«E’ generalmente significata con questo nome
quella popolazione di facinorosi la cui occupazione
principale è d’essere ministri ed instrumenti
delle violenze, e coloro che sono con essi
in relazioni dirette e continuate».
L. Franchetti, Condizioni politiche
ed amministrative della Sicilia, 1876.
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INDICE
Introduzione
p. 3
Capitolo I
La mafia come scelta razionale
p. 5
Capitolo II
La sfiducia siciliana e la “fiducia mafiosa”
p. 8
Capitolo III
L’associazione mafiosa
p. 17
Capitolo IV
Le attività mafiose
p. 25
Conclusioni
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p. 30
INTRODUZIONE
La curiosità degli scienziati sociali, che vogliono occuparsi del Mezzogiorno
d’Italia e più specificatamente di quella Regione a Statuto Speciale che è la Sicilia,
cozza ormai da lungo tempo con il fenomeno cosiddetto “mafioso”, il quale sembra
permeare ogni aspetto della vita dell’isola rendendo superfluo, o quantomeno
avventuroso, qualsiasi tipo di studio che miri a fotografare o migliorare le sue
condizioni economiche e politiche. Ogni indagine, infatti, si troverà di fronte delle
anomalie -teoriche ma più spesso empiriche- difficilmente spiegabili se si
considera il carattere democratico dello Stato italiano. Queste “stranezze”, anche
ad un occhio poco allenato, risulteranno essere di provenienza mafiosa.
Le molte discipline, che si sono occupate del problema attraverso le ‘lenti’ dei loro
variegati approcci, hanno contribuito sensibilmente alla concettualizzazione del
fenomeno. Gli sforzi intellettuali e materiali degli storici e degli antropologi1 , degli
economisti e dei sociologi2 hanno sviluppato un ventaglio molto largo di
spiegazioni che però, come tristemente dimostrato dall’evidenza dei fatti, non ha
ovviamente influenzato il pensiero di Riina o di Provenzano. Nell’ultimo decennio,
all’indomani degli omicidi eccellenti come quello di Salvo Lima e delle stragi di
Capaci e via d’Amelio, scrivere di mafia siciliana, se non addirittura parlarne, è
peraltro sempre più problematico.
Nonostante il tema sia quasi invisibile, ostico, per certi versi caustico, la
produzione giornalistica e scientifica è giustamente rimasta corposa, spesso
interessante per l’aneddoto, a volte utile per dare spunto a nuove chiavi di lettura.
In questo saggio si prenderà in considerazione una tesi “anglofona” che, seppur
edita dodici anni fa, è ancora oggi letta, vivacemente discussa, di sicuro molto
I principali studiosi che si sono occupati della storia della mafia sono i siciliani Giuseppe
Carlo Marino e Salvatore Lupo; gli antropologi più importanti sono invece il tedesco
Henner Hess e Anton Blok, i cui studi rappresentano delle pietre miliari sull’ argomento.
2
Tanti sono i sociologi da annoverare, quali i siciliani Michele Pantaleone, concittadino del
famoso don Calò Vizzini, Umberto Santino, direttore del Centro Studi “Peppino Impastato”,
Enzo Fantò. Ultimi, ma soltanto in ordine cronologico, sono Nicola Tranfaglia, Pino
Arlacchi, Fabio Armao e Rocco Sciarrone.
1
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interessante sia ad un profano che ad un esperto. Santoro, tra i tanti mafiologi
dell’accademia italiana, la fa rientrare nella cornice dell’economia istituzionalista3,
Pezzino la ritiene una spiegazione in termini di sociologia economica4, Catanzaro
la definisce una teoria economica generale della mafia5.
Al di là di queste aggettivazioni un po’ oscure, Diego Gambetta, unendo deduzioni
empiriche a concetti di natura socio-economica, giunge ad una caratterizzazione
più razionale (e molto poco ancestrale) dell’organizzazione criminale. Nel suo
libro La Mafia Siciliana egli interpreta la criminalità organizzata isolana come
un’industria.
L’argomentazione, o se si preferisce l’analogia, non è nuova, ma risale alla
celeberrima Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino dove la mafia è definita
come industria della violenza. L’autore parte quindi da questo suggerimento, per
fornire una nuova definizione più universalizzabile: la mafia come «a loose cartel
of indipendent firms», «un cartello lasco di imprese indipendenti in grado di fornire
protezione in qualunque contesto e a qualsiasi cliente ritengano conveniente» 6 .
Per comprendere cosa intende l’autore, occorrerà preliminarmente spiegare in
termini teorici il nucleo del suo ragionamento. Si esamineranno poi le cause della
sfiducia endogena in Sicilia per capire da dove derivi il bisogno, naturale o indotto,
presunto o reale, di protezione della res privata a cui, nelle democrazie occidentali,
è in realtà preposto unicamente o prevalentemente lo Stato.
Successivamente,
l’attenzione
si
sposterà
sugli
attori
individuali,
sul
comportamento mafioso che, efficientemente organizzato in una struttura
complessa di relazioni, porta ad un accumulo di risorse, di reputazione che, per
dirla con l’autore, sono il “marchio” registrato di questa sfuggente entità. L’ultimo
capitolo sarà dedicato invece alle interazioni tra domanda e offerta di protezione.
M. Santoro, La mafia e la protezione. Tre quesiti e una proposta, in «Polis», a. IX, n. 2,
1995, p. 287.
4 P. Pezzino, Mafia e politica: una questione nazionale, in «Passato e presente», a. XIV, n. 38,
1996, p. 9.
5 R. Catanzaro, Recenti studi sulla mafia, in «Polis», a. VII, n. 2, 1993, p. 327.
6 D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, Einaudi,
1992, p. 95.
3
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CAPITOLO I
La mafia come scelta razionale
Le recensioni, che si sono occupate del libro di Gambetta7 , inseriscono la sua
esegesi all’interno della Rational Choice. Questa teoria micro-strutturale disegna
una società composta da attori individuali che, dati i loro obiettivi e le loro risorse
nonché in un ottica di massimizzazione della loro esclusiva soddisfazione8,
prendono decisioni calcolando le possibili conseguenze delle loro azioni.
L’individuo considerato dall’autore è innanzitutto un homo oeconomicus; così ne
segue che chi sceglie o asseconda la via della mafia sta agendo in maniera
strettamente razionale, scegliendo tra due strade quella apparentemente più
vantaggiosa. Questa visione sacrifica però aspetti rilevanti, quali l’importanza di
una particolare socializzazione o delle ritorsioni, di cui si dovrà tenere debitamente
conto; essi non rientrano nel panorama delle scienze economiche, ma in un certo
senso lo precedono.
Deficit di fiducia
La necessità di avere delle garanzie, di conferire legittimità a qualcuno o a
qualcosa che assicuri la buona riuscita di un negozio o il rispetto di un contratto,
sta alla base dei meccanismi dell’economia (e molto probabilmente anche delle
relazioni interpersonali). Un compratore senza fiducia nei confronti del venditore
che ha di fronte, così come un venditore che non si fida del compratore,
difficilmente perverrà allo scambio.
Di primo acchito potrebbe sembrare un non senso, in quanto nessuno alla fine
guadagna, ma se s’immagina la quantità di “bidoni”, di frodi e di merci difettose
Tra le tante si segnalano: B. L. Benson, in «Public Choice», n. 80, 1994, pp. 217-219; E.
Bryant Rhodes, in «Acta Sociologica», n. 39, 1996, pp. 251-254; M. Marmo, Studi sulla
mafia, in «Quaderni storici», a. XXX, n. 1, 1995, pp. 195-211.
8 La proposizione «individuals are self-interested, not selfish» (Friedman & Diem 1990) è
importante per denotare il peso specifico attribuito agli interessi dalla teoria della scelta
razionale, in altre parole per sottolineare il fatto che gli attori adotteranno la strategia
migliore per soddisfare i loro interessi, siano essi beni scambiabili sul mercato o la musica di
Mozart.
7
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immesse nel mercato, l’agire della domanda acquista un quantum di razionalità
individuale. Allo stesso modo, con un ragionamento speculare, è razionale
un’offerta che si ritrae dalla vendita di sua sponte quando essa ritiene la
controparte inaffidabile.
Questa mancanza di fiducia equivale ad un «eccesso di razionalità individuale» 9,
che impedirà non solo la cooperazione e la sana concorrenza, ma perfino la
transazione stessa. Per Gambetta la sfiducia costituisce il punto d’origine della
merce mafiosa, del bisogno di protezione, il vulnus del contesto siciliano10.
La protezione privata
E’ infatti plausibile che in una transazione instabile, ovvero in uno scambio tra due
parti in cui almeno una non si fida dell’altra, la protezione11 di un primus inter
pares diventi razionalmente desiderabile, ossia possa fare da «lubrificante», da
surrogato -anche se più costoso e meno soddisfacente- della fiducia.
E, secondo l’autore, esclusivamente di protezione e del mantenimento del suo
monopolio si occupa il mafioso, tanto che diventare membri della mafia significa,
prima che consumare, ottenere il permesso di fornire protezione. Rimane il dubbio
se sia la domanda che crea l’offerta o, più verosimilmente, il contrario.
