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altrelettere Andrea Sartori Sguardo di madre Ordine simbolico, colpa e liberazione in Una bambina e basta di Lia Levi Abstract Il libro di Lia Levi preso in esame si presta a essere letto sia come un documento riguardante la persecuzione degli ebrei in Italia, sia come la testimonianza d’una infanzia negata, in cui la giovanissima protagonista è alla ricerca di sé, in un mondo intriso di retorica maschilista. Il contributo analizza innanzitutto il dispositivo colpevolizzante approntato dall’ordine simbolico dell’antisemitismo, e pone in evidenza come il suo meccanismo sia analogo a quello all’opera nell’ideologia del dominio di genere. Desumendo dalla riflessione di Adriano Cavarero la categoria dello sguardo, il saggio ne segue lo sviluppo nella storia di Lia Levi, dapprima soffermandosi sul rapporto della bambina con il mondo adulto, quindi sul rapporto senza infingimenti – ma sempre teso tra percezione della colpa e liberazione – con la madre. Si delineano così alcuni luoghi simbolici in cui la bambina ritaglia uno spazio di appartenenza a sé sottratto alla storia, alla violenza voluta dall’uomo. Quel che riesce a far fronte a un mondo orribile, d’altra parte, non è il diritto escogitato dall’ordine simbolico maschile, del padre, ma l’ostinazione dello sguardo materno a cui la bambina è esposta sin dalla nascita, nella sua fragile creaturalità e carnalità. Sono centrali, a questo punto dell’esame del testo di Levi, non solo le riflessioni di Cavarero ispirate da Hannah Arendt, ma anche quelle di Theodor. W. Adorno e Jacques Derrida. Proprio il riconoscimento conferito da uno sguardo femminile che salva dal dominio e dalla violenza è ciò che in conclusione restituisce alla bambina di Lia Levi una vita senza attributi, degna d’essere vissuta per il semplice fatto d’essere stata generata da una madre. Una bambina e basta di Lia Levi (LEVI 2003), pubblicato per la prima volta nel 1994, è il volume d’esordio – in parte autobiografico – d’una trilogia di romanzi che l’autrice (per anni direttrice del mensile di cultura ebraica «Shalom») ha dedicato alla tragica esperienza degli ebrei italiani sotto le leggi razziali del 1938. Gli altri due scritti sono L’albergo della magnolia (2001) e L’amore mio non può (2006), ora raccolti assieme al primo nell’unico volume Trilogia della memoria – Tre romanzi all’ombra delle leggi razziali, pubblicato nel 2008 dalle Edizioni e/o, la medesima sigla editoriale presso la quale sono uscite le singole opere. Come è accaduto anche a un’altra testimone di quegli anni, Donatella Levi (LEVI 2011), è solo in tempi recenti che Lia Levi «si è sentita “autorizzata” a The e-journal «altrelettere» is hosted at the URL: http://www.altrelettere.uzh.ch , in accordance with the Open Access Policy of the University of Zurich. Please cite this article as follows: Andrea SARTORI, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, in «altrelettere», 19.11.2014, DOI: 10.5903/al_uzh24. © This article is licensed under a Creative Commons Attribution 2.5. Switzerland (CC BY-NC-ND 2.5). Please read the license terms on the website: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/ch/deed.en A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 2 scrivere, a dire “Io”, dopo che l’universo concentrazionario, con i suoi orrori, è stato palesato al mondo, dopo che il dolore di quanti erano rimasti vittime della Shoah si è fatto sentire» (GARDENAL 1998, 121). Proprio questo «lungo lavoro di decantazione» fa in modo che nel libro la memoria sia resa tramite un linguaggio «essenziale», «apparentemente semplice e realmente sereno» (ibidem, 122). La distanza storica dagli eventi non implica tuttavia che il romanzo sia il racconto distaccato d’una vicenda sepolta nel remoto passato. L’età matura di chi scrive è anzi calata nella prospettiva infantile di chi l’autrice incarica della narrazione, ovvero nella tonalità affettiva di chi – per ragioni anagrafiche, d’età – non può elaborare il trauma della persecuzione alla stessa maniera degli adulti. Una bambina e basta, infatti, adotta sistematicamente il punto di vista della piccola protagonista e questo fa sì che il libro innanzitutto sia, in maniera anche più marcata degli altri due racconti della trilogia di Lia Levi, la partecipata narrazione d’una infanzia negata. Come ha messo in evidenza Monica Farnetti a proposito di altre scritture femminili afferenti al genere dei ricordi d’infanzia e mosse da un intento almeno in parte autobiografico, di tali ricordi «ha senso parlare in un periodo per definizione a essi successivo, quando l’infanzia è già trascorsa», e quando l’età adulta è intervenuta con i suoi apporti e le sue inevitabili distorsioni – Sigmund Freud docet (FARNETTI 2002, 12-13). Non deve sorprendere, allora, che nel caso di Lia Levi la scrittura di finzione concorra al recupero e alla costruzione della memoria. In un’occasione pubblica, ricordata da Stefania Lucamante, la stessa Lia Levi s’è soffermata