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L’ARMONIA DELLE SFERE SOCIALI
O LA COSTITUZIONE PITAGORICA DI SERVIO TULLIO1
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«la mente è un archeologo
che scava tenacemente nel passato
e mi conduce di prepotenza
dove non vorrei andare»
Luigi Pintor
LA PRIMA PARTE DELLA RIFORMA SERVIANA
Appena eletto re, Servio Tullio si affretta a promulgare cinquanta leggi a favore dei cittadini più deboli,
poi aggiunge due colli alla città e divide la terra inclusa
nella nuova e più ampia cerchia di mura (fig. 1) tra
quanti sono privi di casa, infine promuove le sue radicali riforme.
Prima riforma: la città è divisa in quattro regioni (fig.
2); i cittadini sono obbligati a mantenere la residenza in
una delle regioni e a non registrarsi altrove; la leva dell’esercito e l’esazione delle tasse per finanziare la guerra —
i due doveri che ogni cittadino ha nei confronti della collettività — sono riformati in base alle quattro nuove
tribù territoriali, e non più sulle tre vecchie tribù divise
per etnie. Per ogni regione è nominato un responsabile
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1.
Per gli storici di Roma le mura cosiddette ‘serviane’ dovrebbero risalire al
vi secolo, per gli archeologi moderni esse sono della metà del iv secolo.
2
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incaricato di accertare in quale casa risieda ciascun cittadino. Sono eretti degli altari a ogni incrocio e istituite
delle feste — i Compitalia 2 — i cui sacrifici sono compiuti da schiavi che, per la durata dei festeggiamenti, non
devono portare alcun segno che li individui come tali.
Allo stesso modo, la campagna è divisa in 26 — o 31? —
distretti (fig. 3), con dei responsabili incaricati di accertare nome e proprietà di ciascun residente. E anche qui
sono eretti altari e istituite feste — i Paganalia — alla cui
spesa contribuiscono gli uomini con un certo tipo di
moneta, le donne con un altro e i bambini con un terzo:
per ogni distretto, la conta delle monete dei tre tipi equivale alla conta di uomini, donne e bambini.
Analogamente, è prescritto il versamento di una
moneta a Giunone Lucina per ogni nuovo nato, a Venere Libitina per ogni morto, a Gioventù per ogni giovane
maschio che raggiunge la maggiore età: in tal modo,
anno dopo anno, è agevole rilevare le variazioni del
numero complessivo dei cittadini e dei nuovi militari di
leva. Infine, tutti i cittadini romani sono obbligati a registrare i propri nomi e a dare una valutazione giurata delle
proprietà di ciascuno, a indicare il nome del padre, la
propria età, il nome della moglie e dei figli, e a dichiarare in quale tribù urbana, o distretto dell’agro, hanno la
residenza; pena l’esproprio, la frusta e l’esser venduti
come schiavi, a conferma di quanto la riforma stia a
cuore a colui che la promuove.
Ma tutto questo — nel racconto di Dionisio di Alicarnasso — è solo la premessa all’altra e più profonda
modifica della struttura dello stato romano; perché ora
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2.
Roma e le quattro regioni urbane istituite da Servio Tullio (da Quilici).
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Servio prende i registri, calcola il numero dei cittadini e
il valore delle loro proprietà, e
introduce la più saggia di tutte le sue misure e quella che è
stata l’origine dei massimi benefici per i romani, come
mostrano i risultati3.
LA SECONDA PARTE DELLA RIFORMA SERVIANA
Seconda riforma — che, per il momento, non è
necessario esaminare nei dettagli. Per ora è sufficiente
sapere che il re: prima divide la cittadinanza in sei diverse classi in base alla ricchezza, con diritti e doveri differenziati; poi suddivide le sei classi in 193 centurie; infine,
coi più ricchi, che sono i meglio armati, costituisce la
prima classe, e via via a scalare.
Il numero di 193 centurie è dato da: 80 centurie della
prima classe, più 18 centurie di cavalieri che sono conteggiate con la prima classe, 22 centurie della seconda
classe, 20 della terza, 22 della quarta, 30 della quinta, e
infine 1 della sesta e ultima classe, singola e unica centuria, formata da tutti i cittadini più poveri, che sono i soli
a essere esentati dal servizio militare e da ogni forma di
tassazione. In totale, 80 + 18 + 22 + 20 + 22 + 30 + 1 = 193
centurie.