Il mafioso, seguendo l’argomentare di Gambetta, è chi ha una «buona
reputazione», chi ha la capacità di fare da garante, e l’azione di questo individuo è
guidata dalla convenienza, non da una ascetica saggezza o da un principio
giuridico. E’ questi a decidere se, quando e a quale delle due parti affidare il suo
buon nome, nonché è egli stesso ad inserire sul mercato dosi limitate di sfiducia al
fine di riaffermare il suo monopolio.
D. Gambetta, Mafia: i costi della sfiducia, in «Polis», 1, 2, agosto 1987, p. 283.
L’autore, nella sua definizione di mafia, sostiene -ma non dimostra- che essa è in grado di
agire «in qualsiasi contesto». La presenza delle famiglie mafiose è stata riscontrata infatti
soltanto in Sicilia; esistono poi alcune “succursali” in luoghi dove è alta la presenza di
siciliani e dove i mafiosi, essendo stati lì confinati dalla legge, sono riusciti ad imporre il loro
controllo.
11 La protezione poggia, nonostante Gambetta non si soffermi su questo punto, su
un’asimmetria informativa, in altre parole quando un mafioso per esempio conosce il nome
e le attività dei parenti di un “cliente”, sarà difficile per quest’ultimo rifiutare l’offerta.
9
10
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Le imprese indipendenti in un sistema a legame debole
La razionalità porta l’individuo mafioso ad «autonomizzare» la sua merce, così da
renderla appetibile ai clienti che più gli aggradano. Maggiore è il loro numero,
maggiore è la necessità di un’azione organizzata che, per l’autore, consiste in
un’impresa singola radicata in uno specifico territorio, legata debolmente alle altre
di altri territori.
Ciò significa che l’industria mafiosa è composta da unità (da imprese) che godono
di elevata autonomia e che tra esse c’è una bassa interdipendenza. Questo implica,
nel caso una di loro cedesse -per esempio grazie ad una retata-, che le altre non
sarebbero interessate; inoltre implica che il coordinamento sarà sicuramente meno
efficiente di un processo di imitazione.
L’omertà, di cui si circonda la mafia, non consente però di giungere a conclusioni
circa la sua esatta struttura. Anzi, se per differenziare un sistema a legame
tendenzialmente debole12 da uno a legame tendenzialmente rigido si considera il
nesso tra prestazione e mantenimento del posto, o -meglio ancora- «la relazione
originaria che ha fatto sì, almeno sul piano logico, che si passasse da un’azione
individuale ad una collettiva»13, risulta evidente il carattere fortemente gerarchico
della mafia.
Considerando ciò che dice Weick nel suo famosissimo articolo Le organizzazioni
scolastiche come sistemi a legame debole, ci si riferisce ad un sistema appunto a legame
debole quando per esempio ci sono: i) occasioni in cui uno qualsiasi fra i molti mezzi
produrrà lo stesso fine; ii) reti molto fitte in cui l’influenza si diffonde lentamente e/o
debolmente; iii) assenza di regolamenti; iv) mancanza programmata di capacità di risposta;
v) scarsa ispezione delle attività all’interno del sistema; vi) decentralizzazione; vii)
l’osservazione che la struttura dell’organizzazione non ha gli stessi confini della sua attività.
13 M. Ferrante, S. Zan, Il fenomeno organizzativo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994,
p. 79.
12
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CAPITOLO II
La sfiducia siciliana e la “fiducia mafiosa”
Ricercare ed identificare le ragioni della sfiducia generalizzata nel Sud d’Italia è
un’impresa ardua su cui si sono cimentati in tanti, utilizzando differenti strumenti
analitici. Nessuno è pervenuto, però, ad una spiegazione del tutto convincente di
quest’incapacità di accettare, di sentirsi parte -se non addirittura di identificarsi- in
una sfera che trascenda l’individuo in vista di un bene pubblico 14. Ciò si manifesta
nell’assenza d’associazionismo, soprattutto laico, in tassi crescenti e financo
preoccupanti di disoccupazione ed emigrazione, in una dispersione scolastica
eccezionale; tutti temi che meriterebbero degli approfondimenti separati.
Sciascia, a tal proposito, scrive: «L’insicurezza è la componente primaria della
storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della
vita -paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti
al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo- della collettività e dei
singoli»15.
Se, come è verosimile, gli orientamenti normativi (“i valori”) di un attore sono
frutto delle esperienze più profonde e soprattutto della socializzazione, allora
proprio nel dipanarsi della vita sua e della comunità di cui fa parte si rintracciano le
premesse all’azione, il perché di un dato comportamento comunque razionale.
A livello individuale un aneddoto riesce ad essere molto esplicativo. Un vecchio
capomafia racconta che da piccolo, sotto l’invito di suo padre, salì su un muretto e
poi saltò giù, ma suo padre non lo afferrò; piuttosto gli disse: «Non ti devi fidare
mai di nessuno, nemmeno dei tuoi stessi genitori»16. Il consiglio paterno parla da
«Le menti non sono in grado di distinguere l’interesse sociale dal loro interesse personale
immediato» da L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, vol. I,
Inchiesta in Sicilia, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 35.
15 L. Sciascia, La corda pazza, in Opere (1956-1971), Milano, Bompiani, 2001, p. 963.
16 R. Mangiameli, Banditi e Mafiosi dopo l’Unità, in «Meridiana», n.7-8, 1990, p. 74.
Un’espressione simile, «ti prego di stare attento poiché il mondo è tutto infame», è riportata
da P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 150.
14
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sé; sprona ad assumere un atteggiamento vigile, perfino animalesco, nei confronti
di un ambiente tendenzialmente ostile, ad essere pronti a reagire, perché altrimenti
-fidandosi troppo- ci si potrebbe far male17. La sfiducia si autoalimenta, si espande
e potrebbe portare, secondo Gambetta, ad una razionalità individuale esasperata,
generalizzata.
A livello sociale, invece, evidenziare cosa sia e da dove possa nascere la mancanza
di fiducia, cosa spinga a pensare che l’altro non è credibile, è più ostico, anche se
necessario. La storia della Sicilia è ricca d’invasioni, di lunghe dominazioni tanto
differenti in usi, costumi, destino18, e conseguentemente propone svariate
interpretazioni che spaziano dal racconto storico alla riflessione socio-economica,
utile in ottica comparativa, circa l’emersione ed affermazione della “fiducia
mafiosa”.
Etimologia del fenomeno
Dalle rivelazioni del pentito Leonardo Vitale, creduto inizialmente pazzo: «Io sono stato
preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino […] Bisogna
essere mafiosi per avere successo. Questo mi hanno insegnato ed io ho obbedito […] La mia
colpevolezza è di essere nato, di essere vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose e di
essere vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per questo rispettati, mentre quelli che
non lo sono vengono disprezzati». C. Stajano (a cura di), Mafia. L’atto d’accusa dei giudici
di Palermo, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 14.
18 In origine vi erano i Siculi, abitanti delle coste, ed i Sikani, che vivevano nell’interno. La
prima colonizzazione è ascrivibile agli antichi greci; dopo di loro fu la volta dei romani che
la resero prima provincia di un vasto impero. Tramontato il mondo classico, la Sicilia
divenne un protettorato del Sacro romano impero d’Oriente; poi arrivarono gli arabi che vi
rimasero per ben due secoli. Gli ‘uomini del nord’ riuscirono a sottrarla al dominio
musulmano e vi restarono con la benedizione della Chiesa di Roma; Palermo divenne prima
capitale del regno dei Normanni nella parte meridionale della penisola e poi dell’impero di
Federico II di Svevia. Morto il grande Re, il Papa affidò il Regno delle Due Sicilie agli Angiò.
Con la scusa dei Vespri Siciliani, gli spagnoli entrarono nell’isola e scacciarono i francesi.
Per un approfondimento si consiglia la lettura di S. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai
giorni nostri, Palermo, Sellerio, 2003.
17
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Il dibattito tra gli storici sulla prima comparsa e uso della parola Mafia è acceso,
almeno quanto quello dei linguisti che si scontrano sull’esatta etimologia19.
Il primo scritto, in cui si fissa addirittura la data di nascita dell’onorata società nel
giugno del 1799, è il Romanzo di un bandito di Giuseppe Petrai, illustre
sconosciuto tra gli autori siciliani. Bisogna però arrivare all’agosto 1838 per
trovare i primi documenti ufficiali sul fenomeno. Il vocabolo non è usato, ma si
capisce chiaramente a cosa si riferisca il procuratore del re Calà Ulloa quando
afferma che «la mancanza di forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero di reati
ed il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei»20.
Nel 1863 il termine Mafia, con il significato di lega di uomini coraggiosi e
vendicativi, diventa famoso grazie all’opera di Giuseppe Rizzotto I mafiusi di la
Vicaria. La pièce ebbe così tanto successo da far inserire il lemma nel Nuovo
Vocabolario siciliano-italiano cinque anni dopo21 come neologismo e nome
collettivo di chi mostra braveria, baldanza, tracotanza.
