rito pseudo-iniziatico si confermava “la modificazione radicale del regime esistenziale” del nuovo membro mentre si rafforzava la pretesa di diversità e di superiorità del gruppo nei confronti del suo esterno53. Esso era come un filtro preliminare, in quanto metteva alla prova il nuovo arrivato e poi gli forniva dei «mezzi di riconoscimento»54. Tra questi era stati accettato soltanto chi, oltre che portare risorse specifiche (dalla freddezza omicida alle conoscenze chimiche) e capitale (economico o sociale non importa) all’interno della cosca (le cui attività sarebbero dipese dalle contingenze Lupo e Sangiuolo sono del parere che “cosca”, che in dialetto palermitano equivale alla parte più interna del carciofo, significhi famiglia e che quest’ultimo termine, invece, provenga dall’America. 51 Seppur con differenze presenti all’interno delle diverse famiglie e aree mafiose: la nuova recluta -per sigillare un contratto che non può essere ratificato nel modo convenzionale- è portata in presenza di altri membri, il membro officiante lo punge con un ago su un dito, alcune gocce del suo sangue sono fatte cadere su una santina (un cartoncino con l’immagine di un santo, che pare venga usata anche per la raccolta del pizzo), il foglietto viene incendiato e, mentre esso si passa velocemente di mano in mano, il novizio presta un giuramento di fedeltà alla famiglia. Il più evocativo, tra tanti, è: “Come si brucia questa santa e questi pochi gocci del mio sangue, così verserò tutto il mio sangue per la fratellanza, e come non può tornare questa cenere nel proprio stato e questo sangue nel proprio stato, così non posso lasciare la fratellanza”. Per ulteriori modalità si consiglia l’Appendice II de La mafia siciliana, cit. 52 Hess sostiene che «la cosca non è un gruppo; l’interazione e il sentimento del noi, come pure la consapevolezza di una meta comune, mancano o sono minime. Anzitutto essa si configura come una serie di relazioni a coppie che il mafioso intrattiene con persone tra loro indipendenti»; vedi H. Hess, Mafia, Bari, Laterza, 1993, p. 109. Ciò però non sembra dimostrabile alla luce del fatto che i mafiosi, condividendo un codice primordiale (la provenienza siciliana, il dialetto, i gesti indagatori o rivelatori) ed uno civico -seppur perverso- hanno un minimo di identità collettiva. 53 M. Elide, Birth and Rebirth. Rites and Symbols of initiation, New York, Harper & Row, 1958, p. 9-10. 54 F. Armao, Il sistema mafia, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 76-80. 50 PAGE 3 di mercato e dalle capacità manageriali del capo)55, avesse aderito ai valori ed alle norme del gruppo; avesse cioè mantenuto un comportamento ‘mafiosamente’ integerrimo. Convincere, con le buone o con le cattive, che la protezione, la fiducia e l’amicizia offerte, erano irrifiutabili. Occorreva essere percepiti come persone disponibili fino alla magnanimità56, ma anche facilmente permalose. «Il mafioso -così lo descrive Sciascia- vuole essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi ragione personalmente da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui»57. Il codice d’onore Era vietato avere contatti con le forze dell’ordine, se non per denunciare il furto della propria auto o per assicurare malviventi alla giustizia58, ed era vietato insidiare le donne di altri uomini d’onore; più tardi sarebbe stato vietato essere comunisti o omosessuali. La buona reputazione, la rispettabilità, si sarebbero mantenute conducendo una vita familiare e sociale ineccepibile59, non simulando la pazzia o non tentando l’evasione in caso di fermo. «Il capomafia regola la divisione del lavoro e delle funzioni, la disciplina fra gli operai di quest’industria, disciplina indispensabile in questa come in ogni altra per ottenere abbondanza e costanza di guadagni» o anche, sempre sul capomafia: «è di carattere violento, è individuo scaltro con spiccata capacità organizzativa, per cui gode di un ascendente indiscusso fra i pregiudicati e i mafiosi del luogo […] la sua funzione si esplica e si limita alla sola organizzazione della delinquenza» da G. Li Causi (a cura di), I boss della mafia, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 273. 56 Noti a tutti i siciliani, e non solo, sono le manifestazioni pubbliche sponsorizzate dalla mafia: un esempio che viene dall’altra sponda dell’Atlantico erano i fuochi d’artificio organizzati ogni anno da John Gotti; vedi «La Repubblica», 13 febbraio 1990. 