su una dichiarazione al confine tra poetica e storiografia, che bene illustra la doppia necessità sia di ricordare i fatti, sia di restituirne la tessitura emotiva, per lo più sfuggente, ma attingibile almeno in parte dalle ragioni autonome della scrittura: Io credo fermamente alla validità di questo modo di trasmettere la Storia attraverso il “racconto” delle storie […]. Qui […] si tratta […] di far fluire quello che c’è dietro ai fatti, fare emergere il fiume sotterraneo di una emozione profonda e impervia. (LUCAMANTE 2012, 23) altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 3 Nel presente contributo, Una bambina e basta si presta a un doppio registro di lettura: non solo un documento relativo alla persecuzione degli ebrei, ma la narrazione – in soggettiva, per utilizzare un termine tecnico della cinematografia – di una giovanissima identità femminile in cerca di sé, in un contesto storico intriso di valori patriarcali e di retorica maschilista. Una diffusa e irriflessa ideologia del dominio di genere, nella ricostruzione offerta da Lia Levi, si salda infatti alla discriminazione della razza, moltiplicando così le strategie di negazione dell’infanzia. La scelta dell’autrice di non assegnare un nome alla protagonista – la quale tuttavia narra in prima persona – è d’altra parte indicativa di come qui la scrittura intenda dare voce a una singolarità concreta, a un giovane io femminile, che rivendica un’appartenenza a sé senza sovrastrutture a certificarne lo stare al mondo e a garantirne l’individualità. Una bambina e basta, appunto, indipendentemente dal ruolo attribuitole da una società via via sempre più imbrigliata nelle prescrizioni, nei divieti, nelle stereotipie dello sguardo fascista sul mondo. 1. Colpevole d’essere vittima In linea generale, il meccanismo che porta la donna a introiettare un modello identitario che non le è proprio, ma le è imposto e la conduce così a non appartenersi, è replicato nel dispositivo discriminatorio fascista. Esso fa sì che alla vittima – al perseguitato, alla donna, alla bambina, nel caso di Lia Levi – sia imputata la propria marginalizzazione, come se questa fosse la conseguenza d’un comportamento riprovevole, d’una colpa attribuibile a chi patisce quella marginalizzazione, e non a chi la infligge. Michele Sarfatti nel suo La Shoah in Italia (SARFATTI 2005) ha ricostruito, sotto il profilo storico, la dinamica perversa di questo slittamento del piano della realtà verso un ambito fantasmatico, sostanzialmente allucinatorio (proprio della follia nazi-fascista), in cui le relazioni sociali vengono distorte e risultano talmente vulnerabili alla manipolazione da estorcere il consenso del manipolato – della vittima – alla manipolazione stessa. Già nell’ottobre del 1920 Benito Mussolini esplicitava quel cortocircuito tra la persecuzione e l’essere vittima della persecuzione, in cui l’atto discriminatorio altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 4 veniva deresponsabilizzato e la colpa del gesto ricadeva sulla vittima, facendo così saltare la logica consecutiva della causa e dell’effetto: «Speriamo che gli ebrei italiani», scriveva Mussolini, «continueranno a essere abbastanza intelligenti, per non suscitare l’antisemitismo nell’unico paese dove non c’è mai stato» (MUSSOLINI 1954, 269-271). Con ciò, chiosa Sarfatti, gli ebrei «venivano messi in guardia e responsabilizzati dell’eventuale loro persecuzione» (SARFATTI 2005, 74). Quando Mussolini si esprimeva in quei termini, la presa del potere da parte del PNF non era ancora avvenuta, né le leggi che avrebbero concretamente e tragicamente inciso sulla vita degli ebrei italiani erano state ancora promulgate, ma era già chiaro che cosa fosse l’antisemitismo culturale, per utilizzare un’espressione di Giorgio Fabre (FABRE 2005, 55-70). Il dispositivo colpevolizzante era approntato: la violenza simbolica, così la definirebbe il filosofo e sociologo francese Pierre Bourdieu (BOURDIEU 1998), con il suo ordine d’idee immesso nel campo delle relazioni umane, già prevedeva l’assegnazione dall’alto d’un ruolo che doveva essere introiettato, ben prima che tutto ciò si traducesse in leggi e quindi in deportazioni di massa. Questo ordine simbolico e il suo portato di violenza culturale, pertanto, essendo databili anche a prima della cosiddetta marcia su Roma, precedevano di gran lunga i due tempi in cui Sarfatti scandisce la persecuzione degli ebrei sotto il fascismo: la persecuzione dei diritti (1938-1943) e la persecuzione delle vite (1943-1945). Come scriveva Leo Löwenthal nel 1946 all’indomani dell’apertura dei Konzentrations- e Vernichtungslager, in un breve saggio dal titolo Individuo e terrore (LÖWENTHAL 2005, 234-247), il sistema di dominio fascista e il suo regime terrorizzante raggiungono il loro scopo non solo quando una legge a danno del perseguitato è emanata ed egli è fisicamente deportato e annientato. Il terrore ha infatti la meglio quando la vittima fa proprio l’ordine simbolico del terrore, e ai suoi stessi