L’influenza spagnola
Per introdurre questa affascinante intuizione storica, qui soltanto brevemente
accennata, è doveroso riportare ciò che scrisse Tocqueville, in un’immaginaria ma
eloquente esternazione del siciliano Don Ambrosiano al cospetto del napoletano
Don Carlo: «La nostra nobiltà non è più siciliana. L’avete attirata tutta quanta a
In arabo esistono parecchi termini che aiutano a capire cosa possa essere stata la mafia in
origine: Ma’àfir è il nome della tribù saracena che dominò Palermo, mahyiàs è il prepotente,
lo spavaldo; maehfil è il luogo di incontro; mohafat significa protezione, immunità,
esenzione. Marfud è invece chi rifiuta, mentre mohafi è l’amico riconoscente. Altre parole
simili, non solo per pura coincidenza fonetica, sono il toscano malfusso, che descrive
l’infedele, il miscredente ma anche il delinquente, ed il piemontese mafiun, attribuibile ad un
uomo basso, incivile, “che non parla, non risponde, non cura altrui”. In francese esiste
invece mafler, mangiare, ingozzarsi. Per una dissertazione più vasta, si suggerisce il capitolo
Filologia in Il mare colore del vino di L. Sciascia, Opere (1956-1971), Milano, Bompiani,
2001, pp. 1324-1330.
20
P. Calà Ulloa, Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia, Trapani, 3
agosto 1838, in E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e Ottocento,
Napoli, Esi, 1965. Qui alcuni passi del brano: «Non vi è impiegato in Sicilia che non sia
prostrato al cenno di un prepotente o che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio.
Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e
pericolosi. Vi ha in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza
colore e senza scopo politico, senza altro legame che quella della dipendenza da un capo, che
qui è un possidente, là un arciprete […] Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo».
21 Il vocabolario fu redatto da A. Traina nel 1868.
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Napoli…avete imbastardito il suo cuore sostituendo l’ambizione di corte al
desiderio di gloria e il potere del favore a quello del merito e del coraggio. […]
Snaturata dall’oppressione, (l’energia) profonda (del nostro carattere nazionale) si
rivela solo attraverso i crimini. Negandoci la giustizia, anzi facendo di meglio,
vendendocela, ci avete insegnato a considerare l’omicidio come un diritto»22.
Utilizzando alcuni frammenti di Paolo Mattia Doria e Antonio Genovesi, due
scrittori settecenteschi d’origine napoletana, lo storico Padgen23 cerca di spiegare
quello che sosteneva Don Ambrosiano. Furono gli Asburgo di Spagna e la loro
politica di divide et impera, disgregatrice della sfera pubblica, a spingere le
popolazioni delle Due Sicilie in una “fede privata”, ovvero obbligandole a trovare
nei legami parentali e amicali l’unica sicurezza.
Una lettura, in un certo senso opposta, la fornisce anche Tranfaglia, interpretando
stavolta lo Stato spagnolo come Leviatano, «come modello di Stato assoluto, nel
quale le leggi valgono contro i nemici e non sono osservate per gli amici, nel quale
la pubblica amministrazione è incapace di seguire regole uniformi e generali»24.
Sarebbe però troppo semplicistico e fuorviante fermarsi qui. L’autore si chiede,
infatti, come sia possibile che i primi sintomi mafiosi siano rintracciabili soltanto
nella parte occidentale della Sicilia e non negli altri territori di dominazione
spagnola.
Il mercato della protezione
Anche se poco ortodosso, è bene soffermarsi sulla morfologia dell’isola per
spiegare il perché delle diverse densità mafiose25 e perché risultò sempre
disagevole o non vantaggioso, per un potere centrale, controllare tutto il territorio.
L’autore lega l’assenza, o la debole influenza, di mafia nelle province orientali alla
costante presenza dei grandi proprietari, ma rimane il dubbio di chi essi fossero.
22 A.
Tocqueville, Voyage en Sicilie, in Oeuvres complètes, Parigi, vol. I, trad. it. in L.
Sciascia (a cura di), Delle cose di Sicilia, Palermo, Sellerio, vol. III, 1984, pp. 157-158.
23 A. Padgen, “Fede pubblica” and “fede privata”: trust and honour in eighteenth century
Naples, in D. Gambetta, Le strategie della fiducia, Torino, Einaudi, 1989, pp. 165-182.
24 N. Tranfaglia, La Mafia come metodo, Bari, Laterza, 1991, p. 23.
25 Da più indagini risulta, infatti, una presenza predominante nelle province occidentali a
fronte della assenza di famiglie in quelle orientali.
PAGE 3
Per cui, anche se omesso dall’autore, è indispensabile un breve chiarimento di cosa
fosse stato il tardo settecento in Sicilia.
Il tardo settecento borbonico
L’aspetto dell’isola era inospitale, «il paesaggio -scrive Pantaleone per descrivere
le zone occidentali- muta d’improvviso”26, le vie di comunicazione erano
praticamente inesistenti, se si eccettuavano le tre vie militari fatte costruire dai
Borboni e per la maggior parte dell’anno impraticabili»27. Le condizioni igieniche
erano altrettanto arretrate come quelle politiche; era il sovrano a decidere la
distribuzione dei feudi, con tanta soddisfazione sua e del baronaggio locale libero
di amministrare come meglio credeva.
L’estensione dei grandi appezzamenti richiedeva una suddivisione in unità più
piccole che spesso furono date in “gabella”, cioè in cambio di un comodo reddito
annuo fisso che veniva pagato in derrate. La classe imprenditrice dei gabelloti,
fornita più di coraggio che di capitale, frazionò ulteriormente le terre dandole in
mezzadria ai borgesi, che assicuravano una regolare coltivazione. Gi unici a fare
fortuna, alla fine della fiera, furono i gabelloti posti a vigilare il fondo: «le
contrattazioni venivano fatte per consuetudine verbalmente, il che dava al
gabellotto la possibilità di disdire, anche durante l’anno agricolo, i patti stabiliti,
per imporre nuovi patti, ogni volta che l’andamento della stagione non gli
prospettava quelle condizioni di vantaggio che si era assicurate»28. Qui s’intravede
la violenza e si rintraccia la «convenienza» che Gambetta attribuisce al
M. Pantaleone, Mafia e Politica, Torino, Einaudi, 1972, p. 7. Il brano continua così: «Il
verde della costa si riduce a poche macchie di fichi d’india e di carrubi e la terra, destinata
quasi esclusivamente alle culture estensive, appare di un colore uniforme che d’estate è il
giallo arido e opprimente delle restoppie, e d’inverno il colore scuro della terra stessa, nuda,
bruna, o giallastra d’argilla, quasi sempre spaccata dalla siccità o rosa dalle erosioni delle
acque piovane».
27
S. Cantarella, Sullo stato delle comunicazioni in Sicilia, Modica, 1861, p. 4. Per le prime
vere strade bisognerà aspettare fino al 1861, quando iniziò la costruzione delle tre vie che
collegavano i centri di produzione interni ai magazzini portuali; vedi F. Brancato, Storia
della Sicilia post-unificazione, vol. I, Bologna, Dott. Cesare Zuffi Editore, 1956, pp. 12-14.
Per parlare di ferrovia bisognerà attendere invece fino al 1895; vedi S. F. Romano, Storia
della Sicilia post-unificazione, vol. II, Palermo, Industria Grafica Nazionale, 1958, pp. 9-12.
28 Circa l’arbitrio dei gabelloti nelle contrattazioni, cfr. Memoriale di Gaetano Mondino, da
Villafrate, s. d., nel dic. 1873, inviato in forma confidenziale al prefetto di Palermo, in ASP,
Pref. Gab., b. 30, cat. 20.
26
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comportamento mafioso; ma rimane in dubbio se i gabelloti fossero veramente una
proto-mafia.
La nascita della proprietà privata
Soltanto dopo i moti popolari del 1812, i privilegi feudali furono aboliti e
risuonarono le trombe delle libertà borghesi. Ma se il Gattopardo all’epoca fosse
stato già maturo, avrebbe esclamato: «cambiare tutto, per non cambiare niente». I
feudi vennero rinominati latifondi; dal vincolo fiduciario tra signore e barone, si
passò a quello tra gabellotti e campieri e soprastanti. La nobiltà dell’isola rimase
ricca, e mentre essa si defilava dalla campagna turbolenta per godere delle rendite
in città, la cruenta corsa verso l’accaparramento della proprietà altrui era iniziata.
Al fine di difendere il vasto fondo ci fu, per dirla alla Franchetti, una
democratizzazione della violenza: «la plebe dei ladri fu sopraffatta, ma in mezzo
allo scadere della aristocrazia della nascita sorse fuori l’aristocrazia del delitto
riconosciuta, accarezzata»29.
Questo nuovo vincolo, questa nuova forma di subordinazione non fu contrastata da
un processo di centralizzazione tipico della formazione dello stato liberale, anzi.
Laddove le istituzioni non arrivarono ad imporre il loro esclusivo controllo del
territorio e monopolio della forza30, laddove non conquistarono fiducia, dove i
padroni -principalmente nelle province occidentali- non erano presenti perché
risucchiati dalla bella vita palermitana31, il mafioso si ritrovò in condizioni di
autodeterminazione, tanto da imporre prezzi sempre più alti per il suo servizio, a
volte rosicchiando gli averi del barone o comprandoli direttamente.
La piccola proprietà cominciò ad esistere sulle coste, specialmente nella piana di
Catania, nella provincia di Messina e in quella di Siracusa, ma non per l’effetto
della legislazione antifeudale. I contadini, con grandi stenti e sacrifici, riuscirono a
29 A.
Ciotti, I casi di Palermo, Palermo, Prilla, 1876, p. 7.
«Dietro l’imprevedibilità e l’iniquità della legge non c’erano solo le intenzioni dei
governanti, ma anche certe condizioni obiettive come l’isolamento della Sicilia e la scarsità
delle strade interne, per cui era ben difficile applicare una legge che non fosse locale» da P.
