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Richard Rorty e l'ironista liberale. Tra pubblico e privato Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Filosofia Corso di laurea Magistrale Filippo Sanna Matricola 1802857 Relatore Sarin Marchetti A.A. 2019-2020 Correlatore Piergiorgio Donatelli A Mamma e Babbo... Indice Introduzione I. Rorty e la critica al rappresentazionalismo: tra behaviorismo epistemologico e filosofia edificante II. 5 9 Dal processo di edificazione all'ironia liberale: tra contingenza e critica letteraria 19 III. L'Ironista liberale: tra pubblico e privato 40 IV. Ironia-liberale e Decostruzione: le due critiche di Chantal Mouffe e Simon Critchley 46 1. Richard Rorty e la teoria del consenso liberale: critica di Chantal Mouffe alla concezione rortiana di democrazia 46 2. Ironia e solidarietà, due realtà non conciliabili tra loro. Simon Critchley e la critica all'ironista liberale V. Sulla possibilità di una pratica Ironica-Liberale. Risposta alle critiche dei decostruzionisti. 1. Una concezione alternativa di democrazia. In risposta a Chantal Mouffe 3 56 64 64 4 2. L'ironista liberale, un connubio possibile. In risposta a Simon Critchley 70 3. Decostruzionismo e ricontestualizzazione 83 4. I dubbi di Richard Berstein: argomento o ridescrizione? 86 Conclusioni 92 Bibliografia 96 Introduzione. Lo scopo di questo lavoro è quello di fornire un quadro coerente ed esaustivo in merito alla figura dell'ironista liberale presa in esame da Richard Rorty all'interno di una delle sue opere più celebri, Contingency, Irony and Solidarity (1989). Il vivace percorso di formazione del filosofo che dai suoi primi anni a Chicago e Yale si sposta da una tradizione metafisica a quella analitica per poi approdare a una versione di quel pragmatismo noto sotto il nome di “pragmatismo linguistico”, consente di individuare il dinamico orizzonte speculativo attorno al quale l'ironista liberale opera e di cogliere altresì la volontà dell'autore di rompere con una tradizione che non riesce più a interpretare le esigenze di una società in crisi. L'opera rortiana coglie queste problematiche e cerca di fornire un'alternativa per uscire da questa crisi d'identità. Il dibattito che nei primi anni novanta segue la pubblicazione di Contingency, Irony and Solidarity mostra quanto sia complesso il panorama filosofico in cui l'ironista liberale si colloca. Se per certi versi la trattazione rortiana «documenta e approfondisce i temi della filosofia postanalitica e del pensiero postmoderno, secondo le linee di un nuovo programma pragmatista»1, essa mette in evidenza anche la volontà dell'autore di discostarsi dalla stessa corrente analitica da cui proviene come pure da quella metafisica. Come si avrà modo di osservare nei capitoli finali del lavoro, il percorso speculativo di Rorty porta quest'ultimo a prendere le distanze anche da alcune correnti filosofiche, come il decostruzionismo di Derrida, che condividono con la proposta rortiana il peculiare carattere anti-metafisico. Emergono dunque notevoli difficoltà nell'utilizzo dell'ironia relativamente a istanze sociali che necessitano di risposte immediate e misure concrete. In questo senso, tale dibattito, consente altresì di cogliere le possibilità e le potenzialità di una 1 5 LA VITA CONTINGENTE, prefazione di Aldo Giorgio Gargani, in Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. IX pratica ironica all'interno delle nostre moderne società liberali e individuarne i punti di forza, rendendola un'alternativa legittima alla tradizione, molto più fruttuosa di quanto i critici siano in grado di ammettere. Nel primo capitolo ci si concentrerà in particolar modo sul background teorico che precede Contingency, Irony and Solidarity, prestando attenzione ai caratteri anti-rappresentazionalista e anti-fondazionalista, derivanti dalla speculazione portata avanti da Rorty in Philosophy and the Mirror of Nature (1979). Dalla trattazione emergerà un approccio critico nei confronti dell'epistemologia tradizionale, che mira a scardinare una certa concezione di conoscenza e che Rorty individuerà, perseguendo l'insegnamento di Sellars e Quine, nel Behaviorismo epistemologico. Tale approccio sostiene che la conoscenza sia una questione di conversazione e di pratiche sociali. Integrando questa linea interpretativa con l'insegnamento ermeneutico gadameriano, la filosofia dunque «non sarà più costruttiva ma edificante: si preoccuperà di mantenere aperta la conversazione più che scoprire la verità oggettiva. Sarà, in questo, ermeneutica, perché l'ermeneutica è in larga misura la lotta contro la normalizzazione del discorso»2. Il secondo capitolo si occuperà, di affrontare le sezioni iniziali dell'opera che fa da perno a tutto il lavoro, che è Contingency, Irony and Solidarity. Nello specifico si metterà in luce il processo che dalla presa di coscienza della contingenza nei vari ambiti (linguaggio, l'io e la società liberale) giunge alla formulazione e alla caratterizzazione dell'ironista, con particolare attenzione alla nozione di “critica letteraria” che nell'opera rortiana acquisisce un significato centrale. Nel terzo capitolo si completerà il percorso di formazione dell'ironista liberale evidenziando le modalità con cui Rorty fonde le due sfere, quella dell'ironia e del pensiero liberale, esplicando in tal senso anche il rapporto tra pubblico e privato che emerge da questa originale miscela. Sarà compito di questo lavoro fornire una linea interpretativa che colga i contributi che alcuni autori come Wittgeinstein, James e Dewey hanno concesso affinché la speculazione rortiana potesse concretizzarsi. 2 6 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, NOTA INTRODUTTIVA, di Diego Marconi e Gianni Vattimo, VII-VIII Tutto ciò porterà in ultima istanza alla definizione di una solidarietà umana, che assieme alla forza decostruttiva della pratica ironica, delinea i margini dell'utopia liberale. Il quarto capitolo presenterà due corpose critiche, ad opera di Chantal Mouffe e Simon Critchley, mosse alla trattazione contenuta in Contingency, Irony and Solidarity. La critica di Chantal Mouffe affronterà in particolar modo due aspetti. Uno di questi riguarda la vicinanza della proposta rortiana a quella habermasiana che in ultima istanza finisce col ridursi a una teoria del consenso liberale. Il secondo aspetto della critica riguarda la mancanza d'attenzione da parte di Rorty relativamente ad uno degli tratti costitutivi della democrazia pluralista che è quello del conflitto. Per quanto riguarda Simon Critchley, la sua critica mira in maniera diretta a mettere in luce le contraddizioni e le lacune insite nella figura dell'ironista liberale. Ci si interrogherà dunque sulla reale possibilità di una convivenza tra queste due componenti. La risposta del filosofo britannico in merito, sarà chiaramente negativa. Entrambi gli autori, sia Mouffe che Critchley, concepiscono la decostruzione derridiana come un'alternativa valida e praticabile nel panorama pubblico, differentemente dalla pratica ironica che secondo le loro letture non riuscirebbe a dare un contributo concreto alle istanze sociali in gioco. Il quinto capitolo si occuperà di rispondere a queste critiche, sviluppandole e problematizzandole in relazione alla proposta rortiana. In questa sezione, al fine di analizzare le tesi di Rorty, ci si avvarrà del contributo di diversi autori contemporanei tra cui Bernstein, Calcaterra, Donatelli, Marchetti e Voparil, ma si avrà altresì occasione, laddove possibile, di metter in dialogo la trattazione con alcuni dei classici di riferimento nel pensiero del filosofo americano, tra cui Wittgenstein e James. Lo scopo finale del lavoro è quello di dimostrare che la proposta di Richard Rorty, lungi dal rappresentare il risultato finale e infallibile di una continua conversazione che gli esseri umani intrattengono con loro stessi riguardo le proprie esistenze, si caratterizza come un'alternativa valida a un pensiero tradizionale che appare in difficoltà. L'ironista liberale ci invita ad abbandonare la pretesa e la ricerca di una soluzione certa e assoluta che spieghi l'essenza della realtà, a sostituire queste tendenze con 7 l'immaginazione e la creatività, sviluppando allo stesso tempo la capacità di metter a confronto i nostri vocabolari piuttosto che decretare in maniera rigorosa quale sia il migliore. L'utopia liberale scorge un'alternativa umana, un possibile futuro che va oltre il medesimo contesto socio-politico e culturale che Rorty vive negli anni in cui presenta al panorama accademico il suo Contingency, Irony and Solidarity. 8 I. Rorty e la critica al rappresentazionalismo: tra behaviorismo epistemologico e filosofia edificante. “Quando cominciai a studiare la filosofia, rimasi subito impressionato dal modo in cui i problemi filosofici comparivano, sparivano o cambiavano aspetto con il rinnovamento dei presupposti e dei vocabolari” 3. Con queste parole Richard Rorty apre la prefazione de “La Filosofia e lo Specchio della Natura” del 1979, opera che segue di qualche anno “La Svolta Linguistica” (1967), e che gli stessi curatori dell'edizione italiana del 1986, Diego Marconi e Gianni Vattimo, definiscono come “epocale”. Qualche riga più avanti Rorty specificherà cosa egli intenda per problema filosofico definendolo “un prodotto dell'adozione inconscia di presupposti incorporati nel vocabolario in cui il problema viene formulato” 4. In sintesi ogni problema filosofico affrontato finora deriverebbe semplicemente dal tipo di vocabolario che si sceglie e si è scelto di utilizzare; ogni vocabolario dunque porta con sé dei problemi specifici. Questo presupposto è fondamentale perché consente di cogliere le linee guida di tutta la speculazione rortiana. L'obiettivo principale consiste nel tentativo, data la contingenza dei vocabolari e dei problemi filosofici, di abbandonare una certa concezione della filosofia come sistematica e fondante che Rorty riconduce alla tradizione platonico-kantiana. Gli autori che fanno riferimento a questa tradizione considerano la filosofia come una disciplina che si occupa di problemi immutabili ed eterni tra i quali “la differenza tra gli esseri umani e gli altri esseri” e la relazione “mente e corpo”. Altri problemi riguardano invece i “fondamenti” della conoscenza. In questo senso, come lo stesso Rorty afferma: 3 4 9 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p. 3 Ibìdem, p. 3 «La filosofia come disciplina si considera il tentativo di sottoscrivere o di ridimensionare le pretese alla conoscenza avanzate dalla scienza, dalla morale, dall'arte e dalla religione. La filosofia si propone di fare questo sulla base della propria speciale comprensione della natura della conoscenza e della mente. La filosofia può essere fondazionale nei confronti della cultura restante perché la cultura è la raccolta delle pretese di conoscenza, mentre la filosofia sottopone a giudizio tali pretese. Può fare questo perché comprende i fondamenti della conoscenza e trova questi fondamenti attraverso lo studio dell'uomo-come-soggetto-della-conoscenza, dei “processi mentali” o delle “attività della rappresentazione” che rendon possibile la conoscenza.» 5 Ora, una filosofia che vuole essere fondazionale nei confronti della cultura e di qualsiasi pretesa di conoscenza, deve chiarire cosa si intenda per attività conoscitiva. Seguendo questa interpretazione “conoscere significa rappresentare accuratamente quel che si trova fuori dalla mente” 6. Dunque compito della filosofia sarà quello di costruire una teoria generale della rappresentazione, dal momento che è proprio rappresentando la realtà che noi la conosciamo. Una buona rappresentazione porta a una buona conoscenza, tramite una buona teoria della rappresentazione la filosofia giunge a una buona teoria della conoscenza e quindi a una conoscenza esatta. Va da sé che in questo caso, sarà la filosofia a stabilire quali arti e quali aree della cultura siano più o meno in grado di rappresentare accuratamente, e quindi conoscere, la realtà. Ora, è questa concezione di filosofia che Rorty, nella sua opera, ci consiglia di abbandonare; una filosofia intesa come “teoria della conoscenza” o “epistemologia”, sistematica e fondazionale, nel senso che costituisce la fondazione di ogni forma di sapere. Emergono dunque due aspetti essenziali della speculazione rortiana, l'antifondazionalismo e l'antirappresentazionalismo, laddove quest'ultimo si rivolge «all'uso epistemologico del termine “rappresentazione”, per cui 5 6 10 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p.7 Ibìdem. p. 7 esso implica il problema di stabilire se e in base a quali criteri le nostre rappresentazioni della realtà siano corrette.»7 La tradizione che Rorty invita a lasciarci alle spalle segue una linea temporale che passando per Platone arriva sino alla modernità tramite Cartesio, che col suo dualismo “scoprì la mente” offrendo in tal modo «un campo di ricerca che sembrava prioritario rispetto agli argomenti sui quali i vecchi filosofi avevano avuto delle opinioni. Si provvedeva inoltre un campo all'interno del quale era possibile la certezza , intesa in opposizione alla mera opinione.»8. Mentre Locke non riuscì a raggiungere la certezza cartesiana nel tentativo di fare «della “mente”, appena inventata da Decartes, l'argomento della “scienza dell'uomo”» , Kant al contrario «pose la filosofia “sulla sicura strada della scienza” collocando lo spazio esterno dentro lo spazio interiore (lo spazio dell'attività costitutiva dell'io trascendentale) e rivendicando poi la certezza cartesiana relativa all'interiorità per le leggi di ciò che prima era stato considerato esterno»9. Ciò che accomuna questi autori è, secondo Rorty, una certa tendenza a considerare sia la conoscenza che la giustificazione come delle “relazioni privilegiate con gli oggetti attorno ai quali vertono le proposizioni”. Questo modo di concepire la conoscenza implica un necessario passaggio dalle ragioni alle cause, in cui è lo stesso oggetto a “costringerci” verso un punto che non ammette dubbio o alternativa. Come lo stesso Rorty afferma: «Raggiungere quel punto significa raggiungere i fondamenti della conoscenza. Per Platone quel punto veniva raggiunto sfuggendo ai sensi e accedendo alle facoltà della ragione – all'Occhio dell'Anima – al Mondo dell'Essere. Per Decartes si trattava di distogliere l'Occhio della Mente dalle rappresentazioni interiori confuse per rivolgerlo a quelle chiare e distinte. Per Locke si trattava di rovesciare le direzioni di Decartes e di 7 8 9 11 Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti 1820, Bologna 2018 p. 35 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p. 104 Ibìdem, p. 105 considerarle “singole presentazioni ai sensi” come quel che ci dovrebbe “afferrare”- ciò che noi non possiamo e non vorremmo evitare.»10. Con Kant invece, la ricerca sulla “natura e origine della conoscenza” «divenne una ricerca delle regole che la mente aveva predisposte per se stessa (i “Principi dell'Intelletto Puro”)»11. Riprendendo dunque da Heidegger l'idea che il desiderio di una “epistemologia” sia semplicemente il prodotto dello “sviluppo dialettico di un insieme di metafore”, Rorty ci fornisce la metafora che da il nome alla sua stessa opera. Tale sviluppo dialettico giunge dunque alla concezione per cui «conoscere di più consiste nel capire come migliorare l'attività di una facoltà quasi visiva, lo Specchio della Natura, e pensare così la conoscenza come un insieme di rappresentazioni accurate. Giunge poi l'idea che il modo di avere rappresentazioni accurate, consiste nel trovare, dentro lo specchio, una speciale classe privilegiata di rappresentazioni tanto cogenti da rendere indubitabile la loro esattezza. Questi fondamenti privilegiati saranno fondamenti di conoscenza, e la disciplina che ci indirizza a essi – la teoria della conoscenza – sarà la fondazione della cultura. La teoria della conoscenza sarà la ricerca di ciò che costringe la mente a credere non appena la si sveli. La filosofia-epistemologia sarà la ricerca delle strutture immutabili entro cui devono essere contenute la conoscenza, la vita e la cultura»12. La filosofia dunque, in virtù della sua capacità di cogliere e comprendere le strutture necessarie ed immutabili riguardanti la conoscenza, la cultura e la vita intera, concede all'uomo (e sopratutto al filosofo) un rapporto privilegiato con la realtà stessa. Ora, Rorty invitandoci ad abbandonare questa concezione della filosofia come teoria della conoscenza, ci fornisce un'alternativa alla tradizione. Questa alternativa, col suo “spirito giocoso”, mise in dubbio i problemi e le soluzioni dell'epistemologia definendoli inesistenti. Tra coloro che per primi criticarono la tradizione Rorty cita ironisti estetici come James e Bradley ma anche riformatori sociali 10 11 12 12 Ibìdem, pp. 121-122 Ibìdem, p. 122 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p. 125 come Dewey. Tali scintille però, furono destinate a estinguersi, e solo nei primi anni cinquanta, i dubbi mossi verso la tradizione filosofica trovarono una espressione compiuta nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, in Empiricism and the Philosophy of Mind di Sellars e in Due Dogmi dell'empirismo di Quine. Sarà proprio su questi ultimi due autori che Rorty si concentrerà per introdurre quello che prenderà il nome di behaviorismo epistemologico. Secondo questo atteggiamento la giustificazione non consiste in una relazione privilegiata con le idee o con gli oggetti ma è una questione di conversazione e di pratiche sociali. Se seguiamo la premessa fondamentale per cui comprendere la conoscenza significa comprendere la giustificazione sociale del giudizio, e quindi la conversazione si sostituisce al confronto, allora possiamo abbandonare l'idea della mente come Specchio della Natura assieme alla tradizionale tendenza di considerare la filosofia nei termini di un tribunale al di sopra delle pratiche sociali. In questo senso sia la razionalità che l'autorità epistemica si giustificano socialmente, in base a ciò che la società stessa permette loro di dire. Secondo Rorty dunque lo studio della conoscenza umana consisterà in null'altro che “lo studio di certi modi di interazione tra gli esseri umani”, lasciando spazio a una “visione pragmatica della verità e a un approccio terapeutico all'ontologia” 13. L'origine di questo atteggiamento viene individuata in due autori che Rorty riprenderà spesso, Dewey e soprattutto Wittgenstein, per il quale, «se comprendiamo le regole di un certo gioco linguistico, comprendiamo tutto quel che c'è da comprendere sul perché le mosse di quel gioco linguistico vengono effettuate» 14. Laddove comprendere le regole significa niente di più che guardare ai contesti d'uso di un determinato gioco linguistico, e quindi alle 13 14 13 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p 133 Ibìdem, p.132; a tal proposito si veda anche Ludwig Wittgenstein , Ricerche Filosofiche , Einaudi, Torino, 2009, PARTE PRIMA, pp. 8-14, è paradigmatico un passo in cui si afferma che «immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita»; proprio in relazione a ciò Wittgenstein giunge alla conclusione che il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio (p. 28). Rorty e il suo pragmatismo devono sicuramente molto agli spunti contenuti nelle Ricerche Filosofiche. Utile in questo caso è anche l'analisi di Gargani in De-devinizing. La sdivinizzazione della verità, che riferendosi alla locuzione wittgensteiniana “forma di vita” afferma: «Vero e falso è ciò che gli uomini dicono, e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni ma della forma di vita» [in Verità e Progresso, scritti filosofici, Feltrinelli, Milano, 2003, p. IX]. E' altresì utile l'argomentazione fornita dallo stesso Gargani nella prefazione all'edizione italiana di Contingency, Irony and Solidarity in cui si possono cogliere in maniera chiara e lineare quelli che sono i debiti wittgensteiniani all'interno della speculazione di Rorty [ LA VITA CONTINGENTE, prefazione di Aldo Giorgio Gargani, in Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. XII-XVI]. pratiche sociali in atto. Emerge in queste pagine una analogia importante con il pragmatismo, che aiuta a posizionare ancora meglio il pensiero rortiano. Il behaviorismo epistemologico per Rorty, infatti «potrebbe essere chiamato semplicemente “pragmatismo”, se questo termine non fosse un po' troppo carico di significati [..]. Esso è piuttosto la tesi per cui la filosofia non ha da offrire nulla di più del senso comune (integrato dalla biologia, storia ecc.) per quanto concerne la verità e la conoscenza» 15. Qui è abbastanza chiaro, come in altre pagine dell'opera, il riferimento alle tesi jamesiane riguardo la concordanza tra “vecchie opinioni” e “nuove esperienze”, secondo cui una nuova pratica, supportata da “nuove opinioni”, per essere funzionale e funzionante deve riuscire a concordare con il contesto delle pratiche pre-esistenti “nel modo più familiare possibile”16. Rorty a tal proposito afferma: « Nulla può valere come giustificazione se non in rapporto a tutto ciò che già è accettato, e che non esiste modo di porsi al di fuori dei nostri giudizi e del nostro linguaggio e trovare verifiche da un test di coerenza. » 17 Il punto fondamentale che si vuole mettere in evidenza dunque è che le nostre conoscenze non possono contare su un “terreno neutrale” da cui giudicare e che dovremmo abbandonare una certa nozione di verità e di “descrizione” della conoscenza umana. Una descrizione della “natura della conoscenza”, secondo Rorty non può pretendere di essere qualcosa di più di una “descrizione del comportamento umano”. E in questo senso essere behavioristi significa «abbandonare qualsiasi evento o facoltà mentale, e ritenere che le nostre pratiche di giustificazione delle asserzioni non abbiano bisogno di una fondazione empirica o “ontologica”». 18 Prendere in considerazione un atteggiamento di questo tipo significa considerare la comunità come unica fonte di autorità epistemica. 15 16 17 18 14 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p.134 Si veda William James, Pragmatismo, Aragno, Torino, 2007 pp. 39 e seguenti Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p.135 Ibìdem, p. 143 Nell'abbandonare l'epistemologia e quindi la tradizionale ricerca dei fondamenti della conoscenza, Rorty scorge nella “ermeneutica” un approccio nuovo e molto più fruttuoso dei precedenti. Esso non deve consistere però in un “soggetto sostitutivo” della teoria della conoscenza, ma si concretizza nella speranza «che lo spazio culturale lasciato dall'abbandono dell'epistemologia non venga affatto riempito – che la nostra cultura diventi tale che in essa non si avverta più l'esigenza di cogenze definitive e ultime» 19. L'interpretazione che Rorty ci fornisce dell'ermeneutica è fondamentale perché consente di cogliere una questione che caratterizzerà tutta la sua speculazione futura. Laddove infatti l'epistemologia si ferma a considerare l'accordo come un “segnale dell'esistenza di un terreno comune”, l'ermeneutica “coglie le relazioni tra i vari discorsi, come tra le linee di una possibile conversazione” 20. In questo senso essere razionali significa “familiarizzare” col vocabolario del proprio interlocutore piuttosto che tradurlo nel proprio, poiché per l'ermeneutica, la ricerca si esplica nella normale conversazione e in nulla più. Secondo Rorty dunque comprendere è molto più simile a “far conoscenza” con qualcuno piuttosto che seguire una dimostrazione. Un po' alla volta ci sentiremo sempre più a nostro agio con chi in precedenza ci risultava completamente estraneo. Questo atteggiamento consente anche di considerare la cultura, non come una struttura costruita su solide ed eterne fondamenta, ma come una semplice conversazione. L'uso del termine “Ermeneutica” Rorty lo deve a Gadamer 21, che nel suo Verità e metodo, si impegna nel tentativo di abbandonare l'immagine classica della filosofia e degli esseri umani come costituiti da una essenza intrinseca; questo tentativo prende il nome appunto di “ermeneutica” e mira a sostituire «la nozione di Bildung (educazione, formazione di sé) a quella di “conoscenza” come obiettivo del pensiero»22. 