57 L. Sciascia, Filologia, cit., p. 1325. 58 «Perché se l’auto fosse stata usata per commettere un crimine, il mafioso avrebbe rischiato di essere confuso con i banditi» dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, pubblicate il 4 aprile 1986 dal «Giornale di Sicilia». A volte il mafioso assurge a tutore della legge, come nel 1988 quando a Trapani venne assassinato il giudice Giacomelli e la mafia condusse una fruttuosa inchiesta parallela per non essere considerata responsabile dell’omicidio. 59 Un mafioso ovviamente non poteva essere né cornuto, perché avrebbe significato che non era in grado di “proteggere” nemmeno la moglie, né avere un’amante, la quale avrebbe potuto conoscere delle informazioni riservate o ricattarlo. Buscetta, per essersi divorziato e aver mantenuto delle relazioni extraconiugali, venne “posato”, ovvero espulso dall’organizzazione. Totò Inzerillo venne invece ucciso mentre usciva dall’appartamento della sua amante. Il pentito Antonino Calderone, però, aggiunge: «quando trattasi di personaggi importanti e di prestigio, anche questi ostacoli vengono superati» (dalla testimonianza resa alla Commissione Rogatoria Internazionale, vol. II, p. 472-510). Si sa che se è il capo a non rispettare le norme, è diverso… 55 PAGE 3 Nell’impresa di protezione vigeva una solidarietà quasi fraterna, celata dietro un muro d’omertà60. Hess individua quattro norme fondamentali dell’agire mafioso, che vale la pena di elencare, perché possono essere re-interpretate alla luce della protezione: vendicare con il sangue i compagni, per Gambetta, non sarebbe soltanto un motivo d’onore, ma anche e soprattutto la dimostrazione che i colleghi sono protetti contro ogni eventualità. Aiutarli quando sono nei guai con la giustizia e spartirsi i profitti sarebbero delle clausole di assicurazione, mentre tenere la bocca chiusa il termine di partecipazione all’associazione. La regola della riservatezza, del silenzio sull’affiliazione, sugli affari, sull’esistenza stessa della mafia era senza dubbio la più importante perché essa serviva per proteggere la stessa famiglia dalle indagini giudiziarie e da possibili concorrenti, nonché per creare attorno ad essa un’aurea “sacrale”61. La carriera all’interno della mafia siciliana presentava -a dire dell’autore- aspetti meno cruenti rispetto alle guerre di camorra. Gambetta spiega questa differenza con il maggiore rispetto che si nutre in Sicilia nei confronti dei più anziani e che avrebbe dato vita a momenti di promozione professionale più ordinati. I giovani, quindi, concorrevano per conquistare la fiducia di un capo lavorando sodo, e i più anziani approfittavano della competizione per mantenersi più a lungo al vertice62. La successione di Don Peppe era una medaglia a due facce: da un lato costituiva un’opportunità di ridefinizione della missione e dell’organizzazione stessa, dall’altro era il momento in cui la famiglia era più esposta ad arrivismi interni o concorrenza esterna. La sostituzione del leader non seguiva sempre la discendenza genetica, perché avere un cognome illustre non era importante quanto avere una buona reputazione personale. Spesso era il capomafia, per ragioni d’età, a mettersi Spiegare l’omertà dei cittadini siciliani onesti non è poi tanto difficile: essa non è culturalmente data, ma è una strategia razionale -di sopravvivenza- dell’attore individuale (immerso in un limbo di sfiducia). Chi sarebbe così ingenuo da svelare l’identità di un omicida quando quest’ultimo è ancora a piede libero ed ha, controllando il territorio, la possibilità di scoprire il testimone -e fargliela pagare-? La saggezza popolare siciliana la spiega così: “Chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni!”. 61 Chi rivela un segreto importante, in Sicilia, è considerato un traditore, un infame. 62 E’ un sistema per impedire che i giovani più impazienti riescano a farsi strada da soli. Il pentito Calzetta, infatti, dice: «se uno si costruisce da solo, campa poco». Ciò varrà anche per un livello più allargato dell’azione mafiosa. Vedi D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., pp. 146-150. 