Pagina 73 del primo dei due volumi delle Lettere accademiche, le historiche
e le famigliari di Girolamo Borsieri oggi conservate a Como (I-COc, Ms. Sup. 3.2.43-44).
Nella pagina compaiono una lettera a Battista Guarini e l’inizio
di un’altra a Ruggero Trofeo (v. infra p. 382 e segg.).
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«Un curioso ravolgimento di precetti»
La musica negli scritti di Girolamo Borsieri
Scopo di questo studio è presentare organicamente per la prima volta le testimonianze relative alla musica contenute nell’opera di Girolamo Borsieri
(1588-1624). Tali testimonianze sono state rintracciate in documenti autografi, e in altri contenuti nel volumetto a stampa Il supplimento della nobiltà di
Milano, edito a Milano da Bidelli nel 1619; quest’ultime già note ma mai considerate contestualmente all’attività intellettuale di Borsieri.
Il primo tentativo serio di ricostruzione biografica e di lettura del catalogo delle opere di Girolamo Borsieri fu effettuato da Luciano Caramel nel 1966.
Nel suo studio Arte e artisti nell’epistolario di Girolamo Borsieri 1 egli mise in
luce per la prima volta la ricchezza qualitativa e quantitativa dell’opera, lasciando tuttavia inesplorate vaste zone e quesiti chiave posti dagli scritti stessi del Comasco. Caramel si dedicò alla pubblicazione delle lettere borsieriane
contenenti riferimenti all’arte, rivelando un’interessante e fitta trama di rapporti fra Borsieri e numerosi intellettuali del suo tempo oltre che con alcuni
dei personaggi più noti della scena culturale del primo Seicento, quali Federico Borromeo, Giovanbattista Marino, Battista Guarini, il Morazzone, la famiglia Crespi, la famiglia Procaccini, Guido Reni. In una nota segnalò alcune
epistole contenti riferimenti all’attività musicale di Borsieri e pubblicò un’importante lettera inviata a padre Angiolo Marini contenente riflessioni sulla
musica.2 Ma la gran parte del patrimonio relativo alla musica contenuto ne1 Caramel 1966, opera alla quale rimando anche per la ricostruzione della bibliografia relativa alla vita e alle opere di Borsieri. Sull’importanza dell’epistolario di Borsieri si è soffermato recentemente Kendrick 2002, pp. 104-106, studio imprescindibile per la conoscenza della
musica milanese del periodo e per la ricostruzione generale del mondo musicale che dovette
conoscere Borsieri. A Robert L. Kendrick è affettuosamento dedicato quanto di buono si potrà
trovare in questo mio scritto. Per gli interessi artistici di Borsieri segnalo anche l’importante
contributo di Rovi 1989 che fa luce ulteriormente sugli interessi artistici di Girolamo.
2 Caramel 1966, p. 93 e nota 26, p. 129 lettera xx.
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gli scritti indicati da Caramel è rimasto fino ad oggi sconosciuto; a quest’ultimo inoltre sfuggirono altre missive di Borsieri preziose ai fini della nostra indagine. Anche la voce redatta dallo stesso Caramel per il Dizionario biografico
degli italiani non aggiunge ulteriori informazioni in merito.3
Il primo lavoro dedicato all’attività letteraria di Girolamo Borsieri è frutto
delle ricerche di Enrico Perotto, pubblicate nel 1986.4 Perotto si avvale della
pubblicazione di quindici lettere scritte da Borsieri fra il 1609-10 e il 1614 nelle quali è possibile incontrare le tematiche principali della poetica del Comasco. Il carteggio mostra l’impressionante cultura e varietà di interessi che animavano Borsieri e che lo spingevano ad una critica implacabile e ad una ricerca continua. La lettura delle pagine di Perotto mette in luce un uomo di
alta cultura, schivo, totalmente refrattario alla vita mondana ma al tempo
stesso legato strettamente ad alcune corti; un uomo lontano dall’ideale mariniano della «servitù», lontano dalla poesia come mezzo adulatorio, un uomo
che afferma: «io chiamo perfetto virtuoso colui che con la propria virtù non
ha vitio alcuno».5
Borsieri si mostra poeta legato allo stile madrigalistico di Battista Guarini,
Guido Casoni e Tommaso Stigliani; amante degli epigrammisti classici greci e
latini e costantemente attento all’uso delle figure retoriche in giusto luogo e
grado. In base a ciò Perotto indica in Borsieri un poeta e un critico «barocco
moderato»: vedremo in seguito se potremo essere d’accordo. Purtroppo lo studio di Perotto non fa mai riferimento alle testimonianze relative alla musica
contenute nell’epistolario borsieriano, se non per indicare impropriamente
che Borsieri in gioventù compose «canzoni».6 Le considerazioni che potrò ef3 Caramel 1971. Il primo studio musicologico che prende in considerazione l’epistolario
borsieriano è Tajetti 1988. Peraltro Tajetti fa riferimento a Borsieri pubblicando la lettera cit.
a nota precedente con queste parole:
Il gusto della città di Como, infatti, almeno per quanto riguardava la musica sacra, doveva
essere abbastanza conservatore, o per lo meno solo moderatamente disposto ad accettare le
novità. Può forse esserci d’aiuto in questa valutazione una lettera scritta da Borsieri al Padre d. Angiolo Marini a Roma.
Non c’è bisogno di dire che la mia posizione è del tutto differente. Avevo già anticipato parte
dei contenuti di questo articolo nella comunicazione tenuta a Tours (novembre 1993) La necessità dell’exemplum: il pensiero di Girolamo Borsieri sulle monache musiciste, nell’ambito del
Conference on Women and Music in the Renaissance. Sono lieto che parte del materiale borsieriano sia stato utilizzato in questi anni dagli amici e colleghi Robert L. Kendrick, Dinko Fabris, Marina Toffetti.
4 Perotto 1986.
5 Ibidem, p. 224.
6 Ibidem, p. 220.
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fettuare sugli scritti di Borsieri relativi alla musica saranno dunque necessariamente provvisorie, essendo questo il primo scritto che se ne occupa.
La vita
Girolamo Borsieri nacque a Como nel 1588 (fu battezzato il 3 marzo di quell’anno) da Giovanni Battista e da una donna della famiglia Rusca di cui non
conosciamo il nome proprio.7 Lucini Passalaqua, uno dei più noti storici del
territorio comasco dell’alto Seicento, ci informa che Giovanni Battista fu miniatore ed attento collezionista.8 Non sappiamo comunque nulla dell’infanzia di Girolamo, e le prime notizie certe sulla sua educazione e i suoi studi lo
rivelano presso il Collegio Gesuitico di Brera in Milano, dove fu probabilmente allievo di padre Cesare Isnardi.9 Borsieri rivelò ben presto un discreto talento poetico, tanto che il giureconsulto Ettore Capriolo fece pubblicare
a Milano la prima opera del Comasco, L’amorosa prudenza, nel 1610 premettendovi un «discorso allegorico».10 Da quest’ultimo apprendiamo come lo
stesso Capriolo si fosse adoperato per spronare Borsieri al completamento
dell’opera e al suo allestimento. La favola pastorale fu ristampata, sempre a
Milano dal medesimo editore, nel 1611. Nel 1612 Ettore Capriolo fece pubblicare una raccolta di madrigali di Girolamo Borsieri, in due parti e sei libri,
dal titolo Scherzi.11 In seguito il Comasco non abbandonò la poesia, ma dagli
anni seguenti cominciò ad occuparsi prevalentemente di ricerca erudita e di
carattere storico avviandosi contemporaneamente all’attività sacerdotale,
della quale abbiamo le prime testimonianze a partire dal 1613.12 Gli studi che
Borsieri svolse furono copiosissimi, e solamente una parte d’essi è sopravvissuta: in gran numero rimasero manoscritti, proponendosi Girolamo il voler7 Le notizie biografiche di Borsieri sono in Caramel 1966, pp. 92-95.
8 Le attività di Giovanni Battista, personaggio anch’esso assai interessante, sono descritte da
Lucini 1620, p. 152. L’attività principale di Giovanni Battista fu però probabilmente la mercatura; v. Rovi 1989, p. 67.
9 Si veda a questo proposito la lettera inviata a Guido Mazenta, pubblicata in Caramel
1966, p. 121, lettera xv.
10 Borsieri 1610. Il «discorso allegorico» contiene un’indicazione espressa da Capriolo sull’attività di Borsieri: «so ch’egli ora attende ad altro ch’a studi di poesia».
11 Entrambe le parti furono pubblicate a Milano nel 1612, la prima da Niccolò Moioli, la seconda da Bernardino Landoli. Come vedremo Borsieri scrisse altri tre libri di scherzi, rimasti
manoscritti e conservati oggi in I-COc.
12 A questo proposito si veda Caramel 1966, p. 94, e soprattutto la nota 32. In un atto conservato in I-Mas, Fondo di religione p. a., cart. 3515 (notaio Giovanni Sala, rogito del 4 marzo
1615), Borsieri è definito: «Reverendus dominus Hieronimus Borsierius … clericus in minoris
ordinibus constitutus». Cfr. anche Rovi 1989, p. 67.
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li pubblicare in «età matura»; non ne ebbe il tempo, morendo ancor giovane
l’8 luglio 1629.13
Una delle attività che occupò più intensamente Borsieri nel corso della sua
giovinezza fu senz’altro lo studio della musica, come ci testimoniano non solo
Ettore Capriolo nel 1611 e Bernardino Landoli nel 1612, ma gli autografi stessi
di Borsieri, il quale in più luoghi richiama le sue attività di musico e di compositore, attività precocemente e con rammarico abbandonate.14 Sappiamo
13 Gli ultimi anni della vita di Girolamo furono funestati dal comportamento del fratello
Alessandro, che commise un omicidio, e dal conseguente dissesto finanziario della famiglia. Il
nucleo principale delle opere di Girolamo Borsieri è oggi conservato in I-COc. Ne fornisco di
seguito le indicazioni principali, elencando la collocazione dei volumi e il loro contenuto. I mss.
sono tutti autografi:
– Ms. Sup. 3.2.42: si tratta di un’opera stesa nel 1617 contenente uno studio sulla lingua italiana dedicato a Federico Borromeo;
– Ms. Sup. 3.2.43-44: Lettere accademiche, le historiche e le famigliari, che contengono i documenti di cui dirò in seguito e che in parte sono state pubblicate da Luciano Caramel;
– Ms. Sup. 3.2.45: contiene tre libri inediti (vii, viii, ix) degli Scherzi; seguono poesie di diversi autori, quindi un testo indirizzato agli Accademici Affidati, infine l’opera intitolata Pio
Salterio, Affetti spirituali;
– Ms. Sup. 3.2.46: contiene il Salium, un’opera in sette libri, e il Tumultus haereseon recentiorum in examen fideliter accitus et pie sublatus studio Hieronimi Borsaeri Theologi Novocomensis Canonumque in collegio Ambrosiano primarij professoris;
– Ms. Sup. 3.2.47: contiene il De Fundamentis ethnicae theographiae, dedicato a Federico
Borromeo;
– Ms. 4.4.21: contiene l’opera Tomus primus Adversariorum ad theatrum insubricae magnificentiae, un lavoro in cui Borsieri inizia una catalogazione sistematica di tutte le iscrizioni
classiche situate nel nord Italia; sono andati persi il secondo e il terzo volume;
– Ms. Sup. 2.2.1: contiene la Novocomensis historia habita ex censuris Bentii, Cassiodori,
Abundi Raymundi et aliorum Studio Hieronymi Borsaerij P. N. A. I. cum Chronica patria Benedicti Iovii P. comensis; si tratta di un’edizione purgata dagli errori della Historia patria di
Benedetto Giovio.
Altri mss. di Girolamo Borsieri sono conservati in I-Ma; si tratta in parte di originali delle lettere, come elencato in Ambrosiana 1960, p. 78. Sono nove le missive borsieriane e non sette
come segnalato da Caramel, il quale a sua volta si avvale della lettura di Nicodemi 1941. Presso la medesima biblioteca si trova l’opera Gli Aforismi delle imprese. Lettioni accademiche (I-Ma,
Trotti, 214) catalogata da Caramel. Un’ulteriore manoscritto borsieriano ivi conservato, apparentemente non autografo, è la versione manoscritta del Supplimento della Nobiltà di Milano
fino ad oggi sconosciuta agli studiosi borsieriani (I-Ma, Ms. b 101 suss., olim c.s.ii.23). Nell’ultimo decennio della sua vita oltre al Supplimento (Borsieri 1619), pubblicato con la ristampa
di Morigia 1595, vide la luce la Vita della beata Maddalena Albricia comasca agostiniana (Morigia 1624). Sulle opere oggi disperse si veda Caramel 1966, pp. 97-99.
14 Borsieri si dichiara musicista o ex musicista in numerose sue lettere. Si veda ad esempio
quella inviata a Leandro Visconte: «Tempo fu già, in cui anch’io musico incerto del proprio fine
volli toccar e cetre e sampogne. Il mondo non mi arrise; ben rise per l’armonia che da me di-
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che Borsieri pubblicò delle todeschine grazie all’interessamento di padre Angiolo Marini, in data sconosciuta, ma sicuramente prima del 1612,15 e fors’anche assai prima se accettiamo come veritiere le parole che Borsieri esprime
nella Lettera al sig.r Giovanni Battista Sacco segretario del Senato di Milano:
… Altro memoriale non ho io, con cui possa meglio procurar da V. S. la lettera desiderata dal p. Lelio, che le annesse todeschine, intendendo ch’ella ruba se
stessa a’ gravi negotii del ufficio suo per occuparsi con gli Amfioni e con gli
Orfei. Vederà appunto un ritratto di quanto poteva sperarsi da me per la musica in età fanciullesca, nella quale per obidire io pur v’attesi, bench’io non
obedissi per molto tempo …16
Quasi sicuramente gli studi musicali misero in contatto Borsieri con alcuni
suoi interlocutori musicisti, come Ruggero Trofeo, del quale il Comasco fu
probabilmente allievo.17 Studi musicali che probabilmente furono incoraggiati dal padre, e che potrebbero aver avuto luogo anche con un musicista «oltramontano» di cui non conosciamo il nome. In una lettera inviata agli Accademici Affidati in Pavia il 3 febbraio 1612 da Milano, Borsieri così si esprime:
Bastami drizzar il tutto al nome di uno strumento che oggi è il più imperfetto di quanti altri si suonino, se pur salterio è quello che Gio. Battista mio padre come amorevole verso gli eccellenti in qual si voglia professione vertuosa
ebbe già da un musico oltramontano, in testimonio di gratitudine per la cariscorde era formata, perciò mutai e voglia e professione» (I-COc, Ms. 3.2.44, p. 238). Va inoltre
tenuta in considerazione la testimonianza di Capriolo contenuta nella i parte degli Scherzi di
Borsieri: «Quindi è che in casa sua si veggono quadri bellissimi, istromenti di musica rari, medaglie, libri, dissegni ed altre cose pretiosissime, di quelle che posson render famoso qual si voglia studio» (commento allo scherzo Vedi tu, Polemone, libro ii). Sulle indicazioni ulteriori di
Landoli e Capriolo si veda Caramel 1966, p. 93.
15 Sulla data ad quem della composizione delle todeschine si veda il Discorso sopra la Prefatione del sig. Girolamo Borsieri di Bernardino Landoli contenuto negli Scherzi borsieriani, dove
l’autore segnala le composizioni composte dal Comasco.
16 I-COc, Ms. Sup. 3.2.43, p. 375.
17 Borsieri in una sua lettera inviata a Ruggero Trofeo afferma «ch’io non ho imparato da
lei la musica per far del musico. Hoggi è il tempo; non debbo farle più torto attendendo insieme ad altro con più unito e più quieto cuore …»; (I-COc, Ms. 3.2.43, p. 74, non datata). Ruggero
Trofeo è segnalato a Milano nel 1594 come organista di S. Marco; nel 1604 è a Torino, dove copre gli incarichi di maestro di cappella di camera della corte dei Savoia e di organista della cattedrale; cfr. Grove 2001, ad vocem. Borsieri potrebbe aver studiato a Milano col musicista mantovano fra il 1594 e il 1604, in un’età compresa fra gli otto e i sedici anni; non va escluso comunque un possibile soggiorno comasco di Trofeo. Va ricordato che Trofeo soggiornò a Milano già
almeno nel 1591, secondo quanto affermato in Sartori 1952, p. 400. In quella occasione Trofeo
cercò di ottenere l’incarico per il secondo organo nel Duomo di Milano, ma a lui fu preferito
Guglielmo Arnone.
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tà mostratagli in alcuni mesi che lo tenne in casa come forastiero meritevole
di ogni maggiore ospitalità.18
Purtroppo null’altro ci è dato di sapere su questo musico di oltr’alpe, ma possiamo esser certi che la presenza di quest’ultimo in casa Borsieri possa aver influito in qualche modo sulle conoscenze musicali di Girolamo.
Le lettere
Veniamo ora ai manoscritti borsieriani contenenti indicazioni utili per la storia del pensiero musicale, ovvero i due Ms. Sup. 3.2.43 e 44 della Biblioteca Comunale di Como, cartacei del xvii sec. (sui problemi di datazione tornerò in
seguito), cm 25 × 28. Il primo, di 435 pp. numerate modernamente, reca il titolo: Lettere accademiche, le historiche e le famigliari di Girolamo Borsieri dal
mdcvi fino al mdcxvi. Il secondo, di 339 pp. numerate più altre 42, titola Lettere accademiche, le historiche e le famigliari di Girolamo Borsieri con una breve descrittione del territorio comasco ed un’altra dell’Arcadia di Bareggio, come
anche della Ruvina di Piuro e caso memorando avvenuto nell’Osteria della Ca’
in Campodolcino. Parte seconda.