19 20 21 22 15 Ibìdem, p. 239 Ibìdem, p. 241 Sul rapporto tra l'ermeneutica gadameriana e il pensiero pragmatista di Rorty si vedano: Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti 1820, Bologna 2018 p. 121 e seguenti; per un approfondimento più specifico si veda: G. Marchetti, Il neopragmatismo, in ID. (a cura di), Il neopragmatismo, cit., p. XXVI Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p 275 Termine che Rorty farà suo ridefinendolo non a caso “edificazione”, col quale egli intende più precisamente quel «progetto per la scoperta di maniere di parlare nuove, migliori, più interessanti e più fruttuose» 23. Proprio perché non possiamo e non dovremmo più prendere sul serio la nozione di “essenza”, questo tipo di atteggiamento ci mette di fronte alla relatività dei vocabolari. In questo senso anche il tentativo ermeneutico di Gadamer, non ha valore fondativo, ma costituisce un semplice “progetto di edificazione tra gli altri” possibili. Dunque non c'è alcun discorso filosofico “normale” che funga da base comune di giudizio e che permetta di stabilire a priori cosa possa dirsi razionale e cosa no. Ora, un punto su cui Rorty si sofferma e che richiede di essere analizzato è che “l'educazione deve partire dall'acculturazione”; questo significa in sintesi che non possiamo concepire una pratica di edificazione, senza un precedente processo di assimilazione di una qualche cultura. La stessa edificazione necessita di passare per diversi “stadi di conformità”, e anche il pensiero più rivoluzionario è inevitabilmente parassitario di quei materiali propri del contesto culturale di riferimento. Secondo Rorty dunque, il ruolo del filosofo edificante, contrapposto a quello del filosofo sistematico, consiste semplicemente «nell'offrire un altro insieme di termini, senza arrivare a dire che questi termini costituiscono delle accurate e nuove rappresentazioni di essenze»24. In questo senso, e qui Rorty giunge alle conclusioni più pregnanti dell'opera, dovremmo considerare i filosofi edificanti come dei compagni di conversazione25, e la filosofia come l'amore per quella saggezza pratica necessaria alla continuazione di una conversazione. Questa posizione consente di considerare gli esseri umani non come costituiti da essenze immutabili ma piuttosto come “creatori di discorsi”. I metodi di ricerca in ambito epistemologico, se seguiamo l'invito di Rorty a essere edificanti e behavioristi, saranno allora molto più simili a quelli adottati dall'antropologia culturale, e prenderanno in considerazione tutto quell'insieme di fatti empirici che riguardano le credenze, i desideri e le pratiche dal punto di vista del gruppo in questione, 23 24 25 16 Ibìdem, p. 276 Ibìdem, p. 284 Ibìdem, p. 286 senza però integrarli con una necessaria “sintesi superiore”. In questo senso, e anche qui il richiamo Jamesiano al suo Volontà di Credere26 è molto evidente : « Se consideriamo la conoscenza non come il possesso di un'essenza, che debba essere descritta dagli scienziati o dai filosofi, ma piuttosto come un diritto, secondo modelli correnti, di credere (corsivo mio), allora ci troviamo sulla strada per giungere a vedere la conversazione come il contesto ultimo all'interno del quale la conoscenza deve essere compresa»27. Delineare i tratti di una filosofia che prenda in considerazione la conoscenza alla luce del suo carattere conversazionale, concede a Rorty l'opportunità per concludere La Filosofia e lo Specchio della Natura mettendo in luce la figura e il ruolo del filosofo morale. Interrogandosi su un possibile senso da accordare al lavoro filosofico in relazione a discipline come la politica, la letteratura, l'antropologia e la psicoanalisi 28, egli individua quello che potrebbe essere un impegno morale da tenere in seria considerazione per il futuro più prossimo. Tale è lo spirito che introduce alla successiva speculazione in La Filosofia dopo la Filosofia (il titolo originale, Contingency, Irony and Solidarity, è sicuramente più esplicativo). Con queste parole si chiude l'opera: «Il solo punto sul quale vorrei insistere è che l'impegno morale dei filosofi dovrebbe essere quello di continuare la conversazione con l'Occidente, piuttosto che insistere nel 26 27 28 17 Si veda William James, Volontà di Credere, BUR, Milano, 1984, Cap. I, p 56 e seguenti. La tesi di fondo ivi contenuta afferma che «l'inerzia o la vitalità di un'ipotesi non è una proprietà intrinseca a quest'ultima, ma è in rapporto con il singolo pensante. Esse si misurano inoltre dalla volontà d'agire che suscitano. Il massimo di vitalità di un'ipotesi significa la volontà di agire in modo irrevocabile. Questo, in pratica, significa credere; anzi, ogniqualvolta c'è volontà d'azione c'è già una tendenza a credere (corsivo mio)». Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p.300 LA VITA CONTINGENTE, prefazione di Aldo Giorgio Gargani, in Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. X mantenere un posto all'interno di quella conversazione per i problemi tradizionali della filosofia moderna»29. 29 18 Ibìdem, p. 304 II. Dal processo di edificazione all'ironia liberale: tra contingenza e critica letteraria. Nel delineare i tratti di una filosofia che abbandoni una certa concezione tradizionale e che si impegni a proseguire la conversazione tra le diverse aree della storia culturale, emerge quella che viene definita una “post-Filosofia”. Questo però, differentemente da quanto affermano alcuni critici rortiani, non decreta la fine della riflessione filosofica in quanto tale, ma al contrario prospetta una “cultura post-filosofica” che incarni «il principio hegeliano secondo cui la filosofia è “il proprio tempo appreso col pensiero”» 30. In tal senso secondo Rorty, la filosofia «è simile allo spazio e al tempo: è difficile immaginare come sarebbe “la fine” di uno dei tre» 31. Il legame di co-determinazione che intercorre tra contesti spazio temporali e il lavoro filosofico dunque non viene in alcun modo messo in discussione dallo studioso americano, ma anzi egli conferma e legittima tale legame; perciò risulta difficile intendere la nozione di post-Filosofia nel senso di una fine della speculazione filosofica. Ed è proprio questo l'orizzonte interpretativo da cui egli muove in La Filosofia dopo la Filosofia; come consente di notare anche Calcaterra in Filosofia della Contingenza: «Il tema del rappresentazionalismo occupa il primo capitolo di Contingency, Irony and Solidarity, il testo in cui egli – Rorty – tenta di sancire l'invito conclusivo di Philosophy and the Mirror of Nature a transitare dall'identificazione della filosofia con l'epistemologia verso una “post-Filosofia”, cioè una pratica di riflessione che intende lasciarsi alle spalle la tendenza a fare della filosofia una sorta di ancilla scientiarum»32. 30 31 32 19 Richard Rorty, Conseguenze del Pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1986, p. 35 Ibìdem p. 61 Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti 1820, Bologna 2018 p. 89 Se si segue un atteggiamento di questo tipo diventa complicato pensare al vocabolario come a qualcosa là fuori nel mondo che attende di essere scoperto. Rorty ribadisce fin dalle prime pagine de La Filosofa dopo la Filosofia che non è il mondo a parlare tramite un unico linguaggio universale che esplichi le sue essenze immutabili e le sue verità, ma siamo noi, coi nostri vocabolari, a parlare del mondo e dei vari modi con cui ci rapportiamo ad esso33. in questo senso il filosofo americano prende le mosse dalla concezione romantica secondo cui «la verità è costruita piuttosto che scoperta; vale a dire, che i linguaggi sono costruiti piuttosto che scoperti, e che la verità è una proprietà delle entità linguistiche, degli enunciati. In questo senso ciò che caratterizza un mutamento culturale, si esplica nel parlare in modo differente »34. Ogni mutamento culturale dunque avviene semplicemente parlando in modo diverso, e questo equivale a dire che i vocabolari non colgono nessuna verità intrinseca, al massimo alcuni sono più utili di altri in determinati contesti. Ma come lo stesso Rorty precisa «questa utilità relativa di determinate espressioni a sua volta non è altro che un invito a parlare […] , e vedere come ce la caviamo»35. La filosofia che l'autore americano ha in mente opera in maniera olistica e pragmatica e ci esorta ad abbandonare ogni approccio che abbia la pretesa di sostituire nozioni obsolete con altre migliori sulla base di criteri di verità. Egli ci invita in sostanza a guardare in faccia la contingenza. Nel percorso che porta alla formulazione del pensiero ironico, è possibile notare come questo si esplichi tramite una sorta di processo di autocoscienza. Tale processo in Rorty investe prima il linguaggio e i vocabolari, prendendo in considerazione l'opera di Davidson36, poi l'io, laddove la speculazione freudiana 33 E' esplicativa in tal senso una frase che Rorty riporta nelle prime pagine dell'opera che riassume il pensiero che fa da sfondo al suo lavoro: «Il mondo non parla. Solo noi parliamo». [Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 13] 34 Ibìdem, p. 14 35 Ibìdem, p. 15 36 In merito al rapporto tra il pensiero di Davidson e Rorty si vedano: Richard Rorty, Il Pragmatimo, Davidson e la verità, in Scritti filosofici, vol. 1, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 176; Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti 1820, Bologna 2018 p. 14, pp. 80-87. 20 costituisce un punto fondamentale, ed infine si giunge all'analisi della contingenza della società liberale che si occupa di chiarire alcune problematiche riguardo al rapporto tra pensiero liberale e razionalismo illuministico. Questa sezione si occuperà in ultima istanza di metter in luce le dicotomie presenti nella trattazione di due autori che Rorty incontrerà spesso nei suoi dibattiti, Foucault e Habermas. Per quanto concerne la filosofia del linguaggio quello che occorre puntualizzare relativamente all'analisi del comparto filosofico davidsoniano è che Rorty attribuisce a quest'ultimo il merito di aver rotto con quella tradizione di pensiero che vedeva nel linguaggio una sorta di mediatore tra l'io e il mondo, e che permetteva quindi di concepirlo come mezzo di rappresentazione della realtà. Seguendo questa interpretazione non si uscirebbe dal dualismo classico tra soggetto e oggetto e quindi dalla logica della rappresentazione per cui un buon linguaggio consente di rappresentare bene l'oggetto cogliendone l'essenza. Secondo Davidson invece, e anche secondo Rorty, la verità non è “scoperta” dai linguaggi, ma sono gli enunciati che creano la verità, o meglio, sono gli esseri umani a farlo, costruendo di volta in volta linguaggi coi quali si formulano enunciati. I vocabolari dunque non vengono concepiti seguendo la metafora del “puzzle” per cui «si presuppone che ogni vocabolario sia qualcosa o di cui si può fare a meno, o riducibile ad altri vocabolari, o in grado di essere unito a tutti gli altri vocabolari per formare un unico super-vocabolario»37. Sia Rorty che Davidson concepiscono i vocabolari in base al loro uso e non ammettono spiegazioni onnicomprensive. In questo senso l'analogia più calzante da prendere in considerazione è quella wittgensteiniana per cui dovremmo pensare alla creazione di nuovi vocabolari come « l'invenzione di nuovi strumenti che prendono il posto di quelli vecchi»38. 37 38 21 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 19 Ibìdem, p. 20; in merito all'analogia Wittgensteiniana uso linguaggio-uso strumenti si veda Ludwig Wittgenstein , Ricerche Filosofiche , Einaudi, Torino, 2009, PARTE PRIMA, pp. 13 e seguenti. Sul tema: Paolo Spinicci, Lezioni sulle Ricerche Filosofiche di Ludwig Wittgenstein, CUEM, Milano 2002 pp. 15-16; Giovanni Piana, Commenti a Wittgenstein, Edizione digitale: dicembre 2002, http://www.filosofia.unimi.it/piana/index.php/commenti-awittgenstein/120-vi-il-linguaggio-e-i-linguaggi, pp. 117-118. Per uno sguardo più dettagliato si veda anche: Aldo Giorgio Gargani, Introduzione a Wittgenstein , Laterza, Roma-Bari 1973 (ultima ed. 2007), pp. 47-55. La lettura che Questa analogia presenta alcune lacune, che lo stesso Rorty metterà in luce. L'artigiano generalmente sa a cosa gli servirà il nuovo strumento, mentre la creazione di un nuovo vocabolario non ne chiarisce il suo scopo, ma esso si può comprendere solo in seguito, dopo una analisi storiografica. Tale approccio permette altresì di cogliere un dato importante. Esso concepisce la storia intellettuale come una “storia di metafore”, dunque non secondo una visione teleologica. In questo senso «il nostro linguaggio e la nostra cultura sono un caso»39, la cui formazione è derivata da molti fatti meramente contingenti. Questo consente di pensare alle rivoluzioni scientifiche della storia come a delle semplici “ridescrizioni metaforiche”. Rorty ci invita a seguire Davidson nella distinzione tra il “letterale” e il “metaforico” che si esplica nella distinzione tra “usi familiari” e “usi insoliti” di rumori e segni. Secondo questa interpretazione: «L'uso letterale di rumori e segni è quello che sappiamo come sfruttare grazie alle nostre vecchie teorie su cosa diranno gli individui in diverse circostanze. L'uso metaforico è quello che ci spinge a industriarci per elaborare una nuova teoria» 40. Ora, se per “avere un significato” si intende quello di detenere un ruolo all'interno di un gioco linguistico, le metafore allora non hanno un significato; questo perché esse non hanno, secondo Davidson, alcun contenuto cognitivo e quindi nessun contenuto di verità. Esse non sono né vere né false, ma il loro obiettivo è semplicemente quello di produrre un effetto, non quello di comunicare un messaggio. Questo chiaramente non significa che una metafora, col tempo, non possa assumere un valore letterale acquistando così, pian piano, un contenuto di verità, ma dipende sempre dall'uso che di quella metafora se ne farà in un determinato contesto. Ciò che Rorty vuole mettere in evidenza è che Davidson concepisce 39 40 22 viene fornita nell'opera aiuta a comprendere come Wittgenstein abbia in qualche modo fatto tesoro delle istanze pragmatiste mosse da Ramsey al suo Tractatus, arrivando poi a concepire nelle Ricerche Filosofiche una nozione strumentale del linguaggio. Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 25 Ibìdem, p. 27 il linguaggio «come noi ora concepiamo l'evoluzione: nuove forme di vita che eliminano continuamente le vecchie... non per realizzare un fine superiore, ma ciecamente» 41. In questo senso la proposta di concepire la verità come qualcosa che viene creato dagli esseri umani piuttosto che scoperto, e che il linguaggio dunque non rappresenta la realtà, si esplica nell'invito wittgensteiniano di “sdivinizzare il mondo” e trova ulteriori appigli nella “battaglia di James contro le diverse forme di assolutismo che derivano dalla ricerca di sostituti filosofici all'idea di Dio”42. Nel medesimo modo in cui l'analisi davidsoniana giunge a questo risultato, così Freud “sdivinizza” la coscienza che Kant aveva invece divinizzato, definendola in ultima istanza una “trama di contingenze” e arrivando così a concepire la scienza, la poesia, il genio, la psicosi e in particolar modo la prudenza e la moralità come delle semplici modalità di adattamento. In questo senso è di vitale importanza, per la speculazione rortiana, la distinzione che Freud opera tra etica pubblica ed etica privata. Rifiutandosi di conciliare le due sfere, di fatto, lo psicanalista austriaco afferma che: «Non vi è nessun ponte tra le due, che non esistono credenze o desideri universalmente condivisi che ci apparterrebbero in quanto esseri umani e che ci unirebbero agli altri uomini semplicemente in quanto uomini»43. Dunque il tentativo kantiano di teorizzare una coscienza morale comune e quello nietzcheano sul superuomo, sono solo alcune tra le diverse modalità di adattamento possibili in relazione alle contingenze della propria cultura. Esse sono delle semplici strategie tramite le quali si può venire a patti con “l'impronta cieca” del caso. 41 42 43 23 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 29 Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti 1820, Bologna 2018 p 110; per quanto riguarda il pensiero jamesiano si veda: The Meaning of Truth (1909), in The Works of William James, vol. 2, Harvard University Press, Cambridge, MA-London, 1975. Per uno sguardo più nel dettaglio in merito alla critica rortiana ad ogni forma di trascendentalismo in relazione agli stessi concetti di verità, si veda: P. Engel, R. Rorty, What's the Use of Truth?, Columbia University Press, New York, 2007 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 45 Secondo Freud, ci dice Rorty, «ogni vita umana è un tentativo di rivestirsi delle proprie metafore»44, con l'unica differenza che alcune metafore fanno presa sugli altri, mentre altre no. In questo senso si può notare come il discorso davidsoniano tra il letterale e il metaforico ritorni nella speculazione freudiana sotto forma di distinzione tra genio e fantasia. Come Rorty fa notare : «Consideriamo “fantasia”[..] ciò che ruota su metafore che non fanno presa sugli altri, vale a dire su modi di parlare o agire di cui gli altri non sanno cosa farsene [..]. Viceversa, quando un'ossessione privata dà origine a una metafora di cui sappiamo cosa fare non parliamo più di eccentricità o perversità, ma di genialità»45. Quello che qui si vuole evidenziare è che qualora seguissimo Freud, si dovrebbe considerare il progresso poetico, artistico, filosofico, politico e scientifico come un caso accidentale in cui una ossessione privata si è vista coincidere con una esigenza pubblica. Ma questo, di rimando, non vuole significare che ogni metafora privata sia una possibile candidata alla letteralizzazione pubblica. Nello stesso modo in cui Rorty in La Filosofia e lo Specchio della Natura ci ricorda che nessun processo di edificazione può avvenire senza acculturazione, anche qui va tenuto presente che la metafora è in qualche modo parassitaria del contesto da cui proviene. In questo senso vale, come in altri frangenti, il monito wittgeinsteniano per cui non esistono dei linguaggi esclusivamente privati 46; un linguaggio che fosse costituito solo da metafore, sarebbe impossibile, o quantomeno inutile. Rorty dunque afferma: «La metafora è sì un uso inconsueto di vecchie parole, ma questo è possibile solo sullo sfondo di altre vecchie parole che continuano a essere impiegate nei modi consueti. Un 44 45 46 24 Ibìdem, p. 48 Ibìdem, p. 9 Per quanto riguarda la questione della “privatezza del linguaggio”/ “privatezza del dolore” e sulla necessità di un criterio di correttezza pubblico si veda: Ludwig Wittgenstein , Ricerche Filosofiche , Einaudi, Torino, 2009, PARTE PRIMA, pp. 108 e seguenti. linguaggio che fosse “tutto una metafora”, non servirebbe a niente, e perciò non sarebbe neanche un linguaggio ma solo un balbettio. Infatti i linguaggi, anche se conveniamo che non sono mezzi di rappresentazione o espressione, rimangono pur sempre mezzi di comunicazione, strumenti di interazione sociale, modi di mettersi alla prova in rapporto agli altri»47. Ora, tale processo di “sdivinizzazione”, per dirsi compiuto, necessita di prendere in considerazione il contesto liberale da cui Rorty stesso proviene. Risulta utile ai fini del discorso un passo di Donatelli che riassume i tratti salienti del pensiero rortiano che trovano espressa collocazione in Philosophy and Social Hope. Donatelli afferma infatti che la tradizione liberale a cui Rorty fa riferimento «è ispirata da due obiettivi fondamentali: quello di consentire la più ampia varietà possibile di singoli caratteri e quello di costruire un pubblico spazio modellato da una solidarietà che tiene a cuore questa libertà e mira a minimizzare la sofferenza»48. Tale tradizione che da Mill giunge sino a Dewey, è incarnata dal pensiero rortiano. Il filosofo americano ha però un obiettivo preciso, che è quello di «riformulare le speranze della società liberale in maniera non razionalista e non universalista». 49 Questo può avvenire riconoscendo la contingenza dei vocabolari pur rimanendo fedeli ad uno di essi, il proprio. E' importante tenere sempre presente, come già ricordato, che per Rorty qualsiasi processo di educazione deve necessariamente prendere le mosse da una acculturazione che non può prescindere da antecedenti stadi di conformità in relazione al contesto in cui ci si trova. In questo caso è possibile rivolgere ancora una volta l'attenzione alla lacuna che Rorty individua nell'analogia wittgeinsteniana “vocabolari-strumenti”. Il rimando è essenziale perché consente al filosofo americano di spiegare e risolvere a sua volta le lacune presenti nel pensiero liberale. Nello stesso modo in cui non siamo in grado di delineare i fini per 47 48 49 25 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 53 Piergiorgio Donatelli, Rorty and Democracy, Iride, Il Mulino-Rivisteweb, Fascicolo 3, Dicembre 2019, p. 618 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 58 cui i vocabolari appena creati saranno i mezzi, ma saremo in grado solo dopo l'eventuale processo di letteralizzazione di individuare una storia del progresso che ne metta in luce gli effetti, allo stesso modo oggi, siamo in grado di cogliere i fini della teoria liberale e scinderli dalle conseguenze del razionalismo illuministico. Come Rorty afferma, in risposta alla critica che Horkeimer e Adorno mossero al liberalismo, questo è possibile perché: «Le parole usate da una cultura matura per paragonarsi odiosamente alle altre culture, per fare l'apologia di se stessa, molto probabilmente non sono le parole che furono impiegate per farla nascere»50. In questo senso è possibile ri-descrivere il liberalismo in maniera tale da conservarne alcuni aspetti e abbandonarne al contempo altri meno fruttuosi e poco funzionali. Alcuni autori come Dewey, Rawls e Oakeshott, secondo Rorty, hanno fatto proprio questo. La critica che essi mossero contro il razionalismo illuministico fu resa possibile proprio da quest'ultimo. Seguendo Oakeshott51 che parte dall'assunto anti-kantiano secondo cui i principi morali sono un semplice “promemoria”, una sorta di breve riassunto esplicativo delle pratiche e dei vocabolari morali e politici, e non la loro giustificazione o legittimazione, ci si chiede se serva ancora conservare il termine “moralità” dopo aver scartato il concetto di “principio morale”. Ora, la risposta che Oakeshott fornisce è molto utile a Rorty perché consente di mettere in evidenza come le sue tesi coincidano con quelle di Sellars, secondo cui «la moralità è relativa alle “intenzioni del noi” (we-intentions)» 52, al contrario ciò che reputiamo 50 51 52 26 Ibìdem, p. 72 I passi di Oakeshott che vengono presi in considerazione da Rorty si trovano in: Michael Oakeshott, Of Human Conduct, Oxford University Press, Oxford, 1975, pp. 78 e seguenti Richard Rorty, Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 75 immorale invece fa riferimento semplicemente a qualcosa che “noi” 53 non facciamo o non siamo abituati a fare. In questo senso Rorty afferma: «Dalla prospettiva di Sellars, come da quella hegeliana, la filosofia morale ha la forma di una risposta alla domanda “Chi siamo ‘noi’, come siamo arrivati a essere ciò che siamo, e cosa potremmo diventare?”, e non di una risposta alla domanda “Quali regole devono dettare le mie azioni?”