60 PAGE 3 da parte nominando un suo sostituto; altre volte lo indicava in punto di morte63; altre volte ancora si racconta di nuovi capi eletti per acclamazione64. L’avvicendamento, oltre a dover essere comunicato all’esterno65, avrebbe dovuto soddisfare tutti. “Parente del mio parente che a me non viene niente” ? Se la famiglia avesse assunto grandi dimensioni, ciò avrebbe spinto alla suddivisione degli uomini d’onore (“operai”) in gruppi più piccoli attorno a “capidecina”, che erano una sorta di dirigenti in una struttura divisionale66, gli unici –in questo caso- ad avere l’appannaggio di comunicare con Don Peppe (“il rappresentante”) e con i suoi “consiglieri”67. La grandezza era simbolo di potere militare, sociale, economico; militare perché disponeva di una rilevante potenza di fuoco, sociale perché il consenso della Nel 1943, il capomafia di Corleone disse: «quando si chiuderanno i miei occhi, vedrò con quelli di Michele Navarra» da H. Hess, Mafia, cit., p. 87. 64 Una modalità di sostituzione, che sembra essersi affermata soprattutto negli anni della repressione giudiziaria, è quella della reggenza. Seguendo questa, il nuovo leader sarebbe nominato dai vecchi delle imprese territorialmente contigue o dagli organismi superiori di coordinamento. 65 Durante il funerale del boss Colletti, si rispettò un “ordine di parata”, alla cui testa c’era Sortino, cognato di Colletti emigrato negli States, che era diventato presumibilmente il nuovo capo. Da G. Arnone (a cura di), Mafia. Il processo di Agrigento, Monreale, edizioni La Zisa, 1988, pp. 123-124. 66 Il criterio di differenziazione della struttura divisionale è il risultato. All’apice della struttura c’è il direttore generale, possibilmente affiancato da uno staff, che lascia piena autonomia ai capi divisione, i quali -però- devono contrattare gli obiettivi con il vertice. La struttura divisionale è quindi orientata al mercato (piuttosto che al prodotto come sarebbe stato per una funzionale) con una particolare attenzione al territorio. Ciò permette la tecnica del bench-marking, in altre parole la possibilità di emulare le soluzioni più efficienti di altre divisioni. Le uniche debolezze della divisionalità stanno nei costi maggiori iniziali e nella possibile eccessiva autonomia. 67 «Non è possibile un rapporto diretto tra l’uomo d’onore e il rappresentante non mediato dall’intervento del capodecina. In alcune parti, tuttavia, come a Palermo, vi sono nelle famiglie uomini d’onore che dipendono direttamente dal rappresentante e che costituiscono sue persone di assoluta fiducia, che generalmente vengono incaricate di eseguire gli incarichi più segreti e delicati». Dalla rivelazioni rese alla Commissione Rogatoria Internazionale da Antonino Calderone, vol. III, p, 738. 63 PAGE 3 famiglia travalicava i confini di essa allargandosi su quella zona grigia di amicizie in “odore di mafia”68, economico per il volume degli affari protetti69. Ma la grande dimensione necessitava una disciplina ed un controllo più ferrei del solito; non c’è bisogno di utilizzare il will to power di Nietsche, per immaginare l’invidia, le antipatie, i conflitti di potere all’interno di tale arena politica, territoriale e nello stesso tempo di membership, i cui confini erano effettivamente impermeabili e le cui uniche opportunità di exit erano la morte o la vergognosa espulsione. Il silenzio, in questo caso, avrebbe nascosto sia gli arcana dominationis che gli arcana seditionis70. Ogni controversia sarebbe stata gestita dal capomafia, ma non ognuna di esse sarebbe stata risolta. Se, per esempio, un capodecina ambizioso, un uomo dotato di “audacia, freddezza, astuzia, svelto di mano e di cervello”, fosse riuscito a disporre di risorse militari (magari sotto l’ala di una famiglia più potente), economiche (perché protettore di un facoltoso cliente) e di una buona reputazione, egli poteva ambire alla creazione di una nuova famiglia o addirittura all’eliminazione della fazione familiare a lui contraria71. L’insieme di imprese L’impresa aveva il dominio di protezione su una frazione ben specifica del territorio, il che implicava la coesistenza di più famiglie in aree contigue, «un Si consiglia la lettura di U. Santino, La borghesia mafiosa, Palermo, CSPI, 1989. La famiglia più grossa di sempre pare sia stata quella di Bontade, che contava da 120 a 200 uomini d’onore. Calderone, nelle sue già citata testimonianza, sottolinea che «ognuno di essi poteva contare su almeno 40-50 persone, che ne seguivano pedissequamente le direttive». Non è un caso, a questo punto, che i fratelli Salvo fossero stati cooptati nella mafia proprio dalla famiglia Bontade. 