occhi sbiadisce la distinzione tra chi porta la responsabilità della persecuzione e colui a cui quest’ultima viene inflitta.1 2. Sguardo di madre altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 5 La relazione tra l’adulto e il bambino, di per sé, si presta facilmente a una distorsione dello scambio simbolico. La qualità dello sguardo che il primo volge al secondo – prima ancora della parola, d’un gesto, d’un comportamento – non è mai neutrale, come non lo è il tono del loro rapporto. D’altronde, l’esposizione allo sguardo – in quanto tale – è associata a un senso, a una misura, a un giudizio proveniente dall’altro, che è dato rettificare, contrastare in vario grado, oppure accogliere dentro di sé in maniera anche rovinosa, come nell’universo concentrazionario descritto da Löwenthal. «Loro credono che sia arrivata una brava e così divento brava», riferirà la piccola narratrice della memoria d’infanzia di Lia Levi, quando giungerà nella nuova scuola ebraica di Milano (LEVI 2003, 23). La protagonista del libro avverte fin da subito che lo sguardo dei suoi insegnanti – in quanto adulti – non è neutrale, cogliendo istintivamente la distanza che separa l’autenticità dello stare al mondo dal ruolo assegnato da altri, ovvero la frattura tra la verità da un lato, e la menzogna, la recita stereotipata dall’altro. «Non mi piacciono i grandi quando decidono di farti un discorso», dice la giovane narratrice di Levi, «si sentono evoluti e magnifici, ti guardano negli occhi, cercano il tono a mezza altezza… ora saprai tutto anche tu, ci penseranno loro a impacchettarti la notizia come una merendina […]. Mi annoia tutto il teatrino»2 (ibidem, 5). Quando il padre fa un ritratto della bambina, anche la qualità dello sguardo che egli rivolge alla figlia ha un tono negativo che nessuno in famiglia esplicita a parole – anzi, «non vedi come è bravo a dipingere il tuo papà?», dice la mamma – poiché questo significherebbe affrontare apertis verbis il non-detto della persecuzione in tutte le sue implicazioni. La protagonista, tuttavia, percepisce su di sé quella negatività senza possibilità di smentita: «lui mi disegna più brutta di come mi sento» (ibidem, 11). Sarà la madre, molto tempo dopo, a raccontare che il papà allora pensava al suicidio, chiarendo in tal modo il perché di uno sguardo in cui la bambina non si riconosceva, la ragione d’una distorsione nello scambio simbolico tra padre e figlia. A dare costantemente la misura del vero, fino alla conclusione del racconto, è proprio lo sguardo della madre, come se esso – nel rapporto con la figlia – non altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 6 potesse essere contraffatto come lo sguardo degli altri adulti.3 È «con la faccia dei momenti importanti» (ibidem, 6) che la mamma – l’anno delle leggi razziali – dice alla figlia che non potrà più tornare nella sua scuola, perché Mussolini ha deciso così, per lei e per gli altri bambini ebrei. A questo punto, la violenza simbolica, che alberga innanzitutto negli occhi di chi non appartiene alla cerchia delle relazioni familiari più ristrette, è innescata. Quando il padre cerca di convincere il bidello e l’insegnante a fare entrare la bambina a scuola, il disagio ha il peso dello sguardo dei compagni di classe: «e così per una bambina timida che non vorrebbe neanche esistere per gli altri, ci sono gli occhi di tutta la classe, canzonatori e speranzosi di qualche scena movimentata» (ibidem, 7). Il racconto di una delle attività scolastiche dettate dalla maestra è accompagnato dall’acuto avvertimento di una diversità, la propria – come se questa fosse incorporata nella percezione di sé, al punto da rendere l’identità estranea a se stessa, non più in possesso di colei a cui pertiene. Alla domanda «cosa mangi a colazione», i bambini danno per lo più la risposta «corretta»: «caffelatte con pane» (ivi). La bambina di Lia Levi, tuttavia, è allergica al latte e per lei, che non vuole mentire, dire la verità è una prova da affrontare, un motivo in più di disagio nei confronti degli altri. La risposta predeterminata, “normale”, è propria dei bambini «privilegiati» che la ripetono uno dopo l’altro, ma «appena un bambino dice qualcosa di diverso, la scena si arresta» (ivi). Lo stigma della diversità, già interiorizzato sul piano simbolico-culturale, viene allora allontanato dalla bambina con lo sforzo per lei innaturale di una bugia, tramite la quale ella si assimila almeno esteriormente al gruppo, al teatrino della sua falsità: «sono dei loro» (ibidem, 8). 