. In altre parole, la filosofia morale si configura come racconto storico e speculazione utopica e non come ricerca di principi generali. La concezione Oakeshott-Sellars della morale come insieme di pratiche, le nostre pratiche, evidenzia bene il contrasto tra una visione della morale come voce di una parte divinizzata dell'anima e una morale concepita come voce di un prodotto umano contingente, di una comunità sottoposta, nel suo sviluppo, alle vicissitudini del tempo e del caso, uno tra i tanti “esperimenti” della Natura» 54. Ora, prendere in considerazione una prospettiva che “sdivinizzi” il pensiero liberale abbandonando i tratti del razionalismo illuministico, mette di fronte alla necessità di chiarire cosa Rorty intenda quando afferma che «i liberali sono coloro che pensano che la crudeltà è il nostro peggior misfatto»55. In questo senso, cogliere la crudeltà e la sofferenza che gli altri provano si esplica nel concetto più volte ripreso dal filosofo americano che è quello di “solidarietà”. Ma occorre precisare che essa è sempre limitata e circoscritta ai confini di quel “noi” che si identifica nei desideri, negli interessi, nelle gioie e appunto nei dolori condivisi da un certo gruppo di individui più o meno ampio. Ecco perché è 53 54 55 27 Per un analisi più approfondita in merito alla nozione del “noi” in Rorty è utile rimandare agli scambi tra quest'ultimo e il filosofo post-modernista Jean François Lyotard. Nel saggio Cosmopolitismo senza emancipazione:una risposta a Jean François Lyotard [in In Scritti Filosofici, vol. 1, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 285-298] Rorty prende in analisi la posizione dello studioso francese. In tal senso, i due possono dirsi concordare relativamente alla critica mossa alle grandi narrazioni, o quelle che Lyotard chiama “narrazioni legittimanti” [si veda: Jean François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1985, Cap. 7-10, pp. 45 e seguenti], ma quest'ultimo non ammette, diversamente dal filosofo americano, la nozione del “noi” proprio in quanto «affermazione violenta di una posizione privilegiata da parte di una cultura data» [ si vedano: Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti 1820, Bologna 2018 pp. 130-132; Jean François Lyotard, Il postmodernismo spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 55-57]. Richard Rorty, Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 76 Ibìdem, p. 3 importante cogliere il rapporto che intercorre tra “oggettività” e “solidarietà”. Le due cose vanno tenute distinte ed è utile a tal proposito riportare le parole dello stesso Rorty in un passo significativo: «Vi sono due modi fondamentali in cui gli esseri umani riflessivi cercano di attribuire alle loro vite un senso, collocandole in un contesto più ampio. Il primo modo è quello di narrare la storia del contributo che si è dato alla comunità. […] Il secondo modo è quello di descriversi in relazione immediata con una realtà non umana. […] Dirò che le storie del primo gruppo esemplificano il desiderio di solidarietà e che le seconde esemplificano il desiderio di oggettività»56. Se come Rorty però, concepiamo l'oggettività in maniera pragmatistica, allora è possibile stabilire un legame con la solidarietà. Come egli stesso afferma: «Per i pragmatisti il desiderio di oggettività non è il desiderio di sfuggire alle limitazioni della propria comunità, ma semplicemente il desiderio di pervenire al più alto grado possibile di accordo, di estendere quanto più è possibile il riferimento del pronome “noi”»57. In questo senso si delinea l'obiettivo di quella “utopia liberale” che Rorty suggerisce sin dalle prime pagine di La Filosofia dopo la Filosofia, e che consiste nel tentativo di estendere la nostra solidarietà verso gruppi sempre più ampi di individui. Nel delineare i tratti del cittadino di questo “utopico stato liberale” si esplica la figura che fa da perno alla speculazione rortiana in ambito morale, e che per certi versi rappresenta l'intera vita del filosofo americano; la figura in questione è quella dell'ironista liberale. Ora, dopo aver chiarito, seppur in maniera parziale, cosa si intenda per “liberale”, 56 Richard Rorty, Solidarietà od oggettività?, in Scritti filosofici, vol. 1, trad. it. di M. Marraffa, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 29-30 57 Ibìdem, p. 32 28 è necessario soffermarsi sulla definizione di “ironico” che Rorty fornisce nell'introduzione della sua opera: «Uso il termine “ironico” per designare un individuo che guarda a viso aperto la contingenza delle sue credenze e dei suoi desideri più fondamentali, uno che è storicista e nominalista quanto basta per avere abbandonato l'idea che tali credenze e desideri rimandino a qualcosa che sfugge al tempo e al caso»58. Affinché si possa cogliere appieno la figura dell'ironista liberale è necessario mettere in evidenza le differenze che intercorrono tra quest'ultimo e due autori come Michel Foucault, “un ironico che non vuole essere liberale”, e Jürgen Habermas, “un liberale che non vuole essere ironico”59. Per quanto riguarda Foucault, va tenuto presente che il disaccordo con Rorty investe sia l'ambito filosofico che quello politico, dal momento che egli risente della cultura marxista ma la rielabora e la integra con gli insegnamenti tratti dal pensiero di Nietzsche . In questo senso può dirsi ironico nella misura in cui afferma la contingenza dell'io, ma rifiuta la posizione rortiana che ammette, nel processo di sviluppo delle società liberali, una limitazione di alcune libertà in favore della diminuzione delle sofferenze. Ora, Rorty qui coglie un punto essenziale. Nel dichiarare il proprio debito nei confronti della genealogia nietzscheana, Foucault afferma che essa si oppone «al dispiegamento metastorico dei significati ideali e delle indefinite teleologie. S'oppone alla ricerca dell' “origine”»60 . In altre parole egli ritiene, grazie alla genealogia, di aver tra le mani un sicuro dispositivo che consenta di non cadere nella trappola del punto di vista sovrastorico. Per questo motivo il liberalismo viene visto da Foucault in maniera critica, spinto dal desiderio di osservare cosa si nasconda dietro le libertà democratiche e cogliere eventuali nuove forme di costrizione insite in queste ultime 61. 58 59 60 61 29 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 pp. 3-4 Ibìdem, p. 78 Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1977, p. 30 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 78 In tal senso, le limitazioni presenti all'interno delle società liberali non lascerebbero spazio alla creazione di sé, e proprio per questo egli pretende un cambiamento radicale e che la richiesta di autonomia venga incarnata dalle istituzioni. Rorty qui esprime alcune perplessità che vale la pena riportare in quanto consentono di notare come lo studioso francese, nonostante si discosti per certi versi dal pensiero marxista62, ne condivida la tendenza radicale. E' utile in questo caso rimandare alla celebre distinzione che Rorty riassume nella dicotomia “radicali-utopici”; a tal proposito egli afferma: «Per i radicali il mondo sta commettendo un errore fondamentale e molto profondo, al livello – appunto – delle radici; è indispensabile un pensiero altrettanto profondo per scendere fino a questo livello, e soltanto lì, dopo aver tolto di mezzo tutte le apparenze sovrastrutturali, è possibile vedere le cose come sono realmente. Gli utopisti invece non pensano in termini di errore o di profondità, e abbandonano il contrasto fra apparenza di superficie e realtà profonda per quello fra un presente penoso e un possibile futuro meno penoso che s'intravede appena»63. Va da sé che l'ironista liberale, in questo caso, si identifichi nella figura degli utopici. Gli ironici non credono infatti che l'autonomia che Foucault brama sia qualcosa che tutti gli uomini hanno dentro di sé, e nemmeno che essa abbia qualcosa a che fare con il desiderio liberale di far cessare la sofferenza 64. Cosa ancor più importante, secondo Rorty, gli ironici relegano questo desiderio di autonomia alla propria sfera privata. Il filosofo americano qui rimanda ad un orizzonte che viene riproposto, talvolta in maniera indiretta 62 63 64 30 E' importante considerare che l'insegnamento nietzscheano mette Foucault di fronte alla necessità di individuare anche in Marx la tendenza a porre in essere una lettura della realtà da una posizione sovrastorica, in quanto la classe oppressa non deve essere portatrice inevitabile di sviluppo. Richard Rorty, Femminismo e Pragmatismo, contenuto in Verità e Progresso, scritti filosofici, Feltrinelli, 2003, pp.198-199 E' interessante notare come la critica che Rorty qui muove a Foucault sia molto simile a quella mossa da Spivak in Critica della ragione postcoloniale, dove nella sezione dedicata alla Filosofia, si mette in evidenza come sia Foucault che Deleuze, nel tentativo di decostruire una visione sovrastorica della realtà, ne ri-collaudano un'altra senza palesarlo [si veda Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma, 2004, pp.121 128] talaltra con digressioni più o meno ampie, attraverso tutta l'opera. La concezione privatistica del desiderio di autonomia non può essere intesa da Rorty se non prendendo in seria considerazione il punto di vista di una “cultura poeticizzata”. Una volta appresa la contingenza dell'io, come si è potuto notare, saremo in grado di evitare quel “platonismo rovesciato di Nietzsche”, che per certi versi è ciò che viene attribuito allo stesso Foucault, e cadere nell'errore di assolutizzare tale desiderio. Nella sua declinazione rortiana l'autonomia individuale non viene messa da parte, bensì, come il filosofo americano afferma in un passo esplicativo: «Ci contenteremo di concepire ogni vita umana come quel ritessere sempre incompleto, eppure talvolta eroico, di una trama. Comprenderemo che il bisogno consapevole del poeta forte di dimostrare che non è una copia o una replica è solamente un caso particolare di un bisogno inconscio che abbiamo tutti: il bisogno di venire a patti con l'impronta cieca dataci dal caso, di costruirci un io ridescrivendo quell'impronta con parole che siano, anche se solo in margine, nostre»65 . Forte della rinnovata consapevolezza di matrice wittgensteiniana, secondo cui non sono possibili linguaggi puramente privati, l'ironista rortiano coglie però che il bisogno spasmodico del poeta di trovare parole sempre nuove e adeguate per descrivere la propria condizione è per certi versi lo stesso bisogno che ognuno di noi sente di ricercarsi uno spazio proprio e familiare; all'interno dei contesti ordinari di vita, costituiti da gruppi più o meno ampi di individui, ma che si caratterizzano per la vitale necessità di definire i contorni di una sfera privata che mantenga salda l'identità di ogni singola esistenza. Per quanto riguarda invece il confronto con Habermas, qui il disaccordo non è politico, ma si basa su una divergenza di carattere prettamente filosofico. Non è apparentemente in discussione il pensiero liberale, ma il modo in cui questo pensiero debba esser legittimato, giustificato e nel caso del filosofo tedesco dunque, fondato. In 65 31 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 55 questo senso Habermas ricerca dei criteri di validità universale che riabilitino in qualche modo il razionalismo. Nello specifico il percorso habermasiano che porta alla formulazione della celebre teoria dell'etica del discorso, trova la sua specifica collocazione all'interno dell'omonima opera Etica del Discorso pubblicata nel 1983. Qui Habermas assieme al collega Karl-Otto Apel, giunge seguendo la via tracciata nella trattazione precedente, contenuta in Teoria dell'agire comunicativo del 1981, in cui egli individua un particolare tipo di agire, quello comunicativo appunto, che si distingue da quello strategico. Esso si caratterizza come un agire volto naturalmente all'intesa tra soggetti che partecipano all'argomentazione, giacché è implicito e funzionale alla comunicazione linguistica stessa, un punto di vista intersoggettivo che presuppone un rapporto reciproco tra individui. L'attenzione di Habermas si concentra sulle condizioni universali e necessarie che stanno alla base di ogni comunicazione linguistica volta all'intesa, ossia quelle particolari pretese di validità, verità, giustezza e veracità che vengono concepite come presupposti essenziali. Il punto da tenere in considerazione è che questi presupposti che caratterizzano l'agire comunicativo, non hanno solo valenza logico/linguistica ma anche etica. L'intento è infatti quello di fondare un'etica partendo da queste condizioni, che il filosofo tedesco ritiene siano comuni a tutti gli esseri capaci di parlare ed agire. Tale percorso speculativo, porterà infine Habermas alla formulazione dei due celebri principi, “U” e “D”, che fanno da perno all'opera66. Ora, è evidente che una ricerca di questo tipo e più in generale l'approccio filosofico che sottende a tale ricerca, è proprio ciò da cui Rorty tenta in tutti i modi di prendere le distanze. Ma egli non discute in questa sede quelli che sono i risultati oggi conseguiti e il generale consenso attorno al pensiero liberale che lo stesso Habermas persegue e legittima, seppur tramite mezzi e percorsi differenti. L'obiettivo di Rorty è quello di arrivare a concepire il consenso attorno a certi principi, non secondo una serie di premesse che ne decretino la validità universale, ma come egli afferma: 66 32 Per un approfondimento sulla trattazione habermasiana in merito al rapporto tra i principi “U” e “D” si vedano: J. Habermas, Teoria della morale, tr. it. di Vinci-Enzo Trota, Laterza, Roma-Bari 1994, p.8; J. Habermas, Etica del discorso, tr. it. di Emilio Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1985 pp. 70-74 «Voglio vedere gli uomini arrivare liberamente al consenso, al consenso su come attuare scopi condivisi, […] voglio vedere questi scopi condivisi sullo sfondo di un'aumentata consapevolezza della radicale diversità degli scopi personali, del carattere radicalmente poetico di ogni vita individuale e dei fondamenti soltanto poetici della “coscienza del noi” che è alle spalle delle istituzioni sociali»67. In questo senso per “carattere poetico”, come si è potuto notare con Foucault in merito alla nozione di cultura poeticizzata, Rorty intende semplicemente la volontà di ogni individuo di creare se stesso tramite il riconoscimento della contingenza e la consapevolezza che ogni vita non può dirsi completa “perché non c'è nulla da completare”, ma ogni essere umano ha a disposizione una «trama di relazioni da ritessere, una trama che il tempo allunga di giorno in giorno»68. A tutte quelle teorie religiose e soprattutto filosofiche le quali ricercano un fondamento sovrastorico, come la stessa Etica del Discorso habermasiana, Rorty sostituisce, in relazione alla cultura liberale, una “narrazione storica” e nello specifico la narrazione della “nostra” storia. Sono proprio le parole con cui raccontiamo la nostra vita a formare quello che viene definito “vocabolario decisivo” di un individuo. A tal proposito è utile la definizione che di esso fornisce Calcaterra; per vocabolario decisivo si intende: «Un gruppo saldamente coeso di espressioni che alimentano le strategie con cui essi – gli individui – provvedono a giustificare i propri criteri logici e pratici, senza poter essere a loro volta giustificate se non intaccandone la specifica consistenza semantica» 69. In questo senso tutte le nostre pratiche di giustificazione sono necessariamente autoreferenziali, e come la stessa Calcaterra chiarisce a riguardo, esse «non possono essere 67 68 69 33 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. 84-85 Ibìdem, p. 55 Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti, 1820, Bologna 2018 p. 155 fondate su altre basi se non su quelle relative ai meccanismi linguistici di autocreazione individuale e sociale»70. Delineare dunque le caratteristiche di ciò che si intende per “vocabolario decisivo”, consente di approfondire meglio la figura dell'ironico e permette altresì di considerare una definizione più accurata che Rorty fornisce nel capitolo 4 de La Filosofia dopo la Filosofia, dal titolo “Ironia Privata e Speranza Liberale”: «Definirò “ironico” chi soddisfa tre condizioni. Ironico è colui che 1. nutre continuamente profondi dubbi sul suo attuale vocabolario decisivo perché è stato colpito da altri vocabolari, vocabolari decisivi per persone o libri che ha conosciuto; 2. è consapevole del fatto che i suoi dubbi non possono essere né confermati né sciolti da argomenti formulati nel suo attuale vocabolario; 3. nel caso che filosofeggi sulla sua situazione, non ritiene che il proprio vocabolario sia più vicino alla realtà di altri, in contatto con un'autorità esterna»71. Ora, secondo Rorty, per gli ironici la scelta tra diversi vocabolari possibili, non avviene tramite l'utilizzo di un meta-vocabolario neutrale e universale, ma semplicemente confrontando “il vecchio e il nuovo”. Egli definisce la situazione dell'ironico come quella di colui che «non è mai del tutto capace di prendersi sul serio perché è sempre consapevole che le parole con cui si autodescrive sono destinate a cambiare, di chi è sempre cosciente della contingenza e fragilità del suo vocabolario decisivo, e quindi di se stesso»72. In questo senso la figura dell'ironico si contrappone a quella del metafisico. Secondo Rorty laddove la ricerca di quest'ultimo mira ai criteri di verità e a un vocabolario che costituisca l'esatta rappresentazione dell'essenza della realtà, per l'ironico, che è storicista e nominalista, la realtà non ha una sua essenza. Egli non cerca criteri di verità universale, e 70 71 72 34 Ibìdem, p. 155 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 pp. 89-90 Ibìdem, p. 90 diversamente dal metafisico non crede che esista un vocabolario unico a cui fare riferimento; la filosofia che ha in mente il metafisico e che segue la linea platonicokantiana, per l'ironico è solo uno tra i tanti vocabolari particolari che possono essere utilizzati nella ricerca filosofica. Quando egli ricerca un vocabolario nuovo e migliore di quello vecchio, utilizza la metafora della “creazione” invece di quella della “scoperta”, della “diversificazione” piuttosto che della “convergenza” o commensurabilità con uno stato di cose essenziale e preesistente. In questo senso, «la domanda metafisica "what is?" deve essere sostituita dalla domanda pratica "what if?", con il linguaggio che incarna lo strumento migliore attraverso il quale possiamo immaginare e prevedere le conseguenze di tali ipotesi» 73. Il metodo dell'ironista si caratterizza per mettere in contrapposizione e far dialogare i diversi vocabolari. Questa pratica, è nota sotto il nome di dialettica. Ora, il termine deriva chiaramente dalla Fenomenologia dello spirito, e la scelta non è casuale in quanto essa esplica appieno i tratti di quella che Rorty suole indicare come la sostituzione di una terminologia vecchia con una nuova. In questo senso l'opera hegeliana è fondamentale perché secondo il filosofo americano rappresenta l'esempio di una prima “imponente ridescrizione”. Come egli stesso afferma: «Il cosiddetto metodo dialettico hegeliano non è una procedura argomentativa o un modo per ricongiungere il soggetto e l'oggetto ma semplicemente una tecnica letteraria, la capacità di produrre sorprendenti svolte gestaltiche facendo dei sicuri, rapidi passaggi da una terminologia ad un'altra»74. Hegel, ponendo fine alla tradizione platonico-kantiana, di fatto mise in atto una ridescrizione del proprio vocabolario che passò dal confronto tra il nuovo che avanza e il 73 74 35 Sarin Marchetti, Irony and Redescription, Iride, Il Mulino-Rivisteweb, Fascicolo 3, Dicembre 2019, p. 633 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 96 vecchio che in qualche modo viene riutilizzato e superato 75. Questo significa che nella Fenomenologia ogni figura è la riformulazione di una concezione filosofica del passato, dettata dall'esigenza di rigettare il modo in cui l'uomo occidentale aveva fino a quel momento descritto se stesso, il rapporto col proprio contesto di vita, la morale, la religione e la cultura nel suo complesso. Ora, Rorty differentemente da Hegel, pensa che l'arte, come la poesia e la letteratura in genere, non siano differenti dalla filosofia e che quest'ultima non debba ricoprire un ruolo primario rispetto alle altre. Ogni pratica sociale è espressione di un vocabolario, nello stesso modo in cui ogni autore di opere teatrali, poesie, romanzi e opere filosofiche è in qualche modo, secondo il punto di vista ironico, non un “veicolo anonimo di verità” ma una sorta di «abbreviazione per riferirsi a un determinato vocabolario decisivo, con le convinzioni e i desideri caratteristici dei suoi utenti»76. Per questa ragione Rorty, riferendosi alla pratica dialettica, preferisce utilizzare un termine più attuale ed esplicativo di ciò che egli ha in mente quando pensa alla figura dell'ironico, questo termine è critica letteraria. Se si pensa alla dialettica messa in atto da tale figura come a un certo tipo di critica letteraria, ci si rende conto che ciò che sia Hegel che Rorty si sforzano di mettere in atto, consiste nel semplice tentativo di collaudare i vocabolari che alcuni autori hanno escogitato al fine di ridescriversi e costruirsi quindi una identità più calzante di quella tradizionale ormai obsoleta. E come afferma lo stesso Rorty: «Fare confronti, mettere vari autori in contrapposizione, è l'attività principale che oggi viene chiamata “critica letteraria”»77. 