70 Lo spunto è tratto da F. Armao, Il sistema mafia, cit., p. 85. 71 «Egli inoltre deve avere legami e rapporti con gli uomini più rappresentativi di ogni strato della società […] L’isolamento del mafioso è uno dei più gravi handicap, per cui anche il killer più spietato, che pure è temuto e ‘rispettato’ da tutti, se è isolato, è destinato a non diventare mai capo e a non avere mai autorità nella sua famiglia» da A. Sangiuolo, L’onorata società, Napoli, Fratelli Conte, 1983, p. 33. 68 69 PAGE 3 mosaico di piccole repubblichette dai confini topografici segnati dalla tradizione»72 . Avrebbero cooperato o si sarebbero fatte la guerra? Secondo l’autore sarebbero rimaste imprese indipendenti73, anche se non si può negare l’esistenza di esempi di relazioni tra esse. Nella storia della mafia è riscontrabile la presenza di più famiglie nello stesso paese, ma solo quando esse si interessano di campi diversi74. Esistono, poi, “alleanze naturali” tra le famiglie urbane e contadine, tra le famiglie siciliane e americane, ma non è chiaro se si sia trattato di integrazioni verticali, di vincoli parentali o di una certa reciprocità di favori75. La città offre, infatti, numerose possibilità di commercio della protezione, e soprattutto in tempi di pace prende il sopravvento; la campagna, invece, rimane strategica, perché arroccata sulla tradizione e perché ottima per le riunioni o la latitanza76. Rimane da capire se i legami tra le famiglie fossero forti o, come sostiene l’autore, tendenzialmente deboli. Dal mandamento alla commissione regionale Dalle dichiarazioni dei pentiti emerge, infatti, l’esistenza di un coordinamento a livello sovra-territoriale, una sorta di protezione delle imprese di protezione. «I mafiosi palermitani -racconta Calderone- nascono, vivono e muoiono nello stesso posto. Il quartiere è la loro vita, la loro famiglia vive lì da generazioni e sono tutti parenti […] Bontade ha buttato giù la casa di suo padre e vi ha costruito sopra una reggia. Non si sono mossi di un metro dal loro regno, dove sono i padroni assoluti da decenni e decenni» da P. Arlacchi, Gli uomini del disonore, cit., p. 148. 73 Questo regime oligarchico è stato ridefinito “una spartizione giurisdizionale stabile” da T. Schelling, Choice and Consequence, Cambridge (USA), Harvard University Press, 1984, p. 182. 74 A questo proposito vedi A. Sangiuolo, L’onorata società, cit., p. 33. 75 Come lo scambio di killers, l’appalto di porzioni di territorio o di mercati particolari. 76 Il giudice Falcone giunse alla convinzione che «in un certo senso conti più la Sicilia interna di Palermo centro. Nella geografia delle cosche la città di Palermo conta molto, ma fino ad un certo punto. Palermo ratifica le decisioni che vengono prese nella Sicilia interna e nei sobborghi della città. E non sto pensando soltanto a Corleone, alla mafia di Corleone. Penso alla provincia di Caltanissetta, penso a quella trapanese, luoghi dove la mafia ha in tutti i sensi un controllo capillare del territorio»; tratto da «La Repubblica» del 1° marzo 1991. 72 PAGE 3 La creazione di tali oscuri organismi pare sia stata importata dagli Stati Uniti (dallo sbarco dei “cugini” americani77) dove la mafia si era già evoluta in enterprise syndicate, accrescendo il suo ruolo di power syndicate. Il power syndicate sarebbe il nucleo della mafia (quella dedicata al monopolio della violenza e alla protezione), mentre l’enterprise syndicate sarebbe il network di affari illeciti a cui si dedicano alcuni membri a titolo personale (macellazione clandestina, contrabbando, gioco d’azzardo, traffico di stupefacenti, appalti), sempre che abbiano ricevuto l’assenso dal centro del potere78. Le prime famiglie che adottarono tale soluzione furono quelle palermitane, perché più numerose e quindi più irrequiete e perché i limiti territoriali non erano sempre ben definiti, generando incomprensioni su chi avesse dovuto proteggere una data zona o un dato tipo di clienti. I vari Don Peppe si raggrupparono in un “mandamento”, che a sua volta era rappresentato da un capomandamento all’interno della “provincia”, luogo d’incontro di più mandamenti79. Egli era espressione degli interessi di più cosche, era il capo più autorevole80, più ‘onorevole’ usando una terminologia parlamentare. Stando a ciò che racconta Buscetta, soltanto «successivamente la funzione della commissione provinciale si è estesa fino a disciplinare le attività della famiglie «La commissione non faceva parte della mia Tradizione; non esisteva un organismo di questo tipo in Sicilia» da J. Bonanno, Uomo d’onore, Milano, Interno Giallo, 1992, p. 172. 