Le lettere contenute nel primo volume furono composte fra il 1606 e il
1616, quelle copiate nel secondo volume seguono conseguentemente fino al
1626 ma spesso non è possibile offrire una datazione più precisa a causa della
quasi totale mancanza di date. Borsieri mantenne però un ordine cronologico all’interno delle raccolte, un ordine contraddetto in soli tre fascicoli (Ms.
Sup. 3.2.43, pp. 41-68; Ms. Sup. 3.2.44, pp. 79-94 e 191-210). Per quanto riguarda il nostro lavoro, è possibile in alcuni casi stabilire dei termini ad quem, riducendo in questo modo la forbice della datazione.
La lettera di Guarini
Le collezioni epistolari di Borsieri pongono una serie di questioni aperte, a cominciare dalla lettera del Guarini posta ad apertura del Ms. Sup. 3.2.43:
18 Ms. 3.2.44, p. 3. Può essere interessante sottolineare che un altro «oltramontano», un pittore assimilato da Borsieri alla maniera di Paul Brill «nelle macchie de’ paesi», soggiornò presso il «Giardino» del Comasco, lavorandovi agli inizi dell’agosto del 1618. Borsieri inoltre conosceva assai bene le tecniche pittoriche utilizzate dagli artisti transalpini; cfr. Rovi 1989, p. 66. Il
«Giardino» era la residenza fuori porta comasca di Borsieri, ed in precedenza era stato di proprietà del padre. Questa villa era esemplata sul concetto classico di aurea mediocritas e ne rimane una descrizione dello stesso Borsieri. Si veda Caramel 1966, pp. 142-143, e anche le considerazioni espresse da Rovi 1989, p. 67. Il salterio era lo strumento suonato da Giovanni Battista
Borsieri, così come lo fu la cetra; cfr. Lucini 1620, p. 459.
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Illustre signore
Confesso ingenuamente di non ricever mai lettere, le quali tanto mi piacciano
quanto quelle del sig.r Borsieri. Hanno uno spirito et una vivezza così mirabile che tutte le altre a parangone paiono morte; e contengono così belle e pellegrine eruditioni che non a torto quel buon maestro, il quale ne rende il mondo curiosissimo, le chiama lettere vive e letterate. Io ne ho poche avendo ancora pochi anni che lo conosco e forse minore famigliarità, se bene dal mio
canto lo amo come figliuolo. Quante si siano si rescriveranno e si manderanno a V. S. assicurandola intanto che avendo in protettione questa feconda pianta con molta ragione ne raccoglie quei frutti che possono conservarsi in ogni
stagione. Ne averanno forse quantità maggiore Ruggier Trofeo, e il segretario
di Savoia, i quali lo incitano a scrivere più spesso che non facc’io. Vegga se la
posso servire in altro, e mi comandi. Dalla Guarina, 19 ottobre 1612. Di V. S. illustre vero servitore il c. Battista Guarini.
Al s. Capriolo.
La lettera, inviata da Guarini ad Ettore Capriolo, funge da presentazione alla
raccolta borsieriana e contiene delle interessanti indicazioni. La più insolita è
relativa alla data e al luogo di stesura di questa epistola: «dalla Guarina, 19 ottobre 1612». La data e luogo di morte di Guarini accettati dagli studiosi si collocano però a Venezia, il 7 ottobre 1612.19 La testimonianza, sconosciuta agli
studiosi guariniani, mi spinge a formulare due ipotesi: a) la lettera va considerata un falso, confezionato da Capriolo per ottenere un prologo steso dalla
mano di una auctoritas alla raccolta di lettere del suo pupillo; b) il documento è originale, ma non olografo.
19 La lettera è inserita come folium adiectum. Il volume, ancor oggi fondamentale, a cui si
fa solitamente riferimento per la biografia guariniana è Rossi 1886. Qui sono contenute testimonianze sulla morte di quest’ultimo che appaiono inconfutabili, specialmente alle pp. 157-158:
l’8 settembre 1612 Guarini è ancora a Ferrara, dove scrive una lettera al cavalier Crescenzi (l’ultima lettera conosciuta da Rossi); dopo non molto (in data imprecisata) si sposta a Venezia,
dove viene colto da una violenta malattia (imprecisata) che lo porta alla morte il 7 ottobre 1612.
La data e l’ora di morte vengono riferiti dai figli di Battista, Alessandro e Guarino, che narrando il loro tumultuoso viaggio verso Venezia al cugino Marc’Antonio affermano di essere arrivati alle ore ventidue del 7 ottobre: Battista era morto da tre ore. Rossi inoltre ricorda che Apostolo Zeno lesse la registrazione della morte di Guarini nei libri della parrocchia di S. Moisé,
anche se fu sepolto nella chiesa di S. Maurizio, oggi non più esistente. Infine non vanno sottovalutate le lettere che Alessandro e Guarino Guarini scrissero a numerose cancellerie ducali per
rendere nota la morte del padre. Una d’esse, quella inviata a Cesare d’Este, è datata 16 ottobre
1612 (cfr. Rossi 1886, p. 296). Si veda inoltre Fassò 1950. Tuttavia una testimonianza non considerata relativa al luogo di morte di Guarini è contenuta in Ghilini 1644, p. 54: «Morì nella sua
patria, e la sua perdita fu da begl’ingegni assaissimo sentita». Ghilini segnala dunque il ferrarese come luogo di morte di Guarini, e non Venezia. Borsieri fu in contatto con Ghilini almeno
dal primo gennaio 1607: si veda la lettera contenuta nel Ms. Sup. 3.2.43, p. 33.
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Non sembra probabile che un giureconsulto milanese necessitasse di confezionare un falso guariniano per ottenere un’autorizzazione alla raccolta delle lettere di Borsieri e alla loro eventuale pubblicazione. La lettera di Guarini
è inoltre una semplice risposta ad una missiva di Capriolo contenente la richiesta di ottenere copie di lettere borsieriane, e non contiene certamente una
particolare esaltazione dei meriti del Comasco, anche se il tono che la pervade è palesamente affettuoso. La lettera potrebbe dunque essere originale, seppur una copia: lo stile della scrittura è comunque quello tipico della lingua
epistolare guariniana; è del tutto sensato che Capriolo chiedesse a Guarini le
lettere che Borsieri aveva scritto a quest’ultimo; ed è plausibile che una lettera inviata a Capriolo fosse nelle mani di Borsieri, essendo morto Capriolo nel
1613 ed essendo stato quest’ultimo protettore del Comasco.
Rimane da risolvere l’enigma di una data che non concilia per nulla con
quella di morte di Guarini. Si può ipotizzare che Capriolo, o un copista al suo
servizio, abbiano sbagliato a copiare la data della stesura originale.20 Nonostante ciò c’è da chiedersi perché gli studiosi che hanno consultato il manoscritto, e segnatamente Luciano Caramel ed Enrico Perotto, non solo non abbiano segnalato questa anomalia, che mi pare di un certo rilievo, ma non abbiano segnalato neppure la lettera.
Altri interrogativi ci giungono dall’affermazione di Guarini su Ruggero
Trofeo, i cui contatti col poeta ferrarese erano del tutto ignorati fino ad oggi,
a meno che non si sia propensi a ritenere che Guarini conoscesse l’interesse
che Trofeo manifestava nei confronti degli scritti di Borsieri solo tramite le
parole dello stesso Borsieri.21
In una lettera non datata Girolamo Borsieri scrive al cavalier Guarini in
Roma, rispondendo ad una missiva di quest’ultimo. Guarini aveva proposto a
Borsieri di metter in musica una sestina di madrigali. La risposta di Borsieri è
sorprendente; dopo aver declinato l’offerta per ragioni di salute e perché ormai ritiene di aver abbandonato l’arte della composizione, così si esprime:
Farò nondimeno che per me compongano il Trofeo e il Gabutio, assicurandomi che quelle penne, come lontane dalle durezze del Monteverde, sapranno
renderla sodisfatta.22
20
Seppur meno probabile un’ulteriore ipotesi prevede un errore dello stesso Guarini. Sulla vita di Capriolo e sulle parziali pubblicazioni delle lettere borsieriane e della loro preparazione in manoscritto si veda Caramel 1966, rispettivamente pp. 188-189 e pp. 101-102.
21 Va tenuto presente inoltre che Guarini e Trofeo possono essersi conosciuti a Mantova,
città presso la quale Trofeo risiedette fino al 1594 e dove Guarini frequentò la corte dei Gonzaga
a più riprese.
22 Ms. Sup. 3.2.43, p. 73.
un curioso rivolgimento
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Appare evidente la necessità di individuare una datazione almeno approssimativa della lettera. Sappiamo che Gabuzio morì il 12 settembre 1611, e dunque possediamo una preziosa indicazione ad quem. Possiamo anche ricordare che la lettera dev’essere stata scritta nel corso del 1606 o successivamente,
essendo inserita nel copialettere di Borsieri. Guarini fu presente a Roma, durante questo periodo, in diversi momenti. Possiamo rintracciarne la presenza
nella città eterna almeno in cinque occasioni. La prima è circoscrivibile fra il
18 febbraio 1606 e la fine di marzo del medesimo anno, essendo Guarini nuovamente a Ferrara il 3 aprile; la seconda è inaugurata da una lettera inviata in
viaggio da Firenze il 5 giugno 1606, e si protrae almeno fino al 24 marzo 1607
(tenendo conto anche che Guarini fu sicuramente a Ferrara il 13 aprile); la terza vede un’isolata testimonianza del 24 aprile 1610; la quarta comprende il periodo che va dall’ottobre del 1610 all’aprile del 1611 (alla fine d’aprile è a Firenze in viaggio verso Ferrara ); infine Guarini è presente a Roma almeno dal 12
ottobre 1611 fino a poco oltre il 26 marzo 1612, l’anno della sua morte.23 Allo
stato attuale delle ricerche non è possibile individuare in quale delle prime
quattro occasioni Guarini possa aver scritto a Borsieri. L’ultimo soggiorno va
infatti escluso, come abbiamo visto, per la già avvenuta morte di Gabuzio.
Si può ipotizzare però che Borsieri abbia scritto a Guarini o nei primi mesi
del 1607 o fra l’ottobre del 1610 e l’aprile del 1611. La lettera sopracitata è infatti collocata all’interno dell’epistolario borsieriano dopo una quarantina di
carte rispetto ad una lettera datata 1 gennaio 1607: tutto ciò escluderebbe l’ipotesi relativa al primo soggiorno romano di Guarini, ma d’altro canto non
offre alcuna sicurezza, non essendo l’epistolario borsieriano sempre conseguentemente cronologico.24
La datazione assai approssimativa della lettera in questione non ci consente di interpretarne agevolmente il contenuto, né comprendere appieno la missiva inviata conseguentemente da Borsieri a Ruggero Trofeo, «maestro di capella di Torino»:
L’annessa a me diretta è del Guarini. Io la mando a V. S. perch’ella come uno
de’ miei amorevoli aiuti a trarmi d’impaccio ponendo in musica i primi tre
23
Rossi 1886, pp. 143-149.
È necessario utilizzare la più grande prudenza in questioni di cronologia borsieriana. Si
veda, ad esempio, Perotto 1986, pp. 240-241, il quale assegna una datazione compresa fra l’agosto ed il dicembre del 1612 ad una lettera scritta da Borsieri a Guarini: quest’ultimo, come
sappiamo morì il 7 ottobre 1612. Si veda inoltre Rovi 1989, p. 65, a proposito di una lettera inviata a Giovan Domenico Caresana e datata 1612 da Luciano Caramel, mentre con ogni probabilità risalente al 1618.
24
386
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madrigali scrittile sotto ed inviandogli poi al principe di Venosa, secondo desiderio del Cavalliere, il quale non si compiace di affetti moderni, ma d’armonia conforme alle regole degli antichi. Il Gabutio porravvi gli altri, e so ben io
che ammendue compiacerannomi, se non per la loro amorevolezza, almeno
per lo miracolo della dimanda; ché veramente si può ben oggi stimar miracolo il trovar chi non ami altra musica che quella ond’ha l’armonia la sua rettitudine naturale, facile e proportionata a qualsivoglia cantore, benché di fauci
imperfette; oggi che la musica suol partorirsi senza musica come non più fondata in consonanze, ma in accentucchi di tremoli, di sospiri o di respiri prima
passati che uditi e, se pur uditi, per lo più uditi con orecchi inquieti, massimamente se da chi canta alla moderna senz’aver dianzi imparato cantar all’antica, e fa che le dissonanze, da’ nostri maggiori appena ammesse per fuggitive,
siano insieme i termini e i fondamenti. Età femminile, per non dir bestiale,
conforme a cui con ragione non empiono di rare note le lor cartelle V. S. e ’l
sig.r Giulio Cesare, come maestri contemplativi della scienza, e non discepoli
curiosi d’ogni soverchia mutatione …25
«Età femminile, per non dir bestiale»
I musicisti protagonisti di questa vicenda sono Ruggero Trofeo (1550 ca. – 19
settembre 1614), Giulio Cesare Gabuzio (1555/58 ca. – 12 settembre 1611),26 e i
notissimi Claudio Monteverdi e Carlo Gesualdo, principe di Venosa; due i letterati in causa, Girolamo Borsieri e Battista Guarini, l’uno agli inizi della carriera, l’altro ormai famoso in pressoché tutte le corti europee.
Queste due lettere presentano alcune importanti affermazioni, che meritano di essere analizzate. In primo luogo appare in piena evidenza che Guarini,
probabilmente negli anni compresi fra il 1607 e il 1610-11, non stimava interessante la musica di Monteverdi ed anzi ne sembra lontano concettualmente.
Dalle parole di Borsieri parrebbe di poter arguire che la scarsa fiducia riposta
da Guarini in Monteverdi possa essere estesa anche ad altri musicisti intenti a
scriver musica con «affetti moderni»: proporrei a questo punto la più grande
prudenza nel dividere il campo tra seguaci della prima e della seconda pratica,
sia perché ciò comporterebbe una eccessiva semplificazione del complesso
rapporto che Borsieri ebbe con la musica, sia perché la presenza di Gesualdo
nella lettera inviata a Trofeo ci impone una certa cautela. In secondo luogo
possiamo aprire un minuscolo ma significativo spiraglio sugli ultimi anni di
vita del principe di Venosa e del suo rapporto con Guarini; infine possediamo
una testimonianza sulla «nuova musica» di un certo interesse.
25 Ms. Sup. 3.2.43, pp. 73-74.
26 Su Gabuzio (Gabussi) si veda
Grove 2001, ad vocem, e Mompellio 1962, pp. 511-16.
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Procedendo con ordine possiamo dunque cominciare a notare che la considerazione di Borsieri circa le «durezze del Monteverde» in rapporto ai gusti
musicali di Guarini può forse risultare soprendente: ed in effetti non mi pare
che si siano rilevate ad oggi simili testimonianze sul rapporto fra il poeta ferrarese ed il musicista. Il primo decennio del Seicento aveva visto consumarsi,
com’è noto, la querelle fra Artusi e Monteverdi sulla «moderna musica»; senza addentrarci troppo nell’intricatissima vicenda propongo di soffermarci su
alcuni punti particolarmente interessanti.27 È noto che le accuse rivolte da Artusi a Monteverdi prendevano spunto da tre madrigali composti dal musicista cremonese su testi di Battista Guarini: Anima mia, perdona e Che se tu se’
il cor mio apparsi poi nel Quarto libro de madrigali a cinque voci pubblicato da
Monteverdi nel 1603; e Cruda Amarilli inserito nel Quinto libro del 1605. È altresì noto che proprio il iv ed v libro monteverdiani avevano presentato un
notevole numero di madrigali intonati su testi guariniani: undici composizioni su diciannove nel Quarto libro, ed addirittura dieci composizioni su tredici nel Quinto libro.28 L’interesse di Monteverdi per la produzione poetica di
Guarini, perlomeno in questi anni, mi pare innegabile, anche se possibilmente influenzato dai gusti della corte gonzaghesca. Ma una parte delle durissime
critiche mosse a Monteverdi dall’Artusi si basava proprio sull’uso delle «durezze»: e le parole del canonico bolognese sono assai vicine a quelle espresse
da Borsieri. Non avendo ragione di pensare diversamente siamo spinti a concludere che Guarini concordasse maggiormente con la posizione di Artusi che
con il pensiero e la musica di Monteverdi, perlomeno durante gli ultimi anni
di vita.
Le conseguenze di una simile affermazione sono numerosissime. I musicisti che avevano collaborato con Guarini condividevano le sue idee? Monteverdi conosceva le posizioni di Guarini? L’Ottuso, protagonista della seconda
pubblicazione dell’Artusi e difensore delle posizioni di Monteverdi, avrebbe
citato a sostegno delle sue tesi lo stesso Guarini se ne avesse conosciuto i giudizi sull’opera del musicista cremonese? 29 E così via. Ma la lettera inviata da
Borsieri a Trofeo evidenzia in un suo passaggio l’obiettivo dell’attacco: Guarini infatti «non si compiace di affetti moderni, ma d’armonia conforme alle
regole degli antichi». È dunque la nuova musica in questa frase ad essere messa sotto accusa, e non solamente le scelte stilistiche di Monteverdi.
27 La bibliografia relativa allo scontro Artusi-Monteverdi è ricchissima. Rimando a due stu-
di e alla bibliografia in essi contenuta: Palisca 1985 e Fabbri 1985, pp. 48-65.