75 76 77 36 E' molto utile in tal senso l'analisi fornita da Donatelli poiché aiuta ad avere un quadro chiaro e complessivo in relazione alla svolta che Hegel opera in campo filosofico rompendo con la tradizione precedente che in Kant vede il suo esponente di spicco. In questo senso il filosofo tedesco «rifiuta l’idea che l’impresa scientifica, che egli (Kant) interpreta in termini meccanicistici, esaurisca la conoscenza del mondo. Sulla scorta della tradizione tedesca romantica, entro cui spiccano Herder e Goethe, e in particolare un filosofo da cui tuttavia prenderà le distanze, Friedrich Schelling, immagina una strada alternativa a quella scientifica nella conoscenza del mondo, una strada in cui il mondo pieno di significato non sia quindi recuperato fuori da quello naturale conosciuto dalla scienza» [ Piergiorgio Donatelli, Etica. I classici, le teorie e le linee evolutive, Einaudi, Torino, 2015, pp. 381 e seguenti] Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 97 Ibìdem, pp. 97-98 Del resto qual è l'attività principale del critico letterario se non quella di mettere a confronto alcuni libri con altri libri e i loro relativi contesti? Nello stesso modo in cui non si può giudicare e criticare una persona se non in relazione a differenti altre persone, l'ironico e il critico letterario giudicano e criticano vocabolari e autori confrontandoli con altri. In questo senso i critici letterari costituiscono per l'ironico i suoi “consiglieri morali” non perché abbiano conoscenza di una verità ultima e immutabile a cui fare riferimento, ma semplicemente perché «hanno molta esperienza. Hanno letto più libri e di conseguenza hanno meno possibilità di restare intrappolati nel vocabolario di un unico libro.»78. Ora, è importante considerare che l'utilizzo del termine “critica letteraria” non sia fuori luogo in riferimento ad ambiti filosofico-morali per il semplice fatto che con “letteratura” oggi si intende tutto ciò che è oggetto di critica letteraria. Questo viene chiarito in ultima istanza dallo stesso Rorty che afferma: «La parola “letteratura” oggi abbraccia né più né meno che qualunque libro che potrebbe avere una qualche rilevanza morale, qualunque libro potrebbe mutare la nostra percezione di ciò che è possibile e importante. L'applicazione di questo termine non dipende minimamente dalla presenza, in un libro, di “qualità letterarie”. Dal critico non ci si aspetta più che scopra e analizzi queste qualità ma che faciliti la riflessione morale suggerendo come modificare il canone dei modelli e dei mentori e come allentare – o, se necessario, acuire – le tensioni interne ad esso»79. La nozione rortiana di critica letteraria è un aspetto fondamentale nell'opera poiché consente di comprendere in cosa consista la pratica dell'ironista e di esplicare altresì in che modo tale figura agisca in rapporto ai vari contesti della cultura e in relazione ai propri 78 79 37 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 98-99 Ibìdem, p. 100 simili. Secondo questo punto di vista i filosofi ironici sono intesi come dei critici specializzati nel ri-descrivere i testi metafisici. Il loro obiettivo è infatti quello di invitare il lettore ad abbandonare il vocabolario in cui quei testi sono stati scritti per fargli abbracciare una terminologia inedita e dunque un nuovo modo di concepire se stesso e il proprio contesto di vita. Ma lo sguardo dello studioso americano non si ferma alla sola condizione del filosofo. Non è un caso che egli parli di critica letteraria. E' utile in tal senso soffermarsi sull'attenta analisi che Gargani porta avanti nella prefazione all'opera rortiana. Qui si coglie un punto fondamentale che vale la pena riportare. Se per Rorty infatti la filosofia, cogliendo la contingenza in ogni ambito della cultura, si esplica in una varietà di vocabolari i quali rappresentano ognuno un modo nuovo e differente di osservare il mondo, allora verrà meno anche la necessità di porre in essere una netta distinzione tra i vari ambiti del sapere. In questo senso la filosofia viene intesa come una “pratica testuale per la ridescrizione di noi stessi”80.E' proprio nel seguire tale linea interpretativa che Rorty intende la sua utopia, auspicando ciò che egli stesso definisce una svolta “dalla teoria alla narratività”81. Gargani consente dunque di notare che «una filosofia riavvicinata alla sua dimensione di testualità e di narratività significa per Rorty che la cultura è un dispiegamento di vocabolari decisivi che si confrontano ai fini di una migliore e più ampia ridescrizione di noi stessi»82. Se prendiamo atto dei punti fondamentali di questa analisi, è possibile allora cogliere l'apporto che la nozione di “critica letteraria” concede al panorama culturale dell'occidente. L'ironista rortiano, tramite tale pratica, vuole invitarci a guardare oltre l'inconsistenza delle idee platoniche e del noumeno kantiano, vuole farci notare che dietro ad ogni grande opera metafisica del passato ci furono degli esseri umani in carne e ossa, singole personalità che come ogni poeta, altro non vollero che trovare le parole giuste 80 81 82 38 LA VITA CONTINGENTE, prefazione di Aldo Giorgio Gargani, in Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. XXIV Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 5 LA VITA CONTINGENTE, prefazione di Aldo Giorgio Gargani, in Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. XXV affinché potessero sentirsi confortevoli nei propri abiti e poter intraprendere un percorso a ritroso per ritrovare se stessi e la propria unicità a seguito della pirandelliana dispersione in una collettività informe. Ciò che Richard Rorty e la critica letteraria operano, confrontando vocabolari, testi e autori, è il tentativo di metterci a confronto con noi stessi e coi nostri contesti di vita. In questo senso è chiaro come il lavoro di ridescrizione e confronto debba prima di tutto considerare un orizzonte narrativo all'interno della sfera privata di ogni individuo. Molto banalmente, le parole e le storie con le quali ci confrontiamo e ci descriviamo, devono fare presa su di noi affinché ci si riconosca in esse, in modo da poter aggiungere di volta in volta un racconto nuovo allo scaffale di libri e parole che credevamo troppo colmo per ammetterne delle altre. 39 III. L'Ironista liberale: tra pubblico e privato Mettere a fuoco la figura dell'ironista liberale, la sua rilevanza in ambito morale e aver chiarito cosa si intenda per una critica letteraria, porta inevitabilmente a dover affrontare uno dei temi chiave della speculazione rortiana, che è quello del complesso rapporto tra sfera pubblica e privata. Ora, seguire Rorty nella sua analisi è essenziale ai fini della comprensione del suo progetto. Si può dare per assodato che nelle moderne società liberali il divario tra intellettuali e ambito pubblico sia aumentato. Motivo di ciò, secondo Rorty, è il fatto che la metafisica si sia impadronita della retorica pubblica, relegando romanzi, poesia, opere filosofiche ironiche e la letteratura in genere a una posizione nello spazio pubblico sempre più marginale. Questo ha comportato, nel corso degli anni, che gli intellettuali ironici venissero accusati dai metafisici di essere “irresponsabili”. Le ragioni sono da ricondursi alla posizione di tutti coloro che, come Habermas, affermano la necessità di unire gli scopi pubblici a quelli privati, e nello specifico credono che la filosofia debba basarsi su una prospettiva di tipo politico e che la pratica ironica, per come viene concepita, “distrugga ogni speranza sociale”. La posizione assunta da Rorty porta invece a considerare pubblico e privato come nettamente distinti. Egli ci invita ad abbandonare la tendenza a unificare le due sfere e afferma : «Habermas e gli altri metafisici che diffidano di una concezione puramente “letteraria” della filosofia pensano che per salvaguardare le libertà politiche liberali ci deve essere consenso su ciò che è da considerarsi universalmente umano. Noi ironici e liberali pensiamo che quelle libertà non hanno bisogno di un consenso su qualcosa di più basilare della loro semplice desiderabilità»83. 83 40 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 102 Se per i metafisici dunque la ricerca di una “colla sociale” capace di sostituire la religione va ricondotta a una filosofia che sappia reinterpretare le nozioni illuministiche di “universalità” e “razionalità”, per Rorty, ciò che sostiene la società liberale fa riferimento al semplice consenso «sul fatto che lo scopo dell'ordinamento sociale è di dare a tutti la possibilità di crearsi sfruttando al meglio le proprie capacità, e che per raggiungere questo scopo sono necessarie, oltre alla pace e al benessere, le classiche “libertà borghesi”» 84. In questo senso, ciò che ha reso tali le nostre società non è riconducibile a una essenza intrinseca della razionalità, ma sono semplicemente i fatti contingenti delle storie condivise che hanno favorito e tutelato un certo tipo di istituzioni, di diritti e interessi, e anche una certa concezione dell'identità individuale. Va tenuto presente che la cornice dell'orizzonte rortiano rimane sempre saldamente ancorata ad un anti-autoritarismo concettuale, delineando così i contorni di un umanesimo che Richard Bernstein, collega e amico del filosofo americano, riassume in una frase suggestiva sostenendo che «non c'è nulla su cui possiamo fare affidamento se non noi stessi e gli altri esseri umani», e che «non esiste alcuna autorità esteriore – come Dio, la Verità, o la Realtà – cui richiamarsi» 85 . Per Rorty dunque, le società liberali non sono tenute assieme da convinzioni filosofiche, come sostengono i metafisici, ma da vocabolari comuni, scopi e speranze condivise. Le problematiche sociali che oggi viviamo, per i metafisici sono causate dal fatto che ancora non si sia trovata la giusta teoria morale onnicomprensiva. Per chi, come Rorty, porta avanti un pensiero ironico e al contempo liberale, tali problematiche sono semplicemente l'effetto delle circostanze storiche. Come egli stesso afferma in un passo esplicativo: «L'esistenza delle società moderne, istruite e secolari, non dipende dalla prospettiva di una redenzione nell'oltretomba ma da prospettive politiche sufficientemente concrete, 84 85 41 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 103 Richard J. Bernstein, Sul pragmatismo, L'eredità di Pierce, James e Dewey nel pensiero contemporaneo, Il Saggiatore, Milano, 2015, pp. 242-243 ottimistiche e plausibili. Gli abitanti di queste società, per non perdere la loro fiducia, devono sapersi raccontare storie di miglioramenti futuri e non pensare che vi siano ostacoli insormontabili che ne possano impedire l'avverarsi. Se ultimamente questa fiducia è un po' in difficoltà non è perché i chierici hanno tradito, ma perché il modo in cui sono andate le cose dalla fine della seconda guerra mondiale ha reso più difficile raccontare una storia convincente»86. Si tratta in buona sostanza di sapersi raccontare delle storie migliori, più calzanti e adeguate rispetto a ciò che viviamo giorno per giorno e che permettano di cogliere un'immagine coerente di noi stessi, riconoscendoci in un gruppo sempre più ampio di individui che siamo disposti a concepire all'interno di quel “noi” con cui condividiamo un certo tipo di interessi, speranze e sofferenze. Queste storie consistono in delle ridescrizioni, che per il metafisico devono basarsi su una retorica pubblica capace di unificare l'umanità attorno a un fine prestabilito. Egli mira a un vocabolario unico e non può concepire una sfera privata distinta da quella pubblica. Per l'ironista liberale, ogni ridescrizione passa dal sentire di ogni singolo individuo, dalla propria capacità di immedesimarsi nel proprio e nell'altrui dolore. Le storie che sono in grado di suscitare una risposta e un cambiamento, non riguardano concetti generali e fuori dall'ordinario, ma secondo Rorty, sono storie che parlano del privato, di persone in carne e ossa che si confrontano di volta in volta coi contesti delle proprie vite. In questo senso, per l'ironista liberale l'arduo compito di unire gli uomini tra loro, non è lasciato ai metafisici o a coloro che tentano di raccontare storie dall'alto di un non ben precisato punto neutrale e astorico, ma, come afferma lo stesso filosofo americano: «Nella cultura ironica questo compito è assegnato invece alle discipline specializzate nel descrivere con ricchezza di particolari il privato, l'individuale. In particolare, i romanzi e gli studi etnografici che acuiscono la nostra sensibilità al dolore di chi non parla il nostro 86 42 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 105 linguaggio devono svolgere l'incarico che si pensava svolgessero le ricerche di un'essenza umana universale. La solidarietà dev'essere costruita pezzetto per pezzetto: non è già lì che ci aspetta, sotto forma di un linguaggio primo che al momento buono tutti possiamo riconoscere»87. In questo senso proprio la filosofia, col tempo, ha acquisito una sempre maggior rilevanza per la ricerca del perfezionamento individuale, piuttosto che in relazione all'adempimento di uno scopo politico o sociale. Va da sé che una filosofia di questo tipo non possa fissare a priori dei fini pubblici, ma questo, non vuol dire che non rivesta un ruolo o una utilità all'interno del contesto sociale. La prospettiva non-metafisica di Proust ad esempio, secondo Rorty, ci insegna che i romanzi, e non la teoria, sono uno strumento migliore per cogliere la contingenza delle “figure autoritarie” e questo perché i romanzi «parlano di persone e queste, a differenza delle idee generali e dei vocabolari decisivi, sono chiaramente cose temporali, prese in una rete di fenomeni contingenti» 88. Ora, è necessario però fare delle precisazioni. L'obiettivo di Rorty non è quello di giungere a una retorica pubblica che si fondi sulla pratica ironica. Egli non si spinge sino al punto di concepire una società in cui ogni singolo individuo debba dubitare di sé e del proprio vocabolario89. Ci si può accontentare di essere semplicemente nominalisti e storicisti, almeno per quanto riguarda i non intellettuali. Ciò che preme sottolineare al filosofo americano, è che dalla sua prospettiva, l'ironia è una questione prettamente privata. Lo scopo della speculazione mira a una sfera pubblica che, liberata dagli obiettivi fissati a priori dalla teoria metafisica, si costituisca naturalmente seguendo le vicissitudini che la storia e i vari contesti mettono di fronte agli individui; individui che nella migliore delle ipotesi, se sapranno accogliere la contingenza e abbandonare le matrici del pensiero tradizionale, riusciranno a crearsi una identità migliore e dunque a migliorare anche il quadro politico-sociale nel quale operano, estendendo la solidarietà a gruppi sempre più 87 88 89 43 Ibìdem, p. 115 Ibìdem, p. 131 Ibìdem, pp. 106-107 ampi di persone. In questo senso, è di primaria importanza ribadire la distinzione tra sfera pubblica e privata per non incorrere nell'errore di fissare dei fini pubblici tramite una teoria che non tiene conto di chi quell'ambito pubblico lo costruisce giorno per giorno, a piccoli passi, nel concreto delle proprie singole vite. L'invito di Rorty si esplica in un passo conclusivo al capitolo 6 in La Filosofia dopo la Filosofia: «Dovremmo smettere di cercare un successore del marxismo, una teoria che fonda la rispettabilità e il sublime. Gli ironici dovrebbero accettare l'idea che i loro vocabolari decisivi sono scissi tra il pubblico e il privato, il fatto che tra risolvere i dubbi sul proprio vocabolario e il voler salvare gli altri dal dolore e dall'umiliazione non c'è alcun nesso particolare. Concatenare e ridescrivere le nostre piccole cose importanti non implica – neppure se quelle piccole cose sono libri di filosofia – comprendere qualcosa più grande di noi, come l' “Europa” o la “società”. Dovremmo smettere di voler conciliare l'autocreazione e la politica, soprattutto se siamo liberali. Quella parte del vocabolario decisivo dell'ironico liberale che riguarda l'agire sociale non potrà mai essere incorporata o sorretta dal resto del suo vocabolario»90. Secondo questa prospettiva, la stessa solidarietà, che mira a estendere la percezione di quel “noi” a coloro che in precedenza venivano considerati come “loro”, deriva essenzialmente da circostanze storiche. Essa sarebbe emersa dal semplice sviluppo dei nostri vocabolari che via via sono andati “de-teologizzandosi”. Lo scopo di Rorty è quello di mettere in evidenza una concezione di solidarietà umana abbandonando i suoi presupposti filosofici tradizionalmente intesi. Se ci si muove nella direzione di una maggiore estensione di questo tipo di solidarietà, allora è possibile concepire un progresso morale che consiste «nel saper togliere importanza a più e più differenze tradizionali (tribù, religione, razza, usi e simili) in confronto alla somiglianza nel dolore e 90 44 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 144 nell'umiliazione, nel saper includere nella sfera del “noi” persone immensamente diverse da se stessi»91. Di questo si sostanzia l'utopia liberale rortiana, e in questo modo il filosofo americano concepisce un possibile progresso futuro; una fra le tante possibili alternative ad un pensiero tradizionale che egli ritiene sia arrivato il tempo di abbandonare. 91 45 Ibìdem, p. 221 IV. Ironia-liberale e Decostruzione: le due critiche di Chantal Mouffe e Simon Critchley. 1. Richard Rorty e la teoria del consenso liberale: critica di Chantal Mouffe alla concezione rortiana di democrazia. Come si è potuto constatare nelle pagine precedenti, la speculazione rortiana porta con sé una certa idea del rapporto che intercorre tra sfera pubblica e privata. Lo scopo di questo capitolo è quello di andare più a fondo alla questione mettendo in evidenza alcune problematiche derivanti dall'adozione di tale linea interpretativa. Si affronterà dunque l'analisi di due corpose critiche mosse al comparto filosofico rortiano dalla politologa belga Chantal Mouffe e dal filosofo britannico Simon Ctichley. Questi ultimi ebbero modo di esporre le loro posizioni in un più ampio panorama di interventi, tra cui quello dello stesso Rorty, all'interno di un symposium tenutosi al Collège International de Philosophic a Parigi nel maggio del 1993, organizzato dalla stessa Mouffe, la quale un anno più tardi raccoglierà poi in un volume, che prende il nome di “Deconstruction and Pragmatism”, tutti gli interventi dell'incontro. Ora, come il titolo della raccolta suggerisce, l'argomento principale riguarda la relazione che intercorre tra il Pragmatismo nella sua declinazione rortiana e la Decostruzione di Jacques Derrida, assieme al loro fondamentale contributo nella formulazione di una teoria della democrazia non-fondazionalista. Muovendo da queste due posizioni, gli autori metteranno in luce alcuni tra gli aspetti più controversi dell'approccio ironico, cogliendone altresì i punti di contatto col decostruzionismo. Non è facile poter definire in maniera chiara cosa realmente sia la decostruzione, questo perché una sua caratteristica fondamentale è proprio quella di uscire dalla nozione 46 stessa di definizione. Il termine “decostruzione” compare all'intero della speculazione derridana nel 1967 in Della grammatologia e, come egli stesso afferma, non fu una scelta bensì un'imposizione. In Lettera a un amico giapponese, nel tentativo di dare una connotazione al termine, Derrida dichiara: «Quando ho scelto questa parola (déconstruction), o quando mi si impose, mi pare fosse in De la grammatologie, non pensavo che avrebbe assunto un ruolo così centrale nel discorso che allora mi interessava. Cercavo, tra l’altro, di tradurre e adattare al mio discorso i termini heideggeriani Destruktion o Abbau. In quel contesto essi significavano entrambi un operazione relativa alla struttura o all’architettura tradizionale dei concetti fondatori dell’ontologia o della metafisica occidentale. In francese il termine distruction implicava troppo visibilmente un annichilimento, una riduzione negativa più vicina alla “demolizione” nietzscheana che non all’interpretazione heideggeriana o al tipo di lettura che io proponevo. L’ho quindi scartato. Ricordo che controllai se il termine “déconstruction” (che mi veniva in mente in modo apparentemente molto spontaneo) fosse proprio francese. Lo trovai nel Littré. L’uso grammaticale, quello linguistico o quello retorico si trovano associati ad un uso “macchinale”. Questa associazione mi sembrò felicissima, molto adatta a ciò che tentavo di suggerire» 92. Ora, l'utilizzo del termine “macchinale” fornisce un primo basilare chiarimento sul modo di operare della decostruzione, che è quello di smontare, picchettare, sabotare ogni costruzione in modo da comprendere come sia stato possibile il “montaggio”. Se si tenta di uscire fuori dalla metafora però, anche Derrida incontra diversi ostacoli. Definire la decostruzione infatti determina di per sé una contraddizione, un’impresa che inevitabilmente si scontra con tutto ciò che il filosofo francese intende, appunto, decostruire. Questo perché, ogni definizione avviene per mezzo di un discorso che è emblema di una tradizione onto-metafisica da cui egli intende prendere le distanze. 92 Jacques Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. I, Jaca Book, Milano 2008, p. 8. 47 Pressato dall'inattesa fama che investì il suo termine-non termine egli si impegna nel concedere alcune definizioni negative, così da permettere di inquadrare l'ambito speculativo di riferimento. Derrida dunque afferma: «La decostruzione non esiste da nessuna parte, pura, propria, identica a se stessa, al di fuori della sue iscrizioni in contesti conflittuali e differenziati, non ‘è’ che ciò che si fa e che se ne fa, laddove ha luogo. È difficile oggi dare una definizione univoca o una descrizione adeguata di questo ‘aver luogo’. Questa assenza di definizione univoca non è “oscurantista”, è un rispettoso omaggio a una nuova, nuovissima Aufklärung. […] Se si crede di essersi appropriati o di vedere appropriato qualcosa come la decostruzione al singolare, ci si inganna a priori, e si tratta ancora di un’altra cosa. Ma siccome la decostruzione è sempre “altra cosa”, l’errore non è mai totale o puro»93. In questo senso la decostruzione non è analisi, non è critica, non è metodo, non è atto e non è neanche operazione. Essa non è critica perché quest'ultima è intesa come un certo modo di giudicare, scegliere e discernere kantiano che il filosofo francese intende decostruire. Non è analisi perché non è presente alcuna sintesi, non è metodo perché non può essere espressa da procedure e applicata da specialisti; infine, non è atto perché essa non ha un soggetto agente pur avendo luogo, è evento. La decostruzione non è neppure una operazione dal momento che è qualcosa che è già da sempre all’opera indipendentemente dalla volontà di qualcuno. A tal proposito Derrida afferma: «Non sono io che decostruisco, è l’esperienza di un mondo, di una cultura, di una tradizione filosofica in cui avviene qualcosa che io chiamo “decostruzione”, qualcosa si decostruisce, non funziona, qualcosa si muove, si sta dislocando, disgiungendo o 93 Jacques Derrida, Limited inc., Cortina, Milano 1997, p. 210 48 disaggiustando, e incomincio a prenderne atto; si sta decostruendo e bisogna risponderne»94. La decostruzione non è quindi qualcosa che parte volontariamente dall’esterno per iniziativa individuale, ma è quell’esperienza per cui la stessa tradizione filosofica inizia a mostrare le proprie crepe, i propri dubbi e le proprie angosce. La decostruzione è ciò che travaglia i concetti tradizionali, ciò che non gli consente di chiudersi in una definizione univoca, ma che li apre all'altro, mettendoli a confronto con quel non proprio che non è altro che ospitalità e apertura. Di ciò si sostanzia “l’imperativo categorico derridiano”: decostruire ogni orizzonte d’attesa, ogni pre-comprensione, ogni pre-visione, affinché l’avvenire resti aperto alla venuta dell’altro in quanto irriducibilmente altro. La Decostruzione in questo senso intacca l’ordine dato mostrandone le pieghe e le spaccature attraverso le quali può e deve passare altro. Il gesto decostruttivo dunque, è in buona sostanza l'invito ad un’ospitalità assoluta e incondizionata; esso è la legge morale che prima di ogni diritto particolare è legge di giustizia: «L’apertura all’avvenire è meglio, ecco l’assioma della decostruzione, ciò a partire da cui essa si è sempre mossa in movimento e che la collega, come l’avvenire stesso, alla dignità senza presso dell’alterità, ossia alla giustizia»95. È in questa tensione che si rivela se vogliamo lo spirito affermativo della decostruzione, nel suo rapportarsi all’impossibilità-possibilità dell’evento, in un’attesa senza orizzonte d’attesa come sola condizione di apertura all’altro. Questa pratica, perché pur sempre di pratica si parla, dal momento che l'intento di Derrida è precisamente quello di mettersi in contrapposizione col predominio teorico del pensiero filosofico tradizionale, non vuole assumere un tono distopico e neppure decretare la fine della filosofia in quanto tale, ma solo aprire al suo interno uno spiraglio, scorgendo in tal modo una diversa prospettiva. All'interno del vasto orizzonte strutturalista da cui lo 94 95 Jacques Derrida, Il gusto del segreto (con M. Ferraris), Laterza, Roma-Bari 1997, p. 98. Jacques Derrida, Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, pp. 22-23. 