78 A. Block, East Side-West Side: organizing crime in New York (1930-1950), New York, Transaction Press, 1982, p. 129. 79 Buscetta sostiene che il numero dei capimandamento presenti nella “provincia” era variabile, ma normalmente «è di dieci unità o poco più». Dal «Giornale di Sicilia» del 12 aprile 1986. 80 D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 158. 77 PAGE 3 esistenti in una provincia»81; inizialmente, si tratta della fine degli anni cinquanta 82 , venne usata per «dirimere i contrasti tra i membri delle varie famiglie e i rispettivi capi», in altre parole per blindare i capifamiglia da individui mafiosi eccezionalmente razionali. . Pare esistette anche una commissione regionale 83, che riuniva tutte le province su un piano paritario -sebbene Palermo fosse dominante- e che rese possibile fare «accordi su affari di interesse comune»84. Le famiglie, in questo punto, probabilmente cedettero a questa entità federale una quota ampia della loro indipendenza, del loro potere decisionale, della loro violenza; in cambio, però, acquistarono in termini di potere intimidatorio nei confronti di tutti e, quindi, di guadagno in senso lato. Dalla testimonianza di Buscetta di fronte al giudice Falcone, luglio-agosto 1984, vol. I, p. 21. 82 Famoso è il summit di livello internazionale avvenuto nel 1957 all’Hotel delle Palme a Palermo. Presenti illustri “gangster e manager” d’oltreoceano: Lucky Luciano, Joseph Bonanno, Frank Carrol, esponenti di primo piano della famiglia Genovese. Tra i siciliani, il vecchio Genco Russo, i fratelli Greco, i Badalamenti e i giovani fratelli La Barbera e il corleonese Luciano Liggio, che qualche mese più tardi avrebbe ucciso Navarra, ultimo vero boss di tradizione campagnola; vedi G. C. Marino, Storia della Mafia, Roma, Newton & Compton, 1998, pp. 212-214. L’espressione “cosa nostra” potrebbe essere stata coniata proprio in quella situazione (il primo ad usarla fu proprio il primo pentito americano Joe Valichi, nel 1950). Buscetta, in una delle sue tante rivelazioni, disse: «il termine cosa nostra mi è capitato di sentirlo usare per indicare le organizzazioni che hanno operato in America». Calderone, un altro pentito di mafia, raccontò che chi lo iniziò gli disse: «Ma guarda che la mafia vera non è la stessa mafia di cui parlano gli altri. Questa è Cosa Nostra. Si chiama Cosa Nostra. Hai capito? E cosa nostra non è mafia. Mafia la chiamano gli sbirri, i giornali». Da P. Arlacchi, Gli uomini del disonore, cit., pp. 55-56. 83 Calderone sostiene che, antecedentemente all’istituzione della cupola, c’era già un rappresentante regionale, un primus inter pares. Il primo fra tutti sarebbe stato Don Calò Vizzini, di Villalba; poi Don Andrea Fazio, Giuseppe Calderone, Giueseppe Settecasi. L’ultimo nome di cui c’è dato sapere è quello di Michele Greco (“il papa”). 84 Seguendo l’elencazione di Catino, le funzioni di quest’ultimo organismo sarebbero: «i) coordinare e controllare l’attività complessiva di Cosa Nostra; ii) dirimere e ricomporre i conflitti tra le famiglie; iii) fissare le norme riguardanti il reclutamento e supervisionare il reclutamento degli uomini d’onore da parte delle singole famiglie; iv) decidere l’eliminazione di persone pericolose o simboliche nella vita dell’organizzazione (es. omicidi politici); v) stabilire e mantenere i legami con il sistema politico nazionale e locale; vi) organizzare e dividere i principali flussi di risorse a disposizione dell’organizzazione; vii) regolare la divisione territoriale tra le singole famiglie che in Sicilia è la forma prevalente di suddivisione degli affari». Da M. Catino, La mafia come fenomeno organizzativo, in «Quaderni di sociologia», n. 14, 1997, p. 91. 