Pezzino, Alle origini del potere mafioso: stato e società in Sicilia nella seconda metà
dell’Ottocento, in «Passato e Presente», a. VIII, 1985, p. 42.
31 F. Brancato, Storia della Sicilia post-unificazione, vol. I, cit., pp. 41-68.
30
PAGE 3
comprarne degli scampoli, poichè le coste offrivano migliori possibilità di
guadagno, perché piu alto era il prezzo delle derrate e maggiore la facilità di
smerciarle32.
Seguendo le Lettere Meridionali di Pasquale Villari e quelle di Bonfadini, la mafia
nacque invece sulla costa tirrenica per “generazione spontanea”, dai generosi
proventi degli agrumeti della Conca d’Oro, ormai non più grande proprietà
terriera33.
La “fiducia mafiosa”
Chi era dunque il mafioso: il barone, il gabelloto e i suoi campieri, il semplice
contadino di agrumi? Dalle deduzioni di Blok o di Hess, s’intende che la
professione34 del capomafia locale, in questo caso l’archetipico “don Peppe”
immaginato dall’autore, non fosse rilevante. Era sufficiente assicurare una
protezione credibile, era sufficiente “la parola d’onore”.
Paul Violi, intercettato dalla polizia canadese, si descrive così: «la vita nostra è
sempre fatta di ragionamenti, di arrangiare le cose per uno o per l’altro…perché
una persona, quando ha a che dire con altra gente e non sa dove mettere le mani, sa
che ci siete voi…che se viene da voi sa che voi questa situazione la potete…in un
modo o nell’altro…risolvere»35.
Ibidem, pp. 19-20.
Villari scrive che: «Nella Conca d’Oro l’agricoltura prospera; la grande proprietà non
esiste; il contadino è agiato, mafioso, e commette un gran numero di reati» (cit. in S. Lupo,
Agricoltura ricca e sottosviluppo. Storia e mito della Sicilia agrumaria, Catania, Idoneo
Editore, 1984, p. 61). Bonfadini invece è più analitico: «Dove i salari sono minori (Siracusa e
la Piana di Catania, ndr) non v’è sintomo di mafia. Invece Partinico, Monreale e Bagheria,
dove la proprietà è divisa, dove il lavoro è assicurato, dove l’agrumeto arricchisce, sono le
sedi ordinarie dell’influenza mafiosa» (cit. in M. Aymard e G. Giarrizzo, La Sicilia, Torino,
Einaudi, 1897, p. 939).
34
«La considerazione di cui un mafioso gode all’interno di Cosa Nostra –dice Antonino
Calderone- non è legata alla sua professione o al suo titolo di studio» da P. Arlacchi, Gli
uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone,
Milano, Mondatori, 1996, p.29. Tra tanti rilevanti gli esempi dei notabili Giuseppe Navarra,
medico e capo della cosca di Corleone, o di Filippo Calderone, notaio di Marineo. La parola
“professione” non viene usata a caso, ma in riferimento a ciò che sostiene Santoro, ovvero
che la mafia sia una casta di professionisti e non di imprenditori, poiché essa vanta forme di
netta chiusura sociale e d’autorità, un codice deontologico e la custodia di un sapere
‘esoterico’. «Il professionista, infatti, offre servizi personali, gestisce relazioni umane, si pone
standard di comportamento, punta alla costituzione di nicchie di mercato, esercita autorità
morale» da M. Santoro, La mafia e la protezione, in «Polis», a. IX, n. 2, agosto 1995, p. 289.
35 La protezione è quindi un prodotto ad alta intensità di lavoro. C. Stajano (a cura di),
Mafia. L’atto d’accusa dei giudici di Palermo, pp. 59-60.
32
33
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Difendere era un’azione degna di rispetto, significava dare e ricevere fiducia (fosse
al barone o ai contadini nullatenenti), prestare il proprio nome; in cambio
riconoscenza36. E disponibilità nel caso in cui ce ne fosse stata necessità, ovvero in
cambio di potere.
Dahl definisce questo concetto come la capacità di A di far fare qualcosa a B, che
B non avrebbe fatto senza l’intervento di A. All’interno della sfera del potere, si
trovano quindi l’autorità (che, secondo Weber, può essere carismatica, tradizionale
o legale-razionale e che, in sostanza, è potere legittimato) e il potere come
influenza (“conosco i miei polli”), i quali, nel caso della mafia siciliana, possono
essere ascritti a Don Peppe all’interno dell’impresa. Il potere di cui si serve in
genere il mafioso nei confronti del suo ambiente, invece, è quello basato sullo
scambio asimmetrico di risorse37: egli ha potere su un individuo quando
l’individuo è in possesso di una risorsa che interessa al mafioso, il quale -a sua
volta- controlla una risorsa di cui l’individuo ha assolutamente bisogno, che non si
può procurare altrove, che non si può strappare con la forza al mafioso; in tal modo
il potere sarà personale e teoricamente illimitato38
La sfiducia generalizzata divenne un affare remunerativo; la fiducia si tramutò in
un bene individuale e posizionale, ossia un bene non pubblico39 -endemicamente
scarso- che poteva essere “consumato” soltanto con l’eliminazione, spesso anche
fisica, di altri potenziali fornitori40.
La riconoscenza va dal saluto riverente -“baciamo le mani”- alla regalìa (secondo le
possibilità d’ognuno: una cassa d’arance o un compenso in denaro).
37 Il concetto di Dahl è stato tratto da Zan, Il fenomeno organizzativo, cit., p. 152-155.
38 L’esempio più lampante di risorsa da cui un individuo non può prescindere è la sua stessa
vita; la mafia possiede infatti il potere di annullare l’esistenza altrui. E’ interessante notare
che il potere ha la capacità di controllare l’impiego e la crescita della risorsa sociale
fondamentale, ovvero l’attività degli individui; ed inoltre che ciascuna forma di potere quella politica così come quella economica o normativa- cercherà di rendere quanto più
salienti e l’importanza degli scopi in vista dei quali essa può essere impiegata e le risorse che
le sono proprie.
39 «L’amministrazione governativa è come accampata in mezzo ad una società che ha tutti i
suoi ordinamenti fondati sulla presunzione che non esiste autorità pubblica» da L.
Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, cit., p. 37.
40 U. Pagano, The economics of positional goods, Cambridge, mimeo, 1986.
36
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Il processo di razionalizzazione, di «autonomizzazione» così come lo chiama
Gambetta, fu la condicio sine qua non per l’emergere dell’industria. Don Peppe
ebbe la possibilità di speculare, intellettualmente e materialmente, sul consenso concessogli o estorto- nel suo territorio: la protezione era una merce astratta,
vendibile in più campi, possibilmente ad un numero cospicuo di clienti che
assicurasse profitti e indipendenza41. E la formula della protezione poteva essere
adottata pure nei mercati urbani e nei conflitti locali42: anche e soprattutto gli
scambi commerciali e politici necessitavano di garanzie. Don Peppe si ergeva,
quindi, da «protettore nelle transazioni che necessitavano di fiducia e ad arbitro dei
conflitti che sarebbero potuti sorgere»43.
Ma l’offrire protezione non era roba da poco. Bisognava mantenere alta la
reputazione44 assicurando “il tranquillo svolgersi delle transazioni”, per esempio
difendendole da intoppi, imbrogli, da nuovi potenziali protettori; o magari
inserendo in esse «dosi limitate di sfiducia»45, in maniera tale da persuadere, chi
non ne era ancora persuaso, che avere fiducia in lui rendeva di più.
D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 111. Indipendenza, qui, va intesa non solo come
indipendenza economica, ma anche e soprattutto come indipendenza dai clienti, in maniera
tale da aiutarli e scaricarli secondo convenienza, cioè secondo calcoli razionali.
42 G. Barone, Comunicazione orale al seminario dell’Imes su “Mafia, ‘Ndrangheta e
Camorra dall’ottocento a oggi”, Copanello (Catanzaro), 13-15 aprile 1989. Considerando
che i primi traffici di stupefacenti avvenuti in Sicilia risalgono almeno agli inizi degli anni
sessanta, la mafia si è globalizzata molto prima dell’avvento della stessa globalizzazione.
43
D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 23.
44
Ibidem, p. 49. «Una reputazione di protezione efficace tende a coincidere con la protezione
stessa». Difficilmente, infatti, qualcuno cercherà di scoprire se si tratta di un bluff,
considerando che la protezione si basa sulla violenza.
45 Ibid., p. 18. Gambetta definisce così quelle transazioni che, pur essendo garantite dal
mafioso, non vanno a buon fine, aumentando così la domanda della sua merce.
41
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CAPITOLO III
L’associazione mafiosa (art. 416 bis c.p. 46)
La nascita dell’impresa
Don Peppe fu un tipo pro-attivo nei confronti del suo ambiente: aveva un prodotto
da vendere, una serie di mercati su cui proporlo (forse è più calzante imporlo).
Mancava una struttura, un gruppo, tanto meglio se un gruppo di gruppi, con cui
operare. Servivano uomini alle sue dipendenze, che fossero «la stessa cosa»47, per
controllare le transazioni e il territorio: pronti ad eseguire i suoi comandi
d’intimidazione o d’esecuzione; capaci di vedere, sentire, scambiarsi informazioni
e agire, senza essere notati. Dove trovare uomini così fidati e fedeli, desiderosi di
potere, che potessero gestire il marchio di protezione a nome suo48, se non in
famiglia e tra gli amici più stretti?