28 Sui due libri monteverdiani si veda Fabbri 1985, pp. 70-94, e relativa bibliografia.
29 Sui rapporti fra Guarini e, ad esempio, Luzzasco Luzzaschi, v. Newcomb 1980, i, p. 264.
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Certo, una distinzione di livello d’interpretazione va posta: è necessario ricordare infatti che il giudizio qui espresso sorge dalla penna di Borsieri, e non
direttamente da quella di Guarini; e quindi i giudizi di Borsieri, nonostante
fosse egli avvezzo a trattare di cose musicali e fosse in stretto contatto con il
poeta ferrarese, vanno comunque considerate testimonianze indirette. Presa
questa precauzione, mi sembra comunque di poter affermare con una certa
tranquillità che le questioni or ora poste mantengano egualmente il loro peso.
La situazione è complicata poi dalla presenza di Carlo Gesualdo, evidentemente assurto nel contesto della lettera inviata a Trofeo a difensore della musica «conforme alle regole degli antichi»: la qual cosa, di per sè, non preoccuperebbe eccessivamente se non fosse che lo stesso Monteverdi avesse segnalato il Principe proprio fra i seguaci della «seconda pratica». Non mi sembra che
fino ad oggi si siano segnalate prese di posizione così evidenti a favore di Gesualdo contro la nuova musica e Monteverdi. Glenn Watkins, nella sua insistente idealizzazione di quello che egli definisce manierismo, aveva affrontato
in pochissime righe il problema del possibile dualismo Monteverdi-Gesualdo,
affermando però:
Non troviamo in modo specifico critici che, disprezzando Gesualdo, guardano a Monteverdi come alternativa, nella maniera in cui studiosi dell’arte sostengono Carracci in quanto simbolo anti-manierista.30
Seguendo questa traccia, a mio avviso, il rapporto Monteverdi–Gesualdo non
potrà mai offrire spunti di riflessione interessanti, deviando dalla questione
centrale della poetica, dei mezzi compositivi utilizzati, dello stile. Si propone
ora, grazie alle parole di Borsieri, una situazione ribaltata rispetto a quella
ipotizzata da Watkins: Gesualdo poteva essere considerato un’alternativa a
Monteverdi per questioni di pensiero musicale, di poetica, di stile, di tradizione; non quindi Monteverdi un’alternativa di un Gesualdo improbabile Mannerist symbol. È dunque necessario cercare di capire cosa Borsieri intendesse
per «armonia conforme alle regole degli antichi»: fortunatamente le parole
del Comasco su questo punto sono sufficientemente chiare. Abbiamo già visto come questi si fosse espresso a tal proposito nel momento di scrivere a
Ruggero Trofeo: voglio aggiungere ora un altro documento di grande importanza per la ricostruzione del pensiero di Borsieri sull’arte, una lettera inviata
a padre Marini tra l’agosto e il dicembre 1612:
30 Il passo è tratto da Watkins 1973, p. 299; il giudizio non è stato ridiscusso nel successivo
Watkins 1980, pp. 63-88.
un curioso rivolgimento
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Io stimo che la musica alla moderna si possa commodamente assimigliare all’architettura de’ Goti, imperoché sì come questa pasce gli occhi, così quella
pasce gli orecchi, ma niuna di loro appaga lo intelletto. Perché fare tante quarte e tante settime senza dedurle da perfette o da imperfette consonanze? Forse
per esprimer bene le parole? Le sapeva pur esprimer bene anco il Palestrina,
con quelle sue fugghe o semplici o legate, mentre, con meravigliosa proportione, ora se ne passava dall’uno all’altro soggetto, ora risolveva i mezi coi principii degli estremi o con artificiosi contrappunti doppii; senza confusione confondeva i modi rimessi co’ principali, o le parti libere con le alterate. Il mondo
ha troppo del camaleonte, dove più tosto doverebbe aver del leone. Me n’avveggio. Ma che? Finiranno col tempo questi capricci. Alfine le arti tornano a
ripararsi ne’ fondamenti sodi, da poi che per lungo intervallo hanno combattuto o con un debol modo o con un curioso ravolgimento di precetti.31
Evidenti appaiono i punti di contatto con gli scritti di Artusi. Ma le ultime
quattro righe sono altamente più rivelatrici. La curiosità, innanzitutto. «Curiosità» è infatti un termine ricorrente nelle pagine di Borsieri, ed è contenuto in almeno tre testimonianze scritte dal Comasco relative alla musica: due le
abbiamo già incontrate nelle lettere appena esposte, la terza è nel Supplimento. Per comprendere a fondo il significato primo di «curiosità» in Borsieri, è
necessario ripercorrere la complicata tradizione di un preciso passo contenuto nella Lettera ai Romani (11.20).
San Paolo aveva inviato un messagio ai romani convertiti, ammonendoli a
non disprezzare gli ebrei: il messaggio di Cristo doveva essere considerato
universale. Nella Vulgata il passo in questione fu così tradotto: «noli altum sapere, sed time» («Ma non t’insuperbire, temi piuttosto»). A partire dal iv secolo, però, le parole di Paolo furono frequentemente fraintese: «sapere» fu interpretato come un verbo relativo alla sfera intellettiva («conoscere») anziché
a quella morale, così come l’espressione avverbiale «altum» fu interpretata relativamente alla denotazione del sostantivo: «ciò che sta in alto». Nel giro di
pochi secoli il monito di san Paolo si trasformò, dunque, in una condanna
della curiosità intellettuale. Gli appelli degli esegeti, nel corso di più di un millennio, volti ad interpretare correttamente le parole di san Paolo caddero nel
vuoto, mentre la tradizione dell’interpretazione dell’espressione «noli altum
sapere» in chiave intellettuale si rivelò solidissima. Nonostante l’intervento di
Erasmo a favore della lettura corretta dell’espressione paolina, nel corso dei
secoli xv e xvi il motto fu inserito ripetutamente nei testi di ispirazione reli31 Caramel 1966, p. 129. La lettera è stata controllata nella sua stesura originale. La mia versione diverge leggermente da quella di Caramel nella punteggiatura.
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giosa oltre che, ad esempio, nelle raccolte di emblemi. Illuminante per la nostra indagine è un brano tratto dal trattato De imitatione Christi di Tommaso
da Kempis: «Non inorgoglirti nelle arti o nelle scienze; piuttosto temi ciò che
ti è stato detto … Noli altum sapere, ma confessa la tua ignoranza».
La considerazione della curiosità in Borsieri va inserita in questo filone di
interpretazione del pensiero paolino: al quale si associò ben presto ciò che fu
definito vitium curiositas, inteso come una sfida a ciò che di costituito fosse
già esistente all’interno della società: cercando di evitare ogni sovvertimento
della gerarchia sociale e politica in auge, la curiosità fu dunque definitivamente condannata.32 Federico Borromeo, che dimostrò un affetto fraterno nei
confronti di Borsieri e con il quale intrattenne rapporti strettisimi riguardanti questioni artistiche, annotò in un suo quaderno:
Diceva Scaligero «sapientis est quaedam posse ignorare» in questo senso: che
non si dobbiamo sforzare di sapere certa sorte di cose nelle scienze, le quali, a
saperle, arrecano più tosto danno che utile. In questa ignoranza chi ha giuditio
vi guadagna molto. Et non è poco sapere il sapere quello che non deve sapere.33
L’interpretazione obliqua delle parole di Scaligero tradisce probabilmente
l’influenza del motto «noli altum sapere», ma ciò che appare più importante
è la condanna implicita della curiosità, della ricerca, dello sguardo critico ed
acceso sulle scienze. La contrapposizione di Borsieri alla nuova musica si
esprime così tramite il linguaggio di chi sente aggredito un ordine generale
costituito: non casualmente il Comasco indica in Trofeo e Gabuzio due «maestri contemplatori della scienza», coloro cioè che riconoscono in un ordinamento dato il fondamento delle attività umane e che non necessitano di conoscere «certa sorte di cose nelle scienze» per poter esprimere la vera arte.
Borsieri per difendere il mondo da lui amato fece affidamento su un’altro
motto di antichissima tradizione, il gelliano «Veritas filia temporis», utilizzato a più riprese e per fini assai diversi nel corso del xvi secolo.34 Il Comasco
contrappose alla verità rivelata dal tempo, oltre alla curiosità, i «capricci». Il
capriccio va qui inteso nell’accezione di «stravagante», e soprattutto di «lontano dalla natura». L’acceso dibattito sviluppatosi in epoca post-tridentina
sulle immagini di carattere sacro aveva messo in luce con chiarezza la pericolosità delle immagini capricciose, come ad esempio le grottesche, nei confronti degli intenti pedagogici della riforma cattolica. La ricerca del capriccioso,
32 Sulla tradizione del passo paolino v. Ginzburg 1976 (in part. p. 111 della tr. it. per la cita-
zione da De Kempis). Sulla «curiosità» v. Peters 1985.
33 Pubbl. in Zaccaria 1985, p. 37.
34 Sul motto gelliano si veda Ginzburg 1966, in part. pp. 40-43 della tr. it.
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dunque, come allontanamento dalla Natura tramite la curiosità. Palestrina,
Gabutio, Trofeo e Gesualdo come difensori di una tradizione di pensiero antichissima; Monteverdi e la nuova musica sovvertitori dell’ordinamento del
sapere. Vedremo in seguito più specificamente, tramite le stesse parole di Borsieri, quali furono i mezzi utilizzati dal musicista cremonese per provocare
una simile contrapposizione.
Carlo Gesualdo
Chiarito, almeno parzialmente, il pensiero di Borsieri sulla musica, rivolgiamoci a considerare con maggiore attenzione la presenza di Carlo Gesualdo all’interno dell’epistolario borsieriano. La prima osservazione, forse la più sorprendente che possiamo fare, è che probabilmente il Comasco conobbe il
Principe di Venosa. Possiamo infatti leggere in una sua lettera inviata a Ruggero Trofeo in una data imprecisata:
Dal Principe di Venosa ho forse acquistato qualche pregio con la schiettezza
del riverire, non con lo spirito del suonare, che ha egli musica per chi ne compra, non per chi pensa venderne a lui …35
Dove però Borsieri possa aver incontrato Gesualdo non è dato sapere. Un
possibile punto di contatto fra i due poté forse essere rappresentato dal cardinale Federico Borromeo, cugino di Gesualdo e come abbiamo già accennato
in ottimi rapporti con Borsieri. Il Comasco collaborò infatti intensamente col
Borromeo alla costituzione dell’Accademia di Pittura dell’Ambrosiana, procurando numerose copie di quadri raffiguranti uomini illustri e tessendo rapporti con artisti locali in favore del cardinale.36 Gesualdo scrisse la prima volta a Federico Borromeo il 29 giugno 1590 da Napoli. Le lettere del Principe al
cugino si susseguirono fino al 1° agosto 1612. Specialmente negli anni fra il
1609 e il 1612 le missive di Gesualdo furono ricche di richieste volte ad ottenere reliquie ed un ritratto di Carlo Borromeo, il santo di famiglia canonizzato
nel 1610. Federico ebbe riguardo e stima per il Principe di Venosa. Il cardinale annotò nel corso del 1595 in un suo quaderno due detti che Gesualdo amava pronunciare, dimostrando confidenza con la condotta di vita del cugino.37
35
Ms. Sup. 3.2.43, p. 85.
36 Cfr. Caramel 1966, pp. 180-181.
37 Sul rapporto fra Borromeo e Gesualdo v. Piccardi 1974, dove sono parzialmente pubbli-
cate le lettere inviate dal Principe al cardinale; queste ultime sono catalogate nel volume Ambrosiana 1960, pp. 175-176. Si veda anche Grove 2001, ad vocem «Gesualdo Carlo». I due detti annotati da Federico Borromeo sono contenuti nel Ms. a 77 suss., c. 43v e c. 76r ; l’autografo
borromeiano è oggi integralmente edito in Ambrosiana 1960.
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Sappiamo ancora troppo poco degli ultimi anni di vita del Principe per
poter far sufficientemente luce sulla genesi delle sue ultime opere. Appaiono
anni funestati dalla solitudine, dall’esilio volontario, dalla malattia, solcati
dall’importanza della musica. L’epistolario di Borsieri offre l’opportunità di
annotare la volontà di Guarini di rendere omaggio al Principe, di volerne esaltare le virtù e le capacità compositive. Può forse sorprendere che Guarini chiedesse ad un musicista poco conosciuto come Borsieri di musicare i suoi versi
per poi inviarli a Gesualdo: credo che una spiegazione sia rintracciabile nella
convinzione guariniana resa esplicita in una lettera inviata dal poeta ferrarese a Luigi Zenobi, lo straordinario cornettista di Alfonso ii d’Este:
Non è pur ora ch’io la conosco et stimo, et mi duole infinitamente di non poterla godere come vorrei, ma in tanto mi godo le sue rime come legittime figliuole del vivacissimo ingegno suo, et ho grandissimo gusto nel veder insieme la musica et la musa che si rado s’accopiano in un soggetto: tutto che elle
sien pur sorelle nate ad un parto … Dalla Guarina li 14 luglio 1590.38
Non è improbabile che Guarini vedesse in Borsieri un altro raro caso di musicista-poeta, conoscitore dell’arte della «musica» e della «musa». Come vedremo la strettissima parentela fra musica e poesia fu sottolineata in uno
scritto programmatico anche dallo stesso Borsieri.
Mi sembra comunque opportuno rilevare che il contatto, voluto tramite
un omaggio, fra Guarini e Gesualdo in questi anni tardi della vita di entrambi assuma un significato prezioso per le ricerche future sull’attività musicale
del Principe. Siamo ora certi, ad esempio, che Gesualdo ricevette testi poetici
da parte di Guarini (anche se in questo caso probabilmente già musicati) nel
corso del lungo periodo intercorso fra la pubblicazione del Quarto libro dei
madrigali a cinque voci (1596) e del Quinto e del Sesto libro di madrigali (1611).
Non per questo dobbiamo pensare che Gesualdo abbia inserito nelle due sillogi testi guariniani a noi ignoti, ma ci permette di svolgere una riflessione sui
gusti poetici tardi di Gesualdo anche in considerazione delle sue pubblicazioni postume.39
38 Guarini 1593, p. 260 della vii edizione. Guarini si riferisce con ogni probabilità alle Rime
(Zenobi 1589) segnalate in Cavicchi 1983, p. 35.
39 Su Gesualdo si veda Watkins 1973. Sulle dediche scritte da Cappuccio, quasi sicuramente su istanza dello stesso principe di Venosa, e nelle quali si afferma che i madrigali sono stati
composti ben quindici anni prima v. le pp. 165-167. Sui testi poetici utilizzati da Gesualdo v.
Cecchi 1987.
un curioso rivolgimento
393
Borsieri e la nuova musica
Nella lettera inviata a Ruggero Trofeo assieme ai madrigali di Guarini, il letterato comasco sottolineava come fosse ormai raro trovar qualcuno che, come
il poeta ferrarese, amasse ancora una scrittura musicale «ond’ha l’armonia la
sua rettitudine naturale, facile e proportionata a qualsivoglia cantore, benché
di fauci imperfette». In questo modo Borsieri centrava uno dei punti di grande interesse della polemica fra Artusi e Monteverdi: quello dell’importanza
dell’interpretazione vocale, che veniva a contribuire in maniera decisiva al
cambiamento di stile fra prima e seconda pratica. Sostanzialmente si cominciava a chiedere non più ad una schiera ristretta di appassionati e raffinati intenditori di eseguire rare asprezze di dissonanze non preparate, e penso ad
esempio ai madrigali del conte Fontanelli e all’eccellente concerto delle dame
di Ferrara, ma ad un pubblico ben più vasto formato sì da amatori, ma soprattutto da professionisti; una diffusione della ricerca espressiva tramite la rottura delle regole che andasse oltre la cortina della cerchia aristocratica, e soprattutto si indirizzasse verso l’interpretazione ‘espressiva’ del testo, ottenuta anche grazie a diminuzioni e coloriture, che diventano elemento principe e necessariamente scritto. Gran parte della letteratura monteverdiana non può
prescindere, ad esempio, da quelli che Borsieri avrebbe definito «accentucchi
di tremoli, di sospiri, o di respiri prima passati che uditi», e che sicuramente
il Comasco non riferiva ad una prassi improvvisativa, ma ad una scrittura ormai insita nella composizione.
È vero che i madrigali di Monteverdi censurati da Artusi erano stati eseguiti ben prima del 1600 nell’abitazione di Antonio Goretti, nobile musicofilo ferrarese, alla presenza di Ippolito Fiorini e Luzzasco Luzzaschi, i due conduttori del concerto delle dame di Ferrara. Ma al momento della loro commercializzazione i madrigali del musicista cremonese provocarono la formazione di schiere di seguaci in tutta Italia e oltre: Borsieri poteva già segnalare
imitatori in Milano «curiosi di seguir la via trovata nell’Accademia del Monteverde».40 E proprio queste schiere infastidivano Borsieri, queste schiere di
compositori e di cantanti che senza aver imparato a «cantar all’antica» affrontavano una letteratura musicale «non più fondata in consonanze». Il responsabile di questa degenerazione era Monteverdi.
La proposta di Borsieri per poter rimediare a questa incresciosa situazione
è resa esplicita nella lettera inviata a padre Marino: l’auctoritas è in questo
caso Palestrina. L’uso della dissonanza non preparata a fini espressivi viene
contrapposta alla capacità di Palestrina di «descrivere» musicalmente il testo
40
Borsieri 1619, p. 56.
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poetico utilizzando le regole. Borsieri afferma di quest’ultimo che «senza confusione confondeva i modi rimessi co’ principali», chiarendo così un altro dei
punti centrali della sua polemica con Monteverdi e con la nuova musica in generale. Il letterato comasco poteva colpire efficacemente il cuore della poetica
monteverdiana solo puntando sulla vera, grande novità proposta dal musicista cremonese: l’allontanamento dalla griglia modale a vantaggio di un nuovo linguaggio che gli offrisse di realizzare una lettura del testo poetico per superare la traduzione concettosa di immagini o episodi separati, permettendogli un livello di interpretazione più eloquente e di costruzione formale più solida e totale. Tutto ciò non è solo riscontrabile nella produzione palestriniana,
ma anche, ad esempio, nei madrigali di Gesualdo: l’andamento epigrammatico e «proporzionato», se vogliamo, del madrigale gesualdiano offriva sicuramente maggior conforto a Borsieri e soprattutto, io penso, a Guarini.