81 PAGE 3 PAGE 3 CAPITOLO IV Le attività mafiose A questo punto è chiaro che il potere di cui dispone il mafioso è basato essenzialmente sulla minaccia o sull’uso -a scopo dimostrativo o repressivo- della violenza. Al fine di rendere meno astratta la mafia, occorre soffermarsi su come essa si manifesta, su come si ripaga e a chi è stata “offerta”. La protezione Quella estorta… La storia degli ultimi anni è costellata di avvertimenti, di telefonate anonime e di attentati incendiari, che consigliano ai commercianti di pagare il pizzo 85, vale a dire versare una somma iniziale e poi delle quote più piccole a precise scadenze temporali. Non esistono fonti, però, che propongono suggerimenti in merito alla genesi di questo capillare ed infallibile “prelievo fiscale”. Forse, la vicenda di Lucky Luciano86 può essere interpretata come la nascita del racket, della formula “ci sono dei delinquenti in giro; se mi paghi, non ti succederà niente”, come la riaffermazione del monopolio della violenza. Ciò potrebbe essere supportato dal fatto che questa usanza è stata ed è largamente usata dai corleonesi, incontrastati vincitori dell’ultima faida mafiosa e maggiori interpreti del gangsterismo (alla Al Capone). Al di là della datazione, anche circoscrivere questo sistema di autofinanziamento è pressoché impossibile. Seguendo la vox populi, che in Sicilia è spesso ineffabile In siciliano “pizzo” significa “un pezzo”, ma anche dirupo. «Lucky Luciano notò che alcuni ragazzi più grandi aspettavano per la strada i bambini più piccoli, e meno robusti di loro, per picchiarli e derubarli. Allora pensò di trarre profitto da questo: per un penny o due al giorno vendeva la sua protezione alle potenziali vittime. Se questi pagavano potevano essere sicuri che il loro tragitto quotidiano a scuola e ritorno si sarebbe svolto senza danni. Lucky non era mai stato un gigante, ma era abbastanza grande, e abbastanza duro, da mantenere il suo impegno di protezione». Tratto da M. Gosh e R. Hammer, L’ultimo testamento di Lucky Luciano, Milano, Sperling Kupfer, 1975, p. 6. 85 86 PAGE 3 ma altrettanto spesso è mistificatoria, tutti pagano. Se fosse falso, sarebbe un velato stimolo a farlo; se fosse vero, vorrebbe dire che la mafia ha raggiunto un’organizzazione tale da imporre pagamenti probabilmente modesti 87 su tutto il territorio e tale da accontentare le esigenze di ognuno. La mancanza di denuncie 88 non permette di stimare né l’ampiezza né la consistenza delle riscossioni. La protezione, in questo caso estorta, metterà al riparo dai danneggiamenti, dai furti, dal rapimento89, dall’estorsione della delinquenza comune o degli stessi mafiosi. …e quella richiesta L’autore, invece, afferma che «il denaro per la protezione viene pagato spontaneamente», sia dal compratore che, possibilmente, dal venditore. «Possibilmente» perché è don Peppe a scegliere a chi, tra le parti, accordare la sua particolare fiducia, il suo marchio di reputazione 90. I costi saranno più alti, ma la transazione avverrà comunque soddisfacendo entrambe le parti. Qui, Gambetta, identifica la giustificazione razionale dell’esistenza della mafia. Ma ciò, più che avere le sembianze di un’estorsione, ricorda la formula del servizio o della tangente implicando una valutazione delle interazioni tra domanda e offerta. E’ il mafioso che offre protezione o è il mercato a richiederla? Nel caso delle transazioni illegali, la loro stessa natura necessita di un protettore, di un qualcuno che possa assicurare una zona franca di transazioni 91 -e magari un consistente credito- e che abbia, come contromisura, la capacità di riscuoterlo92. Da L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, cit., p. 126. «Perché se i malfattori usassero fino all’estremo la loro facoltà distruttiva, mancherebbe loro ben presto la materia rubabile». Ciò è giustificabile solamente nei casi in cui l’impresa di protezione ha notevoli possibilità di agire sul lungo periodo. 88 chiuso il numero verde anti-racket. narcomafie 89 D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 253. 90 Ibid., p. 12-13. Il compratore, acquistando la fiducia mafiosa, si metterà al riparo da possibili bidoni perché protetto violentemente. Il venditore comprerà il marchio mafioso per assicurarsi contro la sua stessa tentazione di rifilare dei “pacchi” e per ricevere l’interezza dei pagamenti a tempo debito. 91 Il trafficante di droga, così come in ogni altro traffico illecito, ha bisogno di conoscere il territorio teatro delle sue operazioni e di sentirsi sicuro lì. 92 La lupara bianca potrebbe essere un esempio di regolamento dei conti. 