3. Luoghi della sovversione di genere Il racconto di Levi mostra anche, però, come questo identico meccanismo di esclusione e di problematica inclusione, di frustrante adeguamento a una norma imposta dall’alto, sia all’opera nella stereotipia delle relazioni di genere. I «lavori donneschi» a cui la propaganda mussoliniana comanda le giovani fasciste, vengono eseguiti con apprensione e difficoltà dalla bambina, che a scuola rimedia altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 7 a malapena «un sospiroso “sufficiente”» (ibidem, 9). A ben vedere, l’incapacità della protagonista ha qui un carattere involontariamente sovversivo, nella misura in cui essa – assieme alla sua timidezza – è ciò che le consente di resistere allo sguardo reificante della Gorgone che vuole tutte le donne omologate in un’unica immagine. L’invisibilità della bambina allo sguardo indifferente delle giovani fasciste è sottrazione a un ruolo avvertito come non proprio, a un ordine simbolico che nulla deve avere a che fare con la sua vita. «Una volta arrivano le giovani fasciste», scrive Levi, «tutte belle come le attrici del cinema. Mussolini vuole che anche in prima elementare ci sia una esercitazione di “lavori donneschi” e così a ogni bambina viene dato un pezzo di tela grezza, un ago e tanti fili colorati […]. Le ragazze bianche e nere passano tutte allegre da un banco all’altro […], passano ridendo e al mio banco non si fermano mai, mi ammanta la mia stessa timidezza: sono invisibile» (ibidem, 8). Quando più tardi la protagonista deve cambiare istituto scolastico, e per qualche ragione che non le è ancora chiara si profila la possibilità di trasferirsi addirittura in Francia, da una zia, ella avverte, prima d’ogni altra cosa, la colpa di non essere come gli altri. La semantica della colpa ritorta sulla vittima – l’introiezione d’un sistema di senso che non appartiene – sono più forti del luogo4 della timidezza e dell’invisibilità che la bambina ritaglia per sé, per appartenersi. Nella sua vita – non in quella di chi le sta intorno e si piega all’editto mussoliniano – c’è allora «qualcosa di riprovevole e segreto, colpevole, vergognoso, disonorevole, insensato e pauroso… Qualcosa che si chiama andare a lezione di francese» (ibidem, 15). Un oscuro senso di colpa, latente negli anni della persecuzione dei diritti, è tenuto a bada tutt’al più dal gioco, dall’impressione che ciò che sfugge alla comprensione non sia null’altro che una finta. Trasferirsi di città in città dà l’idea che «ormai vivere è come giocare», e d’altra parte nel rifugio antiaereo, mentre le bombe cadono su Torino esplodendo come fuochi d’artificio, c’è chi dice, in una rassicurante cantilena, «Fanno finta… fanno finta» (ibidem, 18, 20). A Villa Sciarra, a Roma, la bambina e le sue amiche organizzano un loro mondo separato, un altro luogo a cui appartenere e in cui sentirsi libere, lontane altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 8 dagli occhi degli adulti, un luogo tanto fragile da essere anch’esso pressoché fittizio: «Ci hanno dimenticate. Siamo libere. Lo sguardo dei grandi scavalca le nostre teste e noi siamo le formichine che si organizzano frenetiche la loro microscopica città» (ibidem, 43). Qui le bambine provenienti da diversi quartieri della capitale, ma unite in un vincolo di sorellanza, s’inventano ogni mese «una cerimonia con fiori e genuflessioni al mese che comincia»: «recitiamo noi stesse», dice la narratrice, «mimiamo una fanciullezza che non c’è più, fingiamo occhi luminosi e scoppi di entusiasmo, ma stiamo solo costruendo un film per la nostra memoria di un tremulo domani» – «non siamo noi, siamo la materia gloriosa della nostra futura autobiografia» (ibidem, 46-47). Una di loro, Jolanda, che ancora conserva i tratti d’animo della prima infanzia, difetta della consapevolezza del carattere fittizio di questo quieto luogo di gioco: «lei è fra quelle che ci credono di più a questo finto gioco» (ibidem, 47). Il luogo della finzione, come quello della timidezza che rende invisibili, tuttavia, non può da sé sconfiggere la semantica della colpa, che sempre condiziona il modo in cui la bambina percepisce lo sguardo degli adulti. L’espressione del viso, di per sé inoffensiva, del padre d’un’amica, ad esempio, finisce anch’essa per assumere un significato inquisitorio, per rientrare nella variegata fenomenologia della distorsione dello scambio simbolico, di cui è preda la relazione tra il mondo adulto e la bambina: «quel signore così sorridente ha il ghigno del mostro, è il mio giustiziere, quello che mi sta additando al mondo» (ibidem, 16). Con l’incalzare degli eventi e l’incrudelirsi della persecuzione – da quella dei diritti a quella delle vite – anche la più elementare distinzione tra il familiare e l’estraneo, il rassicurante e il perturbante, finisce per sfumare, ed essere incerta. Lo sguardo della madre si carica di significati che lo distorcono e fanno largo all’irrompere, senza argini, d’un mondo non solo falso ma anche tragico. L’evento spartiacque coinvolge un’altra donna della famiglia: la polizia fascista arresta la zia la cui casa è tagliata in due dal nuovo confine tra l’Italia e la Francia. L’arresto è l’evento indicibile, la cui ragione sfugge alla bambina, che fa precipitare tutto, alterando fisionomie e sguardi. I lineamenti della madre – quei lineamenti che altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 9 forniscono un senso elementare al mondo della protagonista, e che ne restituiscono l’identità