Mi sembra quantomeno necessario a questo punto riconsiderare una recente e fortunata tesi espressa da Gary A. Tomlinson, che ha approfondito lo
studio sulle rime guariniane messe in musica da Monteverdi, sottolineando i
medesimi criteri di ricerca ‘epigrammatica’ contenuti nelle opere di Guarini e
Monteverdi. Leggiamo le sue stesse parole:
Monteverdi deve essere stato indotto ad accogliere il nuovo indirizzo dallo
stesso Guarini, quando, fra il 1592 e il ’93, il poeta si fermava di frequente a
Mantova. È pure probabile però che poeta e musicista partecipassero indipendentemente al generale rinnovamento stilistico che coinvolgeva musica e poesia intorno al 1600. Lo stile ferrarese degli anni Novanta – quello di Luzzaschi,
Fontanelli e Gesualdo – era dopo tutto predicato su ideali poetici simili …41
Mi chiedo, sulla base di quanto abbiamo potuto apprendere dagli scritti di
Borsieri, se realmente Guarini potesse considerare Monteverdi vicino a sé nella ricerca di un ideale di poetica. Soprattutto le indicazioni dell’epistolario
borsieriano mi paiono indicare con chiarezza quanto sia difficile poter effettuare generalizzazioni rispetto ad un problema di così grande rilievo. Suggerirei perciò di tenere in giusta considerazione il fatto che per Guarini, nel corso della seconda metà della prima decade del Seicento, due musicisti come
Gesualdo e Monteverdi andassero considerati come oppositori. È evidente
che non stiamo discutendo di quali risultati avessero raggiunto nella loro rispettiva ricerca espressiva; 42 si tratta al contrario di evidenziare quali diffe41 Il passo è tratto da Tomlinson 1987, p. 88. In altra direzione vanno le osservazioni di Pir-
rotta 1968. Parole argute in proposito ha espresso Bianconi 1985.
42 Sulle polemiche provocate dalla pubblicazione della massima opera guariniana, Il pastor
fido, v. le osservazioni contenute in Battistini–Raimondi 1990, pp. 136-143, e Cavazzini 1990.
un curioso rivolgimento
395
renze il poeta ferrarese avesse individuato fra il suo ideale di unione fra parola e musica e quello del maestro cremonese. Forse una traccia può essere colta in una lettera di Borsieri a padre Angiolo Marini:
Musica anch’ella è la poesia regolata con perfette ed imperfette consonanze secondo la qualità delle sillabe, e trovata particolarmente per dilettare, se ben poi
ordinata anco ad altro fine più alto. Io soleva dire al dottor Scipione de’ sig.ri
della Cella che il musico e il poeta non sono tra loro distinti in altro che nella
fortuna, essendo l’uno sempre più sfortunato dell’altro.43
Il letterato comasco non poteva dunque accettare che poesia ben «regolata»
potesse essere musicata con stile non conforme alle regole degli antichi, con
consonanze e dissonanze espresse tramite la giusta quantità metrica in poesia
e poi sommerse de procedimenti liberi quando rivestite di musica. Un pensiero assai lontano dalla lettura monteverdiana del testo poetico, che al contrario permetteva alla musica di spingersi in realizzazioni ardite pur di poter
imitare il senso patetico ed affettivo del testo stesso. Non possiamo in questa
sede affermare che Guarini condividesse l’idea di Borsieri: ma mi piace scorgere nel pensiero del Comasco un’utile traccia di ricerca per le future indagini sulla concezione del rapporto parola-musica nell’opera di Guarini.
L’amicizia con Trofeo
Le lettere riguardanti Ruggero Trofeo contenute nell’epistolario borsieriano
sono nove: quattro indirizzate direttamente ad esso, cinque contengono riferimenti importanti alla sua persona. Inoltre è citato, come abbiamo visto, nella controversa lettera guariniana di cui abbiamo sopra discusso. Il tono utilizzato da Borsieri nelle sue missive dirette a Trofeo ci manifestano un rapporto
di amicizia fra i due uomini, un rapporto che abbiamo supposto essere nato
durante il soggiorno milanese di entrambi. La prima lettera relativa a Trofeo
che compare nella prima parte delle Lettere familiari ci offre un doloroso ritratto della condizione di quest’ultimo:
A mons.r Am.deo Broglia, arcivescovo di Torino
So che Ruggiero è in pessimo stato. Ne sento disgusto, parimente ne ho tanta
pietà lontano, quanta n’averei vicino. Per gratia V. S. R.ma essequisca quella
promessa con cui se lo è fatto prontissimo servo. Mostrerassi con lo essequirla Mecenate ad esso distraendolo dalla cagione di sì grave miseria, e padre a me
assicurandomi che fa pur conto della mia debole intercessione. N. Sig.r la inspiri ad essaudirmi. Di Como.44
43 Ms. Sup. 3.2.43, pp. 219-220.
44 Ms. Sup. 3.2.43, p. 33.
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La missiva segue immediatamente una lettera indirizzata a Girolamo Ghilini
il primo gennaio 1607, e quindi possiamo ragionevolmente avvicinarla a quella data. Dallo scritto di Borsieri apprendiamo che il musicista si trasferì nella
città piemontese per servire l’arcivescovo Broglia, il quale evidentemente non
lo accolse nel migliore dei modi. Un’altra epistola borsieriana ci consente di
riconoscere in Francesco Borsieri, segretario di casa Savoia, la persona che
ebbe il merito di procurare il «trattenimento» per Trofeo presso la corte di Torino. La condizione del musicista non era nel frattempo migliorata:
Al segretario Borsieri, Torino
Lo stato di Ruggier Trofeo aspetta il motto da V. S. Con famiglia numerosissima tace e patisce, dove nè tacerebbe nè patirebbe se quella piazza non fosse appunto una piazza morta. Per carità induca il tesoriero ad essequir gli ordini di
S. A. Non si conviene ad alcuno tanto far ciò quanto a lei, la quale è stata il procuratore del trattenimento. Farà un’opera conforme alla legge di Dio, ché ci
comanda lo aiutar altrui; grata al mondo, ché non perderà così tosto un organista di tanto valor; e cara a me, ché sempre le ne terrò obbligo particolare.
Non aggiungo ragioni più efficaci, perché non paia ch’io non voglia astringerla a far questa volta per mie parole ciò che fa sempre per sua bontà. Di Como.45
La lettera pone il solito problema di datazione. È collocata nel manoscritto
autografo borsieriano in una carta assai prossima a quella che riporta la missiva inviata all’arcivescovo di Torino, databile, come abbiamo visto, all’inizio
del 1607. Va comunque tenuto conto che le lettere contenute nel medesimo fascicolo sono databili secondo Luciano Caramel fra il 1606 e il 1609. Sappiamo
che Trofeo si trasferì a Torino nel 1604. Le lettere di Borsieri si riferiscono
dunque ad una crisi sopraggiunta a causa di un assestamento della carriera
del musicista più che ad una iniziale inadempienza dei Savoia e dell’arcivescovo di Torino.46 Trofeo cercò di ricambiare le attenzioni che Girolamo ebbe nei
suoi confronti, proponendo il nome del Comasco per il posto di conservatore della galleria di pittura sabauda. Borsieri rifiutò l’invito in una lettera inviata ad «Amadeo di Savoia», molto probabilmente Vittorio Amedeo, figlio e
futuro successore di Carlo Emanuele i. Purtroppo anche per questa lettera i
45 Ms. Sup. 3.2.43, p. 38. Non sappiamo se il segretario Borsieri fosse parente di Girolamo.
Esso va identificato con Francesco Borsieri, accomunato a Ruggero Trofeo nella lettera guariniana scritta al giureconsulto Capriolo. I rapporti fra Girolamo e Francesco dovettero essere comunque assai stretti, se Girolamo confidò a Francesco di essere in procinto di lasciare la condizione laica per abbracciare il sacerdozio già nel corso del 1612; Cfr. Caramel 1966, p. 94.
46 Sul soggiorno torinese di Trofeo possediamo rare informazioni. Nella lettera borsieriana
risulta notevole il riferimento alle eccellenti qualità di organista di Trofeo, ricordato al mondo
per questo motivo e non per le sue doti di compositore.
un curioso rivolgimento
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problemi di datazione sono molteplici.47 La missiva è inserita in uno dei fascicoli che contraddicono l’ordine cronologico seguito solitamente da Borsieri, e ci permette di segnalare un termine ad quem coincidente con il 19 settembre 1614 o leggermente successivo, congettura del tutto inutile per la lettura
della biografia di Trofeo, corrispondendo alla data di morte del musicista.
Le lettere inviate a Trofeo sono collocate fra la p. 74 e la p. 85 del Ms. Sup.
3.2.43, e includono, come abbiamo visto, le comunicazioni relative ai madrigali di Battista Guarini da musicare e una riflessione su Claudio Merulo sulla
quale tornerò in seguito. Gli scritti inviati da Borsieri a Trofeo ci rivelano un
legame di amicizia e di reciproca stima fra i due uomini, ma anche preziosi
particolari della vita del musicista, particolari riguardanti la vicenda biografica ma anche scelte musicali e di poetica. Da un passo di una lettera di Borsieri
ricaviamo anche un’importante notizia riguardante gli interessi letterari di
Trofeo, che fino ad oggi erano del tutto sconosciuti:
Si ricordi che mi diceva che voluntieri averebbe anch’ella fatto del letterato s’avesse potuto viver senza la musica, quando i figliuoli non la potevano circondare.48
Un passo dunque che potrebbe farci pensare ad una scelta di vita da parte di
Trofeo dovuta a necessità economiche più che artistiche, ricordandoci al tempo stesso che sicuramente Trofeo fu anche un musicista particolarmente accorto nella scelta dei testi da musicare. Ripetute furono anche le attenzioni di
Trofeo nei confronti dell’attività musicale di Borsieri, come si evince dalla
corrispondenza fra i due uomini nel momento in cui il Comasco decise di abbandonarla. Non dobbiamo trascurare infine l’accenno che a Trofeo rivolge
Battista Guarini nel corso della lettera inviata al giureconsulto Capriolo, che
potrebbe farci supporre una conoscenza tra il poeta e il musicista, permettendoci di aprire una nuova linea di ricerca relativa agli interessi musicali di Guarini e a quelli poetici di Trofeo.
Sigismondo d’India
Una lettera isolata, posta nella parte iniziale delle Lettere familiari di Borsieri,
ci propone un nuovo documento su uno dei musicisti più enigmatici del primo Seicento e sul quale possediamo pochissime testimonianze: Sigismondo
d’India. Soltanto recentemente si è sviluppato interesse per questo musicista
di straordinario talento che nacque probabilmente da una famiglia nobile pa47
48
Cfr. Caramel 1966, p. 109.
Ms. Sup. 3.2.43, p. 79.
398
franco pavan
lermitana verso il 1582; frequentò la corte medicea agli inizi del ’600, nel 1606
fu in contatto con la corte di Mantova e nel 1610 con quella di Piacenza. Il 1°
aprile dell’anno seguente venne nominato maestro della musica da camera di
Carlo Emanuele i di Savoia. Presso la corte sabauda Sigismondo rimase fino
al 1623, quando passò al servizio del cardinale Maurizio di Savoia a Roma lavorando anche nel 1626 per il ducato di Modena. La sua vita si spense probabilmente nel 1628.49 La lettera che lo riguarda è di estremo interesse, e va collocata in una data antecedente all’assunzione di Sigismondo presso il ducato
sabaudo:
A d. Amadeo di Savoia Torino
Sigismondo d’India allievo de’ cantori di Roma, naturale nelle note pure, artificioso nelle alterate, equal ne’ passaggi, vivo ne’ trilli, e suonator di chitarrone
non inferiore a Salomone Hebreo, desidera un trattenimento appresso questa
Altezza. Io so che la corte va cercando l’utile con l’onorevole. In esso trovarà
l’uno e l’altro potendo servirsene per ordinaria ricreatione dopo la stanchezza
dell’udienza, o per aggiunto maestro a’ paggi dopo le ore de’ cavallerizzi, ed acquistarne molta gloria come ricetto d’un virtuoso d’illustre fama. Lo raccomando alla suprema autorità di V. E. sicuro che dov’ella suole adoperarsi cede
ogni contrario proponimento ed è soverchio ogni amorevole testimonio. Porrò io a conto del mio debito la gratia che gli farà nel procurar che gli si compiaccia, e non potendo in altro per servigio di lei pregarò almeno N. Sig.re che
le sia sempre liberale delle sue gratie. Di Casnate.50
La datazione della lettera è ancora una volta problematica. Sappiamo che Sigismondo d’India fu nominato «maestro della musica nostra» da Carlo Emanuele i a partire dal 1° aprile 1611, ma non sappiamo se in precedenza il musicista fosse già presente presso la corte sabauda in veste di semplice esecutore.
La missiva borsieriana appartiene al fascicolo 1606-1609. Si presentano dunque due ipotesi: la prima prevede un tentativo di Sigismondo d’India di entrare a far parte dei musici di casa Savoia assai prima della data che oggi conosciamo per certa; la seconda prevede che la lettera di Borsieri debba essere
collocata cronologicamente nelle vicinanze del 1° aprile 1611, prima data certa
del soggiorno torinese del musicista, e che quindi contraddica l’ordine interno dell’epistolario del letterato comasco. Se si rivelerà esatta la prima ipotesi,
si porrà la necessità di dover chiarire se Sigismondo fu poi effettivamente accettato a corte, dovendo far luce sul presunto periodo piacentino del musici49 Sulla biografia di Sigismondo d’India si veda il compendio di Collisani 1998, ma anche
Mompellio 1956 e Joyce 1981. Le musiche a voce sola di Sigismondo sono edite modernamente in Joyce 1989.
50 Ms. Sup. 3.2.43, p. 40.
un curioso rivolgimento
399
sta, da interpretare conseguentemente come un momentaneo distacco dalla
corte sabauda. In caso contrario si possono fare alcune considerazioni.
Borsieri si rivolge per la sua supplica a don Amadeo di Savoia: aspetto del
traferimento presso i Savoia del tutto nuovo, non solo per l’interessamento di
Borsieri, ma soprattutto per quello eventuale di Vittorio Amedeo. Federico
Mompellio nel suo studio dedicato al musicista siciliano formulò l’ipotesi di
un trasferimento di Sigismondo avvenuto grazie all’intervento del marchese e
poeta Lodovico d’Agliè di ritorno da un breve soggiorno romano.51 La testimonianza di Borsieri modifica questo scenario, dal momento che Sigismondo
non avrebbe avuto bisogno di una lettera di presentazione se fosse arrivato a
corte in compagnia di d’Agliè, stimatissimo da Carlo Emanuele i .
La lettera borsieriana è divisa in sezioni facilmente distinguibili, riassumibili nello schema: a) presentazione del musicista; b) necessità della corte; c)
servigi e compiti che dovranno essere sostenuti dal musicista; d) supplica nei
confronti di Amedeo di Savoia.
Nel primo periodo Sigismondo d’India è descritto da Borsieri come un
musicista esecutore, cantante e suonatore di chitarrone, e non come compositore. Ciò mi pare che possa essere considerato del tutto normale, ma mi preme sottolinearne l’importanza relativamente al giudizio che Borsieri aveva nei
confronti della composizione musicale, taciuta in questa lettera. I giudizi del
Comasco si basano tutti sullo stile di canto di Sigismondo e sull’abilità di quest’ultimo nel suonare il chitarrone. Sigismondo viene infatti definito, proprio
in apertura della lettera, «allievo de’ cantori di Roma»: c’è da chiedersi se Borsieri utilizzò questa espressione per catturare immediatamente l’attenzione di
Amedeo di Savoia, oppure per esprimere al meglio lo stile di canto di Sigismondo d’India.52 In cosa consisteva dunque lo stile di canto di Sigismondo,
51 Mompellio
52 Non è facile
1956, p. 33.
interpretare cosa intendesse Borsieri per stile di canto dei cantori di Roma,
anche se non possono non ritornarci alla mente le parole espresse dal marchese Giustiniani nel
Discorso sopra la musica (1654) relativamente alle esecuzioni vocali che avvenivano nella città
eterna (cit. in Banti 1981, p. 31):
È ben la musica ridotta in un’insolita e quasi nuova perfezzione, venendo esercitata da gran
numero de’ buoni musici, che disciplinati dalli suddetti buoni maestri porgono col canto
loro artificioso e soave molto diletto a chi li sente. Perché avendo lasciato lo stile passato, che
era assai rozzo, et anche li soverchi passaggi con li quali si ornava, attendono ora per lo più
ad uno stile recitativo ornato di grazia et ornamenti appropriati al concetto, con qualche
passaggio di tanto in tanto tirato con giudizio e spiccato, e con appropriate e variate consonanze, dando segno del fine di ciascun periodo, nel che li compositori d’oggi dì con le soverchie e frequentate cadenze sogliono arrecar noia; e sopra tutto con far intender bene le
parole, applicando ad ogni sillaba una nota or piano or forte, or adagio, or presto, mostrando nel viso e nei gesti segno del concetto che si canta, ma con moderazione e non soverchi.
400
franco pavan
e quali tecniche poteva aver appreso dai cantori di Roma? È lo stesso Borsieri
che ci concede una traccia per la risposta: Sigismondo rispettava l’essenza della musica proprio perché sapeva essere naturale o ricercato secondo i contesti, sottolineando le caratteristiche di note non inscrivibili regolarmente nel
genere della composizione. Le eccezioni vanno eseguite come tali, evidenziandone il distacco dalla regola; esse non si rivelano dunque come «fondamento
sodo», contrariamente a quanto palesano i cantori dediti alla nuova musica.