87 PAGE 3 Nei mercati regolati, invece, capire cosa spinga a richiedere o comprare la merce mafiosa è incomprensibile da un punto di vista morale ed etico, ma è pur sempre razionale da un punto di vista economico. L’autore individua la razionalità della protezione mafiosa in alcune «esternalità», che il suo consumo produce, e nella capacità della mafia di impedire l’entrata a nuovi concorrenti nel mercato legale in questione. Alcune di queste esternalità sono negative: se qualcuno dovesse accettare delle promesse mafiose poi mantenute, innescherebbe involontariamente un processo di emulazione in coloro i quali, non avendo accettato, continuano a subire danni93; altre sono definite positive e vengono descritte come il picchettaggio sindacale contro i free riders94: chi già paga vorrà che paghino anche gli altri che ne beneficiano senza pagare, a meno che non siano concorrenti (in tal caso si chiederà alla mafia di intervenire a monte impedendo ad essi l’entrata nel mercato). Non mancano gli esempi in cui questo particolare tipo di protezione viene non soltanto pagata in denaro, ma anche con la partecipazione più o meno diretta della mafia all’impresa richiedente95 che può portare fino all’internalizzazione dell’attività protetta 96. La regolazione del mercato Di solito la spartizione dei clienti segue i confini del monopolio della violenza delle famiglie. Infatti, se un cliente vuole operare in un territorio differente dal proprio, è necessario chiedere il permesso alla famiglia competente nel territorio D. Gambetta, La mafia siciliana, cit. p. 26. «In una città dove tutti usano l’auto, è facile che il trasporto pubblico ne venga penalizzato: questo costringerà molte più persone a comprare una macchina, per evitare il disservizio indotto indirettamente da coloro che per primi hanno acquistato le automobili». 94 In questo caso Gambetta si confonde. Prima (D. Gambetta, Mafia: i costi della sfiducia, cit., p. 301) sostiene che la protezione mafiosa è un bene posizionale per cui i clienti faranno a gara per ottenerla ed escludere gli altri; qui (D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 27) la definisce come un bene indivisibile che spinge chi già ce l’ha a fare pressioni sugli altri per acquistarla. 95 Contorno afferma che gli imprenditori che venivano aiutati ad ottenere un appalto avevano due scelte: «o pagavano il pizzo o diventavano soci»; dal «Giornale di Sicilia» del 19 aprile 1986. L’essere soci consisteva per esempio nel fare sconti, assunzioni particolari, nell’acquistare la merce da aziende appartenenti alla mafia o addirittura nel lasciar compartecipare la mafia alla conduzione dell’impresa richiedente. 96 Ne è esempio l’affiliazione dei cugini Salvo, clienti così fedeli e così importanti, la cui Esattoria Siciliana non può non essere pensata come interna al sistema mafioso. 93 PAGE 3 interessato attraverso gli organismi di coordinamento preposti97. Se il cliente però è protetto da una famiglia molto più potente, l’impresa indigena si fa da parte. La coordinazione delle attività dei protetti è invece variabile a seconda di cosa commercino. La mafia si preoccupa di far lavorare prima i propri clienti, mettendoli in contatto l’uno con l’altro (se -per esempio- si tratta di imprese edili, si dirà ad esse di acquistare il calcestruzzo da un’impresa anch’essa protetta) o imponendo loro un sistema di turnazione e talvolta di sorteggio98. Le vittime di questa strategia sono i possibili concorrenti e soprattutto i consumatori, quelli su cui economicamente ricade l’inefficienza dei mercati. La mafia investe Ma la mafia non si ferma al meccanismo dell’estorsione-protezione. Come utilizza, infatti, tutto il patrimonio economico che ha messo insieme? E’ credibile che esso venga “messo sotto il materasso”? Nonostante Gambetta non spenda nemmeno una parola a riguardo, in fase conclusiva diventa doveroso accennare qualcosa sugli investimenti mafiosi, su quella cerchia più esterna dell’organizzazione che è già stata presentata come enterprise syndicate. I soldi del pizzo e della protezione richiesta non sono quantificabili data la mancanza di cifre sul fenomeno, anche se si può immaginare che essi costituiscano soltanto lo stipendio del mafioso. La commissione antimafia presieduta da Violante nel 1997 ha invece provato a stimare gli introiti provenienti dai traffici illeciti come quello degli stupefacenti. E’ impensabile affermare che si tratti di calcoli precisi, eppure l’ammontare è da capogiro: 70 mila miliardi di lire annue. «Se -spiega Buscetta- un imprenditore di una provincia intende eseguire lavori di notevole rilievo in altra provincia, la possibilità che ciò avvenga è riservata al giudizio dell’interprovinciale». 