prima e al di là della considerazione di chiunque altro – «non sono più i suoi, si muovono e si deformano, compongono un nuovo volto […] che poi torna a torcersi e a stravolgersi» (ibidem, 41). Con l’alterazione del volto della madre, con la modificazione dello sguardo che la donna solitamente posa sulla figlia, ne va d’una forma di vita, del senso che in quello sguardo è incorporato: «non è giusto, non puoi cambiarmi così in un’ora il profilo del mondo» (ivi). Dopo l’8 settembre 1943, quando la giovane è costretta a rifugiarsi dalle suore, è ancora il volto della madre a restituire alla figlia una qualche misura, benché spaventosa, di ciò che accade. Anzi, in questo caso è uno sguardo sottratto, che quasi si nega, a scandire l’aggravarsi della persecuzione: «Mamma è grigia e quasi non mi guarda. Oggi nessuno ti guarda, ma cosa è successo oggi?» (ibidem, 60). 4. Madre che toglie, madre che dà: oltre il diritto All’indomani dell’occupazione tedesca di Roma, «mamma torna a casa con il viso di quando ha la febbre», e urlando «“Vogliono l’oro!”, grida come se stesse accusando tutti noi» (ibidem, 50). Tuttavia, se la madre con una mimica del volto può fare svanire il profilo del mondo, è sempre la madre – non il suo arcigno surrogato nelle suore, né il padre che «la guarda con viso aperto e perduto» – a poter restituire quel mondo nella sua interezza: «le madri ebree […] sono tigri, leonesse, contendono alla vita ogni boccone, rubano ogni centimetro. Loro devono difendere i figli: per questo non hanno spazio per libri e sinagoghe» – a differenza dei padri, uomini osservanti la Legge, la dottrina e il diritto che non contendono nulla alla vita, non rubano alcun centimetro (ibidem, 50-51). A questo proposito, il pensiero femminista – vivendo sulla propria pelle la contraddittorietà dei tentativi di inclusione sociale che immancabilmente si rivelano escludenti – fornisce sia una spiegazione del perché il diritto, di per sé, sia inefficace a determinare l’inclusione dell’altro, del differente, sia una prospettiva, una strada alternativa da seguire, a dire il vero ben delineata nella altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 10 memoria d’una infanzia femminile scritta da Lia Levi. La riflessione sulla condizione della donna è infatti paradigmatica: ragionare sul condizionamento patriarcale (fallologocentrico) del preteso universalismo del diritto, significa portare alla luce l’intima stortura del diritto stesso, vale a dire la sua défaillence strutturale, ben più grave di un mero difetto di applicazione del diritto alle contingenze storiche. «A due secoli dalla spinta egualitaria della Rivoluzione Francese», scrive Adriana Cavarero, «l’uguaglianza formale fra uomini e donne, pur sancita dal diritto, non corrisponde a un’uguaglianza sostanziale nei fatti» (CAVARERO 1999, 122). Una volta stabilita questa liminare opposizione tra la forma dell’uguaglianza e la sostanza dei fatti, è inaugurata una logica oppositiva che si ripercuote su tutte le immagini della donna sottese all’ideale egalitario della modernità. Da qui s’origina un’«economia binaria», una «logica bipolare» che «a partire dalla positività del polo maschile, decide la negatività di quello femminile» (ibidem, 119), riscattandolo solo nelle figure complementari – e quindi già da sempre secondarie, subordinate, dominate – della cura, dell’intuizione, dell’attesa, dell’affettività… (sono questi i nomi della sostanzialità fattuale, preliminarmente contrapposta al dominio della forma, del diritto, e quindi depotenziata). Il diritto, in altri termini, pone l’uomo – non la donna – come il soggetto che si tratta di garantire e liberare: «posto il primo come il sé, la seconda risulta l’altro», e anzi questa «non è veramente l’altra, bensì appunto l’altra a partire da lui e per lui» (ibidem, 119-120). Non è un caso che l’espressione suffragio universale sia stata utilizzata, fin dentro il ‘900, escludendo programmaticamente dal suo campo semantico la donna. Il pensiero femminista, decostruendo i presupposti irriflessi – dati per ovvii e mai messi in questione – della struttura del diritto, è quindi a tutti gli effetti un pensiero critico. Sviluppando una critica del patriarcato e del suo ordine simbolico, la riflessione femminista intacca non una particolare configurazione storica del diritto, ma il modo stesso di pensarlo – per lo meno da Platone in poi. Si è soliti definire platonica, infatti, quella separazione tra la forma (in questo caso la forma dell’essere uguali) e l’esperienza, che porta la filosofia a definire che cos’è altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 11 l’uguaglianza, e non a interrogarsi su chi è uguale a chi. Come se la scissione tra il “che cosa” (anche: l’essere ebrei o di una qualunque altra religione) e il “chi” echeggiasse appunto la più classica e inaugurale delle lacerazioni, quella tra l’essenza e la sensibilità, teorizzata da Platone nella Repubblica. Nel compiere questa torsione intorno al modo consueto d’intendere il