49 stesso Derrida proviene è proprio la concezione di struttura come sistema chiuso, autosufficiente e presente a sé che si intende sabotare. In questo senso egli afferma: « La decostruzione, pur non essendo anti-sistemica, è, però, non solo la ricerca, ma la conseguenza deliberata del fatto che il sistema è impossibile; spesso consiste, in modo regolare e ricorrente, nel fare apparire in ogni preteso sistema, in ogni auto interpretazione del sistema, una forza di dislocazione, un limite alla totalizzazione, nel movimento di sintesi sillogistica»96. Il limite indicato non è altro che quel non proprio che viene rimosso perché è ciò che non consente al sistema di chiudersi, che pone un limite alla sua totalizzazione. Mentre invece «il concetto di struttura centrata è in effetti il concetto di un gioco fondato, costituito sulla base di una immobilità fondatrice e di una certezza rassicurante, anch’essa sottratta al gioco. Sulla base di tale certezza è possibile dominare l’angoscia che nasce sempre da un certo modo di essere implicati nel gioco, di essere presi nel gioco, di essere fin dal principio dentro il gioco» 97. Per “gioco fondato” si intende quel particolare gioco che offre certezza, che rasserena in quanto costituito da una immobilità fondatrice che in ultima istanza si sottrae al gioco stesso. Tale “Immobilità” ha a che fare con il concetto di presenza come fondamento. Presenza che è episteme e che sostanzia il concetto stesso di struttura in relazione a ogni teoria filosofica. Presenza come essere presso sé, come fondamento di un sistema chiuso che non accetta contaminazioni. In sostanza, ogni sistema metafisico del passato, nell'affermarsi e nell'affermare la propria presenza, si è costantemente lasciato dietro un non detto, un “non-presente”. Spinta dalla necessità di definire un sistema che potesse in questo modo affermarsi, la filosofia tradizionale ha chiuso i propri confini, e la decostruzione di Derrida tenta di scovare le crepe all'interno di quei confini rendendo ogni sistema meno presente a sé, dal 96 97 Jacques Derrida, Il gusto del segreto (con M. Ferraris), Laterza, Roma-Bari 1997, p. 6. Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 360. 50 momento che la stessa presenza si basa su una presenza che non viene considerata e che in quanto tale è sistematicamente oscurata. Ora, in questo atteggiamento anti-teorico, anti-metafisico e per certi versi anche antisistematico che si esplica nell'invito a una visione alternativa alla tradizione, è facile riscontrare diverse assonanze con la proposta rortiana. Come Mouffe stessa afferma nella nota introduttiva in Deconstruction and Pragmatism: «Sia Derrida che Rorty sono stati al centro delle controversie, anche perché le implicazioni del loro lavoro minano radicalmente l'approccio razionalista dominante. Mentre le loro prospettive sono molto diverse, il loro comune rifiuto di una concezione fondazionalista della filosofia li colloca dalla stessa parte in svariati dibattiti, in particolare quelli riguardanti l'eredità dell'Illuminismo»98. In questo senso Mouffe condivide con Rorty il rifiuto di una posizione come quella habermasiana, che vede un legame necessario tra razionalismo e democrazia moderna e individua in quest'ultima un «momento dello sviluppo della ragione, collegato all'emergere di forme universalistiche di legge e moralità» 99. Il pensiero rortiano dunque è molto utile nella critica verso tutte quelle scuole di pensiero di matrice kantiana, che mirano all'individuazione di un punto di vista neutrale da cui poter dedurre un principio immutabile, che diriga l'ambito della politica democratica e ne sancisca in qualche modo anche la sua legittimazione. I nostri principi democratici e liberali, sono, sia per Rorty che per Mouffe, solo alcuni possibili giochi linguistici tra tanti altri. La politologa belga concorda dunque sul fatto che sarebbe consigliabile tenere distinti il liberalismo dal razionalismo illuministico. In questo senso ella ritiene che sia fondamentale abbandonare l'idea che, al fine di promuovere le democrazie liberali e i loro principi, sia necessario ricorrere ad argomenti razionali o a verità trascendenti i vari contesti di applicazione di 98 99 51 Deconstruction and Pragmatism, Simon Critchley, Ernesto Laclau, Jacques Derrida and Richard Rorty, edited by Chantal Mouffe, Routledge, London, 1996, p. I Ibìdem , p. 1 tali principi e forme istituzionali. Identificarsi nei valori delle società liberal-democratiche riguarda processi molto più complessi che investono l'ambito pratico, i vari discorsi e i giochi linguistici legati alle pratiche stesse. Il pragmatismo di Richard Rorty, con la sua attenzione verso i vocabolari condivisi può dare un contributo sicuramente maggiore di altre teorie morali universaliste e razionaliste. Come afferma la stessa Mouffe: «Contro il tipo di liberalismo che cerca giustificazioni razionali universali e ritiene che le istituzioni democratiche sarebbero più stabili se si potesse dimostrare che sarebbero state scelte da individui razionali dietro il velo di ignoranza o in una situazione di comunicazione non distorta, il pragmatismo di Rorty ci rammenta i limiti delle rivendicazioni della ragione. Spingendoci a pensare in termini di pratiche, ci obbliga a confrontarci con i problemi reali che devono essere affrontati al fine di rafforzare la cittadinanza democratica»100. Ma se Mouffe condivide con Rorty un generale atteggiamento anti-fondazionalista nei confronti della filosofia, per quanto riguarda l'ambito politico, il suo disaccordo verso il filosofo americano prende corpo nella seconda parte del saggio. Qui viene formulata in maniera precisa una critica, che per molti versi rappresenta uno dei temi principali e ricorrenti all'interno del symposium. Secondo Mouffe infatti, Rorty non prenderebbe adeguatamente sul serio la complessità della sfera politica, abbandonando qualsiasi indagine teorica riguardo la sua natura. Ora, ciò che si vuole mettere in evidenza è che il rifiuto rortiano verso ogni forma di teorizzazione filosofica in ambito politico, implica comunque una certa comprensione della natura di quest'ultima. In buona sostanza Rorty, secondo Mouffe, col suo invito a una “maggiore dose di liberalismo”, che si esplica in un incremento della tolleranza e una minimizzazione della sofferenza, di fatto commette lo stesso errore habermasiano di parlare da un punto di vista neutrale. In questo senso sia 100 52 Chantal Mouffe, Deconstruction, Pragmatism and the Politics of Democracy, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 6 Rorty che Habermas mirano a una universalizzazione del modello liberal-democratico, essi differirebbero semplicemente nelle modalità di attuazione di tale progetto, ma il loro scopo è il medesimo e si esplica in una teoria del consenso liberale. Ora, Mouffe è molto critica a riguardo, in quanto questa prospettiva risulta del tutto miope nei confronti di uno degli aspetti fondamentali della politica democratica che riguarda la pluralità degli interessi in conflitto tra loro. Come ella stessa afferma riferendosi ai due filosofi: «Ciò che essi spazzano via con una simile mossa è una dimensione molto importante della politica democratica. In effetti, la specificità della democrazia liberale come nuova forma politica della società consiste nella legittimazione del conflitto e nel rifiuto di eliminarla attraverso l'imposizione di un ordine autoritario. Una democrazia liberale è soprattutto una democrazia pluralista. La sua novità risiede nell'intendere la diversità delle concezioni del bene, non come qualcosa di negativo che dovrebbe essere soppresso, ma come qualcosa da valutare e celebrare»101. Se prendiamo in considerazione questo approccio, una democrazia pluralista deve necessariamente ammettere il conflitto e gli antagonismi come parte integrante della vita pubblica. In uno scenario del genere, secondo Mouffe, la prospettiva rortiana di una riconciliazione armoniosa, è semplicemente inattuabile e poco conforme alla realtà. Non è ammissibile concepire l'idea di una pluralità di valori senza riconoscere che essi saranno irrimediabilmente in conflitto. Questo però costituisce anche l'elemento dinamico e stimolante che pone la democrazia di fronte a sempre nuove sfide alle relazioni di potere esistenti e alla nascita di sempre nuovi confronti. In questo senso, l'attuazione della utopia liberale rortiana che si esplica nella speranza di estendere quel “noi” a chi in passato veniva considerato come “loro”, per Mouffe, è una mera illusione. 101 53 Ibìdem, p. 8 E' necessario invece prender coscienza della dimensione peculiare del contesto democratico che è quella dell'antagonismo, e come la stessa politologa belga afferma in un passo esplicativo: «La politica, specialmente quella democratica, non potrà mai superare conflitti e divisioni. Il suo scopo è quello di stabilire l'unità in un contesto di conflitto e diversità; riguarda la formazione di un "noi" invece di un "loro". Ciò che è specifico nella politica democratica non è il superamento dell'opposizione noi / loro, ma il modo diverso in cui viene disegnata. Questo è il motivo per cui comprendere la natura della politica democratica richiede di venire a patti con la dimensione dell'antagonismo presente nelle relazioni sociali. Questa dimensione antagonistica - che ho proposto di designare come politica - è precisamente ciò che l'approccio del consenso non è in grado di riconoscere» 102. Secondo Mouffe è proprio in relazione agli antagonismi della dimensione democratica che la speculazione filosofica può giocare un ruolo fondamentale. Nello specifico, il tipo di indagine teorica a cui si fa riferimento è quella che viene resa possibile tramite la decostruzione. Differentemente da ogni teoria che si basa sul consenso, come quella rortiana, l'approccio decostruttivo è molto utile nel mettere in evidenza un aspetto sostanziale, che si esplica nella impossibilità di poter affermare un qualsiasi consenso senza una conseguente esclusione relativa alle istanze di un altro gruppo di individui più o meno ampio. In questo senso, la distinzione operata da Rorty tra sfera pubblica e privata verrebbe messa in discussione, in quanto la pratica decostruttiva, secondo Mouffe, può giocare un ruolo informativo essenziale all'interno della politica democratica, favorendo altresì la comprensione delle le sue stesse dinamiche. A tal proposito è esplicativo uno dei passi conclusivi dell'intervento in cui ella afferma: 102 54 Ibìdem, p. 9 «Un progetto di "democrazia radicale e plurale" informato dalla decostruzione sarà più ricettivo verso la molteplicità delle voci che una società pluralista comprende e verso la complessità della struttura di potere che questa rete di differenze implica. Infatti, sarà in grado di capire che la specificità della moderna democrazia pluralista risiede non in assenza di oppressione e violenza ma in presenza delle istituzioni che consentono a questi aspetti di essere limitati e contestati. E quindi sarà più probabile chiedersi come tali istituzioni possano essere moltiplicate e migliorate. La politica democratica non può fare a meno della riflessione filosofica perché per comprendere le sue stesse dinamiche, deve trarre tutte le conseguenze dal fatto che potere e antagonismo sono inestimabili. Ma questo è esattamente ciò che è reso impossibile quando vengono presentate alcune esclusioni come espressione del "libero esercizio della ragione pubblica". Da qui l'importanza dell'approccio decostruttivo e la sua superiorità su tutti coloro che mirano al consenso»103. In questo senso dunque la decostruzione, secondo Mouffe, svela in maniera chiara come antagonismi e conflitti, che sono le condizioni di possibilità di una democrazia pluralista, costituiscano al contempo le “condizioni di impossibilità del suo raggiungimento finale”. La pratica decostruttiva ci stimola, tenendo sempre viva la contesa democratica, a non cadere nella illusione che “la giustizia possa mai essere istanziata nelle istituzioni di una qualsiasi società”, e ci sprona a ricercare modi sempre nuovi per cogliere e supportare le esclusioni che stanno dietro alle affermazioni del consenso. 103 55 Chantal Mouffe, Deconstruction, Pragmatism and the Politics of Democracy, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 11 2. Ironia e solidarietà, due realtà non conciliabili tra loro. Simon Critchley e la critica all'ironista liberale. Anche la critica portata avanti da Simon Critchley si muove su due binari, uno politico e uno filosofico; questi due piani verranno poi a intrecciarsi reciprocamente. Per quanto riguarda l'ambito politico, il filosofo britannico va a fondo a quelle che sono le implicazioni del pensiero liberale rortiano. Partendo dal presupposto che il liberale, secondo Rorty, è colui che sostiene che la crudeltà sia la peggior cosa che esista, si delinea una società in cui si promuove la tolleranza e che ha come scopo la minimizzazione della sofferenza. In questo senso l'utopia rortiana si esplica nell'immagine di una società di ironisti liberali che mirano a una progressiva universalizzazione della stessa società liberale. A tal proposito Critchley si chiede come il relativismo anti-fondazionale di Rorty possa conciliarsi con una tendenza universalista. Le due cose, secondo questa interpretazione, sono chiaramente inconciliabili e poco coerenti tra loro. Dunque nella sua lettura del pensiero rortiano, Critchley intravede semplicemente la volontà di estendere le frontiere delle democrazie liberali, in un progetto che in ultima istanza auspica una “globalizzazione del liberalismo occidentale”. Ora, pur essendo disposti ad accettare una posizione simile – e Critchley non lo è – è necessario considerare che il liberalismo rortiano è esclusivamente etico-politico e non tiene conto delle implicazioni sul campo economico che esso porta con sé. Come lo stesso filosofo britannico afferma: «La definizione di liberalismo di Rorty è etico / politica e non presta attenzione al liberalismo economico - libertà definita in termini di mercati liberi - che in effetti è in procinto di globalizzarsi rapidamente e violentemente, spesso il più delle volte senza accompagnarsi a un impegno verso la tolleranza e all'orrore per la crudeltà (ad esempio, la Cina si sta affermando con successo come uno stato economicamente liberale e 56 politicamente non liberale). […] Il punto importante da comprendere qui è che il liberalismo indica una forma di società economica oltre che politica e non c'è nulla di necessariamente democratico nello stato economicamente liberale» 104. In questo senso Rorty sembrerebbe non cogliere, e anzi giustificare, quelle che sono le imperfezioni e talvolta le crudeltà perpetrate dalle nostre moderne società liberaldemocratiche. Dunque secondo Critchley, non tenendo conto di tutte queste implicazioni, la trattazione rortiana sembrerebbe riproporre l'inevitabile caduta nelle astrazioni del liberalismo classico senza risolverle o integrarle. Ora, la critica va ancora più a fondo e investe in pieno la figura dell'ironista liberale e le modalità con cui tale figura incarna il rapporto tra sfera pubblica e privata. Riprendendo il politologo statunitense William Connolly, si afferma che Rorty sembri quasi rifiutarsi di portare avanti una seria critica verso la società liberale tramite l'ironia pubblica, evitando in sostanza di mostrare la crudeltà e la violenza, insita proprio nel liberalismo. Il filosofo americano dunque, appare restio nell'avvalersi del ricco potenziale critico di ironisti pubblici quali Foucault e Nietzsche ad esempio. Un altro punto critico secondo Critchley riguarda la concezione rortiana di libertà, che si caratterizza per essere ancora legata ad un'interpretazione negativa; a quest'ultima il filosofo britannico oppone invece una concezione hegeliana di libertà pubblica e quindi positiva. In questo senso, secondo Critchley, il pensiero rortiano sembrerebbe affermare che: «La libertà è definita negativamente, vale a dire che si è liberi nella misura in cui ci si può allontanare dalle istituzioni sociali. La libertà politica, per Rorty, è semplicemente "essere lasciati soli" [...]; o, più polemicamente, scrive "I miei scopi privati ... non sono affari tuoi" [...]. Contro questa concezione negativa della libertà, è importante evidenziare una concezione positiva della libertà, in cui la libertà non sarebbe trovata in assenza di un 104 57 Simon Critchley, Deconstruction and Pragmatism – Is Derrida a Private Ironist or a Public Liberal?, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 23 vincolo normativo, ma piuttosto – secondo una linea di pensiero più hegeliana – che la libertà sarebbe precisamente un prodotto di tali vincoli normativi (ossia pratiche sociali), vale a dire, la libertà sarebbe sociale e pubblica e non sociale e privata» 105. Ora, una questione fondamentale riguarda le modalità con cui l'ironista liberale rortiano coniuga le due sfere, pubblica e privata. Critchley si chiede in buona sostanza come sia possibile far convivere assieme l'ironista privato e il liberale nella sua declinazione pubblico-sociale. Le due realtà, secondo il filosofo britannico, per come Rorty le intende, sembrerebbero inconciliabili e in un certo senso in contrasto tra loro. Egli pone dunque la seguente questione: « Come si può essere un ironista nietzscheano nella sfera privata, il che significherebbe comprendere i principi liberali di tolleranza e orrore della crudeltà come sintomi di risentimento, e un liberale nella sfera pubblica in cui si rispetterebbero e si agirebbe secondo tali principi? La distinzione pubblica / privata del sé nell'ironista e nel liberale non produce un bi-cameralismo psicologico impossibile, che sarebbe una ricetta per il cinismo politico (Nietzsche in agguato dietro una maschera milliana)?» 106 Secondo questa lettura, il problema non verrebbe affrontato in maniera convincente dalla trattazione rortiana e finirebbe per lasciar emergere un vero e proprio conflitto psicologico. In ultima istanza Rorty, secondo Critchley, tenta di coniugare l'ironico e il liberale eliminando da quest'ultimo la sua disposizione metafisica e progressista – una storta di liberale con meno speranza sociale dei metafisici. A tal proposito, il filosofo britannico si chiede se l'appello liberale a una progressiva minimizzazione della crudeltà e della sofferenza costituisca o meno la formulazione di un principio universale o si stia in qualche modo fondando un obbligo morale. In questo senso Critchley afferma che qualora 105 106 58 Ibìdem, p. 25 Simon Critchley, Deconstruction and Pragmatism – Is Derrida a Private Ironist or a Public Liberal?, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 25 si stesse formulando un tale principio, esso sarebbe chiaramente in contrasto con la posizione anti-fondazionalista, in caso contrario risulterebbe difficile comprendere come l'appello alla minimizzazione della sofferenza possa portare con sé un qualche potere vincolante verso i membri della società. Ad avvalorare la tesi del filosofo britannico, vengono riportate alcune affermazioni di Rorty in Contingency, Irony and Solidarity circa il carattere prelinguistico della sofferenza e della suscettibilità al dolore. Secondo Critchley questo, contribuirebbe a condurre Rorty sulla strada del fondazionalismo e quindi, in buona sostanza, ad affermarne la contraddittorietà del suo pensiero. Come egli stesso dichiara in un passo significativo a riguardo: «Rorty prosegue qualificando l'orrore della crudeltà affermando che il riconoscimento di una suscettibilità verso l'umiliazione è l'unico legame sociale necessario, e inoltre che questa suscettibilità al dolore è prelinguistica; la sofferenza ha luogo al di fuori della lingua […] . A mio avviso, ciò sembrerebbe fondare la definizione di liberale di Rorty in un fatto universale sulla natura umana. Pertanto, la definizione di liberalismo di Rorty non è forse un tentativo di fondare la legittimità morale dell'ordine politico in un'affermazione sullo stato di natura prepolitica, in un modo che è strategicamente simile all'appello di Rousseau alla pietà nel Secondo Discorso, che è definito come una disposizione senziente pre-sociale e pre-razionale che provoca compassione di fronte alla sofferenza dell'altro? Non stiamo offrendo qui una nuova descrizione di un criterio per obbligo morale fondato sulla ragione ma sulla risposta alla sofferenza, un criterio che può essere trovato anche nell'argomento di Bentham per l'estensione degli obblighi morali verso gli animali, “La domanda non è, Possono ragionare? né possono parlare? ma possono soffrire?” »107. Secondo questa interpretazione dunque, Rorty in ultima istanza, finirebbe per basare l'obbligo morale e la stessa pratica politica sulla suscettibilità verso la sofferenza degli altri, 107 59 Simon Critchley, Deconstruction and Pragmatism – Is Derrida a Private Ironist or a Public Liberal?, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 26 che si esplica in quel concetto più volte ripreso dallo stesso filosofo americano che è la solidarietà umana. Tutto ciò porta Critchley a porre una domanda che fa da sfondo alla sua complessiva critica nei confronti della teoria ironica: “La crudeltà è qualcosa riguardo la quale il liberale può essere ironico?”