Attorno all’autorità carismatica nacque così il clan49, un insieme di attori
individuali -organizzati gerarchicamente- che, avendo imposto il proprio
monopolio della violenza su uno specifico territorio, godevano del consenso
silenzioso di una parte della popolazione. Questa impresa indipendente sarà più
L. 646/1982. La legge La Torre-Rognoni, modificativa dell’art. 416 del c. p., così recita:
«L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza
di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà
che ne deriva per commettere delitti, acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o
comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e
servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri».
47 Il giudice Salamone: «Ciascuno degli associati può usare la forza di intimidazione come un
bene immateriale proprio dell’associazione, costituendo essa un patrimonio comune a tutti
gli associati e quindi appartenente pro indiviso a ciascuno di essi» dall’Ordinanza Sentenza
per la Corte di Assise di Agrigento contro Ferro Antonio e altri 55, Agrigento, maggio 1986,
4 voll., p. 280. Pares cum paribus facillime congregantur (Cicerone).
48 Contorno spiega che non è il nome della famiglia a fare la differenza, quanto quello del
capo. Dalla testimonianza di Salvatore Contorno resa ai giudici istruttori di Palermo,
pubblicata dal «Giornale di Sicilia» il 25 aprile 1986.
49
Per Ouchi è la forma di governo delle transazioni che, fondandosi sulla fiducia
interpersonale, elimina le possibilità di opportunismo e riduce l’incertezza in quanto gli
attori hanno una elevata congruenza sui fini e c’è una bassa misurabilità delle prestazioni
(“equità seriale”).
46
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tardi riconosciuta come “famiglia”50, ovvero l’unità più piccola di socializzazione
ed attività, analogia fondante della mafia.
Un bravo picciotto
Non si veniva assunti: si veniva affiliati, si diventava parte attraverso un rito
d’iniziazione51 in cui si giurava lealtà, si diventava appunto la stessa cosa52.
Durante il rito pseudo-iniziatico si confermava “la modificazione radicale del
regime esistenziale” del nuovo membro mentre si rafforzava la pretesa di diversità
e di superiorità del gruppo nei confronti del suo esterno53. Esso era come un filtro
preliminare, in quanto metteva alla prova il nuovo arrivato e poi gli forniva dei
«mezzi di riconoscimento»54.
Tra questi era stati accettato soltanto chi, oltre che portare risorse specifiche (dalla
freddezza omicida alle conoscenze chimiche) e capitale (economico o sociale non
importa) all’interno della cosca (le cui attività sarebbero dipese dalle contingenze
Lupo e Sangiuolo sono del parere che “cosca”, che in dialetto palermitano equivale alla
parte più interna del carciofo, significhi famiglia e che quest’ultimo termine, invece,
provenga dall’America.
51 Seppur con differenze presenti all’interno delle diverse famiglie e aree mafiose: la nuova
recluta -per sigillare un contratto che non può essere ratificato nel modo convenzionale- è
portata in presenza di altri membri, il membro officiante lo punge con un ago su un dito,
alcune gocce del suo sangue sono fatte cadere su una santina (un cartoncino con l’immagine
di un santo, che pare venga usata anche per la raccolta del pizzo), il foglietto viene
incendiato e, mentre esso si passa velocemente di mano in mano, il novizio presta un
giuramento di fedeltà alla famiglia. Il più evocativo, tra tanti, è: “Come si brucia questa
santa e questi pochi gocci del mio sangue, così verserò tutto il mio sangue per la fratellanza,
e come non può tornare questa cenere nel proprio stato e questo sangue nel proprio stato,
così non posso lasciare la fratellanza”. Per ulteriori modalità si consiglia l’Appendice II de
La mafia siciliana, cit.
52
Hess sostiene che «la cosca non è un gruppo; l’interazione e il sentimento del noi, come
pure la consapevolezza di una meta comune, mancano o sono minime. Anzitutto essa si
configura come una serie di relazioni a coppie che il mafioso intrattiene con persone tra loro
indipendenti»; vedi H. Hess, Mafia, Bari, Laterza, 1993, p. 109. Ciò però non sembra
dimostrabile alla luce del fatto che i mafiosi, condividendo un codice primordiale (la
provenienza siciliana, il dialetto, i gesti indagatori o rivelatori) ed uno civico -seppur
perverso- hanno un minimo di identità collettiva.
53 M. Elide, Birth and Rebirth. Rites and Symbols of initiation, New York, Harper & Row,
1958, p. 9-10.
54 F. Armao, Il sistema mafia, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 76-80.
50
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di mercato e dalle capacità manageriali del capo)55, avesse aderito ai valori ed alle
norme del gruppo; avesse cioè mantenuto un comportamento ‘mafiosamente’
integerrimo. Convincere, con le buone o con le cattive, che la protezione, la fiducia
e l’amicizia offerte, erano irrifiutabili. Occorreva essere percepiti come persone
disponibili fino alla magnanimità56, ma anche facilmente permalose.
«Il mafioso -così lo descrive Sciascia- vuole essere rispettato e rispetta quasi
sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi ragione
personalmente da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo
sentire di lui»57.
Il codice d’onore
Era vietato avere contatti con le forze dell’ordine, se non per denunciare il furto
della propria auto o per assicurare malviventi alla giustizia58, ed era vietato
insidiare le donne di altri uomini d’onore; più tardi sarebbe stato vietato essere
comunisti o omosessuali. La buona reputazione, la rispettabilità, si sarebbero
mantenute conducendo una vita familiare e sociale ineccepibile59, non simulando
la pazzia o non tentando l’evasione in caso di fermo.
«Il capomafia regola la divisione del lavoro e delle funzioni, la disciplina fra gli operai di
quest’industria, disciplina indispensabile in questa come in ogni altra per ottenere
abbondanza e costanza di guadagni» o anche, sempre sul capomafia: «è di carattere
violento, è individuo scaltro con spiccata capacità organizzativa, per cui gode di un
ascendente indiscusso fra i pregiudicati e i mafiosi del luogo […] la sua funzione si esplica e
si limita alla sola organizzazione della delinquenza» da G. Li Causi (a cura di), I boss della
mafia, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 273.
56 Noti a tutti i siciliani, e non solo, sono le manifestazioni pubbliche sponsorizzate dalla
mafia: un esempio che viene dall’altra sponda dell’Atlantico erano i fuochi d’artificio
organizzati ogni anno da John Gotti; vedi «La Repubblica», 13 febbraio 1990.
57 L. Sciascia, Filologia, cit., p. 1325.
58 «Perché se l’auto fosse stata usata per commettere un crimine, il mafioso avrebbe rischiato
di essere confuso con i banditi» dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, pubblicate il 4
aprile 1986 dal «Giornale di Sicilia». A volte il mafioso assurge a tutore della legge, come nel
1988 quando a Trapani venne assassinato il giudice Giacomelli e la mafia condusse una
fruttuosa inchiesta parallela per non essere considerata responsabile dell’omicidio.
59 Un mafioso ovviamente non poteva essere né cornuto, perché avrebbe significato che non
era in grado di “proteggere” nemmeno la moglie, né avere un’amante, la quale avrebbe
potuto conoscere delle informazioni riservate o ricattarlo. Buscetta, per essersi divorziato e
aver mantenuto delle relazioni extraconiugali, venne “posato”, ovvero espulso
dall’organizzazione. Totò Inzerillo venne invece ucciso mentre usciva dall’appartamento
della sua amante. Il pentito Antonino Calderone, però, aggiunge: «quando trattasi di
personaggi importanti e di prestigio, anche questi ostacoli vengono superati» (dalla
testimonianza resa alla Commissione Rogatoria Internazionale, vol. II, p. 472-510). Si sa che
se è il capo a non rispettare le norme, è diverso…
55
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Nell’impresa di protezione vigeva una solidarietà quasi fraterna, celata dietro un
muro d’omertà60. Hess individua quattro norme fondamentali dell’agire mafioso,
che vale la pena di elencare, perché possono essere re-interpretate alla luce della
protezione: vendicare con il sangue i compagni, per Gambetta, non sarebbe
soltanto un motivo d’onore, ma anche e soprattutto la dimostrazione che i colleghi
sono protetti contro ogni eventualità. Aiutarli quando sono nei guai con la giustizia
e spartirsi i profitti sarebbero delle clausole di assicurazione, mentre tenere la
bocca chiusa il termine di partecipazione all’associazione. La regola della
riservatezza, del silenzio sull’affiliazione, sugli affari, sull’esistenza stessa della
mafia era senza dubbio la più importante perché essa serviva per proteggere la
stessa famiglia dalle indagini giudiziarie e da possibili concorrenti, nonché per
creare attorno ad essa un’aurea “sacrale”61.
La carriera all’interno della mafia siciliana presentava -a dire dell’autore- aspetti
meno cruenti rispetto alle guerre di camorra. Gambetta spiega questa differenza
con il maggiore rispetto che si nutre in Sicilia nei confronti dei più anziani e che
avrebbe dato vita a momenti di promozione professionale più ordinati. I giovani,
quindi, concorrevano per conquistare la fiducia di un capo lavorando sodo, e i più
anziani approfittavano della competizione per mantenersi più a lungo al vertice62.