diritto – un diritto sempre più inefficace, predicatore d’una uguaglianza astratta, se non di parte – la riflessione femminista non è però completamente sola. Tra i pensatori del secolo passato maggiormente critici nei confronti di quello Hegel su cui Carla Lonzi (non del tutto a torto) voleva sputare, va senz’altro annoverato Theodor W. Adorno. Questi scriveva nel 1966: «il diritto è l’originaria manifestazione di una razionalità irrazionale. In esso il principio formale di equivalenza diventa norma, rende ogni cosa conforme» e «favorisce nascostamente la disuguaglianza» (ADORNO 2004, 277). Lo ius, nell’analisi di Adorno poi ripresa anche da Jacques Derrida, opera tramite stereotipi, avvalendosi di una funzione identificante – in questo senso violenta (DERRIDA 2003, 49-85), già cripto-fascista – che si realizza nel modo con cui il diritto positivo astrae le proprie categorie dalle concrete relazioni tra gli individui, svuotando di significato questi ultimi e restituendo loro un’immagine di sé esangue e formalizzata. Il diritto, direbbe Adorno, non allarga la sfera dell’intersoggettività, in quanto esso è, da ultimo, un dispositivo omologante ed etichettante, il cui essere vincolante poggia sulla forza irrazionale dello stereotipo, non su una responsabilità e un’obbligazione verso l’altro vissute nella pratica di una relazione. In una relazione come quella di affidamento, studiata dal collettivo milanese della Libreria delle Donne (LIBRERIA DELLA DONNE DI MILANO 1987), tra una donna adulta e una donna giovane, tra una madre e una figlia: esemplare è proprio il caso della bambina di Lia Levi. 5 C’è d’altra parte una ragione ben precisa per cui una riflessione così controcorrente sull’uguaglianza di diritto proviene da un filosofo come Adorno e dall’area dell’impegno femminista. L’ebreo e la donna, infatti, sanno bene come i discorsi maggiormente edificanti della modernità nascondano delle trappole: lo sanno per esperienza. «Dire che il principio di uguaglianza è, all’inizio, ingiusto o incompleto perché esclude le donne […], non basta», scrive Cavarero (CAVARERO altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 12 1999, 126). «Per quanto riguarda le donne», prosegue la filosofa, «non si tratta infatti di un’esclusione accidentale, relativa alla gradualità del processo storico con cui l’uguaglianza è venuta a estendersi col tempo a tutti gli uomini. Si tratta invece di un’esclusione primaria […], che fa delle donne dei soggetti politicamente impensabili» (ivi). Qui, nell’impensato che è escluso, lasciato ai margini, abbandonato o scagliato all’esterno tanto del diritto quanto del pensiero stesso, c’è una risorsa per la critica che non si rassegna all’esistente, alla ripetizione dello status quo, allo spregio di quelle identità concrete, che un’uguaglianza decettiva assimila e omologa (all’uomo, nel caso di certi scivolosi discorsi sulle pari opportunità della donna, che non mettono davvero in discussione l’ideologia di genere del lavoro donnesco di cui scrive Lia Levi, quando allude al posto assegnato alla soggettività femminile). Che cosa, anzi chi, è allora nascosto dal velo dell’uniformazione giuridica? Il non vedere, o il non volere vedere, come si sa, è una delle più efficaci strategie della negazione – negazione della dignità, del corpo, della voce…. Allo stesso tempo, una società cieca è una società indifferente, anestetizzata dal dolore, sorda all’eloquenza delle ferite dell’altro, che non necessariamente proferisce enunciati completi, intelligibili, coerenti, senza per questo cessare d’essere un individuo. Così è la bambina di Lia Levi, timida, silenziosa, ma vigile nel suo sguardo sul mondo. Più del linguaggio – con le sue strutture formali, con la sua valenza performativa, comunque capace di produrre differenti ordini del discorso – vale proprio il vedere. È questa la strada proposta da Cavarero, che sin qui abbiamo considerato rappresentativa della differenza italiana nel pensiero della differenza sessuale. Scrive Cavarero, rifacendosi a Hannah Arendt (ARENDT 1964, Parte Quinta, Il rivelarsi dell’agente nel discorso e nell’azione), e dando implicitamente una cornice teorica al racconto di Lia Levi: “chi sei?”. Radicata nel mondo in quanto scena in cui, con la nascita, ognuno fa la sua prima apparizione, questa domanda riconosce che ogni essere umano è un essere unico perché, anche semplicemente esponendosi allo sguardo altrui, unico appare già dalla forma del corpo e dal suono della voce. L’esistenza è dunque esposizione reciproca su uno spazio condiviso dove ognuno, sin dalla nascita, appare unico e, nel altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 13 corso della vita, può mostrare attivamente chi è con atti e parole. (CAVARERO 1999, 160) 5. La falsa identità e la carne La restituzione del mondo alla bambina di Lia Levi – del mondo senza infingimenti, del suo chi – è parcellizzata e obliqua, ma non può che passare appunto per il vedere, per lo sguardo che crea il mondo e il suo ordine di