. In conclusione all'intervento egli affronta poi, come Mouffe, la questione relativa al rapporto che intercorre tra il pensiero rortiano e la decostruzione di Derrida. In Contingency, Irony and Solidarity Rorty si sofferma in maniera attenta sulla figura del filosofo decostruzionista francese. Da questa trattazione Critchley prenderà spunto per portare avanti la sua analisi. Ora, nell'opera rortiana, si considera l'interpretazione che della decostruzione viene offerta da Gasché108 per cui il pensiero derridiano si costituisce in un primo livello prelinguistico, che serva da fondamento e che stabilisca le premesse per il secondo livello in cui questi principi vengon poi ad attuarsi. In questo senso Rorty è estremamente critico nei confronti di tale posizione, dal momento che secondo lui non esiste nessun livello prelinguistico e pertanto, l'interpretazione “quasi-trascendentale” di Gasché è da ritenersi errata. L'unica distinzione da prendere sul serio è invece quella tra una forma di linguaggio pubblico e una privata. L'errore di molti interpreti di Derrida sta proprio, secondo Rorty, nel non tener separati i due ambiti argomentativi e di includere il filosofo francese in quello pubblico, mentre sarebbe più utile considerarlo come un ironista privato. Questo però, secondo la lettura di Critchley, è possibile solo attraverso la mossa rortiana di scindere le fasi del lavoro di Derrida in una prima, più acerba, accademica e professorale e in una seconda, personale, eccentrica e originale che si caratterizza per mettere in evidenza l'animo ironico e privato dell'autore. La conclusione a cui arriva Critchley è che: 108 60 In merito alle teorie di Gasché sul pensiero di Derrida si veda: Rodolphe Gasché, The Tain of the Mirror: Derrida and the Philosopht of Reflection, Harvard University Press, Cambridge, (Mass.) 1986 «La conseguenza di questa tesi di sviluppo è che il lavoro di Derrida non ha alcun significato etico, politico o pubblico in quanto ha rinunciato al tentativo di conciliare teoricamente pubblico e privato»109. Ora, nonostante il filosofo britannico metta in discussione le conclusioni del pensiero rortiano, egli non accetta neppure l'interpretazione quasi-trascendentale di Gasché. Questi due approcci tendono a generare un insanabile contrasto tra il trascendentale e il pragmatico. Secondo Critchley, non c'è nessuna netta separazione tra ambito pubblico e privato, ma al contrario, egli vede nel lavoro decostruttivo un'assoluta continuità. Se un passaggio è effettivamente avvenuto, esso è da ravvisarsi nell'utilizzo di un metalinguaggio e di un linguaggio, e ciò si esplica nella distinzione tra una sfera costitutiva e una performativa. Ma va sottolineato, per Critchley questo non segna una separazione nel lavoro derridiano, tanto da poter affermare che nel concreto questo passaggio sia avvenuto in maniera sistematica e distinta. Egli stesso nutre seri dubbi sul fatto che anche i lavori più recenti di Derrida, ad esempio, possano esser ascritti a una fase teorica o performativa, ma piuttosto essi presentano i tratti di uno stile quasifenomenologico. A tal proposito è utile ai fini della trattazione riportare per intero un passo decisivo: «Pertanto, lo sviluppo del lavoro di Derrida, se ce n'è uno, e questo dovrebbe essere tracciato nel dettaglio (nella mia esperienza di lettura di Derrida, più ci si avvicina, più è difficile trovare una differenza sostanziale tra il lavoro precedente e quello successivo; rimango sempre stupito dalla straordinaria continuità tematica del lavoro di Derrida e dalla persistenza delle sue preoccupazioni centrali), non si ritroverà in alcun passaggio dal pubblico al privato, ma dal meta-linguaggio al linguaggio, dall'espressione costitutiva a quella performativa, permettendo al performativo di traboccare costantemente nel 109 61 Simon Critchley, Deconstruction and Pragmatism – Is Derrida a Private Ironist or a Public Liberal?, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 31 costitutivo. Eppure, scrivendo ora, quasi venti anni dopo la pubblicazione di Glas e tredici anni dopo la pubblicazione di La Carte postale, c'è anche un grosso problema su come comprendere il lavoro più recente di Derrida, in cui gli esperimenti performativi degli anni '70 non sono stati perseguiti così a lungo […] e laddove il lavoro di Derrida è stato, a mio avviso, dominato quasi completamente dalla questione pubblica della responsabilità, sia etica, politica, sessuale, testuale, legale o istituzionale. Per affrontare questi problemi, suggerirei – al contrario - che lo stile di Derrida non è diventato né teorico né performativo, ma quasifenomenologico»110. Delineare i tratti di una continuità all'interno del pensiero derridiano serve a Critchley per affermare, differentemente da Rorty, anche il legame necessario che intercorre tra sfera pubblica e privata. A tal proposito egli giunge alla medesima conclusione a cui arriva Mouffe. Parafrasando lo stesso Derrida si sostiene l'aporia della decostruzione, la cui condizione si esplica nella impossibile esperienza di quella giustizia che in nessun modo può e deve concretizzarsi nel regno pubblico, e tale da potersi identificare in un vero e proprio “ideale regolativo” in senso kantiano 111. In questo senso la pratica decostruttiva svolge un ruolo essenziale come mediatore tra sfera pubblica e privata e al contempo ne sancisce la relativa continuità. Contrariamente a quanto afferma Rorty, Critchley, riprendendo dagli scritti derridiani, afferma che la decostruzione si basa su una idea di giustizia che attinge dal regno pubblico e non solo da quello privato; impegnandosi dunque in uno slancio fondazionale, inteso nel senso di un approccio non pragmatista verso la giustizia che non può essere relativizzato, seppur impossibile nella sua realizzazione finale, ma che inevitabilmente oltrepassa la contingenza dei singoli contesti pratici. All'interno di una siffatta cornice 110 111 Simon Critchley, Deconstruction and Pragmatism – Is Derrida a Private Ironist or a Public Liberal?, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 32 Si vedano : Derrida, J. (1962), Introduction to L’Origine de la géométric, Paris, Presses Universitaires de France; Derrida, J. (1992), ‘Force of Law: The “Mystical Foundation of Authority’”, in D.Cornell, M.Rosenfeld and D.G.Carlson (eds), Deconstruction and the Possibility of Justice, London and New York, Routledge. 62 liberale , Critchley in ultima istanza, si chiede se un pragmatismo come quello di Rorty, che si impegna anch'esso in una posizione liberale, possa rimanere pragmatismo sino in fondo, e come egli afferma nel passo conclusivo al suo intervento: «L'interessante domanda di controbilanciamento che questo saggio ha sollevato è se il pragmatismo di Rorty sia in realtà pragmatista fino in fondo; o se il suo impegno per il liberalismo - in termini di un'affermazione non relativizzabile circa la suscettibilità degli esseri umani alla sofferenza e la necessità di minimizzare la crudeltà - trasgredisce i limiti del pragmatismo di Rorty. Il pragmatismo può mantenere una via autentica e non cinica?»112. 112 63 Simon Critchley, Deconstruction and Pragmatism – Is Derrida a Private Ironist or a Public Liberal?, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 38 V. Sulla possibilità di una pratica Ironica-Liberale. Risposta alle critiche dei decostruzionisti. 1. Una concezione alternativa di democrazia. In risposta a Chantal Mouffe Lo scopo di questo capitolo è quello di risolvere le questioni in sospeso e dare una risposta esaustiva alle critiche mosse da Mouffe e Critchley, appartenenti al versante decostruzionista, fornendo altresì una visione più chiara di cosa intenda Rorty per “ironista-liberale” e di come egli concepisca il rapporto tra pubblico e privato. Si tenterà in ultima istanza di concedere alcuni spunti ed eventuali integrazioni, laddove possibile, alla stessa proposta rortiana. Contestualmente alle argomentazioni fornite da Mouffe secondo cui la speculazione del filosofo americano si ridurrebbe a una teoria del consenso liberale molto simile a quella habermasiana, va ricordato innanzi tutto che lo stesso Rorty non nega la vicinanza politica col filosofo tedesco, e che il disaccordo riguarda esclusivamente una “procedura”, per dirla alla Habermas, di tipo filosofico. Questo non significa però che l'approccio all'ambito pubblico non risenta di queste scelte. E' importante tener presente che ci sono delle differenze sostanziali tra Rorty e il collega tedesco. Come consente di notare anche Richard Bernstein, che non a caso individua nella proposta habermasiana ciò che prende il nome di “Pragmatismo Kantiano”, il filosofo della Scuola di Francoforte 64 unisce realismo epistemologico e costruttivismo morale, rimandando chiaramente alla distinzione kantiana tra ragione teoretica e pratica; laddove, «la ragione teoretica riguarda la verità, e si occupa di un mondo oggettivo che è indipendente da noi. La ragione pratica (nella morale) ha a che fare con la costruzione e la validazione delle norme morali universali»113. Nella declinazione habermasiana ciò si esplica nella celebre distinzione tra “azione” e “discorso”(argomentativo), in cui è il discorso a porre in essere un concetto di “verità bifronte”, in quanto verrebbe esso stesso a scindersi in un discorso pratico relativo ai contesti dell'agire, e in un discorso teoretico che riguarda più propriamente il discorso razionale114. Ora, tale posizione viene rigettata completamente da Rorty, che sostiene la non praticabilità di una distinzione tra un fantomatico discorso razionale e i contesti dell'agire; in questo senso egli afferma: «Quando Habermas pone la distinzione tra “due ruoli pragmatici […] giocati dal concetto bifronte di verità rispettivamente nei contesti dell'agire e nei discorsi razionali”, e quando prosegue affermando che “il concetto di verità permette la traduzione di certezze comportamentali che sono state messe in discussione in proposizioni problematizzate”, io controreplicherei col dire che sta ignorando l'argomento di Peirce, per il quale le credenze sono solo abitudini d'azione. Un discorso razionale è solo un altro contesto-azione in cui una certezza comportamentale si manifesta. Non esiste alcun Giano bifronte da inscenare, e alcuna traduzione da eseguire»115. Nonostante lo stesso Bernstein non si spinga, come Rorty, a negare l'utilità della distinzione tra azione e discorso, rimane comunque molto critico riguardo la rigorosa 113 114 115 65 Richard J. Bernstein, Sul Pragmatismo, l'eredità di Peirce, James, Dewey nel pensiero contemporaneo, Il Saggiatore, Milano, 2015, p. 215 In merito al passaggio dall'agire al discorso e il ruolo pragmatico di una “verità bifronte” si veda: Jürgen Habermas, Verità e Giustificazione, Saggi filosofici, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 284-285 Richard Rorty, «Response to Jürgen Habermas» in, Robert Brandom, Rorty and his Critics, Blackwell, Oxford, p. 57 separazione dei due piani che anche secondo la sua visione più moderata, non coglie la questione nella sua interezza. Il conseguente passaggio della speculazione habermasiana porta infatti a parlare di “visioni del mondo etiche” e particolari e di un “punto di vista morale” universale, che conduce a sua volta a opporre una “moralità universale di giustizia” a una “particolare etica della vita buona”116. Bernstein qui è abbastanza chiaro, e le sue conclusioni non sono poi molto divergenti da quelle rortiane in merito: «Qui ci piacerebbe che Habermas fosse più pragmatico e che riconoscesse come i nostri valori e le nostre norme formino una continuità dinamica e mobile, tale che alcuni valori e norme risultino più particolari e altri più universali. […] Al meglio, la definizione universale di ciò che Habermas chiama punto di vista morale è un'aspirazione in grado di assumere significati concreti radicalmente differenti, e pertanto incompatibili, di nuove circostanze storiche. Al peggio, è puramente formale e vuota» 117. Da questa breve analisi emerge dunque la complessità del rapporto tra il pensiero habermasiano e quello rortiano, e la conseguente difficoltà che ne deriva dal tentativo di assimilarli in maniera troppo semplicistica. Va da sé che i due approcci, portano chiaramente a due esiti differenti anche all'interno della stessa concezione del pensiero liberale e della sua applicazione nella vita pratica degli individui. In questo senso è fondamentale richiamare ad un'altra dura critica mossa da Mouffe al comparto della speculazione rortiana. La politologa belga accusa Rorty di non tenere conto di un aspetto 116 117 66 Per uno sguardo più approfondito in merito alla formazione del “punto di vista morale”, si vedano: J. Habermas, Teoria della morale, tr. it. di Vinci-Enzo Trota, Laterza, Roma-Bari 1994, pp 19 e seguenti; J. Habermas, Etica del discorso, tr. it. di Emilio Agazzi, Laterza, Roma-Bari, 1985, pp. 73-74; va precisato che le accuse di astratto formalismo mosse al comparto kantiano da Hegel riportate dallo stesso Habermas in Teoria della morale, e utilizzate contro di lui dai suoi detrattori (si veda a tal proposito: G. Cunico, Critica e ragione utopica: a confronto con Habermas e Bloch, Marietti, Genova, 1988), non sono in alcun modo ascrivibili al pensiero rortiano. Richard J. Bernstein, Sul Pragmatismo, l'eredità di Peirce, James, Dewey nel pensiero contemporaneo, Il Saggiatore, Milano, 2015, p. 226 essenziale della democrazia pluralista che è quello del conflitto e dell'antagonismo, un aspetto imprescindibile se si considera qualsiasi forma di vita democratica. Ora, questa affermazione presenta alcune criticità. Se ci si sofferma sulla posizione rortiana espressa in Femminismo e Pragmatismo118, appare evidente che la questione è molto più complessa. Anche qui la posizione pragmatista si contrappone alle istanze decostruzioniste del pensiero femminista. In questo senso l'opportunità di avviare un proficuo dialogo tra le due teorie, si ebbe tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta. Nel concreto però, alquanto di rado il pragmatismo è stato effettivamente utilizzato come punto di riferimento nella formulazione delle teorie femministe, e al suo posto si sono preferiti collegamenti più fruttuosi con il post-strutturalismo e il postmarxismo. E' in questi anni che Rorty pubblicherà il suo articolo, nel quale tenterà di indicare le affinità tra la proposta filosofica pragmatista di Dewey integrandola con la propria e “le istanze decostruzioniste del pensiero femminista”119. Non è negli obiettivi di questo lavoro andare a fondo alle motivazioni di tale mancato connubio, anche se potrebbe risultare utile per comprendere meglio i rapporti tra pragmatismo e decostruzione; ma ciò che va tenuto presente è che in questo articolo Rorty fornisce alcune indicazioni che lasciano intendere in maniera evidente che il suo scopo non sia quello di ignorare il conflitto e gli antagonismi all'interno della società, quanto quello di risolverli e di proporre una visione alternativa che si discosti dal tradizionale orizzonte metafisico delle stesse femministe occidentali prese in esame. Va precisato che qui, la corrente femminista a cui Rorty fa riferimento, è quella che Botti, nel suo Le etiche della diversità culturale, definisce “femminismo liberale universalista” 120,che si caratterizza per essere un approccio «principalmente preoccupato di raggiungere giustizia e uguaglianza 118 119 120 67 Richard Rorty; Verità e Progresso. Scritti filosofici; Feltrinelli; 2003; Milano Si veda: Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti 1820, Bologna 2018 pp. 167 e seguenti. Si veda: Caterina Botti, Le etiche della diversità culturale, Le Lettere, Firenze, 2013, pp. 103-130. per le donne»121. Ora, è proprio nel tentativo di delineare una distinzione tra l'approccio pragmatista e quello realista-universalista che Rorty, seguendo Dewey, dichiara: «Il mondo morale non è diviso a metà fra l'intrinsecamente per bene e l'intrinsecamente abominevole, ma si ripartisce fra beni di gruppi e periodi storici diversi. Come dice Dewey “Il peggio, o il male, è un bene rifiutato. Prima del rifiuto fa concorrenza agli altri beni; dopo il rifiuto non è considerato un bene minore, ma il male di quella certa situazione”. Da un punto di vista deweyano la sostituzione di una specie con un'altra in una nicchia ecologica data, la schiavizzazione di una tribù o razza umana da parte di un'altra o quella delle femmine umane da parte dei maschi non sono dei mali intrinseci; l'ultima, in particolare, è un bene rifiutato, e a farlo rifiutare è il bene maggiore reso oggi immaginabile dal femminismo» 122. Ora, secondo Rorty, che questo bene, oggi, venga preso in considerazione dalla comunità dei parlanti, non dipende dal fatto che si sia scoperta una “cosa”, la piena dignità umana, che anche le donne possiedono, ma riguarda semplicemente il fatto che un certo gruppo di individui, in questo caso le femmine della specie umana, abbia creato una propria voce, un proprio vocabolario condiviso capace di esser compreso e di venire a patti col resto delle altre voci che compongono la società. Affinché un gruppo riesca a porre in essere la propria forza morale è necessario dunque che esso acquisisca ciò che Rorty chiama, citando Frye, una “autorità semantica” sui propri membri. 121 122 68 Ibìdem, p. 108; All'interno del paragrafo vengono analizzati due esempi paradigmatici di questo approccio, quello di Okin e Nussbaum. Con riferimento a quest'ultima si dichiara che ella mira a «formulare una teoria della giustizia finalizzata alla tutela e alla promozione delle sfere fondamentali di funzionamento, o alla conquista della loro agibilità da parte di chi ne sia privo (come le donne in molti paesi), anche attraverso il riconoscimento e la rivendicazione di diritti umani e l’attuazione di politiche che li difendano e promuovano» (p. 112). Questo, come si vedrà, è esattamente l'approccio da cui Rorty cerca di prendere le distanze e che mira a riformulare in termini pragmatisti. Richard Rorty; Verità e Progresso. Scritti filosofici; Feltrinelli; 2003; Milano p. 194; la citazione di Dewey presente all'interno del passo è contenuta in: John Dewey, Human Nature and Conduct, Dover Publications, Inc, New York, 2002, p. 278. Nell'estendere questa posizione, non solo alla problematica femminista, ma anche ad altri gruppi di individui le cui istanze costituiscono materia di dibattito pubblico, si afferma: «Per descrivere l'acquisizione della piena personità da pragmatista e non da realista bisogna pensare negli stessi termini tale acquisizione da parte dei neri, dei gay, o delle donne e da parte degli scienziati galileiani o dei poeti romantici. Noi diciamo che questi gruppi hanno inventato per se stessi una nuova identità morale acquisendo autorità semantica su se stessi, e col passare del tempo son riusciti a far diventare il linguaggio da loro creato una parte di quello parlato da tutti. Dobbiamo analogamente, pensare i neri, i gay, le donne come gruppi che non scoprono ma inventano se stessi, così che la società circostante deve venire a patti con qualcosa di nuovo»123. In questo senso appare chiaro dunque come Rorty non ignori affatto il conflitto e gli antagonismi delle nostre società democratiche, ma che al contrario, nell'abbandonare la posizione realista e radicale di un punto di vista neutrale, egli affermi la necessità di una fase di separazione da parte di ogni gruppo oppresso. Il filosofo americano sceglie di lasciare nelle loro mani la responsabilità di sviluppare liberamente le proprie capacità ironiche di ridescrizione e la possibilità di re-inventare di volta in volta la propria identità con parole sempre nuove; identità che una volta formatasi, verrà assimilata, e a sua volta influenzerà il modo di parlare e concepire se stessi dell'intero contesto sociale in cui tale gruppo ha operato. 123 69 Richard Rorty; Verità e Progresso. Scritti filosofici; Feltrinelli; 2003; Milano p. 204 2. L'ironista liberale, un connubio possibile. In risposta a Simon Critchley. Per quanto riguarda Critchley, come si è potuto notare, quest'ultimo si ricollega in maniera più o meno diretta alla critica mossa da Mouffe, la quale accusa Rorty di avvicinarsi in buona sostanza al pensiero habermasiano finendo col rendere la sua proposta una semplice teoria del consenso liberale. Il filosofo britannico va più a fondo alla questione. Analizzando accuratamente l'approccio rortiano, egli conclude che quest'ultimo si esplica in una generale estensione e universalizzazione della concezione liberale classica. Ora, è necessario porre in essere alcune precisazioni doverose. All'interno de La Filosofia dopo la Filosofia lo stesso Rorty mette in evidenza la propria volontà di utilizzare una nozione di liberalismo politico scissa dal razionalismo illuministico. Ciò emerge chiaramente nel momento in cui si mette a confronto tale tentativo con la critica mossa da Horkheimer e Adorno, per i quali il liberalismo sarebbe fallito assieme all'illuminismo. Come si è potuto constatare nei capitoli precedenti, secondo Rorty, la critica verso una determinata cultura del passato non necessariamente deve esser condotta con lo stesso vocabolario di quella medesima cultura, anzi, quasi mai è così. Per questo è possibile parlare di un liberalismo, senza per forza rimandare ai suoi presupposti filosofici illuministici124. Il tentativo rortiano si muove proprio su tale binario. In questo senso, anche da una prima analisi appare quantomeno problematico affermare che il pensiero del filosofo americano miri a estendere un concetto classico di liberalismo. A tal proposito è molto utile l'analisi fornita da Donatelli 125 secondo cui il liberalismo tradizionale, in Rorty, non viene semplicemente integrato, ma completamente rivisto. Egli mette in atto tale rivisitazione facendo due mosse, una sostanziale e una di natura metodologica. In sintesi, 124 125 70 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 pp. 71 e seguenti; per un approfondimento circa la critica di Horkheimer e Adorno si veda: Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino, 1966. Piergiorgio Donatelli, Rorty and Democracy, Iride, Il Mulino-Rivisteweb, Fascicolo 3, Dicembre 2019, pp. 616630. secondo la mossa sostanziale, la società liberale è quella che è riuscita a liberarsi dagli standard di giudizio esterni alla società umana; la mossa metodologica mira invece ad affermare che la filosofia, o meglio un certo tipo di filosofia, potrebbe ostacolare il lavoro di ridescrizione e quindi anche la difesa della stessa società liberale 126. Una distinzione che per certi versi richiama a quella operata da Richard Bernstein nel suo Ironic Life. Con riferimento alla figura dell'ironista, Bernstein individua infatti due posizioni, una negativa e una positiva. La posizione negativa consente di apprendere che «il sogno dei filosofi di trovare una fondazione ultima per i loro vocabolari decisivi è una errata illusione. Non c'è nessuna fondazione […] . L'idea che ci siano dei criteri astorici e permanenti a cui fare appello per giudicare vocabolari in competizione è insostenibile. L'idea che possiamo avanzare argomenti trascendentali che siano veramente universali e necessari (e che possano resistere a qualsiasi contingenza storica) è un progetto privo di speranza» 127. Quella positiva invece, secondo Bernstein, si esplica nel fatto che la saggezza pratica dell'ironista rortiano consiste proprio nell'esser convinto e nel sostenere tali posizioni antifondazionaliste. Per cui egli «è conscio della complessità delle contingenze storiche che hanno formato il proprio vocabolario decisivo ed è conscio altresì che ci siano vocabolari decisivi alternativi»128 E' importante notare come la classica società liberale di Mill e Ghoete, si plasmi sulla necessità di costruire le condizioni che consentano alle persone di dare forma alla propria vita secondo le modalità dell'umanesimo romantico. Ora, il contrasto con la concezione milliana, in Rorty non è esplicitato, ma come sottolinea Donatelli, è bene metterlo in evidenza. L'antifondazionalismo rortiano, non sembra in questo senso riguardare solo una preoccupazione privata del filosofo, ma potrebbe emergere anche come un modo diverso di concepire la stessa società liberale 129, in quanto frutto di contingenze storiche e non l'esplicazione e l'universalizzazione di condizioni a priori. 