La successione di Don Peppe era una medaglia a due facce: da un lato costituiva
un’opportunità di ridefinizione della missione e dell’organizzazione stessa,
dall’altro era il momento in cui la famiglia era più esposta ad arrivismi interni o
concorrenza esterna. La sostituzione del leader non seguiva sempre la discendenza
genetica, perché avere un cognome illustre non era importante quanto avere una
buona reputazione personale. Spesso era il capomafia, per ragioni d’età, a mettersi
Spiegare l’omertà dei cittadini siciliani onesti non è poi tanto difficile: essa non è
culturalmente data, ma è una strategia razionale -di sopravvivenza- dell’attore individuale
(immerso in un limbo di sfiducia). Chi sarebbe così ingenuo da svelare l’identità di un
omicida quando quest’ultimo è ancora a piede libero ed ha, controllando il territorio, la
possibilità di scoprire il testimone -e fargliela pagare-? La saggezza popolare siciliana la
spiega così: “Chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni!”.
61
Chi rivela un segreto importante, in Sicilia, è considerato un traditore, un infame.
62
E’ un sistema per impedire che i giovani più impazienti riescano a farsi strada da soli. Il
pentito Calzetta, infatti, dice: «se uno si costruisce da solo, campa poco». Ciò varrà anche
per un livello più allargato dell’azione mafiosa. Vedi D. Gambetta, La mafia siciliana, cit.,
pp. 146-150.
60
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da parte nominando un suo sostituto; altre volte lo indicava in punto di morte63;
altre volte ancora si racconta di nuovi capi eletti per acclamazione64.
L’avvicendamento, oltre a dover essere comunicato all’esterno65, avrebbe dovuto
soddisfare tutti.
“Parente del mio parente che a me non viene niente” ?
Se la famiglia avesse assunto grandi dimensioni, ciò avrebbe spinto alla
suddivisione degli uomini d’onore (“operai”) in gruppi più piccoli attorno a
“capidecina”, che erano una sorta di dirigenti in una struttura divisionale66, gli
unici –in questo caso- ad avere l’appannaggio di comunicare con Don Peppe (“il
rappresentante”) e con i suoi “consiglieri”67.
La grandezza era simbolo di potere militare, sociale, economico; militare perché
disponeva di una rilevante potenza di fuoco, sociale perché il consenso della
Nel 1943, il capomafia di Corleone disse: «quando si chiuderanno i miei occhi, vedrò con
quelli di Michele Navarra» da H. Hess, Mafia, cit., p. 87.
64 Una modalità di sostituzione, che sembra essersi affermata soprattutto negli anni della
repressione giudiziaria, è quella della reggenza. Seguendo questa, il nuovo leader sarebbe
nominato dai vecchi delle imprese territorialmente contigue o dagli organismi superiori di
coordinamento.
65
Durante il funerale del boss Colletti, si rispettò un “ordine di parata”, alla cui testa c’era
Sortino, cognato di Colletti emigrato negli States, che era diventato presumibilmente il
nuovo capo. Da G. Arnone (a cura di), Mafia. Il processo di Agrigento, Monreale, edizioni
La Zisa, 1988, pp. 123-124.
66 Il criterio di differenziazione della struttura divisionale è il risultato. All’apice della
struttura c’è il direttore generale, possibilmente affiancato da uno staff, che lascia piena
autonomia ai capi divisione, i quali -però- devono contrattare gli obiettivi con il vertice. La
struttura divisionale è quindi orientata al mercato (piuttosto che al prodotto come sarebbe
stato per una funzionale) con una particolare attenzione al territorio. Ciò permette la
tecnica del bench-marking, in altre parole la possibilità di emulare le soluzioni più efficienti
di altre divisioni. Le uniche debolezze della divisionalità stanno nei costi maggiori iniziali e
nella possibile eccessiva autonomia.
67 «Non è possibile un rapporto diretto tra l’uomo d’onore e il rappresentante non mediato
dall’intervento del capodecina. In alcune parti, tuttavia, come a Palermo, vi sono nelle
famiglie uomini d’onore che dipendono direttamente dal rappresentante e che costituiscono
sue persone di assoluta fiducia, che generalmente vengono incaricate di eseguire gli incarichi
più segreti e delicati». Dalla rivelazioni rese alla Commissione Rogatoria Internazionale da
Antonino Calderone, vol. III, p, 738.
63
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famiglia travalicava i confini di essa allargandosi su quella zona grigia di amicizie
in “odore di mafia”68, economico per il volume degli affari protetti69.
Ma la grande dimensione necessitava una disciplina ed un controllo più ferrei del
solito; non c’è bisogno di utilizzare il will to power di Nietsche, per immaginare
l’invidia, le antipatie, i conflitti di potere all’interno di tale arena politica,
territoriale e nello stesso tempo di membership, i cui confini erano effettivamente
impermeabili e le cui uniche opportunità di exit erano la morte o la vergognosa
espulsione. Il silenzio, in questo caso, avrebbe nascosto sia gli arcana dominationis
che gli arcana seditionis70.
Ogni controversia sarebbe stata gestita dal capomafia, ma non ognuna di esse
sarebbe stata risolta. Se, per esempio, un capodecina ambizioso, un uomo dotato di
“audacia, freddezza, astuzia, svelto di mano e di cervello”, fosse riuscito a disporre
di risorse militari (magari sotto l’ala di una famiglia più potente), economiche
(perché protettore di un facoltoso cliente) e di una buona reputazione, egli poteva
ambire alla creazione di una nuova famiglia o addirittura all’eliminazione della
fazione familiare a lui contraria71.
L’insieme di imprese
L’impresa aveva il dominio di protezione su una frazione ben specifica del
territorio, il che implicava la coesistenza di più famiglie in aree contigue, «un
Si consiglia la lettura di U. Santino, La borghesia mafiosa, Palermo, CSPI, 1989.
La famiglia più grossa di sempre pare sia stata quella di Bontade, che contava da 120 a
200 uomini d’onore. Calderone, nelle sue già citata testimonianza, sottolinea che «ognuno di
essi poteva contare su almeno 40-50 persone, che ne seguivano pedissequamente le
direttive». Non è un caso, a questo punto, che i fratelli Salvo fossero stati cooptati nella
mafia proprio dalla famiglia Bontade.
70 Lo spunto è tratto da F. Armao, Il sistema mafia, cit., p. 85.
71 «Egli inoltre deve avere legami e rapporti con gli uomini più rappresentativi di ogni strato
della società […] L’isolamento del mafioso è uno dei più gravi handicap, per cui anche il
killer più spietato, che pure è temuto e ‘rispettato’ da tutti, se è isolato, è destinato a non
diventare mai capo e a non avere mai autorità nella sua famiglia» da A. Sangiuolo,
L’onorata società, Napoli, Fratelli Conte, 1983, p. 33.
68
69
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mosaico di piccole repubblichette dai confini topografici segnati dalla tradizione»72
. Avrebbero cooperato o si sarebbero fatte la guerra?
Secondo l’autore sarebbero rimaste imprese indipendenti73, anche se non si può
negare l’esistenza di esempi di relazioni tra esse.
Nella storia della mafia è riscontrabile la presenza di più famiglie nello stesso
paese, ma solo quando esse si interessano di campi diversi74. Esistono, poi,
“alleanze naturali” tra le famiglie urbane e contadine, tra le famiglie siciliane e
americane, ma non è chiaro se si sia trattato di integrazioni verticali, di vincoli
parentali o di una certa reciprocità di favori75. La città offre, infatti, numerose
possibilità di commercio della protezione, e soprattutto in tempi di pace prende il
sopravvento; la campagna, invece, rimane strategica, perché arroccata sulla
tradizione e perché ottima per le riunioni o la latitanza76.
Rimane da capire se i legami tra le famiglie fossero forti o, come sostiene l’autore,
tendenzialmente deboli.
Dal mandamento alla commissione regionale
Dalle dichiarazioni dei pentiti emerge, infatti, l’esistenza di un coordinamento a
livello sovra-territoriale, una sorta di protezione delle imprese di protezione.
«I mafiosi palermitani -racconta Calderone- nascono, vivono e muoiono nello stesso posto.
Il quartiere è la loro vita, la loro famiglia vive lì da generazioni e sono tutti parenti […]
Bontade ha buttato giù la casa di suo padre e vi ha costruito sopra una reggia. Non si sono
mossi di un metro dal loro regno, dove sono i padroni assoluti da decenni e decenni» da P.
Arlacchi, Gli uomini del disonore, cit., p. 148.
73 Questo regime oligarchico è stato ridefinito “una spartizione giurisdizionale stabile” da T.
Schelling, Choice and Consequence, Cambridge (USA), Harvard University Press, 1984, p.
182.
74 A questo proposito vedi A. Sangiuolo, L’onorata società, cit., p. 33.
75 Come lo scambio di killers, l’appalto di porzioni di territorio o di mercati particolari.
76 Il giudice Falcone giunse alla convinzione che «in un certo senso conti più la Sicilia interna
di Palermo centro. Nella geografia delle cosche la città di Palermo conta molto, ma fino ad
un certo punto. Palermo ratifica le decisioni che vengono prese nella Sicilia interna e nei
sobborghi della città. E non sto pensando soltanto a Corleone, alla mafia di Corleone. Penso
alla provincia di Caltanissetta, penso a quella trapanese, luoghi dove la mafia ha in tutti i
sensi un controllo capillare del territorio»; tratto da «La Repubblica» del 1° marzo 1991.