senso. I soldati tedeschi circolano per Roma ed è alto il rischio d’un rastrellamento di ebrei. La bambina dice della madre: «quando parla con le sue amiche si dimentica di mandarci via. Non vuole ancora lasciarci guardare dritto questo orribile mondo, ma stancamente ce lo fa sbirciare da un angolo» (LEVI 2003, 70). Il mondo orribile, mano a mano che cadono i filtri fra di esso e lo sguardo, prevede che se non si può rispondere al censimento, durante l’occupazione nazista, si perde l’identità civile. Un’identità in parte garantita da un pezzo di carta, da un documento, in parte dal nome e dal volto, ciò che v’è di più proprio, e che la persecuzione toglie: «come siamo tristi in quei giorni senza più nome, né viso, né tessera» (ibidem, 72). L’esserci, lo stare al mondo, l’esistere sono ora più che mai dipendenti dall’essere guardati e dalla certificazione del proprio volto per il tramite della carta d’identità. Venuti meno l’uno e l’altra, si apre per la bambina un nuovo spazio di finzione, nel quale per sfuggire ai tedeschi le è assegnato un nome proprio dall’indubitabile risonanza cristiana: «Maria Cristina […]. Con un nome così c’è da scontare a vita anni di complesso ebraico» (ibidem, 75). Analoga, a questo riguardo, è stata l’esperienza di Donatella Levi, che nella girandola dei nuovi nomi attribuitile, veniva istruita anche a misconoscere – in pubblico – i legami familiari che potevano metterla in pericolo, come quello con il padre: «“Capisci bene”, disse, additandolo, mia madre, “lui è una persona sconosciuta che tu non hai mai visto, guai se lo chiami papà!» (LEVI 2011, 25). Come ha scritto Giacoma Limentani, ricordando la propria esperienza sotto le leggi razziali, la dimestichezza con nomi e documenti falsi, con identità inventate, finiva per incidere profondamente sulla percezione di sé, al punto da innestarsi – e le narrazioni delle due Levi, a loro modo, lo confermano – su un’inclinazione altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 14 per il racconto, per la creazione narrativa, che sarebbe sfociata in un’attività di scrittura (LIMENTANI 2004, 139). Nel racconto di Lia Levi, la falsificazione dell’identità – avviata con l’ingresso nel convento di suore – reca con sé anche la dolorosa indifferenza di Suor Maria Speranza, l’insegnante che non guarda la bambina in viso, tanto è intenta a scrutarne un’essenza nascosta, misteriosa. «La chiusa indifferenza della mia insegnante», riferisce la narratrice, «mi fa ora sprofondare nei meandri di una non esistenza. Lei non mi vede e io non ci sono […]. Mi sto sbriciolando […]. Suor Speranza non guarda mai il mio viso perché sta contemplando la mia anima» (LEVI 2003, 85-86). Qui il non essere visti non ritaglia alcuno spazio per se stessi, alcun luogo proprio, non fornisce involontariamente l’occasione di costruirsi un mondo riservato, in cui riconoscersi, sul filo del gioco e della timidezza. All’apposto, lo sguardo che dà l’esistenza si perde adesso in un altrove fittizio, che misconosce e falsifica il qui e ora, azzerando la responsabilità della cura autentica. La credenza platonico-cristiana in un’essenza sottratta alla carnalità della visione (ma si potrebbe anche dire: in una persona giuridica diversa da quella in carne e ossa sotto lo sguardo della madre), non solo confligge con l’esistenza concreta restituita dallo sguardo, ma sembra imporsi su di essa, al punto che alla mente della bambina s’affaccia l’ipotesi d’una conversione. In gioco, qui, non è tanto il ripudio della religione ebraica, in favore di quella cristiana, quanto l’abbandono del registro simbolico della madre, e del suo sguardo che dà la vita e apre il mondo, per un registro simbolico patriarcale, a cui appartiene anche il credo in Gesù, con la sua dogmatica metafisica, anti-realistica, intorno all’anima.6 Per tacere di ciò su cui attira l’attenzione Cavarero, ovvero della parzialità d’uno ius maschile, afferente all’ordine simbolico del padre, che si contrabbanda per universale, e che ugualmente astrae la sue categorie dall’identità concreta, «dal venire al mondo», scrive Cavarero in Nonostante Platone, «di singolarità incarnate» (CAVARERO 1990, 8). Il Gesù di Lia Levi, non a caso, appare non meno perduto, non meno sconfitto, del padre reale della bambina: «mentre Gesù sulla altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 15 croce attaccata alla parete in fondo pare anche lui rassegnato e complice» (LEVI 2003, 64). La madre, all’opposto, non cessa di contendere alla vita ogni centimetro del terreno perduto, e lo fa guardando qui e ora la figlia, non l’altrove della sua anima, una sua essenza presuntivamente nascosta. E questo a costo di apparire anch’essa – nella sua occhiata irosa e lampeggiante – come la Gorgone che fissa e reifica, come la nemica dagli occhi minerali, che proprio il suo sguardo vitale invece contrasta, conferendo identità – certezza di sé, autostima, coscienza del mondo – alla figlia. Quando la madre giunge al convento allarmata dai propositi di conversione