Borsieri definisce il canto di Sigismondo volendone sottolineare gli aspetti più
vicini alla tradizione del cantar all’antica.
Altrettanto interessante è il riferimento alle capacità di Sigismondo d’India
come suonatore di chitarrone. Borsieri qui lo paragona a Salomone Hebreo,
ovvero Salomone Rossi, compositore di rispetto e ricordato anche per aver
utilizzato in una data precoce (1600) l’intavolatura per il chitarrone in un suo
libro di madrigali.53 Si tratta infatti della prima intavolatura a stampa conosciuta per questo strumento, inventato con buona probabilità nell’ottavo decennio del ’500 in ambiente fiorentino.54 Può forse sorprendere che il comasco non faccia riferimento al più grande suonatore di chitarrone allora vivente, Johannes Hieronimus Kapsberger, che aveva pubblicato un rivoluzionario
libro contenente musiche per chitarrone già nel 1604 a Venezia, prima di trasferirsi a Roma. Borsieri poi, per richiamarsi ad un cantore legato al chitarrone, poteva facilmente usare il nome di Caccini.55 Al contrario il letterato comasco, come abbiamo visto, non cità né l’uno né l’altro: forse un giudizio di
Borsieri sulla loro musica ha influenzato la scelta del nome da avvicinare a Sigismondo d’India. Mi sembra opportuno chiarire che Borsieri non si riferisce
comunque semplicemente a Sigismondo come ad un cantore abituato ad accompagnarsi col chitarrone: al contrario ne sottolinea le capacità di esecutore sullo strumento; incarichi tipici affidati ai musicisti nel corso del Cinquecento, ma che cominciavano a diventare desueti nel primo Seicento se rappor53
Su Salomone Rossi v. Harrán 1999 e la bibliografia ivi contenuta.
Senza voler ripercorrere tutta la complicata genesi del chitarrone vorrei soltanto rammentare che la tesi più accreditata ad oggi sulla nascita di questo strumento attribuisce l’invenzione ad Antonio Naldi detto il Bardella, musico presso la corte medicea, invenzione che avrebbe avuto luogo in occasione della rappresentazione degli intermedi per La Pellegrina avvenuta
a Firenze nel 1589. Vorrei tuttavia segnalare che un documento rivela la presenza del chitarrone presso la corte medicea già nel 1587: cfr. Gargiulo 1985, p. 67, che sfortunatamente non s’avvede dell’importanza della notizia. Sul chitarrone v. Mason 1989 e Coelho 1995.
55 Sull’attività di Kapsberger, suonatore di chitarrone, v. Coelho 1983. Ripetute le testimonianze su Caccini suonatore di chitarrone: si veda almeno l’elogio che egli rivolge a questo strumento come atto all’accompagnamento del canto contenuto nella prefazione Ai lettori delle sue
Nuove musiche (1601).
54
un curioso rivolgimento
401
tati a virtuosi di fama come Sigismondo d’India, oltretutto quest’ultimo appartenente a una famiglia nobile.
Rimane da chiedersi perché Borsieri scrisse questa lettera di presentazione. La presenza del musicista siciliano negli scritti del letterato comasco è limitata a quest’unica missiva. Qualche traccia per un’ipotesi di ricerca futura
è forse nel legame esistente fra Borsieri e la corte sabauda, un legame mantenuto saldo dal rapporto fra il Comasco ed Amedeo di Savoia, soprattutto, ma
anche tramite Ruggero Trofeo, Francesco Borsieri, Giambattista Marino. Forse Sigismondo conobbe Borsieri a Milano, ma non esistono testimonianze
milanesi del musicista se non il luogo di edizione del suo primo libro di Musiche a voce sola, pubblicato nel 1609. È anche possibile che sia stata una conoscenza comune a spingere Borsieri alla compilazione della lettera, ma la descrizione delle abilità esecutive di Sigismondo d’India da parte del Comasco
mi inducono a pensare ad un reale incontro fra i due.
Claudio Merulo
All’interno del gruppo di lettere inviate da Girolamo Borsieri a Ruggero Trofeo, una spicca per il ritratto contenutovi di Claudio Merulo:
E pur Claudio Merulo, per principe degli organisti ch’egli sia stato, non ha passata la vita contento dell’arte propria, ché ha voluto attender anco a molte altre. Alcuni libri di musica stampati in Venetia, mentr’egli aveva l’organo di
S. Marco, mostrano chiaramente ch’egli è stato ristampatore; e dopo ch’egli era
andato a servire all’altezza di Parma ha fatto sapere a tutti i discepoli che attendeva all’alchimia, a cui non avesse già mai atteso, che sarebbe forse ancor
vivo essendosi ucciso con quella sua polvere alchimica ch’esso chiamava
astratto vitale, se ben quella sua barba di venerabile lo faceva più tosto creder
uomo di governo che distillatore …56
Claudio Merulo era morto a Parma nel 1604. Non sono passati nemmeno dieci anni quando Borsieri scrive queste righe, essendo Ruggero Trofeo morto
nel 1614. Secondo le recenti ricerche di Rebecca Edwards siamo a conoscenza
dei contatti che Merulo ebbe con l’alchimista Bragadino almeno dal gennaio
del 1590, ma non possediamo documentazione sulla pratica attiva alchemica
da parte del musicista.57 L’indicazione di Borsieri pare dunque collegarsi ad
una debolissima traccia, che comunque ci permette di svolgere una riflessio56 Ms. Sup. 3.2.43, p. 79.
57 Edwards 1990, p. 254 e 257. Sono indebitato con il dr. Robert Judd per la segnalazione di
questo studio. Ricordo che Battista Guarini scrisse un madrigale per l’alchimista Marco Bragadin probabilmente intorno al 26 novembre 1590: cfr. Rossi 1886, p. 98 nota 5.
402
franco pavan
ne sul trasferimento di Merulo a Parma. La città emiliana era luogo noto per
la presenza di alchimisti: uno d’essi era stato il Parmigianino, che aveva lavorato presso la chiesa della Steccata. Merulo prestò servizio proprio presso la
chiesa della Steccata, oltre che a Palazzo Ducale e presso la Cattedrale, negli
anni della sua permanenza a Parma.58 La pratica alchemica era comunque diffusa fra i musicisti del Cinquecento e del Seicento: ne voglio segnalare qui solamente uno: Claudio Monteverdi.59
Anche se Borsieri avesse voluto utilizzare un musicista famoso per esprimere le sue idee sull’alchimia, scegliendo dunque Claudio Merulo, è evidente
che il letterato comasco sentiva la necessità di parlare di un musicista stampatore, editore ed alchimista per esprimere il suo disappunto nei confronti di chi
si allontana dal fine ultimo dell’arte, quello di «pascer l’anima».
Il ‘Supplimento’
Morti tutti gli eroi musicali di Borsieri, egli dette alle stampe il Supplimento
della Nobiltà di Milano. Era il 1619, e quindi non molto tempo era passato dalla morte di Guarini, avvenuta il 7 ottobre 1612, e da quella di Gesualdo, giunta nel 1613. Gabuzio era scomparso nel 1611, mentre Trofeo nel 1614. Monteverdi aveva pubblicato il Sesto libro di madrigali a cinque voci, proprio nel 1614.
In questo volume, curiosamente, nessun testo poetico è opera di Guarini. Probabilmente il musicista cremonese, ormai lontano dalla corte mantovana,
poté sceglier con maggiore libertà i testi da musicare: fecero dunque comparsa per la prima volta in un libro monteverdiano le liriche di Giovanbattista
Marino, poeta che aveva avuto un interessante rapporto epistolare con Borsieri.60 Le pagine dedicate alla musica contenute nel Supplimento si rivelano
di grande interesse per la ricostruzione dell’ambiente musicale milanese del
secondo decennio del Seicento. La loro analisi può ora partire da un punto di
vista privilegiato. Sappiamo infatti che Borsieri fu anche musicista: le sue osservazioni non ebbero dunque rilievo superficiale. Abbiamo inoltre almeno
58 Sul Parmigianino alchimista v. Fagiolo 1969 e 1970. Su Claudio Merulo a Parma v. Gallico 1973. Merulo fu alla chiesa della Steccata dal 1591. Nuove notizie sono in Fabris 1987, p. 18.
Borsieri potrebbe aver ammirato la barba di Merulo nel ritratto in I-Ma, già segnalato nei cataloghi antichi: v. ad esempio Terzago 1666, p. 282 «Claudius Merulus Coreggi».
59 Su Monteverdi e l’alchimia v. Welker 1989 e Fabbri 1985, pp. 254-256.
60 Sul Sesto libro di Monteverdi si possono utilmente leggere le pagine di Fabbri 1985,
pp. 192-200. Sul rapporto epistolare fra Borsieri e Marino (documentato nel corso del 1613) si
veda Caramel 1966, p. 131, pp. 133-137, e Perotto 1986, pp. 235-236, 241-242, 246-248. Lettere di
Marino indirizzate a Borsieri non sono purtroppo raccolte in Guglielminetti 1966.
un curioso rivolgimento
403
un’idea del suo pensiero sull’arte e la sua condotta intellettuale nei confronti
della musica, almeno fino agli inizi del secondo decennio del xvii secolo.
Nell’introduzione A’ lettori Borsieri così si esprime:
… Ho ancor io trattato de’ musici, de’ pittori e degli scoltori, perché veramente ciascuna delle lor professioni mentre s’essercita con eccellenza è degna d’essere annoverata fra le compagne delle lettere non inferiori, richiedendo anch’esse che lo intelletto v’affatichi intorno come le lettere, ed essendo atte a recar gloria principale a chi ne lascia testimoni di meraviglia.61
Il proposito di Borsieri non era affatto un’innovazione. È necessario ricordare che il Supplimento era nato come appendice, o aggiornamento, del volume
La nobiltà di Milano scritto da Paolo Morigia e pubblicato per la prima volta
nel 1595. E lo stesso Morigia aveva inserito un capitolo nella sua opera interamente dedicato a «pittori, scultori, architetti, miniatori et altri virtuosi, in diverse sorti di virtù, milanesi».
Le monache musiciste e Claudia Sessa
Borsieri decise di aprire la discussione sulla musica proprio dove Morigia l’aveva lasciata: e cioè sull’attività musicale all’interno dei monasteri. Così si era
espresso Morigia:
Dirò ancora come in questa nostra città quasi tutti i monasteri delle monache
fanno professione di musica, così nel suono de più sorte d’instromenti musicali, come di cantare; et in alcuni monasterii ci sono voci tanto rare che paiono angeliche, et a sembianza di serene allettano la nobiltà di Milano d’andargli ad udire. Ma fra gli altri ce ne sono due degni di lode, che non sono inferiore a niun’altro nell’eccellenza musicale, che sono il monasterio di Santa Maria Maddalena vicina a S. Eufemia, l’altro è quel dell’Assonta detto del Muro.
Queste venerabili religiose, oltre alla santa osservanza della vita apostolica,
sono ancora virtuosissime e della musica essercitate, così ne’ suoni come nel
cantare, et si sentono voci scielte concordevole in armonia, con unione di concerti di voci divine con mescolanza de suoni, di modo che paiono angelici cori
che addolciscono l’orecchie degli uditori, vengono lodate da gli uomini intelligenti di tal virtù.62
Borsieri, in una letterà di cui si dirà fra poco, condanna l’uso della musica per
sedurre le giovinette a nuove monacazioni. Possiamo immaginare quindi il
suo disagio di fronte alle parole di Morigia. Eppure nelle pagine del Supplimento, proprio il passo relativo alla musica nei monasteri – interamente dedi61 Borsieri 1619, f. a2v.
62 Morigia 1595, pp. 186-187.
404
franco pavan
cato a Claudia Sessa, monaca dell’Annunciata – celebra tali concerti quale
gloria cittadina.
È stata Claudia Sessa donna a tempi nostri singolare non solamente per la musica, ma ancora per le altre rare qualità. Ha suonato di varii stromenti ed accompagnato il suono con un’armonia così mirabile che non ha avuto cantore
che pur abbia potuto pareggiarla. Poiché cantando nella chiesa interiore dell’Annunciata, dove aveva vestito l’abito monacale, si faceva conoscer equale e
spiritosa nel movimento della voce, pronta e veloce ne’ trilli, affettuosa e padrona degli accenti, e sopra il tutto così pratica delle altrui compositioni che
poteva chiamarsi in un tempo stesso musica e recitatrice, dando loro spesso
quello spirito e quella vivacità che forse regolarmente non avevano. Perciò era
sì grande il concorso de’ popoli a questa chiesa nelle feste che molti erano costretti a starsene fuori quasi ciascuna festa ordinaria, per lo cantar di lei fosse
anzi la principale della chiesa. Invitata dalla catolica reina Margherita d’Austria, che l’aveva udita cantare, ad andarsene in Ispagna alla corte, non volle
acconsentire allo invito facendo intender a s. maestà che si aveva preso quel
monastero per una perpetua clausura. Il Serenissimo di Savoia e ciascuno de’
figlioli di lui l’hanno più volte udita anco suonare. Ciò che hanno fatto anco
quei di Parma e di Mantoa, i quali solevano dire che non equalmente restavano soddisfatti del cantar di Claudio Monteverde, nè di qual’altro musico recitativo che spesso udissero nelle loro corti, benché l’uno e l’altro professasse
d’aver al proprio servigio i migliori musici di questi tempi … È morta giovane, e nel tempo ch’ella cominciava comporre quelle stesse opere musicali che
poi cantava nelle feste; ciò che averebbe accresciuta in lei la perfettione del
cantare, benché già fosse cantatrice singolarissima.63
Borsieri conferma dunque a distanza di ventiquattro anni la testimonianza relativa alle esecuzioni musicali nei monasteri milanesi di Morigia. Sappiamo
che la prassi musicale fra le monache non fu in uso solamente a Milano, ma
pressoché in tutta Italia nel corso dei secoli xvi e xvii. Per quanto riguarda la
città lombarda è possibile accennare alla figura di Caterina Assandra, ricordata dallo stesso Borsieri nel corso del xv capitolo del Supplimento.64
63
Borsieri 1619, pp. 51-54; le pagine dedicate a Claudia Sessa occupano l’intero xiv capitolo. Una canzone di Paolo Bottaccio fu dedicata probabilmente a Claudia Sessa; cfr. Toffetti
1991, i, p. 105; ringrazio l’autrice per avermi concesso la consultazione del suo lavoro. Cfr. inoltre Kendrick 1996, pp. 139-140, 233-237.
64 Assandra fu una eccellente compositrice, e continuò la propria attività artistica anche
dopo aver preso i voti ed essersi ritirata in convento. La bibliografia relativa a questo straordinario personaggio è limitatissima e non esauriente; v. Gianturco 1988, e Bowers 1996. Le notizie di un’altra suora compositrice, Maria Cattarina Calegari, sono in Calvi 1664, parte ii, ultima c.n.n. dopo l’indice. Cattarina entrò nel monastero di Santa Margherita a Milano l’8 aprile 1660 e fu organista, compositrice e cantante mirabile. Cattarina Calegari (la quale portava il
un curioso rivolgimento
405
In una lettera di straordinaria intensità Borsieri rivela apertamente il suo
pensiero sulle monache musiciste, e sui reali motivi, a suo avviso, che spingevano le religiose alla prassi musicale. Con un accento lontanissimo da quello
utilizzato nel Supplimento, il letterato comasco affronta con durezza, ma quasi dolorosamente, questo aspetto della vita femminile a lui particolarmente
caro, come dimostra la sua frequentazione della biografia della monaca beata
Maddalena Albricia: la lettera è inviata a Francesco Borsieri di Madama della
Valle, Torino.
Se Caterina ha per desiderio di farsi monaca, perché niun’altro modo di viver
le paia di gusto, adoperatevi ancora voi co’ superiori accioché tosto venga all’effetto: ma s’ella ha desiderio solamente perché ne oda tutto dì discorrer il
padre e la madre, a’ quali discorsi non ardisca pur una volta contradire con la
lingua benché col core sempre vi contradica, di gratia astenetevi da questa impresa, che n’averete anzi demerito particolare e maledittioni innumerabili
dopo ch’ella averà cominciato abitar i chiostri. Non sia meraviglia ch’io abbia
detto «perché ne oda tutto dì discorrer il padre e la madre», imperoché questa
è una delle astutie con le quali s’inducono le giovanette a monacarsi. Egli è ben
vero che non è tanto degno di biasimo quanto è quella che si osserva, quando
in una casa i maggiori che ciò pur vogliono, ma senza già mai lasciarsi intender liberamente, cominciano così da lunge lodar la musica per professione di
sommo diletto, indi dappresso per grande ornamento finché introducono alcun maestro, il qual insegni alle fanciulle suonar di viola o di clavicembalo, insegnando loro insieme cantar di gorga. Intanto passano gli anni, e i concerti
de’ monasteri di femine si vanno ad udire, dove le monache operando con parole adulatorie che quelle discepole talvolta suonino nelle loro forestarie, le
empiono d’una certa vana emulatione per non dir vana gloria, ed a poco a
poco passando d’accordo con chi le ha fatte ammaestrare aprono loro le porte de’ chiostri e se le prendono per organiste o per maestre di capella. Ma perché chiam’io astutia ciò ch’è ormai passato in abuso massimamente di qua de’
monti? Sia non di meno quel che si voglia. Ammiro il sig.r Rafaele Montorfano
mio compatriota, che fa nel leuto e nel clavicembalo ammaestrar una figliuola e insieme cerca la via di maritarla, avveggendomi ch’esso non la fa per altro
ammaestrare che per mero diletto che ha nella musica, onde col tempo non
nome secolare di Cornelia prima dell’ingresso in monastero) è citata in Gianturco 1988, p.