126 127 128 129 71 Ibìdem, pp 617-619 Richard Bernstein, Ironic Life, Polity Press, Malden, MA, 2016 p. 51 Ibìdem, p. 51 Piergiorgio Donatelli, Rorty and Democracy, Iride, Il Mulino-Rivisteweb, Fascicolo 3, Dicembre 2019, pp. 622-623 In questo senso dovremmo forse correggere Rorty: il modello democratico da lui concepito non è integrato o esteso, ma rivisto. Pertanto Donatelli afferma: «Se seguiamo il suggerimento di Rorty, non dovremmo semplicemente integrare tale modello con una sensibilità verso nuove forme di sofferenza e umiliazione e una più ampia gamma di variazioni individuali. Diversamente, dobbiamo rivedere i modi in cui i liberali romantici e i democratici hanno concepito la vita personale, eliminando il bisogno di unità che caratterizza il modello di formazione umanistica. Pertanto, Rorty offre un nuovo progetto politico che deve essere esplorato e testato» 130. E' chiaro dunque che l'accusa di universalizzazione del liberalismo classico va problematizza a sua volta, tenendo presenti molti fattori all'interno del pensiero rortiano, cogliendone altresì l'orizzonte pragmatista da cui il filosofo muove i suoi passi. A tal proposito occorre riportare un'ulteriore critica mossa da Critchley a Rorty, secondo cui il rimando a una condizione pre-linguistica della sofferenza rinvierebbe inevitabilmente a un piano trascendentale e metafisico. Ora, nel passo in questione che si trova ne La Filosofia dopo la Filosofia, il termine utilizzato è “non-linguistico”131; in altri momenti dell'opera il filosofo si è riferito a una dimensione “pre-linguistica” ma col solo scopo di criticare tale nozione. E' doveroso mettere in luce fin da subito questo aspetto anche se ai fini della speculazione ci sono ulteriori punti da evidenziare. Il riferimento alla dimensione non-linguistica della sofferenza trova molte assonanze nello stesso panorama pragmatista che da James a Dewey arriva sino ai giorni nostri. La questione si riassume all'interno del complesso scambio che vide contrapporsi il filosofo americano Richard Shusterman e lo stesso Rorty relativamente all'utilizzo della nozione di “esperienza”. In questo senso, come consente di notare Calcaterra, Shusterman «difende […] la metafisica deweyana rivendicando l'irriducibilità dell'esperienza somatica 130 131 72 Ibìdem p. 629 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 114 alle pratiche linguistiche» 132. Contrariamente Rorty è restio all'utilizzo del termine “esperienza” in quanto sarebbe troppo legato alla logica internalista e all'idea di coscienza. L'obiettivo rortiano qui non è di porre in contrasto certe esperienze immediate, come quella corporea, con le pratiche linguistiche, ma di affermare che: «Non possiamo fare a meno di verbalizzare gli eventi che ci riguardano sicché tutto ciò di cui parliamo in termini di esperienza – a cominciare dagli stimoli fisici che “esperiamo” - viene a far parte di una rete semantica e concettuale con la quale dobbiamo fare i conti. Pertanto egli non accetta di considerare esperienza e linguaggio nei termini di una dicotomia ontologica bensì intende riportare la distinzione tra discorsivo e nondiscorsivo al piano della distinzione tra giochi linguistici differenti eppure intertraducibili»133. In questo senso, si potrebbe dunque affermare che il richiamo di Rorty ad una condizione non-linguistica della sofferenza non faccia riferimento a una dimensione metafisica, ma bensì ad un ambito dell'esperienza i cui giochi linguistici non hanno ancora trovato un modo per esser tradotti. Tale lettura emerge se si prende in considerazione il passo che Critchley analizza e sul quale basa la propria critica. Qui Rorty, riferendosi ad alcune vittime della crudeltà affermerà appunto che il dolore è un fenomeno “nonlinguistico” – si avrà modo più avanti, sempre in risposta a Critchley, di considerare anche gli aspetti linguistici che si legano alla crudeltà; in questo caso il suo scopo è però quello di mettere in evidenza come alcune forme di letteratura siano più utili della stessa filosofia ironica nel dare un contributo concreto a questioni sociali circa l'uguaglianza e la libertà, dando una voce a chi ancora non ce l'ha. Egli afferma dunque: 132 133 73 Rosa M. Calcaterra, Filosofia della Contingenza, le sfide di Richard Rorty, Marietti 1820, Bologna 2018 p 68. Ibìdem, pp. 69-70; per lo scambio tra Shusterman e Rorty, si veda: Richard Shusterman, Practicing Philosophy: Pragmatism and the Philosophical Life, Routledge, London, 1997, cap. 6; Richard Rorty, Replay to Richard Shusterman, in M. Festenstein, S. Thompson (eds.), Richard Rorty: Critical Dialogues, Polity Press, Oxford, 2001, pp. 152-157. «Le vittime della crudeltà, le persone che soffrono, non hanno molte risorse dal punto di vista linguistico. Ecco perché non esiste una “voce degli oppressi o un “linguaggio delle vittime”. Il linguaggio che le vittime usavano prima non funziona più, e ora esse soffrono troppo per poterne mettere insieme uno nuovo. Pertanto dev'essere qualcun altro a descrivere con parole la loro situazione. Il romanziere, poeta o giornalista liberale lo sa fare bene. Il teorico liberale di solito no»134. Parallelamente alla questione che investe la capacità di provare dolore, è necessario riferirsi ad un altro attacco al comparto rortiano mosso da Critchley, che riguarda il concetto di “solidarietà”. Il filosofo britannico si chiede, come abbiamo visto, se tale nozione, che si accompagna al processo di minimizzazione della sofferenza, costituisca la fondazione di un obbligo morale o di un principio universale. E' utile qui rimandare alla distinzione tra universalisti e storicisti operata da Rorty nel suo saggio Femminismo e Pragmatismo già citato in precedenza secondo cui, in estrema sintesi, gli universalisti sono coloro che ragionano in termini di diritti umani e per cui un giudizio morale vero è reso tale da qualcosa di esterno al mondo, qualcosa che possiede alcune caratteristiche intrinseche le quali fanno riferimento a un concetto rigoroso di verità e realtà; gli storicisti sono coloro che credono che gli unici caratteri intrinseci posseduti dagli esseri umani, se di tali si può parlare, sono la capacità di soffrire e di far soffrire, “tutto il resto può esserci come può non esserci”135. In questo senso appare evidente come anche la nozione di solidarietà umana, non miri a fondare alcun obbligo morale, ma tale concetto è emerso nel tempo come semplice “elemento retorico”136. Società liberal-democratiche e solidarietà sono dunque il risultato di mere circostanze storiche, e come tali appunto, potevano realizzarsi come non realizzarsi. 134 135 136 74 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 pp. 114-115. Si veda: Richard Rorty; Verità e Progresso. Scritti filosofici; Feltrinelli; 2003; Milano pp. 192 e seguenti Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 pp. 220-221 C'è poi un altro fondamentale aspetto da affrontare riguardo la corposa critica al pensiero liberale rortiano, ed è quello legato agli effetti economici che si accompagnano necessariamente all'orizzonte etico-politico. Secondo Critchley infatti, Rorty non prenderebbe in seria considerazione la violenza e la crudeltà messa in campo dal liberalismo economico. Ora, è difficile poter affermare con assoluta certezza che lo stesso Rorty non riconosca alcune nefaste conseguenze di un certo sistema economico. E' altrettanto difficile poter affermare che nella sua concezione del pensiero liberale non ci sia spazio per considerazioni di questo tipo. Se si presta attenzione alla speculazione rortiana è possibile notare infatti come egli sostenga che un certo tipo di economia, propria di un certo tipo di società, quella liberale, conceda all'essere umano alcune possibilità all'interno del più ampio panorama che prende il nome di “cultura dei diritti umani” 137. La diffusione di quest'ultima è intesa, seguendo l'asse Hume-Baier 138, nel senso di un “progresso dei sentimenti”come risultato di ciò che Rorty chiama “educazione sentimentale”. Ora, questo progresso dei sentimenti è reso possibile proprio da alcune condizioni messe in campo da una economia che consenta ai propri membri di “rilassarsi abbastanza da poter ascoltare”139. Nello specifico, secondo il filosofo americano, gli aspetti che una economia sufficientemente sviluppata, come quella delle società liberali dell'occidente, consente di incrementare sono la “sicurezza” e la “simpatia”. In questo senso Rorty afferma: «Per “sicurezza” intendo quelle condizioni di vita sufficientemente prive di rischio tali da rendere le proprie differenze con gli altri inessenziali per il proprio senso di autostima e del valore di sé. […] Per “simpatia” intendo quella sorta di reazione che gli Ateniesi ebbero dopo aver visto I Persiani di Eschilo, ciò che gli Americani bianchi provarono dopo 137 138 139 75 Si veda: Richard Rorty, Human Rights, Rationality and Sentimentality (1993), in The Rorty Reader , editet by Christopher J. Voparil and Richard J. Bernstein, Wiley-Blackwell, 2010 Per un analisi più accurata circa la linea interpretativa da cui Rorty prende spunto e circa il concetto di “simpatia corretta” si rimanda a: Annette Baier, Hume the Women's Moral Theorist?, in Eva Kittay and Diana Meyers, eds. Women and Men Theory, Totowa, N.J.: Rowman and Littlefield, 1987, 40. Richard Rorty, Human Rights, Rationality and Sentimentality (1993), in The Rorty Reader , editet by Christopher J. Voparil and Richard J. Bernstein, Wiley-Blackwell, 2010, p. 361 aver letto La Capanna dello Zio Tom, ciò che proviamo dopo aver visto in TV programmi circa il genocidio in Bosnia. Sicurezza e Simpatia vanno di pari passo, per le stesse ragioni per cui la pace e la produttività economica vanno assieme. Quanto più la situazione è grave, tanto più devi aver paura, quanto più è pericolosa la tua situazione, tanto meno puoi permetterti il tempo o la fatica di pensare a come potrebbe essere la situazione per le persone con cui non ti identifichi immediatamente» 140. Esula dagli obiettivi di questo lavoro portare avanti un'analisi attenta relativamente al panorama di effetti che il liberalismo economico si porta dietro, ma è necessario mettere in evidenza come anche Rorty abbia una posizione a riguardo di cui è pienamente consapevole. Quest'ultimo e Critchley incarnano semplicemente due modi opposti di concepire la questione, dal momento che muovono da motivazioni e scopi differenti. Come poco affini sono del resto anche gli orizzonti teorici di riferimento. Veniamo ora ad un aspetto centrale riguardo la critica alla figura dell'ironista liberale. Secondo Critchley risulterebbe estremamente problematico coniugare le due figure; in ultima istanza un tentativo simile finirebbe col capitolare in un vero e proprio “conflitto psicologico”, dal momento che l'ironico presenterebbe delle caratteristiche incompatibili con quelle del pensiero liberale. Ora, si è già in parte affrontata la questione relativa a come Rorty intenda il pensiero liberale nella sua opera. Questo dovrebbe fornire un primo iniziale suggerimento nell'indicare la linea interpretativa adottata. Va precisato che per il filosofo americano, è proprio una società come quella liberale a favorire la pratica ironica. In questo senso egli afferma: «L'ironico è il tipico intellettuale moderno, le uniche società che gli lascino la libertà di esprimere la sua alienazione sono le società liberali» 141. 140 141 Ibìdem, p 361 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. 109 76 Le accuse di “antiliberalismo” mosse all'ironico, sono in realtà ascrivibili secondo Rorty, al fatto che tradizionalmente «il tratto caratteristico dell'intellettuale di fidata moralità sia una prosa diretta, neutrale, trasparente, cioè proprio quel tipo di prosa che nessun ironico che sta cercando di crearsi vorrebbe usare» 142. Questo è un punto fondamentale della trattazione, perché consente di cogliere le reali motivazioni che sottendono alle critiche e al relativo rigetto di un possibile connubio tra la figura del liberale e quella dell'ironico. In questo senso è necessario prestare attenzione alla domanda di Critchley: “La crudeltà è qualcosa su cui i liberali possono essere ironici?” . Ora, il filosofo britannico lascia intendere che rispondere affermativamente a tale quesito comprometterebbe la sussistenza della proposta liberale rortiana, mentre una risposta negativa, metterebbe a rischio invece la possibilità della pratica ironica, dal momento che la scelta sull'oggetto dell'ironia diverrebbe qualcosa di meramente arbitrario. La questione è più complessa di quanto sembri. Innanzi tutto, va rimarcato, bisogna considerare l'orizzonte teorico da cui Rorty proviene. Prendere in analisi una critica di questo tipo ci mette di fronte alla necessità di rimandare all'insegnamento jamesiano in Pragmatismo. Qui si espone il famoso aneddoto relativo a un gruppo di persone attorno ad un albero che da un lato del tronco presenta uno scoiattolo e dall'altro un uomo. Ogni qualvolta egli tentava di scorgersi per raggiungere la bestiolina, quest'ultima si muoveva attorno al tronco in direzione opposta, mantenendo di fatto, la stessa distanza dall'uomo. Ora, tale situazione porta la comitiva a formulare il dilemma metafisico: l'uomo gira intorno allo scoiattolo, o no?143. La risposta di James è altrettanto celebre ed esplicativa: «Dipende da cosa intendete praticamente con “girare attorno” allo scoiattolo»144. 142 143 144 77 Ibìdem, p. 109 William James, Pragmatismo, II Conferenza, Che cosa significa Pragmatismo, Aragno, Torino, 2007 p.29 Ibìdem, p. 29 In questo senso è possibile cogliere una linea di pensiero molto vicina a quella di Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche, in cui egli, ponendo sotto critica una certa tendenza filosofica di concepire la realtà delle cose come “semplice” o “composta”, afferma: «La risposta corretta alla domanda filosofica: “L' immagine visiva di questo albero è composta? E quali sono le sue parti costitutive?”, è “Dipende da ciò che tu intendi per ̒composto ̉ “(E questa naturalmente, non è una risposta ma un rifiuto della domanda)» 145. Affinché si possa fornire una risposta esaustiva in merito alla domanda che Critchley pone, non ci si può esimere dal tener in considerazione il panorama teorico che emerge dai passi appena affrontati. In questo senso, appare evidente che se ci si interroga sulle caratteristiche essenziali e le possibilità della pratica ironica è necessario altresì chiarire cosa si intenda quando si parla di “ironia”. A tal proposito è molto utile l'analisi fornita da Voparil che mette in luce come in Rorty siano state individuate due diverse versioni di ironia, una “moderata” e un'altra “radicale”. Egli dunque afferma, citando Curtis 146: «Il primo senso è la virtù civica che tutti i cittadini liberali dovrebbero idealmente possedere perché li aiuta a essere tolleranti, adattabili e giusti. Il secondo senso è l'abitudine mentale più attiva e radicale che gli "intellettuali ironisti" mostrano mentre sfidano le saggezze convenzionali dei settori culturali in cui lavorano »147 . Ora, secondo Voparil, ognuna delle due versioni di ironia porta con sé anche una differente modalità di intendere il rapporto tra pubblico e privato. Quando ci si riferisce alla versione radicale di ironia, Rorty sembra tracciare una distinzione più netta tra pubblico e privato, con lo scopo di incanalare tutta la forza decostruttiva della pratica 145 146 147 78 Ludwig Wittgenstein , Ricerche Filosofiche , Einaudi, Torino, 2009, PARTE PRIMA, p. 30 Si veda: W.M. Curtis, Defending Rorty: Pragmatism and Liberal Virtue, p. 93. Christopher Voparil, Contingency and Responsability in Rorty's Ethics, Iride, Il Mulino-Rivisteweb, Fascicolo 3, Dicembre 2019, p. 591 ironica solo nella sfera privata della continua ridescrizione del sé. Quando invece ci si riferisce all'ironista più moderato, il quale porta con sé le speranze dell'utopia liberale, la distinzione tra pubblico e privato si fa più labile. Come lo stesso Voparil afferma: «In tutte quelle discussioni che implicano una moderata ironia, la “ferma distinzione” tra pubblico e privato viene praticamente abbandonata»148. Secondo Voparil questa mossa, per Rorty, sarebbe necessaria per evitare la paradossale condizione di un individuo che incarni al tempo stesso una tendenza nietzscheana e una milliana e per consentire dunque alla figura dell'ironista liberale di non venir considerato una vera e propria “contraddizione in termini” 149. Ora, la conclusione a cui Voparil giunge è che, nonostante il suo tentativo, Rorty non riesca a rimanere coerente fino in fondo a causa dei costanti salti, all'interno della sua opera, da una versione all'altra dei piani in cui si alterna da “l'ironista” a “l'ironista liberale”, da “l'intellettuale ironico” al “non intellettuale”150. In conclusione si potrebbe affermare che Voparil, per certi versi, muova da una lettura dell'opera rortiana simile a quella di Critchley, ma è altresì utile notare come nonostante la posizione critica, differentemente dal filosofo britannico, Voparil, nell'individuare due versioni dell'ironista, vada comunque più a fondo alla questione e colga alcuni punti fondamentali all'interno de La Filosofia dopo la Filosofia. Ora, se la lettura di Voparil mette in evidenza una certa difficoltà nel conciliare due figure come quella dell'ironista e del liberale e di conseguenza nell'individuare una modalità meno problematica di concepire il rapporto tra sfera pubblica e privata, l'analisi portata avanti da Marchetti 151 fornisce una visione più omogenea e coerente del comparto 148 149 150 151 79 Ibìdem, p. 594 Ibìdem, p. 593 Ibìdem, pp. 593 e seguenti Sarin Marchetti, Irony and Redescription, Iride, Il Mulino-Rivisteweb, Fascicolo 3, Dicembre 2019, pp. 631-643 rortiano, concedendo altresì una risposta esaustiva alla domanda di Critchley in merito alla possibilità per un liberale di essere ironico anche in relazione alla crudeltà. In questo senso è fondamentale tener presente come per Rorty l'ironista «non solo considera se stesso e il suo vocabolario come contingenti e mobili, ma è anche radicale e sempre dubbioso su come spiegare al meglio se stesso» 152. L'ironista dunque va oltre la contingenza, perché nessuna ri-descrizione lo soddisfa. Va da sé che questa tendenza risulta problematica ai fini della stessa attività ridescrittiva. Questo, però non significa che Rorty non tenga conto dei contesti pubblici e collettivi, delle culture e delle comunità di riferimento. Come consente di notare Marchetti: «La formazione della propria identità e del proprio senso di sé è profondamente intrecciata con il modo in cui ci rendiamo conto di noi stessi, e questo è spesso uno sforzo collettivo dal significato morale e politico»153. Un esempio di ciò lo si può ritrovare nell'argomentazione fornita nelle pagine precedenti, in cui si affronta la risposta alle critiche di Mouffe, relativamente al conseguimento di quella “autorità semantica” raggiunta da alcuni gruppi oppressi, che trovando le parole adeguate per descriversi, trovano anche la propria identità. Ora, e questo è un punto fondamentale in merito alla domanda posta da Critchley, è proprio nel tentativo di delineare un quadro coerente ed esaustivo che riesca a non ignorare tali istanze, che emerge chiaramente come in realtà l'ironista non solo colga la crudeltà in tutte le sue forme, ma sia capace anch'egli di umiliare gli altri. Come anche Rorty afferma ne La Filosofia dopo la Filosofia: 152 153 80 Ibìdem, p. 637 Ibìdem, p. 638 «L'ironico che con le sue ridescrizioni mette in dubbio il nostro vocabolario decisivo e quindi la nostra capacità di definirci nei nostri, e non nei suoi, termini, insinua che la nostra identità e il nostro mondo sono futili, obsoleti, ininfluenti. Ridescrivere spesso significa umiliare»154. L'accusa di “antiliberismo” mossa all'ironista deriverebbe dunque proprio dall'impossibilità di concedere quella rassicurazione propria delle posizioni metafisiche in relazione alla vita degli individui. Ma occorre prestare attenzione su un punto; in questo senso, anche il metafisico formula delle ridescrizioni. La conseguente domanda che viene da porsi circa la legittimità dell'ironista dunque è la seguente: «perché allora questi suscita un astio particolare?»155. La risposta che Rorty fornisce consente di comprendere non solo quale sia la differenza sostanziale tra ironista e metafisico ma per certi versi anche di cogliere la natura di molte delle critiche mosse al suo progetto filosofico. Secondo il filosofo americano infatti, il metafisico, a differenza dell'ironista, “maschera le sue ridescrizioni da argomentazioni”156. Questo significa in buona sostanza lasciar intendere al proprio uditorio che non gli si sta fornendo una semplice riprogrammazione, ma che si sta mettendo in atto un processo di educazione relativamente a una “verità” che è sempre stata dentro di loro e che su di essi esercita un qualche potere. Tale processo è molto simile a una conversione. Rorty in proposito afferma: «Il convertito pensa che accettando quella ridescrizione suggellerà un patto con un potere superiore a tutti quelli che l'hanno oppresso in passato. In breve, il metafisico pensa che ci sia un nesso tra ridescrizione e potere, e che la giusta ridescrizione ci può rendere liberi»157. 154 155 156 157 81 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. 109-110 Ibìdem, p. 110 Ibìdem, p. 110 Ibìdem. p. 110 L'ironista questo non è in grado di farlo, e anzi, nel considerare ogni ridescrizione priva di fondamenti metafisici, e dunque semplicemente il frutto di contingenze storiche, finisce con lo sminuire e umiliare chi si aggrappa a tali fondamenti e su di essi basa in qualche modo la propria esistenza. Di tutto ciò Rorty è pienamente consapevole, e Marchetti stesso dichiara: «L'uscita di Rorty da questo enigma consiste nella riformulazione della sua distinzione piuttosto celebre tra privato / pubblico: questa è la distinzione tra ironia privata - ovvero un esercizio ininterrotto nelle ridescrizioni- e la speranza liberale - che consiste nella fine della sofferenza, incluse quelle causate da ridescrizioni»158. Ora, lo scopo di Rorty, come consente di notare Marchetti, è quello, una volta abbandonata la “colla metafisica” platonico-kantiana, di tentare di “conciliare le nostre migliori tendenze Nietzscheane e Milliane” 159. In questo senso, la strategia che il filosofo americano mette in atto per evitare la tensione tra ridescrizione e formazione delle identità, è quella di separare l'ironia dalla solidarietà e quindi l'ambito privato da quello propriamente pubblico. A tal proposito Marchetti afferma: «Per essere in grado di mantenere il meglio delle due opzioni, che è un ironista liberale, dovremmo mettere la ridescrizione al servizio della solidarietà, e quindi imparare a discriminare tra occasioni di ironia che probabilmente umilieranno e quelle che non lo faranno»160. Secondo questa linea interpretativa apparirà dunque chiaro come la stessa distinzione tra pubblico e privato in Rorty, non solo abbia una sua legittimità, ma «questa distinzione alla fine ci colpirà nella misura in cui l'ironia privata ci aiuterebbe a rifondere il modo in 158 159 160 82 Sarin Marchetti, Irony and Redescription, Iride, Il Mulino-Rivisteweb, Fascicolo 3, Dicembre 2019, p 640 Ibìdem, p. 641 Ibìdem, p. 641 cui comprendiamo la sofferenza e l'umiliazione […] e, a sua volta, la speranza sociale ci suggerisce altri modi con cui ridescrivere noi stessi e che sarebbero più attenti alle conseguenze di tale riprogrammazione critica»161. L'ironista liberale rortiano dunque è pienamente inserito all'interno di una complessa pratica che gli consente non solo di cogliere la crudeltà perpetrata all'interno di un gruppo più o meno ampio di individui, ma lo rende capace di cogliere la crudeltà che egli stesso mette in atto con tale pratica ironica. Per cui la domanda di Crithcley, nonostante richieda un'analisi attenta e molto scrupolosa, non può che ricevere una risposta affermativa: Si! Il liberale, per come viene inteso da Rorty, dunque un liberale ironico, necessita di esercitare l'ironia in relazione a tutte quelle pratiche crudeli e umilianti, ironia compresa, al fine di eliminare, un giorno, la sofferenza proveniente dal potere che alcune ridescrizioni operano su di noi, e al contempo riuscire a sostenere la pienezza di ogni singola esistenza conscia della contingenza nella quale è immersa. L'utopia liberale di Rorty si fonda su questa speranza, auspicando che tale accettazione della contingenza, in virtù di una pratica ironica, possa consentire ad ogni individuo di superare la contingenza stessa. In uno scenario in cui ognuno sia capace di raccontarsi e immaginarsi costantemente con parole nuove e più calzanti, in un contesto di vite umane che, una volta abbandonate le proprie catene metafisiche, non avranno più nessun tipo di difficoltà ad accogliere ogni altra ridescrizione creativa. 3. Decostruzionismo e ricontestualizzazione. Rimane da affrontare un ultimo argomento preso in considerazione da Critchley e per certi versi anche da Mouffe, e riguarda l'interpretazione che Rorty fornisce del pensiero di Derrida. I due autori decostruzionisti non condividono infatti la suddivisone in due fasi dell'opera derridana operata dal filosofo americano. 