E su questo numero dall’aspetto insignificante — 193
— si dovrà tornare, perché è il grimaldello che apre la
porta a un’insospettata e immensa stanza del tesoro.
5
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3.
L’agro romano e le tribù rustiche (da Alfoeldi).
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UNA CENTURIA NON CONTA 100 UOMINI
Prima, però, occorre chiarire un punto importante:
quando si parla di questioni amministrative e fiscali e di
leggi elettorali — come si sta facendo ora, seguendo le
indicazioni del nostro antico referente — la parola ‘centuria’ non indica un’unità di ‘cento uomini’.
Questo dovrebbe essere già chiaro dalle cifre che si
sono appena viste: in quale città reale si potrebbero avere
esattamente 80 x 100 = 8.000 uomini con una proprietà
superiore a un valore prefissato, chiamati a formare le 80
centurie della prima classe, e 22 x 100 = 2.200 uomini
con una proprietà appena inferiore e comunque prefissata anche questa, chiamati a formare le 22 centurie della
seconda classe, e così via? E questo non soltanto in un
dato momento, ma nel corso del tempo; perché una
buona costituzione deve pur prevedere l’evolversi della
città nel corso del tempo…
Ancora, in quale città i cittadini più poveri — con
una proprietà così misera da essere esentati dal servizio
militare, perché impossibilitati a comprarsi un’arma, e
dalle tasse, perché impossibilitati a pagarle — potrebbero costituire solo una «centuria di 100 uomini», e contare dunque solo 100 rappresentanti? E, per finire, in quale
città, che non sia del paese di Bengodi, si potrebbe avere
una sola centuria di poveri e 192 di ricchi, 100 poveri e
19.200 ricchi?4 La risposta è ovvia: in nessuna. Dunque,
è chiaro che, quando si tratta di amministrazione e di
fisco, centuria non indica un’unità di 100 uomini.
Puntualmente, Dionisio lo conferma. Perché al ter7
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mine dell’esposizione della riforma serviana — un’esposizione nella quale l’aspetto amministrativo e fiscale è
strettamente connesso, ma non confuso, con l’aspetto
militare — scrive:
Tutti gli altri cittadini, che avevano una proprietà inferiore
alle dodici mine e mezzo, ma che erano più numerosi dei
precedenti, (Servio) li inserì in una sola centuria, esentandoli dal servizio militare e da ogni sorta di tasse5.
Ecco: i componenti dell’unica centuria della sesta
classe, la 193esima, da soli sono «più numerosi dei precedenti»; ossia, dei componenti delle altre 192 centurie che
formano le prime cinque classi.
Più avanti, poi, lo storico torna ancora indirettamente sulla questione, quando spiega il modo di procedere
previsto dalla riforma per raccordare gli aspetti militari e
tributari alla ripartizione del popolo in centurie:
Per completare la riforma, (Servio) reclutò le truppe ripartendole in base ai ruoli delle centurie e impose i tributi in
proporzione al valore delle loro proprietà. Per esempio, ogni
qual volta aveva un motivo di richiamare diecimila o, come
anche poteva capitare, ventimila uomini, egli avrebbe diviso
quel numero tra le 193 centurie e ordinato a ogni centuria di
fornire il numero di uomini che corrispondeva alla sua
quota. Per le spese necessarie al mantenimento dei soldati
alle armi e per le diverse esigenze militari, egli prima avrebbe
calcolato quanto denaro serviva, poi lo avrebbe diviso per le
193 centurie e avrebbe ordinato a ogni cittadino di pagare la
sua quota sulla base di questa ripartizione.
Così avveniva che coloro che avevano le più grandi ricchez-
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ze, essendo di meno di numero ma distribuiti in più centurie, erano obbligati al servizio militare più di frequente e
senza sosta, e a pagare più tasse degli altri; e che coloro che
avevano le piccole e modeste proprietà, essendo di più di
numero ma distribuiti in meno centurie, erano obbligati al
servizio militare più di rado e a rotazione, e a pagare poche
tasse; e quelli le cui proprietà non bastavano al loro stesso
mantenimento erano esenti da ogni carico6.