98 Se c’è una gara d’appalto, la mafia la conquisterà per la sua impresa protetta, avvertendo le altre. Tenterà, invece, di far stringere un accordo collusivo alle imprese in competizione se esse sono tutte sue clienti; quella che vincerà, sub-appalterà i lavori alle altre gonfiando in costruzione d’opera la cifra con la quale si è aggiudicata la gara. Il risultato è che tutti lavorano e tutti guadagnano: nessuno è scontento. 97 PAGE 3 Si può constatare che con questo denaro la mafia compra immobili99 o nuove partite di droga, ma si può ipotizzare anche che preferisca riciclarlo. “Pulire i soldi”, attraverso conti off-shore o con la creazione di aziende operanti nel territorio, permetterebbe alle imprese mafiose di aumentare la loro capacità di infiltrazione nel tessuto sano dell’economia e della società, accrescendo così il suo capitale sociale (dando lavoro) e riaffermando quasi definitivamente il suo monopolio. Non è irrealistico, per chiudere e per creare un ponte verso studi successivi, che la mafia offra protezione e quindi partecipi attivamente anche agli scambi politici, non soltanto con il “voto mafioso” ma anche con una qualche forma di presenza illecita all’interno delle istituzioni. Attraverso le cronache giudiziarie e giornalistiche è risaputo, per esempio, che Totò Riina ha acquistato grandi appezzamenti di terreno e dove, grazie alla legge della confisca dei beni mafiosi (La torre-Rognoni), sono sorte delle cooperative agricole anti-mafia e addirittura una scuola. 99 PAGE 3 CONCLUSIONI In questo saggio si è tentato di rileggere il fenomeno mafioso con un approccio razionale, presentando e criticando -ove possibile o necessario- la tesi di Diego Gambetta. L’autore ha sostenuto che la mafia è in grado di vendere la sua merce «in qualunque contesto». Ma tale affermazione è così universalizzante da essere molto difficilmente dimostrabile. Essa presuppone che questo «insieme di imprese indipendenti», che qui si è preferito chiamare famiglie mafiose, siano così abilmente organizzate tra loro, da agire comunque e dovunque. Di contro, verrebbe da chiedere a Gambetta perché per la mafia è quasi impossibile attecchire e prosperare in un luogo dove si osserva un sano codice civico, dove regna la cultura della legalità, dove le istituzioni statali sono presenti ed efficaci, dove si respira vera fiducia e collaborazione. Proprio con la mancanza di fiducia Gambetta ha tentato di spiegare il perché della mafia siciliana. E’ nelle transazioni in deficit o in assenza di fiducia tra le parti in affari che si avverte il bisogno di protezione privata, di una più o meno reale garanzia costituita da un terzo che in questo caso possiede il «marchio» mafioso. L’autore non ha però chiarito di che tipo sia questa supposta garanzia, non è riuscito a spiegare il punto centrale del tema mafioso, l’essenza violenta di questa organizzazione territoriale e di membership. La tesi di Gambetta ha preferito sfruttare l’analogia dell’industria piuttosto che quella, più verosimile, di entità in qualche misura politica; perché in realtà di natura alla radice politica è la protezione violenta di cui scrive l’autore, e di cui è abile monopolista la mafia. Ultimo, ma soltanto in ordine conclusivo: Gambetta ha utilizzato un approccio individualista e, a suo dire, razionale. E’ razionalità quella che porta il resto dei siciliani onesti, dei cittadini e delle istituzioni italiane ad accettare che la mafia, PAGE 3 silenziosa ma autorevole entità, prosperi favorendo o impedendo a suo piacimento le attività degli altri? BIBLIOGRAFIA Libri e fonti a stampa ¥ AA. VV. Limes: Come mafia comanda, n. 2, Roma, Gruppo Editoriale L’espresso, 2005; ¥ ARLACCHI, P. La mafia imprenditrice, Bologna, Il Mulino, 1983; ¥ ARLACCHI, P. Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Milano, Mondadori, 1996; ¥ ARMAO, F. 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