72
PAGE 3
La creazione di tali oscuri organismi pare sia stata importata dagli Stati Uniti (dallo
sbarco dei “cugini” americani77) dove la mafia si era già evoluta in enterprise
syndicate, accrescendo il suo ruolo di power syndicate.
Il power syndicate sarebbe il nucleo della mafia (quella dedicata al monopolio
della violenza e alla protezione), mentre l’enterprise syndicate sarebbe il network
di affari illeciti a cui si dedicano alcuni membri a titolo personale (macellazione
clandestina, contrabbando, gioco d’azzardo, traffico di stupefacenti, appalti),
sempre che abbiano ricevuto l’assenso dal centro del potere78.
Le prime famiglie che adottarono tale soluzione furono quelle palermitane, perché
più numerose e quindi più irrequiete e perché i limiti territoriali non erano sempre
ben definiti, generando incomprensioni su chi avesse dovuto proteggere una data
zona o un dato tipo di clienti.
I vari Don Peppe si raggrupparono in un “mandamento”, che a sua volta era
rappresentato da un capomandamento all’interno della “provincia”, luogo
d’incontro di più mandamenti79. Egli era espressione degli interessi di più cosche,
era il capo più autorevole80, più ‘onorevole’ usando una terminologia parlamentare.
Stando a ciò che racconta Buscetta, soltanto «successivamente la funzione della
commissione provinciale si è estesa fino a disciplinare le attività della famiglie
«La commissione non faceva parte della mia Tradizione; non esisteva un organismo di
questo tipo in Sicilia» da J. Bonanno, Uomo d’onore, Milano, Interno Giallo, 1992, p. 172.
78
A. Block, East Side-West Side: organizing crime in New York (1930-1950), New York,
Transaction Press, 1982, p. 129.
79 Buscetta sostiene che il numero dei capimandamento presenti nella “provincia” era
variabile, ma normalmente «è di dieci unità o poco più». Dal «Giornale di Sicilia» del 12
aprile 1986.
80 D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 158.
77
PAGE 3
esistenti in una provincia»81; inizialmente, si tratta della fine degli anni cinquanta 82
, venne usata per «dirimere i contrasti tra i membri delle varie famiglie e i rispettivi
capi», in altre parole per blindare i capifamiglia da individui mafiosi
eccezionalmente razionali.
.
Pare esistette anche una commissione regionale 83, che riuniva tutte le province su
un piano paritario -sebbene Palermo fosse dominante- e che rese possibile fare
«accordi su affari di interesse comune»84. Le famiglie, in questo punto,
probabilmente cedettero a questa entità federale una quota ampia della loro
indipendenza, del loro potere decisionale, della loro violenza; in cambio, però,
acquistarono in termini di potere intimidatorio nei confronti di tutti e, quindi, di
guadagno in senso lato.
Dalla testimonianza di Buscetta di fronte al giudice Falcone, luglio-agosto 1984, vol. I, p.
21.
82 Famoso è il summit di livello internazionale avvenuto nel 1957 all’Hotel delle Palme a
Palermo. Presenti illustri “gangster e manager” d’oltreoceano: Lucky Luciano, Joseph
Bonanno, Frank Carrol, esponenti di primo piano della famiglia Genovese. Tra i siciliani, il
vecchio Genco Russo, i fratelli Greco, i Badalamenti e i giovani fratelli La Barbera e il
corleonese Luciano Liggio, che qualche mese più tardi avrebbe ucciso Navarra, ultimo vero
boss di tradizione campagnola; vedi G. C. Marino, Storia della Mafia, Roma, Newton &
Compton, 1998, pp. 212-214. L’espressione “cosa nostra” potrebbe essere stata coniata
proprio in quella situazione (il primo ad usarla fu proprio il primo pentito americano Joe
Valichi, nel 1950). Buscetta, in una delle sue tante rivelazioni, disse: «il termine cosa nostra
mi è capitato di sentirlo usare per indicare le organizzazioni che hanno operato in America».
Calderone, un altro pentito di mafia, raccontò che chi lo iniziò gli disse: «Ma guarda che la
mafia vera non è la stessa mafia di cui parlano gli altri. Questa è Cosa Nostra. Si chiama
Cosa Nostra. Hai capito? E cosa nostra non è mafia. Mafia la chiamano gli sbirri, i
giornali». Da P. Arlacchi, Gli uomini del disonore, cit., pp. 55-56.
83 Calderone sostiene che, antecedentemente all’istituzione della cupola, c’era già un
rappresentante regionale, un primus inter pares. Il primo fra tutti sarebbe stato Don Calò
Vizzini, di Villalba; poi Don Andrea Fazio, Giuseppe Calderone, Giueseppe Settecasi.
L’ultimo nome di cui c’è dato sapere è quello di Michele Greco (“il papa”).
84 Seguendo l’elencazione di Catino, le funzioni di quest’ultimo organismo sarebbero: «i)
coordinare e controllare l’attività complessiva di Cosa Nostra; ii) dirimere e ricomporre i
conflitti tra le famiglie; iii) fissare le norme riguardanti il reclutamento e supervisionare il
reclutamento degli uomini d’onore da parte delle singole famiglie; iv) decidere
l’eliminazione di persone pericolose o simboliche nella vita dell’organizzazione (es. omicidi
politici); v) stabilire e mantenere i legami con il sistema politico nazionale e locale; vi)
organizzare e dividere i principali flussi di risorse a disposizione dell’organizzazione; vii)
regolare la divisione territoriale tra le singole famiglie che in Sicilia è la forma prevalente di
suddivisione degli affari». Da M. Catino, La mafia come fenomeno organizzativo, in
«Quaderni di sociologia», n. 14, 1997, p. 91.
81
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CAPITOLO IV
Le attività mafiose
A questo punto è chiaro che il potere di cui dispone il mafioso è basato
essenzialmente sulla minaccia o sull’uso -a scopo dimostrativo o repressivo- della
violenza. Al fine di rendere meno astratta la mafia, occorre soffermarsi su come
essa si manifesta, su come si ripaga e a chi è stata “offerta”.
La protezione
Quella estorta…
La storia degli ultimi anni è costellata di avvertimenti, di telefonate anonime e di
attentati incendiari, che consigliano ai commercianti di pagare il pizzo 85, vale a dire
versare una somma iniziale e poi delle quote più piccole a precise scadenze
temporali.
Non esistono fonti, però, che propongono suggerimenti in merito alla genesi di
questo capillare ed infallibile “prelievo fiscale”. Forse, la vicenda di Lucky
Luciano86 può essere interpretata come la nascita del racket, della formula “ci sono
dei delinquenti in giro; se mi paghi, non ti succederà niente”, come la
riaffermazione del monopolio della violenza. Ciò potrebbe essere supportato dal
fatto che questa usanza è stata ed è largamente usata dai corleonesi, incontrastati
vincitori dell’ultima faida mafiosa e maggiori interpreti del gangsterismo (alla Al
Capone).
Al di là della datazione, anche circoscrivere questo sistema di autofinanziamento è
pressoché impossibile. Seguendo la vox populi, che in Sicilia è spesso ineffabile
In siciliano “pizzo” significa “un pezzo”, ma anche dirupo.
«Lucky Luciano notò che alcuni ragazzi più grandi aspettavano per la strada i bambini
più piccoli, e meno robusti di loro, per picchiarli e derubarli. Allora pensò di trarre profitto
da questo: per un penny o due al giorno vendeva la sua protezione alle potenziali vittime. Se
questi pagavano potevano essere sicuri che il loro tragitto quotidiano a scuola e ritorno si
sarebbe svolto senza danni. Lucky non era mai stato un gigante, ma era abbastanza grande,
e abbastanza duro, da mantenere il suo impegno di protezione». Tratto da M. Gosh e R.
Hammer, L’ultimo testamento di Lucky Luciano, Milano, Sperling Kupfer, 1975, p. 6.
85
86
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ma altrettanto spesso è mistificatoria, tutti pagano. Se fosse falso, sarebbe un velato
stimolo a farlo; se fosse vero, vorrebbe dire che la mafia ha raggiunto
un’organizzazione tale da imporre pagamenti probabilmente modesti 87 su tutto il
territorio e tale da accontentare le esigenze di ognuno. La mancanza di denuncie 88
non permette di stimare né l’ampiezza né la consistenza delle riscossioni.
La protezione, in questo caso estorta, metterà al riparo dai danneggiamenti, dai
furti, dal rapimento89, dall’estorsione della delinquenza comune o degli stessi
mafiosi.
…e quella richiesta
L’autore, invece, afferma che «il denaro per la protezione viene pagato
spontaneamente», sia dal compratore che, possibilmente, dal venditore.
«Possibilmente» perché è don Peppe a scegliere a chi, tra le parti, accordare la sua
particolare fiducia, il suo marchio di reputazione 90. I costi saranno più alti, ma la
transazione avverrà comunque soddisfacendo entrambe le parti. Qui, Gambetta,
identifica la giustificazione razionale dell’esistenza della mafia.
Ma ciò, più che avere le sembianze di un’estorsione, ricorda la formula del servizio
o della tangente implicando una valutazione delle interazioni tra domanda e offerta.
E’ il mafioso che offre protezione o è il mercato a richiederla?
Nel caso delle transazioni illegali, la loro stessa natura necessita di un protettore, di
un qualcuno che possa assicurare una zona franca di transazioni 91 -e magari un
consistente credito- e che abbia, come contromisura, la capacità di riscuoterlo92.