Queste parole spiegano in maniera chiara e esauriente il rapporto tra ‘centurie’ amministrative e ‘centurie’
militari: solo queste ultime sono unità di 100 uomini, e
sono costituite da individui ‘estratti’ — per così dire —
dalle unità più numerose che prendono il medesimo
nome di ‘centurie’ in ambito amministrativo; e prendono questo nome di ‘centurie’ proprio perché ciascuna di
loro è tenuta a fornire 100 uomini alle ‘forze armate’.
D’altra parte, la testimonianza di Dionisio si raccorda
perfettamente con le altre, di Varrone:
la ‘centuria’ è formata da quanti sono al comando di un centurione, e il loro numero regolare è di 100;
e di Festo:
in ambito militare ‘centuria’ indica cento uomini7.
Se tanto Varrone quanto Festo sentono il bisogno di
confermare che «in ambito militare», «il numero regolare della centuria è di 100 uomini», è perché sanno che in
ambiti e contesti diversi, di regola, essa non conta 100
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uomini. E Dionisio — come s’è visto — inizia a illustrare la riforma serviana partendo proprio dalla descrizione
dell’ordinamento civile, legislativo e amministrativo,
dello stato; solo più avanti spiega come da tale ordinamento si passi agli aspetti militari e tributari. Altrimenti,
sarebbe folle la sua ipotesi di una chiamata alle armi,
«come anche poteva capitare», di 20.000 uomini da un
contingente di 193 — anzi 192! — centurie di 100 individui ciascuna. D’altra parte, al momento del riepilogo
Dionisio precisa che
come risulta dai registri dei censori, il numero di tutti i
romani che allora dettero una valutazione delle loro proprietà fu di 84.7008;
e questo dimostra che all’entrata in vigore della riforma sono gli stessi ‘registri dei censori’ a fornire una cifra
che, divisa per le 193 centurie, dà una media di quasi 4409
cittadini per ciascuna ‘centuria’ amministrativa.
Dunque, qui si continuerà a parlare di ‘centurie’
tenendo presente che, in ogni ambito che non sia militare, al termine non corrispondono unità di 100 individui.
La testimonianza di Dionisio, come le altre, dovrà esser
letta tenendo presente tale avvertenza10.
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DALLA TEORIA ALLA PRATICA:
UN’IPOTESI DI APPLICAZIONE DELLA RIFORMA SERVIANA
Le parole di Dionisio sono chiare, ma coi numeri
diventano ancora più chiare; perciò, vediamo di applicare nella pratica a un esempio concreto, numerico, le
regole teoriche appena viste.
L’esempio è riassunto in tre tabelle. La Tabella 1. propone un’ipotesi di ripartizione dei cittadini nelle diverse
classi e indica quanti cittadini conta ogni centuria amministrativa. È solo un’ipotesi, dal momento che Dionisio
non fornisce le cifre dei cittadini suddivise per classi e per
centurie: non le può fornire per il semplice motivo che
queste cifre variano naturalmente col tempo, con le
nascite, con le morti, con le iscrizioni alle liste di leva,
con i mutamenti delle condizioni economiche — in altre
parole con tutti quegli eventi, naturali, culturali, sociali,
che fanno della popolazione di una città un organismo
vivente, cangiante, mutevole, e soggetto ai capricci dell’altrettanto mutevole sorte. Dunque, quello che ci dà
Dionisio è uno schema base — fisso e immutabile nel
tempo — entro cui vanno inseriti di volta in volta i dati
aggiornati e variabili rilevati via via — con lo scorrere del
tempo! — dai successivi censimenti.