120, con le sole date di nascita e di morte (1644 - ca. 1662) senza nessun riferimento bibliografico. È improbabile una data di morte così precoce se Calvi, nel 1664, si riferisce ad una donna
ancora in vita. Ancor più enigmatica risulta l’affermazione secondo la quale la Calegari non
avrebbe dato alle stampe nessun suo lavoro (ibidem, nota 11): Calvi segnala al contrario il volume Mottetti a voce sola (pubblicato nel 1659), nonché Li madrigali et canzonette a voce sola, e
inoltre precisa che «Molte opere sono della Calegari alle stampe». Kendrick 1996, p. 108, riporta utili notizie sulla Calegari, ipotizzandone la morte negli anni ’80.
406
franco pavan
rinfacciaralle la spesa fatta per lei, come pur sogliono gli altri padri, i quali di
ciò si servono come argomento principale se fossero mai le fanciulle per aprir
la bocca al contrario mentre si avvicinano al monacarsi, e tutto ciò sia scritto
alla domestica. Cercarete voi con che possiate assicurarvi che Caterina abbia
tal desiderio. Potrete assicurarvene con l’osservare se le dispiacciono le finestre, le porte, le nizzarde, i tornei, e s’allo incontro le piacciono i libri spirituali, le chiese non frequentate da’ cavallieri e i confessionarii, osservando appresso se ritiene il color naturale nel viso qualvolta si tratta di monasteri. Siate pur
in ciò diligente, e ricordatevi che il guadagnar la metà d’una dote col mandar
a soffrire fino alla morte una vergine tra le vergini è un perder interamente la
coscienza. Di Casnate.65
Ma torniamo ora alla lettura del brano di Borsieri contenuto nel Supplimento che offre indicazioni ulteriori rispetto alla segnalazione di Morigia. Il primo dato di rilievo è relativo al soggetto del racconto, individuato in una monaca, Claudia Sessa, e non più come in Morigia in un gruppo indistinto di religiose. Questo permette a Borsieri di utilizzare con maggiore efficacia la figura di Claudia Sessa come exemplum. Di essa infatti viene sottolineato soprattutto l’aspetto devozionale, che la porta a rinunciare all’invito di Margherita
d’Austria. La scelta di Borsieri risulta più comprensibile alla luce di quanto
abbiamo letto nella sua lettera inviata a Francesco Borsieri: la musica nei monasteri non doveva essere intesa come un inganno in cui trarre giovani donne musiciste, ma semplicemente come atto devozionale non imposto.
Lo stile esecutivo di Claudia Sessa è descritto da Borsieri con una certa precisione; ma sono solo due particolari che ci fanno intuire che la religiosa non
utilizza lo stile antico: il cantare «affettuoso» e l’essere al tempo stesso «musica e recitatrice», dunque un canto legato alla seconda pratica. Queste caratteristiche sono viste come positive da Borsieri, ed acquistano maggior rilievo
per noi se rapportate alle parole espresse in seguito dal Comasco: Monteverdi,
tramite le parole del duca di Mantova , viene definito inferiore come cantante a Claudia Sessa, così come «qual’altro musico recitativo».
Un altro particolare importante si lega al commento effettuato dal duca di
Mantova relativamente a Claudio Monteverdi. Sappiamo che il musicista cremonese fu licenziato dalla corte mantovana verso la fine di luglio dell’anno
1612: 66 non sappiamo però se Borsieri avesse raccolto il giudizio ducale sullo
stile di canto di Monteverdi prima di questa data, o se addirittura l’intero passo fosse stato scritto dall’erudito comasco in un periodo antecedente di diver65 Ms. Sup. 3.2.43, pp. 194-195.
66 Sul misterioso licenziamento
dalla corte di Mantova, v. Fabbri 1985, pp. 175-176.
un curioso rivolgimento
407
si anni la data di pubblicazione; oppure se semplicemente il duca di Mantova
ricordasse a distanza di tempo le prestazioni di Monteverdi. Anche se Monteverdi viene ancora una volta ricordato negativamente da Borsieri, non ricorrono più nelle parole di quest’ultimo i severi giudizi critici nei confronti della seconda pratica, insinuatasi oltretutto nel campo della musica sacra.
Fra le righe del Supplimento tutti gli accenti acuti della polemica sviluppata da Borsieri nel suo epistolario non troveranno più posto. La prosa si fa più
pacata e meno ricca d’invettive, più disposta all’osservazione e alla registrazione degli avvenimenti che alla discussione. Non va dimenticato, d’altronde,
che il Supplimento rappresentava un’ennesima celebrazione del territorio milanese e dei personaggi illustri prodotti da esso: questo era il tema, assieme a
quello devozionale, con il quale aveva a che fare Borsieri. D’altra parte mi
chiedo se il soggiorno a Milano di Monteverdi nel corso del 1612 possa aver offerto a Borsieri l’opportunità di conoscere meglio l’opera del maestro cremonese, oppure se l’interesse sviluppatosi a Milano per «l’accademia del Monteverde» tramite personaggi come Nantermi o Coppini possa aver influenzato il
Comasco.67
Giovanni Battista Ardemanio
Questa prospettiva permise però allo studioso comasco di dipingerci osservazioni su alcuni personaggi eclettici di grande interesse: uno di questi fu senz’altro Giovanni Battista Ardemanio:
… Gio. Battista Ardemanio, dottore in teologia, protonotario apostolico, capellano e pensionario della Catolica Maestà, e maestro di coro nella chiesa della Scala, attende alle scienze astronomiche, e già ha stampate alcune operette
in questa professione per un’accademia che si chiama de Cassinensi Inquieti.
È anco musico e suonator singolare di viola, e si diletta di congregar uno studio di cose curiosissime avendo un animo veramente nobile e conforme alla
grandezza delle professioni nelle quali egli si essercita.
In un secondo momento Borsieri inserisce la figura di Ardemanio all’interno
della descrizione delle gallerie milanesi; cito il passo più ampiamente per poter meglio comprendere il contesto:
… N’ha fatta un’altra [galleria] d. Federico Landi, principe di Val di Taro, nella propria casa, nella quale oltra le pitture si trovano diverse tavole di pietre
pretiose e scrittorii pieni di medaglie antiche e di vasi che sono pretiosissimi
67 Sul viaggio di Monteverdi a Milano nel 1612 v. Fabbri 1985, p. 176. Anche Borsieri fu a
Milano in quel periodo; cfr. Caramel 1966, pp. 127-128.
408
franco pavan
per la materia o per lo artificio; cose delle quali abundano ancora le gallerie di
Camillo Raverta, cavalliero che si diletta particolarmente di segreti importantissimi per la sanità de’ corpi, e di Gio. Battista Ardemanio, che con animo generosissimo spende l’entrata tutta de’ beneficii ecclesiastici e de’ trattenimenti
che ha dal re cattolico in ornamenti di casa simiglianti, avendo anzi un fratello che perciò dipinge solamente e si diletta particolarmente di cavar frutti e
fiori dal naturale che servano ad ornar la propria casa.68
Le parole di Borsieri ci richiamano immediatamente alla stagione più fortunata del collezionismo visivo, sviluppo di sistemi mnemotecnici di camilliana
memoria. A Milano sarebbe nata di lì a poco la grandiosa raccolta di Manfredo Settala, esempio per le gallerie di tutta l’Europa.
Musici di Milano
Le pagine dedicate alla musica contenute nel Supplimento elencano ben trenta musicisti ed un editore musicale (quattro d’essi erano già in Morigia: Orfeo
Vecchi, Ottavio Bariola, Riccardo Rognoni e Orazio Nantermi). Non è possibile in questa sede occuparsi di tutti. Mi limiterò a prender in considerazione
gli aspetti più interessanti senza soffermarmi sui dati biografici se non quando necessario.69
Il capitolo xv del Supplimento, intitolato Degli altri musici di Milano più
famosi, si apre con il ricordo di Orfeo Vecchi. Deceduto nel 1604, Vecchi rappresentava ancora per Borsieri una auctoritas in campo musicale. Non poteva
essere che così, dato che il musicista era stato raccomandato come maestro di
cappella di Santa Maria alla Scala di Milano da Carlo Borromeo. Di Vecchi ci
viene offerta da Borsieri l’immagine di un musicista dotato di un grande talento, caratterizzato dalla velocità compositiva.70 Più interessante può risultare per noi la descrizione che Borsieri effettua dello stile esecutivo all’organo e
al clavicembalo di Giovanni Paolo Cima e Giulio Cesare Ardemanio, fratello
di Giovanni Battista. Non dobbiamo dimenticare che l’attenzione principale
espressa da Borsieri nel suo epistolario è rivolta alla musica vocale, ed è in
68 Borsieri 1619, p. 43 e p. 68 rispettivamente. I legami con la Spagna, di cui si parla in Toffetti 2004, erano già noti per due lettere di Ardemanio spedite nel 1603 da Valladolid a Federico Borromeo e cit. in Ambrosiana 1960, p. 20.
69 Mi permetto di segnalare la lacuna di uno studio complessivo sulla musica strumentale
a Milano in questi anni; Barblan 1962a, ancorché prezioso risulta ad oggi datato e lacunoso.
70 Su Orfeo Vecchi v. Mauri Vigevani 1986; tutto il capitolo xv del Supplimento è ivi riportato in appendice: eviterò dunque i riferimenti bibliografici per la presente citazione e per quelle che seguiranno.
un curioso rivolgimento
409
queste righe che possiamo per la prima volta conoscere il pensiero del Comasco relativamente alla musica strumentale.
Borsieri individua una «via» lungo la quale si svolge il cammino di Cima e
quindi quello di Ardemanio. Cima si segnala per la «leggiadria», la «nettezza
della mano» e per il «sommo spirito nella inventione»; Ardemanio per la
«mano svegghiatissima» ed è
d’inventioni tutto conforme al gusto de’ moderni, i quali non si compiacciono
più della maniera di suonare, trovate pur ed essercitate tra loro da’ Barioli; ma
anzi di quelle altre che hanno già cominciato ad udire da’ Trofei.
È evidente che qui Borsieri si riferisce ad Ottavio Bariola e a Ruggero Trofeo:
quest’ultimo importante punto di riferimento in campo musicale, come abbiamo visto, per lo studioso comasco, e rappresentante di una «via» refrattario allo stile «moderno» nella musica vocale. Borsieri è però molto chiaro: Ardemanio segue la maniera di Trofeo nel suonare, non nel comporre; oltretutto si tratta qui, naturalmente, di musica strumentale e non vocale.71 Sembrerebbe dunque che Ruggero Trofeo avesse portato a Milano un nuovo stile esecutivo organistico, seguito in questo da musicisti come Ardemanio e Cima.72
La relazione di Borsieri prosegue citando un altro organista, Giacomo Filippo Biumo, rappresentante del «modo di mezzo» sia nel suonare che nel
comporre. Il «modo di mezzo» è per Borsieri il giusto equilibrio fra le opere
di coloro che hanno seguito la «sodezza», come ad esempio Palestrina, e la
«leggiadria» dei moderni. Sappiamo assai bene cosa intendesse Borsieri per
sodezza; molto più difficilmente riesco ad interpretare compiutamente il termine leggiadria:
Giacomo Filippo Biumo, organista di Sant’Ambrogio, si rende famoso e col
suonare e col comporre, seguendo nell’una e nell’altra professione quel modo
che communemente suol dirsi nel mezzo, perché non parendogli pur, conforme alla gravità della musica, che ciascuno debba del tutto seguire la sola leggiadria e lasciar la sodezza in un tempo, fa che si gusti e ’l Palestina e ’l Rovigo.
Possiamo formulare a questo proposito due ipotesi: la prima d’esse prevede la
possibilità di interpretare le figure di Palestrina e Rovigo come rappresentanti rispettivamente dello stile sodo e dello stile leggiadro. Borsieri conosceva si71 Sulla famiglia Ardemanio si veda il già citato Toffetti 2004.
72 Sappiamo che il restauro e le innovazioni apportate all’organo
di San Marco in Milano
da parte di Costanzo Antegnati furono richiesti dallo stesso Trofeo, organista presso la chiesa
milanese dal 1594; non mi sembra dunque insensato ipotizzare un interesse relativo all’organologia da parte di quest’ultimo, forse legato a una ricerca stilistica esecutiva.
410
franco pavan
curamente una parte delle opere di Rovigo; in una sua lettera inviata a Ruggero Trofeo infatti così si esprimeva:
Le todeschine da me composte al p. d. Angiolo finalmente sono canzoni da
suonarsi secondo quei pochi spiriti che il Rovigo ha portati da Germania in
Italia …73
Forse Borsieri in questo passo si riferisce ad uno dei due volumi, oggi persi,
segnalati nella Iunctarum Bibliotheca del 1604. Qui infatti troviamo nel capitolo dedicato a Madrigali e canzoni a 4 i seguenti titoli: «Francesco Rovigo e
Ruggier Trofeo a 4» e per sonare «Francesco Rovigo a 4».74 Quest’ultimo volume mi pare si avvicini maggiormente alla descrizione di Borsieri: si tenga
presente che nel passaggio sopra citato, però, egli rammenta uno stile compositivo più che una specifica pubblicazione di Rovigo. La testimonianza del Comasco è comunque l’unica che si riferisca a questo genere praticato da
Rovigo, che lo assimili a quello delle todeschine e che ne indichi un’origine
d’oltralpe. «Messer Franceschino», come lo chiamava Monteverdi, visse in territori d’oltralpe, a Graz, per otto anni, e non è dunque improbabile che le parole di Borsieri vadano considerate come veritiere.75
La seconda ipotesi prevede al contrario il passo di Borsieri interpretabile
come un avvicinamento delle figure di Palestrina e Rovigo, visti come compositori amanti entrambi della «sodezza»: e anche questa interpretazione consente riflessioni sugli stili di Francesco Rovigo. La lettura delle messe di quest’ultimo, composte per la chiesa ducale di S. Barbara a Mantova, ci rivelano
un compositore di altissimo livello, presente nei medesimi codici contenenti
messe di Palestrina e sicuramente non «leggiadro» di stile.76 Ancora una volta le parole di Borsieri pongono questioni, dubbi, aprono prospettive di ricerca, non permettono una risposta subitanea.
73
74
Ms. Sup. 3.2.43, p. 78.
Cfr. Mischiati 1984, pp. 113 e 133. Fink 1977, i, p. 47, sottolinea il rapporto fra Rovigo e
Trofeo, ipotizzando che Trofeo sia stato allievo di Rovigo. Inoltre segnala che il volume in partitura delle canzoni da suonare a quattro e otto pubblicato dai due musicisti, fu forse edito per
la prima volta nel 1583 (questa prima edizione è andata persa). Sartori 1958, p. 88, ne segnala
una ristampa di Filippo Lomazzo assegnandola ipoteticamente all’anno 1613, non recando data
il frontespizio dell’opera ed essendo il 1613 il primo anno di attività di Lomazzo come editore
in proprio. Sappiamo però che già nel 1597 Lomazzo fu perlomeno rivenditore di libri musicali: si veda Frigerio 1987, p. 37. In seguito Lomazzo, dal 1603 al 1612, lavorò in società con l’erede di Simon Tini.
75 Sulle vicende biografiche di Rovigo si veda Fink 1977, i, pp. 2-67, e la voce «Rovigo Francesco», in Grove 2001, xvi, pp. 279-280.
76 Sulle messe di Rovigo v. Fink 1977, ii.
un curioso rivolgimento
411
Dunque lo stile leggiadro e lo stile sodo si incontravano a Milano nell’opera di Biumo, il quale era quindi rappresentante di una scuola diversa rispetto a quella di Ardemanio. Va rilevato che i due musicisti coprivano il loro incarico di organisti presso le due chiese più prestigiose e potenti di Milano
dopo la Metropolitana: Biumo lavorava presso Sant’Ambrogio, Ardemanio
presso Santa Maria della Scala.
Il discorso di Borsieri si sposta in seguito sulla famiglia Rognoni:
Gio. Domenico e Francesco, figliuoli di Ricardo Rognoni, sono di valore e di
nome grande in questa città, l’uno nel suonar di flauto, di violino, di altri strumenti, ed ammendue nel comporre … Francesco Rognoni fra le altre opere
n’ha stampata una sotto il nome dello Scolaro, dove possono impararsi per lo
violino e per altri stromenti i principii veri di tutte quelle arie che fanno di mestieri a chi brama essercitar la mano sopra stromenti che servono fuor de’ concerti …
La famiglia Rognoni era molto nota a Milano. Riccardo Rognoni era stato ricordato da Paolo Morigia nel 1595 con queste parole:
Dirò ora che Ricardo Rognoni vien molto lodato nel suonar di viola, et è stimato de’ primi della nostra città.77
Contrariamente a quanto è stato affermato non è quindi Morigia ad accennare a Francesco Rognoni, ma Borsieri. Inoltre è passata del tutto inosservata
l’indicazione relativa alla pubblicazione da parte di Francesco Rognoni di un
metodo intitolato Scolaro, per violino ed altri strumenti. Eppure un sospetto
sarebbe dovuto nascere: Filippo Picinelli segnalava una Aggiunta del Scolaro di
violino ed altri strumenti (Milano, 1614) che esigeva la pubblicazione di un volume precedente.78 Guglielmo Barblan ha rilevato la segnalazione di Picinelli,
ma chissà perché ha interpretato il volume in questione (oggi perso) come la
continuazione dell’opera di Riccardo Rognoni Passaggi per potersi essercitare
nel diminuire terminatamente con ogni sorte d’istrumento et anco diversi passaggi per la semplice voce humana, pubblicato da Vincenti a Venezia nel 1592.79
Piuttosto mi pare notevole la somiglianza del titolo del lavoro di Francesco
Rognoni con quello di una silloge pubblicata a Milano nel 1645 da Gasparo
Zanetti: Il scolaro … per imparar a suonare di violino et altri stromenti; ciò po77 Morigia 1595, p. 186.