della figlia ovvero, in maniera più determinante, dal rischio di un suo volontario transito a un ordine simbolico patriarcale, il ritratto di lei fatto dalla figlia è inequivocabile: «Resto impietrita: lì, di fronte a noi, l’immagine della furia, c’è mia madre […]. Mia madre non è mia madre, i suoi capelli sono serpenti, i suoi occhi scintille di fuoco» (ibidem, 90-91). Nel momento di massimo pericolo, l’eloquenza del viso non smette di significare, di tessere e di ritessere l’ordito simbolico d’un senso che si mostra, al di là del linguaggio e delle sue proposizioni ordinate. Così, quando le SS arrivano a Monteverde e portano via «anche una donna con un neonato in braccio», la protagonista del libro di Lia Levi si fa dischiudere l’inaudito dal volto della madre, quasi che tramite i suoi occhi vedesse di riflesso quest’altro tratto del mondo orribile: «finalmente socchiude la porta e mi mostra il viso che non ho mai visto in tutta la mia vita» (ibidem, 105). Per quello stesso sguardo di madre, restituito alla reciprocità del riconoscimento, passerà a Liberazione avvenuta – quando ormai la fine sembrava certa – il disvelamento d’una semplice, gioiosa verità, occultata per anni dall’introiezione d’un dispositivo colpevolizzante: la giovane protagonista del libro di Lia Levi non è una bambina ebrea, è una bambina. L’essere una bambina, al di là del marchio imposto da un’ideologia persecutoria e razzista, dal dominio di genere o dalle categorie astratte, altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 16 patriarcali, dell’uguaglianza di diritto, è ciò che l’ordine simbolico materno strenuamente difende, nel suo coincidere con una vita senza aggettivi, con una vita che viene al mondo, da madre: «Non sei una bambina ebrea, hai capito? Hai capito? Sei una bambina. Una bambina e basta» (ibidem, 115). La stupefazione del quotidiano, epurato da colpe, ricatti, stigmi. altrelettere A. Sartori, Sguardo di madre – Ordine simbolico, colpa e liberazione in “Una bambina e basta” di Lia Levi, DOI: 10.5903/al_uzh-24 17 Note L’inveramento, la messa in atto di questo pervertimento delle idee, è per Löwenthal il gesto dell’ebreo che nel campo di concentramento mantiene l’ordine della baracca per conto dell’ufficiale nazista, il gesto – in altri termini – con cui l’ebreo brandisce il bastone contro l’ebreo. 2 Tutti i corsivi nei brani citati sono dell’autore dell’articolo. 3 Quello familiare, per lo più al femminile, è infatti un mondo proprio, dal quale la menzogna è bandita, almeno fino al momento in cui la persecuzione incrudelisce: «il nostro ordinato mondo dove nessuno mente e tanto meno i grandi con i bambini» (LEVI 2003, 32). 4 Il luogo non è un posto qualunque, assegnato da chiunque, il luogo è proprio di chi vi dimora. Penelope, ad esempio, attendendo al suo lavoro al telaio, abita un luogo che le è proprio, coerente con il suo ordine simbolico, differente da quello abitato dagli eroi che solcano il mare e scolpiscono la storia con la loro volontà di potenza. In quello spazio non suo, il mare, «ella non avrà più luogo, ma solo un posto nell’ordine simbolico altrui» (CAVARERO 1990, 15). 5 L’affidamento è un modo particolare d’alleanza tra una donna giovane e una più adulta, tra una figura femminile le cui attese sono ancora intatte, e un’altra che ha conosciuto l’orribile del mondo: «Il rapporto di affidamento è questa alleanza dove per essere vecchia s’intende la consapevolezza che dà l’esperienza dello scacco, e per essere giovane, l’avere in sé delle pretese intatte, l’una e l’altra che entrano in comunicazione per potenziarsi nei confronti del mondo» (LIBRERIA DELLA DONNE DI MILANO 1987, 148). 6 Anti-dualistica è invece la relazione madre-figlia, perché essa rifiuta la separazione astratta tra l’anima e il corpo che attraversa la tradizione metafisica occidentale, da Platone ai Padri della Chiesa. Lo sguardo della madre, di conseguenza, non è mai diretto al di là del corpo della figlia. Anzi, quando la bambina di Levi annoda una relazione materna con l’ancor più piccola Rossana, il primo divieto che ella infrange è proprio quello della prossimità fisica: «So che è proibito, ma senza fare rumore la prendo e la porto con me», dice la bambina più grande riferendosi a Rossana, e poi aggiunge: «l’abbraccio, l’accarezzo, me la faccio addormentare nella calda nicchia di un letto abitato. Ed è quando il suo respiro torna a essere lento e placato che guardandola e sentendola mi esplode dentro qualcosa che affonda nell’origine e che dalla carne passa direttamente alla carne» (LEVI 2003, 73). 1 Bibliografia ADORNO 2004 Theodor W. ADORNO, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 2004 [1966]. ARENDT 1964 Hannah ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1964. BOURDIEU 1998 Pierre BOURDIEU, Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 1998. CAVARERO 1990 Adriana CAVARERO, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, Roma, Editori Riuniti, 1990. 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