Da L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, cit., p. 126. «Perché
se i malfattori usassero fino all’estremo la loro facoltà distruttiva, mancherebbe loro ben
presto la materia rubabile». Ciò è giustificabile solamente nei casi in cui l’impresa di
protezione ha notevoli possibilità di agire sul lungo periodo.
88 chiuso il numero verde anti-racket. narcomafie
89 D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 253.
90 Ibid., p. 12-13. Il compratore, acquistando la fiducia mafiosa, si metterà al riparo da
possibili bidoni perché protetto violentemente. Il venditore comprerà il marchio mafioso per
assicurarsi contro la sua stessa tentazione di rifilare dei “pacchi” e per ricevere l’interezza
dei pagamenti a tempo debito.
91 Il trafficante di droga, così come in ogni altro traffico illecito, ha bisogno di conoscere il
territorio teatro delle sue operazioni e di sentirsi sicuro lì.
92 La lupara bianca potrebbe essere un esempio di regolamento dei conti.
87
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Nei mercati regolati, invece, capire cosa spinga a richiedere o comprare la merce
mafiosa è incomprensibile da un punto di vista morale ed etico, ma è pur sempre
razionale da un punto di vista economico. L’autore individua la razionalità della
protezione mafiosa in alcune «esternalità», che il suo consumo produce, e nella
capacità della mafia di impedire l’entrata a nuovi concorrenti nel mercato legale in
questione.
Alcune di queste esternalità sono negative: se qualcuno dovesse accettare delle
promesse mafiose poi mantenute, innescherebbe involontariamente un processo di
emulazione in coloro i quali, non avendo accettato, continuano a subire danni93;
altre sono definite positive e vengono descritte come il picchettaggio sindacale
contro i free riders94: chi già paga vorrà che paghino anche gli altri che ne
beneficiano senza pagare, a meno che non siano concorrenti (in tal caso si chiederà
alla mafia di intervenire a monte impedendo ad essi l’entrata nel mercato).
Non mancano gli esempi in cui questo particolare tipo di protezione viene non
soltanto pagata in denaro, ma anche con la partecipazione più o meno diretta della
mafia all’impresa richiedente95 che può portare fino all’internalizzazione
dell’attività protetta 96.
La regolazione del mercato
Di solito la spartizione dei clienti segue i confini del monopolio della violenza
delle famiglie. Infatti, se un cliente vuole operare in un territorio differente dal
proprio, è necessario chiedere il permesso alla famiglia competente nel territorio
D. Gambetta, La mafia siciliana, cit. p. 26. «In una città dove tutti usano l’auto, è facile
che il trasporto pubblico ne venga penalizzato: questo costringerà molte più persone a
comprare una macchina, per evitare il disservizio indotto indirettamente da coloro che per
primi hanno acquistato le automobili».
94 In questo caso Gambetta si confonde. Prima (D. Gambetta, Mafia: i costi della sfiducia,
cit., p. 301) sostiene che la protezione mafiosa è un bene posizionale per cui i clienti faranno
a gara per ottenerla ed escludere gli altri; qui (D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 27) la
definisce come un bene indivisibile che spinge chi già ce l’ha a fare pressioni sugli altri per
acquistarla.
95 Contorno afferma che gli imprenditori che venivano aiutati ad ottenere un appalto
avevano due scelte: «o pagavano il pizzo o diventavano soci»; dal «Giornale di Sicilia» del 19
aprile 1986. L’essere soci consisteva per esempio nel fare sconti, assunzioni particolari,
nell’acquistare la merce da aziende appartenenti alla mafia o addirittura nel lasciar
compartecipare la mafia alla conduzione dell’impresa richiedente.
96 Ne è esempio l’affiliazione dei cugini Salvo, clienti così fedeli e così importanti, la cui
Esattoria Siciliana non può non essere pensata come interna al sistema mafioso.
93
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interessato attraverso gli organismi di coordinamento preposti97. Se il cliente però
è protetto da una famiglia molto più potente, l’impresa indigena si fa da parte.
La coordinazione delle attività dei protetti è invece variabile a seconda di cosa
commercino. La mafia si preoccupa di far lavorare prima i propri clienti,
mettendoli in contatto l’uno con l’altro (se -per esempio- si tratta di imprese edili,
si dirà ad esse di acquistare il calcestruzzo da un’impresa anch’essa protetta) o
imponendo loro un sistema di turnazione e talvolta di sorteggio98. Le vittime di
questa strategia sono i possibili concorrenti e soprattutto i consumatori, quelli su
cui economicamente ricade l’inefficienza dei mercati.
La mafia investe
Ma la mafia non si ferma al meccanismo dell’estorsione-protezione. Come utilizza,
infatti, tutto il patrimonio economico che ha messo insieme? E’ credibile che esso
venga “messo sotto il materasso”?
Nonostante Gambetta non spenda nemmeno una parola a riguardo, in fase
conclusiva diventa doveroso accennare qualcosa sugli investimenti mafiosi, su
quella cerchia più esterna dell’organizzazione che è già stata presentata come
enterprise syndicate.
I soldi del pizzo e della protezione richiesta non sono quantificabili data la
mancanza di cifre sul fenomeno, anche se si può immaginare che essi costituiscano
soltanto lo stipendio del mafioso. La commissione antimafia presieduta da Violante
nel 1997 ha invece provato a stimare gli introiti provenienti dai traffici illeciti
come quello degli stupefacenti. E’ impensabile affermare che si tratti di calcoli
precisi, eppure l’ammontare è da capogiro: 70 mila miliardi di lire annue.
«Se -spiega Buscetta- un imprenditore di una provincia intende eseguire lavori di notevole
rilievo in altra provincia, la possibilità che ciò avvenga è riservata al giudizio
dell’interprovinciale».
98 Se c’è una gara d’appalto, la mafia la conquisterà per la sua impresa protetta, avvertendo
le altre. Tenterà, invece, di far stringere un accordo collusivo alle imprese in competizione se
esse sono tutte sue clienti; quella che vincerà, sub-appalterà i lavori alle altre gonfiando in
costruzione d’opera la cifra con la quale si è aggiudicata la gara. Il risultato è che tutti
lavorano e tutti guadagnano: nessuno è scontento.
97
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Si può constatare che con questo denaro la mafia compra immobili99 o nuove
partite di droga, ma si può ipotizzare anche che preferisca riciclarlo. “Pulire i
soldi”, attraverso conti off-shore o con la creazione di aziende operanti nel
territorio, permetterebbe alle imprese mafiose di aumentare la loro capacità di
infiltrazione nel tessuto sano dell’economia e della società, accrescendo così il suo
capitale sociale (dando lavoro) e riaffermando quasi definitivamente il suo
monopolio.
Non è irrealistico, per chiudere e per creare un ponte verso studi successivi, che la
mafia offra protezione e quindi partecipi attivamente anche agli scambi politici,
non soltanto con il “voto mafioso” ma anche con una qualche forma di presenza
illecita all’interno delle istituzioni.
Attraverso le cronache giudiziarie e giornalistiche è risaputo, per esempio, che Totò Riina
ha acquistato grandi appezzamenti di terreno e dove, grazie alla legge della confisca dei beni
mafiosi (La torre-Rognoni), sono sorte delle cooperative agricole anti-mafia e addirittura
una scuola.
99
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CONCLUSIONI
In questo saggio si è tentato di rileggere il fenomeno mafioso con un approccio
razionale, presentando e criticando -ove possibile o necessario- la tesi di Diego
Gambetta.
L’autore ha sostenuto che la mafia è in grado di vendere la sua merce «in
qualunque contesto». Ma tale affermazione è così universalizzante da essere molto
difficilmente dimostrabile. Essa presuppone che questo «insieme di imprese
indipendenti», che qui si è preferito chiamare famiglie mafiose, siano così
abilmente organizzate tra loro, da agire comunque e dovunque.
Di contro, verrebbe da chiedere a Gambetta perché per la mafia è quasi impossibile
attecchire e prosperare in un luogo dove si osserva un sano codice civico, dove
regna la cultura della legalità, dove le istituzioni statali sono presenti ed efficaci,
dove si respira vera fiducia e collaborazione.
Proprio con la mancanza di fiducia Gambetta ha tentato di spiegare il perché della
mafia siciliana. E’ nelle transazioni in deficit o in assenza di fiducia tra le parti in
affari che si avverte il bisogno di protezione privata, di una più o meno reale
garanzia costituita da un terzo che in questo caso possiede il «marchio» mafioso.
L’autore non ha però chiarito di che tipo sia questa supposta garanzia, non è
riuscito a spiegare il punto centrale del tema mafioso, l’essenza violenta di questa
organizzazione territoriale e di membership.
La tesi di Gambetta ha preferito sfruttare l’analogia dell’industria piuttosto che
quella, più verosimile, di entità in qualche misura politica; perché in realtà di
natura alla radice politica è la protezione violenta di cui scrive l’autore, e di cui è
abile monopolista la mafia.
Ultimo, ma soltanto in ordine conclusivo: Gambetta ha utilizzato un approccio
individualista e, a suo dire, razionale. E’ razionalità quella che porta il resto dei
siciliani onesti, dei cittadini e delle istituzioni italiane ad accettare che la mafia,
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silenziosa ma autorevole entità, prosperi favorendo o impedendo a suo piacimento
le attività degli altri?
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