78 Cfr. la voce «Rognoni»
di Sergio Lattes (revisionata da Marina Toffetti) in Grove 2001,
che conosce il volume citato in Picinelli 1670, ad vocem. Si avverte che tuttavia Picinelli può a
volte non essere considerato affidabile.
79 Barblan 1962b, p. 25.
412
franco pavan
trebbe essere interpretato come un segno di riconoscimento da parte di Zanetti nei confronti di Francesco Rognoni, ipotetico, per noi, autore di un metodo anch’esso intitolato Scolaro, oppure più semplicemente Zanetti utilizzò
un titolo efficace sfruttando l’idea di un compositore scomparso ormai da
quasi un ventennio.
La pratica strumentale
In un passo incastonato fra le due citazioni relative alla famiglia Rognoni,
Borsieri ci rivela un altro aspetto della prassi musicale milanese di grande interesse:
Gran suonatore di leuto viene stimato Luigi Diano, detto communemente Luigino, particolarmente or che ne’ concerti delle chiese si sono introdotti diversi stromenti che anco sogliono accompagnarci con l’organo solo, facendo che
gli auditori restino talvolta sospesi per buona pezza alle concorrenze delle diminuzioni.
Un’osservazione che si ripeterà nelle parole di Maugars relativamente all’ambiente romano.80 Purtroppo non sappiamo nulla di Luigi Diano, o meglio,
Luigino. Di rilievo è la segnalazione che a Milano si introducono in chiesa in
questo periodo (fine del secondo decennio del Seicento) strumenti che concertano con l’organo, dopo che le disposizioni sinodali avevano raccomandato l’uso del solo organo.81 È evidente comunque che Borsieri in questo passo
non si riferisce esplicitamente all’utilizzo di strumenti diversi dall’organo nel
corso della liturgia, ma nel corso dei «concerti delle chiese». I documenti relativi all’attività musicale nelle chiese milanesi sullo scorcio del secolo xvi non
sono ancora stati indagati sistematicamente, e quindi non possediamo un
quadro chiaro per quanto riguarda gli strumenti utilizzati nel corso della funzione stessa o durante avvenimenti extra-liturgici.82
80 Maugars 1639, p. 32 (dell’ed. Thoinan 1865): «… se servant de la thuorbe pour chanter,
et de l’archiluth pour toucher avec l’orgue, avec milles belles varietez, et une vistesse de main
incroyable» [… servendosi della tiorba per cantare, e dell’arciliuto per suonare con l’organo,
con mille belle varietà, e una velocità di mano incredibile]. Le citazioni a questo proposito si
potrebbero moltiplicare.
81 Sulla musica concertata nelle chiese italiane dopo il Concilio di Trento v. Fabbri 1995.
82 Un sondaggio presso gli archivi milanesi, in particolare in I-Mca, ci mostrano che la chiesa di S. Satiro esibiva il 3 agosto 1592 un «sonator unicus», (I-Mca, S. Satiro, vol. iv, n. 37: Sonator unicus Franciscus Pellizonus). Più difficile risulta interpretare due note relative alle parrocchie di S. Michele al Gallo e della stessa S. Satiro. Il documento relativo a quest’ultima riguarda infatti musicisti residenti nella parrocchia, e quindi non quelli impiegati presso la chiesa; fra
di essi troviamo l’organista dell’Incoronata. Anche nella carta riguardante S. Michele al Gallo
un curioso rivolgimento
413
Il liuto era ancora particolarmente apprezzato a Milano: una conferma ulteriore a questo proposito ci giunge da un altro passo di Borsieri relativo a
Giovanni Ambrosio Colonna. Quest’ultimo è definito «di valor grande nel
liuto»; ed inoltre: «Ha questi ancora raccolte e stampate diverse opere conformi alla sua professione». Oggi, purtroppo, non conosciamo nessuna pubblicazione per liuto di Giovanni Ambrosio Colonna, mentre ci rimangono quattro libri di chitarra alla spagnola, stampati a partire dal 1620: Borsieri conosceva evidentemente opere che in seguito sono andate perse.83
Il discorso sulla musica del Comasco si dipana passando prima fra i compositori di madrigali a cinque voci, e cioè Gioseffo Biffi, Gioseffo Caimo e Girolamo Casati, e approdando poi a Michel Angelo Nantermi. Quest’ultimo si
segnala soprattutto per la composizione e l’esecuzione al chitarrone, non
«tralignando» il genio di suo padre, Orazio. «Ha stampati madrigali e arie per
chi canta solo col chitarrone, curioso di seguir la via trovata nell’accademia
del Monteverde»: ed infatti Michelangelo aveva dato alle stampe già nel 1609
vengono elencati «Gl’organisti et cantori nella parrocchia di S.to Michele al Gallo», e quindi
non è possibile stabilire se si tratti di musicisti in servizio presso la chiesa o dei musicisti residenti nella zona coperta della parrocchia. Il documento relativo a S. Satiro – conservato in
I-Mca, S. Satiro, vol. iv, n. 43, in duplice copia e non datato (anni ’80 del xvi sec.?) – segnala i
seguenti nomi (le abbreviature, come al solito, sono state sciolte):
Musici in parochia Sancti Satiri
Johannes Laurentius de Calderis
Johannes Baptista de Nataliis qui organo sonat in ecclesia Incoronata
Julius Meda qui canit
Pater Johannes Ambrosius Puteus
Il documento relativo a S. Michele al Gallo è in I-Mca, S. Maria Segreta, vol. v, n. 5, anch’esso
non datato (anni ’80 del xvi sec.?):
Gl’organisti et cantori nella parrocchia di Santo Michele al Gallo
L’organista di Santo Michel al Gallo è messer Gasparo detto il Bolognese
Messer Giovanni Antonio Vimercato è l’organista delle Gratie
Messer Francesco Lomazzi cantore
Messer Giovanni Ambrosio Trezzi cantore
Messer Fabricio Vicino cantore
Ottavio suo fratello cantore
Pater Nicolaus Laghus Sancti Michaelis ad Gallum parrocus scripsit
Propongo l’identificazione di Gasparo detto il Bolognese con Gasparo Costa. Su quest’ultimo
a Milano v. Toffetti 1991, i, p. 143.
83 La stampa per liuto contenente opere di Giovanni Ambrosio Colonna, oggi considerata
persa, è segnalata da Fabris 1987, p. 108, e Pohlmann 1962, p. 45 (dell’ed. 1982), i quali hanno
tratto la notizia probabilmente da Sartori 1958, p. 51, dove si afferma: «Colonna Gio. Ambrosio. Liutista, chitarrista e tipografo probabilmente milanese, ma comunque attivo a Milano al
principio del sec. xvii. Autore di un vol. di Intavolatura di liuto (Milano 1616)». Le stampe per
chitarra spagnola sono catalogate in Danner 1979, p. 9.
414
franco pavan
Il primo libro de madrigali a cinque voci … col basso continuo per il clavicembalo, chitarrone od altro simile istromento, che sembra richiamare esplicitamente tramite il solo titolo l’esempio monteverdiano.84 Nelle righe spese da
Borsieri su Nantermi non è possibile cogliere alcun cenno di polemica forte
nei confronti del musicista milanese, nonostante quest’ultimo fosse un dichiarato imitatore di Monteverdi. Un particolare ci ricorda però alcune
espressioni aventi valenza negativa presenti nell’epistolario borsieriano: la
«curiosità». Come abbiamo visto, questo stato intellettuale non era gradito a
Borsieri se posto in riferimento alla costruzione artistica.
Un’altra indicazione preziosa relativa allo sviluppo dei generi musicali a
Milano ci viene offerta da Borsieri a proposito delle «canzoni da suonare».
Egli ne vede infatti il primo autore, in senso cronologico, in Ottavio Bariola,
precisando che le «canzoni di suonare» sono scritte particolarmente «per concerti di casa». In seguito, «quasi per emulatione», una serie di musicisti hanno seguito l’esempio di Bariola: fra di essi Agostino Sodarino e Lodovico Baretta. Come vedremo queste «canzoni di suonare» non risultano, nelle parole
di Borsieri, sinonimo di «canzoni francesi». Senza voler affrontare la complessa problematica nel suo insieme, mi riservo di osservare come ancora una volta le osservazioni di Borsieri si rivelino fondate.
La pubblicazione di Bariola è in effetti la prima pubblicazione milanese
dedicata a canzoni da sonare (1594), seguita dai lavori di Ludovico Beretta
(1604) e di Agostino Soderino (1608). Successivamente Borsieri, unica fonte,
ci segnala un altro compositore di musica strumentale: Francesco Pappo. La
particolarità di quest’ultimo è di aver composto e dato alle stampe, secondo il
Comasco, concerti a due e quattro voci, imitando lo stile romano. In questo
Francesco Pappo fu seguito da Caterina Assandra, la quale «di più v’ha aggiunte alcune canzoni di quelle che i suonatori chiamano francesi». In questo
passo Borsieri non è chiaro: non si capisce infatti se egli intenda riferirsi ad un
volume pubblicato da Caterina Assandra dedicato a concerti in stile romano
e a canzoni francesi, oppure semplicemente ad una serie di composizioni
scritte dalla stessa musicista. La testimonianza di Borsieri è preziosa: non è
improbabile infatti che egli si riferisca, per quanto riguarda Pappo, al volume
Partito delle canzoni a 2 et 4, pubblicato a Milano forse nel 1608 ed oggi disper84 Il volume di Nantermi è catalogato in Rism a/i/6 (Einzeldrucke vor 1800, Kassel 1976),
p. 91. Qualche riga ha dedicato a Nantermi Einstein 1949, ii, p. 859. Notizie biografiche sono
rintracciabili in Frigerio 1987, p. 36, n. 9. Enigmatica risulta l’affermazione di Borsieri relativa
all’«accademia del Monteverde»: si tratta di un’affermazione generica, oppure di un riferimento ai dedicatari del Quarto libro monteverdiano, gli accademici Intrepidi di Ferrara?
un curioso rivolgimento
415
so; acquista dunque maggior peso l’ipotesi dell’esistenza di composizioni
strumentali oggi perse di Caterina Assandra.85
In un paragrafo contenuto fra i due dedicati alla canzone da sonare, Borsieri ci segnala due compositori «moderni», autori di libri di canzonette a tre
voci: Flaminio Comanedo e Fabio Varese, quest’ultimo segnalato come frequentatore dell’Accademia dei Lombardi. Il Comasco si riferisce assai probabilmente all’Accademia di Prospero Lombardo, frequentata a più riprese anche da Giovanni Domenico Rognoni.86 Fabio Varese, completamente ignorato dai repertori moderni, è figura di grande interesse, particolarmente per la
sua produzione poetica in lingua milanese contenente anche preziosi riferimenti all’attività musicale della città lombarda.87
L’ultimo musicista nominato da Borsieri è Giovanni Andrea Cima, fratello di Giovanni Paolo, ricordato esclusivamente come compositore di «concerti per chiesa e per camera, molto conformi al gusto del tempo».
Il discorso sulla musica di Borsieri si conclude quasi con un omaggio alle
sue scelte intellettuali, le scelte di un uomo che non si sente musicista ma lo è
stato, le scelte di un letterato, le scelte, infine, di un erudito devoto:
Questi sono i musici che in Milano sogliono maggiormente apprezzarsi come
professori proprii di tal arte. Àvvene poi altri che pur son stati e sono musici,
ma nemici dello spacciarsi tali, per le altre professioni ch’essi hanno aggiunte
a questa.
E a questo proposito il letterato comasco individua tre persone: Aquilino
Coppini, Francesco Lucino e Filippo Lomazzo. Del primo Borsieri ricorda
l’attività di retore a Pavia e Milano, e nel campo musicale l’opera svolta nello
spiritualizzare i «concerti profani». Il Comasco non lo rammenta nelle sue righe, ma i «concerti profani» in questione altro non sono che, in gran parte,
madrigali di Claudio Monteverdi. Sappiamo inoltre che Coppini ebbe una
notevole ammirazione per l’opera musicale del maestro cremonese, e che
nonostante la sostituzione delle parole da profane a spirituali egli si sforzò di
85
La disamina maggiormente accurata e più recente sul repertorio della canzone da sonare milanese fra Cinque e Seicento è in Toffetti 1991. Sui volumi di Bariola, Beretta, Soderino
e Pappo v. ibidem ii, pp. 3-4. Importante l’osservazione: «le diverse denominazioni [delle canzoni] che abbiamo individuato non sembrano essere in relazione con particolari caratteristiche
delle composizioni cui si riferiscono: si direbbe, piuttosto, che i vari termini venissero impiegati indifferentemente e con la massima libertà»; ibidem, i, p. 7. Non vanno dunque ricercate
strade interpretative particolari per le parole di Borsieri relative alle canzoni «che i suonatori
chiamano francesi».
86 Toffetti 1991, i, pp. 117-118.
87 Si veda ora Isella 2005.
416
franco pavan
rispettare l’intento «rappresentativo» della musica. Inoltre il musicista che
spinse definitivamente Coppini a pubblicare i madrigali spirituali fu Michelangelo Nantermi, come abbiamo visto emulo di Monteverdi.88
Anche in questo caso non trovano più posto fra le parole di Borsieri quegli accenti polemici nei confronti della «nuova musica» che erano così caratteristici della sua scrittura epistolare. Mi chiedo se il giudizio del Comasco nei
confronti della musica di Monteverdi possa considerarsi nelle pagine del Supplimento definitivamente mutato, oppure se in questo caso l’intento devozionale sia da considerarsi più rilevante per il letterato comasco ai fini della valutazione dell’opera. È noto infatti che la prima raccolta di Coppini recante il
titolo Musica tolta dai madrigali di Claudio Monteverdi e d’altri autori, a cinque et a sei voci, pubblicata a Milano da Agostino Tradate nel 1607, era stata
dedicata a Federico Borromeo, cugino di Carlo Borromeo. Federico, come
sappiamo, era in ottimi rapporti con Borsieri, e rappresentava per quest’ultimo la sintesi ideale dell’uomo religioso e dell’uomo di lettere e conoscitore
d’arte. Può Borsieri aver dimenticato o cambiato i suoi convincimenti estetici per non contrastare la volontà di un uomo che, oltre ad essere arcivescovo
di Milano, era cugino di un santo? Se è vero che il letterato comasco non rivolge un giudizio avverso all’opera di Coppini, è altrettanto vero che non ne
rivolge uno apertamente positivo. Borsieri si comporta in questo caso come
un cronista degli avvenimenti milanesi, seguendo in ciò, come abbiamo visto,
l’ordinamento generale dell’intero volume. Al contrario verga un giudizio
chiarissimo sull’attività di letterato di Coppini («egli attende alle letter umane con molta sua gloria») come a volerne sottolineare le migliori qualità. La
disamina dello scritto di Borsieri è inoltre complicata da un’epistola latina
scritta da Coppini nell’estate del 1613 ed inviata al Comasco. Da essa apprendiamo che Coppini conobbe Borsieri e la sua residenza comasca, «Il Giardino», così come era al corrente dei rapporti esistenti fra Borsieri e Ruggero
Trofeo. La lettera fu pubblicata nel volume di Coppini, Epistolarum libri sex,
edito proprio nel 1613 a Milano.89 Il rapporto fra Coppini e Borsieri potrebbe
88 Su Coppini e Monteverdi si veda Fabbri 1985, pp. 151-153 e 377-378; anche Sartori 1952,
pp. 399-413; di qualche utilità è anche Rorke 1984. Su Coppini e Nantermi cfr. la lettera d’introduzione contenuta nel volume edito da Coppini nel 1607 contenente la spiritualizzazione dei
madrigali di Monteverdi e citata in Vogel 1892, i, p. 519.
89 Coppini 1613, p. 226:
Hieronimo Borserio. Comum.
A Gerolamo Borsieri. Como.
Vix aestum fero hisce molestissimis coarcSopporto appena il calore stretto fra queste
molestissime pareti. E il sole invero colpisce
tatus parietibus. Ac Sol quidem ignitis iacucon raggi di fuoco le anguste e umili stanze
lis angusta humiliaque; cubicula ferit a me-
un curioso rivolgimento
417
dunque aver spinto il Comasco a restituire l’omaggio ottenuto dal retore inserendo qualche riga dedicata a quest’ultimo nel Supplimento. La lettura del
volume di Coppini rivela comunque la frequentazione di luoghi e persone
care allo stesso Borsieri. Lo dimostrano l’ammirazione che Aquilino Coppini
esibisce nei confronti della corte di Savoia, visitata a più riprese, e la descrizione minuziosissima della villa del conte Francesco Adda, una villa ben conosciuta anche dal Comasco. Borsieri, dal canto suo, aveva già espresso la propria opinione sulle epistole coppiniane in una lettera inviata al «Conte Lodovico d’Agliè», uomo chiave nell’apparato culturale della corte sabauda:
Le gratie di V. S. ill.mo, le conceda a forza di preghi o le dispensi spontaneamente, saranno sempre incomparabili. Ruggiero [Trofeo] doveva forse aver
contrastato con la cartella in quel momento, ma ho conosciuto quanta ventura abbia trovato quel mio parto appresso lei. Voglia Iddio che tanta ancora ne
trovino le belle epistole latine del sig.r Copini, le quali tosto nutrir la speranza
che dar ricapito al timore. Che può avvenir per un libro in luogo di libri? Qui
rimango. Di Casnate.90
Il rapporto fra Borsieri e Coppini si sviluppò dunque nel corso degli anni, apparentemente con reciproca stima. Purtroppo non conosciamo il giudizio di
ridie, ferit ab occasu. Tu vero, mi Borseri,
frueris Larii lacus amoenitate, impendentium nemorum umbris, et lenissimis susurrantis aurae flabellis. Non equidem invideo.