161 83 Ibìdem, p. 642 In questo senso Rorty, coerentemente con la propria linea interpretativa che necessita di delineare una separazione tra pubblico e privato, individua in Derrida una prima fase più “professorale” e metafisica, molto vicina a quella hideggeriana, il cui unico scopo è quello di far emergere, citando Gasché, le “condizioni di possibilità del discorso filosofico”, e una seconda fase più originale, personale e creativa. 162 Ora, il secondo Derrida, per Rorty, «fa della riflessione filosofica una questione privata»163. Egli rinuncia dunque a qualsiasi tentativo di riunire il pubblico e il privato, e in questo senso «limita il sublime alla sfera privata» 164. Nelle lettere derridiane contenute in Envois, secondo Rorty, emerge tutto il carattere personale dell'autore. In questo senso la decostruzione, non costituisce nessun metodo rigoroso proveniente da una qualche scoperta filosofica. Ciò che Derrida mette in atto è una semplice “ricontestualizzazione”, ma come Rorty consente di notare, «la ricontestualizzazione, e in particolare il capovolgimento delle gerarchie, esiste già da tempo» 165. La questione vede irrimediabilmente contrapporsi due approcci differenti e conflittuali che nel corso di tutta l'opera rortiana vengono messi a confronto. I metafisici sono infatti convinti che «i generi e i criteri che abbiamo ora esauriscono tutto il regno del possibile. Gli ironici continuano tranquillamente ad ampliarlo»166. Seguendo tale linea interpretativa è possibile cogliere come lo stesso Derrida, che da Rorty viene annoverato tra gli ironici privati, ricontestualizzando qualunque cosa gli riaffiorasse alla mente, abbia semplicemente «allargato i confini del possibile» 167. Ora, va precisato che lo stesso Derrida nel suo intervento in Deconstruction and Pragmatism, paleserà il proprio disappunto circa la separazione del suo lavoro in due fasi e riguardo alla conseguente differenziazione che finisce per accostare la prima fase a una condizione pubblica, mentre la seconda, a una privata. Il filosofo francese si oppone a 162 163 164 165 166 167 84 Rodolphe Gasché, The Tain of the Mirror: Derrida and the Philosopht of Reflection, Harvard University Press, Cambridge, (Mass.) 1986. p. 177 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 150 Ibìdem, p. 150 Ibìdem, p. 158 Ibìdem, p. 158 Ibìdem, p. 161 questo tipo di interpretazione affermando che, contrariamente a quanto sostenuto da Rorty, alcune sue opere come Glas o La Carte Postale non rappresentano affatto dei ritiri nella sfera privata, ma delle “problematizzazioni performative della distinzione tra pubblico/privato”168. In questo senso, con riferimento alle due opere citate, egli cerca di precisare: « La questione della famiglia di Hegel discussa in Glas, del rapporto tra la famiglia e la società civile e lo stato, può essere vista come un'elaborazione performativa del privato su un piano teorico, filosofico e politico; non è un rifugio per la vita privata. La Carte postale, la struttura stessa del testo, è quella in cui la distinzione tra pubblico e privato è giustamente indecidibile»169. Ora, non rientra fra gli scopi di questo lavoro andare a fondo alle questioni in merito alla legittimità della lettura rortiana di Derrida, ma anche qui vale, come per Critchley e Mouffe, l'argomentazione fornita da Rorty all'interno di uno dei due interventi che lo vedono impegnato in Deconstruction and Pragmatism. A tal proposito egli afferma: «Sostengo pragmatisti e decostruzionisti essere uniti nel pensare che tutto può essere qualsiasi cosa se si inserisce nel giusto contesto, e che "giusto" significa semplicemente il contesto che serve meglio gli scopi di qualcuno in un determinato momento e luogo. I metafisici pensano che esista un Giusto Contesto, in cui le cose sono viste come realmente sono, senza riferimento agli scopi di nessuno»170. Va da sé che Rorty non intenda concepire nessuna propensione metafisica nella speculazione derridiana, proprio perché lo scopo di tutta la sua opera è quello di 168 169 170 85 Jacques Derrida, Remarks on Deconstruction and Pragmatism, contenuto in Deconstruction and Pragmatism , Routledge, London, 1996, p. 81 Ibìdem, p. 81 Richard Rorty, Response to Simon Critchley, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 45 abbandonare un certo tipo di tradizione filosofica e fornire un'alternativa. Questo non è un errore nella lettura di un autore o di un pensiero, ne tanto meno una lacuna nella sua opera, ma è il frutto di una scelta che mira pragmaticamente a porci di fronte alle conseguenze della sua attuazione, invitandoci a vedere come ce la caviamo se proviamo a vederla in un altro modo. Se volessimo riassumere la posizione di Rorty nei confronti di autori ironici come Derrida, allora il seguente passo contenuto ne La Filosofia dopo la Filosofia può tornare senz'altro utile: «Secondo me gli ironici come Hegel, Nietzsche, Derrida e Focault, hanno un valore inestimabile nell'aiutarci a formare una nostra, privata, immagine di noi stessi, ma li ritengo abbastanza inutili dal punto di vista politico» 171. 4. I dubbi di Richard Berstein: argomento o ridescrizione? Se si segue la linea interpretativa proposta in queste pagine e si considera l'utopia liberale nel suo complesso, appare quantomeno dubbiosa l'affermazione di Critchley che individua un ironista liberale “regressivo, sedentario e senza speranze” 172; o ancora, le dichiarazioni dello stesso amico e collega pragmatista Richard Bernstein, che vede in Rorty colui che ha sofferto «la sindrome del “dio che ha fallito”» 173, che ha condotto il filosofo a una generale disillusione e a perdere di conseguenza «la fiducia e la pazienza nell'argomentazione filosofica»174. 171 172 173 174 86 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p 101 Simon Critchley, Deconstruction and Pragmatism – Is Derrida a Private Ironist or a Public Liberal?, contenuto in Deconstruction and Pragmatism, Routledge, London, 1996, p. 26 Richard J. Bernstein, Sul Pragmatismo, l'eredità di Peirce, James, Dewey nel pensiero contemporaneo, Il Saggiatore, Milano, 2015, p. 246 Ibìdem, p. 246 E' interessante notare come per Bernstein l'ironia nella sua declinazione rortiana presenti alcune criticità e aspetti fuorvianti che emergono dalla ben nota contrapposizione tra “argomento” e “ridescrizione”. Ora, va precisato che egli sia disposto a seguire il collega nella sua trattazione fin tanto che questa si mantiene all'interno dell'orizzonte tematico del “Rorty ragionevole” 175. Quando di converso, ci si addentra nel panorama del “Rorty stravagante”, Bernstein si dimostra molto più critico. E' questo il caso della distinzione tra argomento e ridescrizione, che in Ironic Life viene definita come la «fondamentale dicotomia in Contingency, Irony and Solidarity»176, fermo restando che tale dicotoma rimane strettamente legata a quella tra pubblico e privato. Ora, Bersntein prende in considerazione alcune affermazioni presenti ne La filosofia dopo la Filosofia in cui Rorty dichiara: «Non ho intenzione di avanzare argomenti contro il vocabolario che voglio cambiare. Cercherò invece di mettere in buona luce il vocabolario che propugno mostrando come con esso si possano descrivere alcune tematiche» 177. In questo senso, secondo Bernstein, sarebbe fuorviante affermare di non fornire argomentazioni ma semplici ridescrizioni, poiché è altrettanto fuorviante e poco coerente la stessa definizione che di “argomento” Rorty fornisce nella sua trattazione. Talvolta egli sostiene che «un argomento consiste in premesse e conclusione in cui ci siano delle regole chiare che determinino se l'argomento è valido o no […]. Oppure […] potremmo dire che un argomento consista in premesse e una conclusione in cui è presente una chiara procedura di decisione – un algoritmo – per il quale possiamo determinare se esso è valido o no»178. Tale nozione si lega a quella di “commensurabile” che troviamo ne La Filosofia e lo 175 176 177 178 87 Richard Bernstein, Ironic Life, Polity Press, Malden, MA, 2016 pp. 48 e seguenti ; qui Berstein distinguerà due filoni di pensiero in Rorty, uno più moderato appartenente al “Rorty ragionevole” e uno più provocatorio che l'autore denomina “Rorty stravagante”. Ibìdem, p. 48 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 17 Richard Bernstein, Ironic Life, Polity Press, Malden, MA, 2016 p. 49. Specchio della Natura , in cui Rorty, nel contrapporre l'ermeneutica all'epistemologia, sostiene che secondo quest'ultima tutti quei contributi che vengono portati a favore di un determinato discorso, debbano essere commensurabili; laddove per “commensurabile” si intende «suscettibile di esser sottoposto a un insieme di regole in grado di indicarci come un accordo razionale possa essere raggiunto su quel che potrebbe costituire soluzione in ciascun punto su cui varie affermazioni paiono in conflitto» 179. Ora, secondo Bernstein, tutto ciò non ha niente a che fare con la concreta attività di presentare, difendere e criticare un argomento all'interno di un “discorso filosofico reale”180. Quella presentata da Rorty non è una critica all'argomentazione filosofica, ma è una «descrizione di ciò che di norma accade quando i filosofi argomentano tra di loro»181. La tesi sostenuta da Bernstein è che in sostanza il reale argomento filosofico non ha nulla a che vedere con la nozione di “argomento” che viene enunciata da Rorty. Andrebbero invero ripensate le stesse modalità attraverso cui si caratterizza il concetto di ridescrizione. In questo senso si individua come anche ne La Filosofia dopo la Filosofia, Rorty “argomenti” che non esista nessuna essenza, che solo gli enunciati hanno la capacità di essere veri o che l'impegno verso la solidarietà dovrebbe sostituire l'ossessione per l'oggettività. Da questa lettura appare evidente come Rorty argomenti per tutto il tempo182. Ecco perché l'opera rortiana, in base a tale linea interpretativa, non si limita soltanto a offrire una caricatura rispetto a ciò che l'argomentazione effettivamente viene a essere, ma finisce col descrivere in maniera poco coerente la stessa ridescrizione. A tal proposito Bersntein afferma: «Il vero argomento filosofico è molto meno algoritmico di quanto Rorty suggerisca, e la ridescrizione comporta molta più argomentazione di quanto Rorty indichi» 183. 179 180 181 182 183 88 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p. 240 Richard Bernstein, Ironic Life, Polity Press, Malden, MA, 2016 p. 49. Ibìdem, p. 49 Ibìdem. p. 49 Ibìdem, p. 50 In ultima istanza, l'unica differenza che secondo Bernstein occorre tenere in considerazione in ambito filosofico è quella tra “stili di argomentazione”. Essi modificano le loro caratteristiche nel corso della storia e utilizzano differenti figure retoriche per esporre i propri contenuti. Tali figure retoriche, che comprendono miti, parodie, genealogie e metafore sono «costitutive della loro argomentazione filosofica»184. Ora, è plausibile che Rorty non si troverebbe in completo disaccordo riguardo agli stili di argomentazione, che potrebbero annoverarsi senza troppi intralci all'interno della più generale nozione di “metafora” fornita nel primo capitolo de La Filosofia dopo la Filosofia e in cui si affronta il tema della contingenza del linguaggio. E' però da tenere in considerazione il fatto che il filosofo americano sia piuttosto chiaro quando espone la propria concezione di “argomento” filosofico. La questione, come ribadito più volte all'interno di questo lavoro, ruota attorno ad un orizzonte che è quello pragmatista e che ci ricorda costantemente quanto sia importante chiarire cosa si intenda con la definizione che di un qualsiasi oggetto si utilizza, e che tale definizione dipende dal contesto d'uso a cui si fa riferimento. Quando Rorty critica un certo tipo di “argomentazione” filosofica, il suo obiettivo polemico è un certo tipo di filosofia, l'epistemologia, che utilizza l'argomentazione in modo specifico. E' possibile cogliere questa specificità se si prosegue nei passi successivi a quello preso in esame da Bernstein in merito alla commensurabilità, in cui Rorty in buona sostanza sostiene che quelle regole a cui un oggetto viene sottoposto per potersi dire “commensurabile” mirano a costruire un terreno ideale che impone al discorso in questione una certa base cognitiva, se ci si sposta fuori dal raggio di queste regole, il proprio discorso viene irrimediabilmente etichettato come non-cognitivo. L'epistemologia fa proprio questo, e a tal proposito si afferma: «La nozione dominante dell'epistemologia è che per essere razionali, per essere completamente umani, per fare quel che è dovuto, dobbiamo essere in grado di trovare un accordo con gli altri esseri umani. Costruire un'epistemologia significa trovare la massima 184 89 Ibìdem, p. 51 estensione di terreno comune con gli altri. Supporre che si possa costruire un'epistemologia significa supporre che un tale terreno comune esiste» 185. In altre parole, questo terreno che l'epistemologia si impegna a scoprire, si esplica in una possibile base neutrale di giudizio, che nel momento in cui si affronta il tema delle argomentazioni contro altri vocabolari, consenta di attingere a un vocabolario comune e di sicuro utilizzo. Ora, secondo Rorty il “guaio delle argomentazioni” 186, in tal senso, è che esse mirano principalmente ad elencare i pro e i contro di un determinato vocabolario considerato obsoleto, con la pretesa di superarlo, ma rimanendo sempre strettamente legate ai paradigmi di quello stesso vocabolario. Come si è avuto modo di apprendere nella trattazione rortiana, in relazione alla critica che Horkheimer e Adorno muovono al pensiero liberale illuminista, criticare un vocabolario coi suoi stessi mezzi, non è la soluzione più funzionale. La scelta migliore invero sarebbe quella di cambiare paradigma linguistico, rivedere e ridescrivere in modo nuovo ciò che risulta ormai vecchio e difficilmente spendibile. Il metodo rortiano in questo senso consiste nel «ridescrivere in modo nuovo moltissime cose fino a creare un modello di comportamento linguistico che la nuova generazione sarà spinta ad adottare, facendo in modo, perciò, che quest'ultima cerchi nuove forme adeguate di comportamento non linguistico, per esempio l'adozione di nuove apparecchiature scientifiche o di nuove istituzioni sociali» 187. Questo metodo chiaramente non ha la pretesa di proporre una soluzione migliore della precedente per fare le medesime cose, ma «suggerisce, invece, di smetterla di fare queste cose e di dedicarsi a qualcos'altro»188. Appare evidente dunque come l'obiettivo di Rorty quando afferma di non voler presentare alcun argomento contro un determinato vocabolario tradizionale, si riferisce al fatto che la sua trattazione vuole uscire dalla logica dell'opporre criteri filosofici ad altri 185 186 187 188 90 Richard Rorty, La Filosofia e lo Specchio della Natura, Bompiani, Milano 1986, p. 240 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 16 Ibìdem, p. 16 Ibìdem, p. 17 criteri, laddove per criterio si intende una base di giudizio neutrale e astorica che si suppone rappresenti meglio la realtà rispetto ai criteri precedenti e che quindi riesca a cogliere in maniera più adeguata e precisa l'essenza delle cose. Rorty non intende presentare niente di tutto ciò, ma ci invita ad abbandonare un certo tipo di approccio e a provarne un altro. In questo senso risulta arduo sostenere che dall'opera rortiana emerga una minor speranza sociale rispetto ai metafisici o una generale disillusione nei confronti della morale umana. Dalle pagine rortiane emerge invece una vivacità e una passione che difficilmente si riscontrano in autori non propriamente “metafisici”. Rorty propone un'alternativa “umana” alla concezione di un mondo governato da strane potenze che generano in noi costanti cadute. Un progetto di questo tipo ci rammenta, prima di ogni cosa, quanto gli esseri umani possano essere profondamente diversi e capaci di tessere e ritessere trame descrittive che legano l'un l'altro in modi sempre nuovi, ma pur sempre dipendenti dalle possibilità dei contesti di vita particolari. 91 Conclusioni In questo lavoro si è affrontato il pensiero di Richard Rorty, cercando di prestare particolare attenzione alle caratteristiche di una figura centrale nello scenario etico-morale contemporaneo che è quella dell'ironista liberale. Sono molteplici gli spunti che il dibattito su tale figura ha fornito e che ancora avrà modo di concedere all'interno di quella continua conversazione umana che la proposta rortiana ha contribuito a rendere ancora più vivace. Le critiche presentate hanno messo in luce diverse contraddizioni e ambiguità, ma esse non inficiano l'opera di un autore che per tutta la vita ha cercato di proporre un'alternativa ad una tradizione vecchia e macchinosa che ancora oggi stenta a ravvivarsi, all'interno di un quadro variegato e complesso come quello del mondo contemporaneo. Se possiamo dare per assodato che i contesti di vita siano radicalmente mutati da quando Immanuel Kant componeva la sua Critica della Ragion Pura, e questo ci ha gettati nell'angoscia di una crisi di identità e di valori, Richard Rorty e il suo ironista liberale ci invitano a non avere timore di tentare nuove rotte mai tracciate, trovare nuove parole e immaginarci in modo diverso. La fiaccola della speranza in quella sua utopia liberale appare sempre e costantemente accesa; una utopia morale «per la quale potremmo non essere ancora pronti, ma che Rorty desiderava ardentemente in tutte le sue opere».189 E' interessante notare come Marchetti colga qui un punto fondamentale della proposta rortiana aprendo ad una lettura dell'ironia liberale che esplica appieno le sue potenzialità presenti ma soprattutto future. E' pur vero che il filosofo americano ne La Filosofia dopo la Filosofia affermi di non volersi spingere a concepire una cultura con una retorica pubblica ironica190, quasi a volersi smarcare da possibili accuse in merito alla sistematizzazione di tale pratica. Va però tenuto in considerazione che le potenzialità espresse dall'ironia privata, come si è potuto notare, mirano in qualche modo ad armonizzarsi, previa ridescrizione in termini non-metafisici, con la stessa sfera pubblica. 189 190 92 Sarin Marchetti, Irony and Redescription, Iride, Il Mulino-Rivisteweb, Fascicolo 3, Dicembre 2019, p. 643 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 107 Dice bene Gargani nella prefazione all'opera quando individua in Rorty due scopi della ridescrizione che si esplicano in due tipi di scrittura, una «che assolve ad un bisogno decisivo di realizzare la propria autonomia» e un altro «il quale consiste in una ridescrizione di se stessi che mira alla realizzazione della solidarietà tra gli uomini» 191. Questi due tipi di scrittura non sono però del tutto inconciliabili, o meglio, dipende da quale punto di vista si sceglie di adottare nell'interpretazione delle pagine rortiane. Come più volte ricordato in questo lavoro, è necessario considerare l'orizzonte tematico da cui Rorty muove. Se si analizza l'opera del filosofo americano senza tener conto dell'importanza della pratica dialettica che si esplica in quella critica letteraria il cui scopo è di mettere a confronto i vari vocabolari, si rischia di perdere l'opportunità di cogliere il lavoro rortiano nel suo complesso. Per certi versi infatti, questo può esser inteso come lo sforzo dialettico di mettere in contrapposizione due ambiti inizialmente antitetici, pubblico e privato, per giungere infine, in uno dei tanti possibili scenari futuri, a una sintesi tramite una ridescrizione nuova, creativa e meno problematica delle precedenti, che non solo ci dia la possibilità di realizzare le nostre potenzialità individuali, ma consenta allo stesso modo di coglierle all'interno di un contesto in cui ogni singola ri-descrizione sia in grado di non prendersi così sul serio da generare una sofferenza nell'altro. Il pensiero di Rorty, per come è stato inteso nelle pagine trattate, apre a questa lettura. Affrontare l'opera di Orwell che in 1984 configura un futuro distopico, non è una scelta casuale da parte del filosofo americano. Egli ci vuole mettere di fronte a un autore che ha immaginato uno dei possibili esiti dell'estremizzazione di un certo pensiero universalizzante e totalizzante nella sua delcinazione del rapporto pubblico-privato e che, appunto, si è preso troppo sul serio. La proposta ironica vuole in qualche modo scalfire dall'interno i presupposti per la realizzazione di un tale futuro, e secondo Rorty, il modo migliore è quello di riprogrammare ognuno di noi, nel proprio piccolo angolo di vita quotidiana e 191 93 LA VITA CONTINGENTE, prefazione di Aldo Giorgio Gargani, in Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989 p. XXV squisitamente privata, quasi a volerci liberare da un male che ci affligge da tempo per concederci di rotrovare noi stessi, persi nelle meta-narrazioni del passato che non sono più in grado di descriverci e coglierci nei singoli contesti pratici. L'esito del percorso è chiaramente ignoto, e come anche Marchetti afferma, forse non siamo ancora pronti ad abbracciare tutte le potenzialità di tale invito, ma esso è comunque presente nell'opera rortiana e vale la pena metterlo in evidenza in quanto consente di scorgere alcune delle possibili nuove e originali strade che la filosofia può intraprendere. Un sifatto progetto necessita di meno teoria e più immaginazione, ed è chiaro dunque il motivo per cui Rorty si cimenti in un opera che mira a ridescrivere la tradizione platonico-kantiana in termini non-fondativi. Al contrario egli si orienta verso la letteratura e la scrittura creativa, il cui scopo è quello di restituire all'individuo un rapporto più intimo con le parole che utilizza per parlare di sé e del mondo. Nell'ottica di un simile cambiamento Rorty ci vuole ricordare che ogni volta che un vecchio abito viene dismesso, e ogni patina superficiale di differenze politiche, economiche e culturali viene scalfita, per il semplice fatto che esse “possono esserci come non esserci”, se tentiamo di osservare le cose da un altro angolo visuale, possiamo notare che nonostante tutto siamo più simili di quanto si possa immaginare. L'obiettivo del filosofo è quello di rompere con una tradizione obsoleta e problematica, nello stesso modo in cui il celebre genetista italiano Luca Cavalli-Sforza, nei primi anni novanta, sferrò un duro colpo ai pregiudizi razziali ricordandoci che in realtà, se guardiamo oltre le apparenti differenze esteriori «siamo pochissimo diversi» 192. Nel proporre un'alternativa che abbandoni per sempre l'illusione metafisica e ci riporti coi piedi sul terreno, il terreno della casualità, delle contingenze storiche e delle nostre semplici ordinarie esistenze, Rorty vuole dirci che nulla di ciò a cui tenevamo andrà perduto, che il mondo non ha perso la capacità di stupirci nonostante la scienza abbia sgretolato ogni visione teleologica del creato e che «le orchidee, quando fu la loro ora, non 192 94 Si veda: Chi siamo. La storia della diversità umana, Luca Cavalli-Sforza con Francesco Cavalli-Sforza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1993 erano meno nuove e meravigliose solo perché la condizione necessaria della loro esistenza era stata del tutto contingente»193. 193 95 Richard Rorty, La Filosofia dopo la Filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989, p 26 Bibliografia. 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