Sed tamen velim esse tecum hoc tempore,
respirare liberius, et sut de rythmis tuis, aut
de historia, quam contexuisti, in isto secessu aliquid per otium lectitare. Hic mihi, si
lego, si scribo, statim in aquas abeundum.
Quamobrem vel anhelo ad ista opaca locorum, vel te Rogeriumque Tropheum cum
aliis musicis in Valentino, aut Margarita
cantitantes cupio audire. Nosti, quam praeclare duo illa Allobrogum ducis suburbana
respiciant defluentem ad radicas suas Padum. Satis sit nunc in his caloribus exposuisse tibi, quid optem. Vale. Mediolani Cal.
Augusti mdcxiii.
da meridione, colpisce da occaso. Senza
dubbio tu, o mio Borsieri, godi dell’amenità del lago di Lario, sovrastato dalle ombre
dei boschi, e dai ventagli sussurranti e delicatissimi dell’aura. Sì certo ti invidio, ed anche vorrei essere con te in questo tempo, respirare più liberamente e in quel luogo solitario leggere con cura qualcosa o delle tue
rime o della storia che intrecciasti semplicemente per ozio. In quanto a me, se leggo,
se scrivo, sono ricoperto d’acqua. Per questo
motivo o anelo a codesti luoghi ombrosi, o
desidero sentire te e Ruggero Trofeo con altri musici al Valentino, o la cantante Margherita. Hai saputo quanto quei famosi due
godono il Po che sgorga dalla fonte nelle
campagne del duca piemontese? In questa
calura, sia sufficiente quanto esposto per valutare. Sta’ bene. Milano, 1 agosto 1613.
90 Ms. Sup. 3.2.43, p. 160. La datazione è ancora una volta incerta, ma dovrebbe essere avvicinata al 1613, data di pubblicazione del volume di Aquilino Coppini. Notevole il riferimento a
Trofeo, mentre va ricordato che d’Agliè ebbe stretti contatti con i musicisti al servizio dei
Savoia, particolarmente con Sigismondo d’India; cfr. Bianconi 1982, p. 268. È possibile che il
«parto» al quale si riferisce Borsieri sia da identificare con gli Scherzi, l’opera poetica pubblicata dal Comasco nel 1612, oppure con L’Amorosa Prudenza, edita nel 1611, di cui ho già detto.
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Borsieri sull’attività musicale di Coppini, un giudizio che potrebbe esserci di
notevole aiuto per la comprensione del pensiero del Comasco relativo alla
prassi del travestimento spirituale.
Francesco Lucino e Filippo Lomazzo vengono infine ricordati nelle pagine
del Supplimento per la loro preziosa attività di raccoglitori di musiche. Il primo, presente come cantore (basso) presso il Duomo di Milano agli ordini fino
al 1611 di Giulio Cesare Gabuzio, si concentrò secondo Borsieri sulla raccolta
di composizioni a una o due voci «nell’organo»; il secondo viene invece presentato da Borsieri come il più importante editore musicale milanese di quegli anni, «a cui concorrono tutti quei compositori di musica che hanno desiderio di publicar’opere in Milano».91
Emerge dalle righe di Borsieri una vivacità musicale del milanese che pare
sviluppatissima in tutti i campi, dalla didattica alla musica ecclesiastica, dalla
canzone strumentale al nuovo madrigale, pur nell’ambito di una dichiarata
intenzione encomiastica d’esse nei confronti della storia milanese.
I «fondamenti sodi»
Dalla raccolta epistolare di Borsieri abbiamo ricavato l’immagine di un uomo
erudito, fortemente permeato di una cultura enciclopedica innestata su una
tradizione di pensiero borromeiana. Un uomo in contatto con poeti e musicisti di chiara fama, attento conoscitore delle opere musicali e artistiche dei
maggiori autori del suo tempo, punto di contatto fra committenti ed artisti,
infine acuto osservatore della società milanese. A queste principali tracce del
pensiero di Borsieri sottende l’attenzione costante che il letterato dedicò nel
corso della sua vita agli interessi agiografici (di cui è testimone quasi testamentario l’opera sulla beata Maddalena Albricia, del 1624), frutto di una frequentazione dei luoghi intellettuali cari a Carlo Borromeo. La necessità della
molteplicità di interessi in Borsieri trova una teorizzazione nell’avvertimento
A’ lettori contenuto nel Supplimento, e di cui abbiamo già fatto menzione. In
esso si ricorda che la musica, la scultura e la pittura sono degne d’essere annoverate fra le compagne delle lettere per due motivi: a causa della fatica che
l’intelletto deve sopportare affrontando queste discipline, esattamente la medesima fatica che richiede l’elaborazione letteraria, e grazie alla possibilità di
«recar gloria principale a chi ne lascia testimoni di meraviglia». Da ciò possiamo dedurre che Borsieri nutrisse un grande interesse per il fare artistico, un
fare artistico imprescindibilmente legato ad un lucido disegno intellettuale
91 Sulla raccolta di musiche organizzata da Lucino si può leggere Gibelli 1988; sull’attività
di Lomazzo v. Donà 1961, ad vocem.
un curioso rivolgimento
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basato su «fondamenti sodi». Non è un caso che si pensi a Girolamo Borsieri
come ideatore del quadro Il martirio delle Sante Giustina e Seconda, più conosciuto come il «quadro delle tre mani», realizzato da Giovan Battista Crespi
(detto il Cerano), Pier Francesco Mazzucchelli (detto il Morazzone) e Giulio
Cesare Procaccini. Quest’opera sintetizza assai bene l’ideale borsieriano; la
devozione è qui soggetto di una lettura ardita tendente ad esprimere al meglio
le capacità di rappresentazione dell’arte non tramite il «capriccio», lo stupore
subitaneo dell’imitazione fantastica, ma la costruzione difficile, complessiva,
totalizzante.92 Se ne ricava un rifiuto per la descrizione dell’effetto non contestuale: e a questo proposito tornano alla mente le censure effettuate dal cardinale Paleotti nei confronti delle grottesche:
… né si trova alcuno così sciocco che non conosca chiaramente che tutte sono
girandole, figurate così per ricreazione della mente d’alcuno … anzi, di più dicono che il pittore merita maggiore commendazione, poi che col fare simili figure quasi nel frontespicio si dichiara che non vuole figurare cosa vera, né
vuole ingannare alcuno, ma solo per passatempo rappresentare cose capricciose, al contrario di molti che, promettendo di narrare o di pingere la verità, accumulano gran bugie et ingannano le persone.93
L’opera di Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, aveva visto
la luce a Bologna nel 1582 (i primi due volumi, gli unici pubblicati), e si ispirava direttamente all’opera di Carlo Borromeo, la famosa Instructionum fabricae et supellectilis ecclesiasticae libri ii, pubblicata a Milano nel 1577. Queste
opere contenevano la vera maniera da seguire per rappresentare le immagini
sacre secondo l’ispirazione post-conciliare. Paleotti inviò una copia del suo lavoro a Carlo Borromeo in segno di stima. Borsieri era cresciuto anche in questo clima culturale, ne aveva seguito le direttive principali. A Milano, nei primi mesi del 1611, il giovane letterato comasco così si esprimeva: «ho preso per
proprio tratenimento lo attender alquanto a quella sorte di studii i quali pascono l’intelletto e mostrano la via del cielo».94
Rimase dunque nel Comasco la convinzione di evitare una produzione artistica che non «affaticasse l’intelletto», in una concezione devota, permeata
ancora dalla formazione gesuitica, lontana dall’imitazione fantastica, più incline a quella icastica.95 Ricordo a questo proposito le parole di Artusi:
92 Il quadro è pubblicato nel catalogo Brera 1991, pp. 99-101, scheda di
93 Il passo è tratto da Paleotti 1582 (ed. in Barocchi, 1962, ii, p. 449).
Simonetta Coppa.
94 Caramel 1966, p. 121.
95 È certamente azzardata in questa sede una discussione sull’imitazione, questione centra-
le per le arti del ’500 anche come valore sociale, religioso, extra-artistico, ma mi permetto di se-
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Cercano tutti gl’artefici di imitare la natura, e quanti filosofi sono et sono stati, in altro non pensano né filosofano se non intorno alle operationi da lei fatte; e voi, quelli che contra la natura operano, maggiormente lodate et osservate? Et le cose da loro fatte chiamate artificii, fiori, fioretti, suppositi, inganni et
accenti? 96
Si può forse ora meglio comprendere perché Borsieri, almeno da quanto risulta dalle parole espresse nelle sue lettere, preferisse Palestrina e Gesualdo a
Monteverdi. Secondo Borsieri non mancava sicuramente ai primi due un interesse puramente intellettuale nella realizzazione dell’opera d’arte, un interesse inteso come capacità di padroneggiare gli strumenti della creazione artistica (i «fondamenti sodi») e tramite essi appagare «lo intelletto», imitando
la Natura. Monteverdi rappresentava al contrario colui che, rifiutando le regole relative ad una rappresentazione ‘armonica’ della Natura, intendeva operare contro essa. La discussione si sviluppa dunque non solo su una concezione della musica, o delle arti in generale, ma della disposizione dell’uomo nei
confronti della Natura. Osservazioni da approfondire e leggere con maggiore
chiarezza: lontani comunque da un mondo definito «barocco moderato».
gnalare la necessità di un’indagine sul pensiero di Borsieri anche in questa direzione. Sull’imitazione icastica e fantastica si veda l’interpretazione data da Comanini 1591, leggibile in Barocchi 1973, ii, pp. 388-390 della ii ed. Paleotti utilizzò parole assai dure contro la concettosità delle immagini, andando dunque a colpire particolarmente il culto degli emblemi. Ci si potrebbe
aspettare un filone gesuitico controriformistico concorde all’opinione espressa dal vescovo di
Bologna. Ma seguendo questa traccia otterremo notevoli sorprese. Leggendo il primo catechismo pubblicato in lingua italiana (Eliano 1586) possiamo individuare rappresentazioni figurative assai semplici che accompagnano il testo scritto, e che quindi si attengono al medesimo
spirito che aveva ispirato Paleotti. Spostandoci pochi anni più avanti nella Dottrina christiana
figurata d’immagini (Bellarmino 1614) la rappresentazione figurativa presenta immagini ricche di simbolismo, un simbolismo che per essere decifrato richiede profonda cultura e una notevole acutezza di pensiero. Non è improbabile che Borsieri presso il collegio gesuitico di Brera abbia avuto insegnanti più attenti alla dottrina di Bellarmino che a quella di Eliano. L’opera
Gli aforismi delle imprese (v. qui nota 13) parrebbe dimostrarlo, ricordandoci ancora una volta
che la cultura di Borsieri ricevette stimoli ed influssi eterogenei. Si vedano anche le lettere inviate ad Orazio Serono pubblicate in Caramel 1966, p. 111 e pp. 112-113. Sugli emblemi v. l’importante articolo di Klein 1970.
96 Fabbri 1985, pp. 57-58.
appendice
da Il supplemento della Nobiltà di Milano raccolto da Girolamo Borsieri
Milano: Giovanni Battista Bidelli, 1619, pp. 54-57.
Cap. xv. Degli altri musici di Milano più famosi
Orfeo Vecchi, già maestro di capella nella Scala, fu musico compositore di tanta pratica che, con la cartella sotto gli occhi, nel medesimo tempo ch’uno scrittore praticissimo haverebbe fatta una lettera, formava un mottetto anco a molti chori. Ha stampati molti mottetti, salmi, messe ed altre opere musicali in copia sì grande che non ha
avuto chi lo abbia superato, avendo anzi egli stesso superato ciascun di coloro, che
hanno pubblicato parti di questa professione. Gio. Paolo Cima, organista nella Madonna di S. Celso, è ottimo nella leggiadria e nella nettezza della mano, di sommo spirito nella inventione di ciò che fa udire, tanto sopra l’organo, quanto sopra il clavicembalo, e non inferiore nell’accuratezza de’componimenti che pone in cartella e publica talora. Ha egli ancora stampate alcune canzoni di suonare con altre opere, di
quelle che paiono solamente proprie de’ maestri di capella più studiosi. Per la medesima via si va parimente acquistando grido singolare Giulio Cesare Ardemanio, organista della Scala, di mano svegghiatissima e d’inventioni tutto conforme al gusto de’
moderni, i quali non si compiacciono più della maniera di suonare trovate pur ed
esercitate tra loro da’ Barioli, ma anzi di quelle altre che hanno già cominciato udire
da’ Trofei. Giacomo Filippo Biumo, organista di Sant’Ambrogio, si rende famoso e
col suonare e col comporre, seguendo nell’una e || nell’altra professione quel modo
che communemente suol dirsi nel mezzo, perché, non parendogli pur conforme alla
gravità della musica che ciascuno debba del tutto seguire la sola leggiadria e lasciar la
sodezza, in un tempo fa che si gusti e ’l Palestina e ’l Rovigo. Gio. Dominico e Francesco, figliuoli di Ricardo Rognoni, sono di valore e di nome grande in questa città,
l’uno nel suonar di flauto, di violino, di altri strumenti, ed ammendue nel comporre.
Gran suonatore di leuto viene stimato Luigi Diano, detto communemente Luigino,
particolarmente hor che ne’ concerti delle chiese si sono introdotti diversi strumenti,
che anco sogliono accompagnarci con l’organo solo, facendo che gli auditori restino
talvolta sospesi per buona pezza alle concorrenze delle diminuzioni. Francesco Rognoni fra le altre opere n’ha stampata una sotto il nome dello Scolaro, dove possono
impararsi per lo violino e per altri strumenti i principii veri di tutte quelle arie che
fanno di mestieri a chi brama di essercitar la mano sopra strumenti che servono fuor
de’ concerti. Gio. Ambrosio Colonna, detto lo Stampadorino di nome, e di valor
grande oggi è hoggi qui nel leuto. Ha questi ancora raccolte e stampate diverse opere
conformi alla sua professione. Gioseffo Biffi ha composto un libro di madrigali a
cinque voci, cioché ha fatto ancora Gioseffo Caimo e Girolamo Casati, ammendue
musici di molta pratica sopra la cartella. Fiorisce parimenti Francesco Casati, orga-
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nista di S. Marco, che pur ha stampate alcune operette musicali in una raccolta di diversi, ma questi attende più tosto al suonare, riuscendo vivace e spiritoso secondo il
gusto de’ moderni amatori della musica. Michel Angelo Nantermi, così nel comporre come nel suonare di chitarrone, mostra di non tralignar dal genio di Horatio suo
padre che fu già maestro di || capella nella Madonna di S. Celso, nel passato secolo di
gran nome. Ha stampati madrigali e arie per chi canta solo col chitarrone, curioso di
seguir la via trovata nell’accademia del Monteverde. Varie opere nella musica ha
stampate Ottavio Bariola, particolarmente per concerti di casa, havendo stampate
canzoni di suonare; cioché hanno fatto ancora quasi per emulatione Agostin Sodarino e Lodovico Baretta, tutti musici di nome grande. Flaminio Comando ha stampato due libri di canzonette a tre voci, avendo in esse mostro quanto agevole gli sia il
seguir la maniera trovata da’ più moderni compositori. Un altro libro ad altretante
voci n’ha pubblicato Fabio Varese già diligente frequentatore di quella accademia che
per la musica solevano farsi qui, massimamente appresso ai Lombardi. Moltissime
opere nella musica, particolarmente per la chiesa, vanno attorno di don Serafin Cantoni, monaco casinense, il quale, per dimostrarsi legittimo successore del nome d’un
altro monaco che fiorì alcuni anni sono nel monastero di Santo Sempliciano, s’è dato
allo studio di quella medesima professione in cui era già stimato anco lo antecessore,
accompagnandola tutta volta con una schiettezza e semplicità di costumi che può appunto stimarsi monastica. Moltissime altre ne ha lasciate Benedetto Binago, già
maestro di capella nella Scala, massimamente di quelle che i musici chiamano mottetti, havendone esso stampati diversi libri. Francesco Pappo ha stampati alcuni
concerti a due ed altri a quattro voci; prattico assai in quella sorte di comporre che i
romani sogliono attribuire alla loro accademia; il che ha fatto ancora Catherina Assandra, la quale di più v’ha aggiunte alcune canzoni di quelle che i suonatori chiamano francesi. Attende hora a stampare Gio. Andrea Cima, fratello di Gio. Paolo, che
ha composti varii concerti per || chiesa e per camera, molto conformi al gusto del
tempo. Questi sono i musici che in Milano sogliono maggiormente apprezzarsi
come professori proprii di tal’arte. Havene poi alcuni altri che pur sono stati e sono
musici, ma nemici dello spacciarsi tali per le altre professioni ch’essi hanno aggiunte
a questa. Fra questi può degnamente annoverarsi Aquilino Coppini, che si è dilettato
di ridurre i concerti profani ad altri spirituali. Ma egli attende anzi alle lettere humane con molta sua gloria, havendo impetrata quella lettura publica di rethorica, la quale è in Pavia, e prima quell’altra che già soleva esser in Milano. Francesco Lucino,
già frate degli Humigliati e finalmente basso nel Duomo di questa città, di voce profonda ed equale, ha parimente atteso a raccogliere alcuni concerti di quei particolarmente ch’egli stesso, accompagnato con una altra voce o solo nell’organo, soleva cantare con gusto grande di chi l’udiva. A ciò ha atteso ancora Filippo Lomazzo, e vi attende tuttavia come quegli a cui concorrono tutti quei compositori di musica che
hanno desiderio di publicar’opere in Milano.