La Tabella 1. riporta le cifre di un censimento ipotetico. Esse rispettano la regola universale che vuole che il
numero dei ‘contribuenti’ aumenti col diminuire del
patrimonio. Rispondono anche alle indicazioni di massima fornite da Dionisio: la prima, che per ciascuna classe
i cittadini siano in numero superiore ai componenti del11
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A
B
C
classi
cittadini per
classe
i
10.290
÷
98
=
105
ii
2.640
÷
22
=
120
iii
3.500
÷
20
=
175
iv
6.400
÷
20
=
320
v
19.200
÷
32
=
600
vi
42.670
÷
1
=
42.760
totali
84.700
÷
193
÷
=
centurie per
classe
D
cittadini per
centuria
= media ca. 439
Tabella 1. Ipotesi di ripartizione dei cittadini romani nelle centurie delle
diverse classi.
N. B. I numeri della colonna B — quindi anche quelli della
colonna D — sono ipotetici. Sono di Dionisio i numeri della
colonna C; e così pure il numero totale dei cittadini, di cui qui
non è necessario valutare la verosimiglianza. Nell’ultima riga, la
media è calcolata in base ai numeri di Dionisio.
Anche la prevalenza numerica dei cittadini della VI classe sulla
somma dei cittadini delle prime 5 classi — 42.670 contro 42.030
— è ipotetica nella grandezza, ma segue l’indicazione non quantificata di Dionisio.
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A
classi
B
+
C
=
D
richiamati
fissi + straordinari = totali
E
riservisti
F=E÷D
riservisti
rispetto a richiamati
i
9.800 + 408 = 10.208
82
0,008
ii
2.200 + 92
= 2.292
348
0,15
iii
2.000 + 83
= 2.083
1.417
0,68
iv
2.000 + 83
= 2.083
4.317
2,07
v
3.200 + 134 =
15.866
4,76
---
---
22.030
media 1,1
vi
3.334
---
totali 19.200 + 800 = 20.000
Tabella 2. Ipotesi di ripartizione dei richiamati nel caso di chiamata alle
armi di 20.000 uomini.
N. B. I richiamati fissi sono i componenti delle 192 centurie,
intese in senso militare, di ciascuna delle cinque classi; cioè, in
totale, 100 x 192 = 19.200. I richiamati straordinari sono 20.000
- 19.200 = 800.
I richiamati straordinari sono calcolati in modo da mantenere
costante la quota di ogni classe nella composizione dell’esercito:
per la prima classe, che conta 98 centurie su 192, i richiamati
straordinari sono 408 su 800, e così via.
Per ciascuna classe, la riserva (colonna E della Tabella 2) è calcolata sottraendo al numero dei cittadini (colonna B della Tabella
1) quello del totale dei richiamati (colonna D della Tabella 2).
Le prime tre classi hanno meno riservisti della media, la quarta e
la quinta più.
La sesta classe è esentata dal servizio militare.
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A
classi
B
x
C
=
D
imposta x n. centurie =
imposta totale per classe
D
÷
F
=
G
imposta totale per classe ÷
. =
i
50 x
98
=
4.900 4.900 ÷ 10.290 =
0,48
ii
50 x
22
=
1.100
1.100 ÷ 2.640
=
0,42
iii
50 x
20
=
1.000 1.000 ÷ 3.500
=
0,28
iv
50 x
20
=
1.000 1.000 ÷ 6.400
=
0,16
v
50 x
32
=
1.600 1.600 ÷ 19.200 =
0,08
vi
---
---
media 9.600 mine ÷ . = ,
Tabella 3. Ipotesi di ripartizione di un’imposta complessiva di 9.600 mine,
pari a 50 mine per centuria.
N. B. I numeri dei cittadini per ciascuna classe sono ipotetici; qui
sono dati nella colonna F, che ripete la colonna B della Tabella 1.
La colonna G dà, in mine, l’imposta che grava su ciascun cittadino delle prime 5 classi. Le prime tre classi pagano imposte
superiori alla media, la quarta e la quinta inferiori.
La sesta classe è esentata dal pagamento delle imposte.
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l’esercito, ossia al numero delle centurie moltiplicato per
cento; la seconda, che da sola la sesta classe abbia più cittadini delle prime cinque classi insieme11.
La Tabella 2. propone un’ipotesi di chiamata alle armi
di 20.000 uomini. Essi sono divisi in richiamati fissi e
straordinari: i fissi sono tutti i componenti delle 192 centurie delle prime cinque classi, intese come unità di
‘cento uomini’ — adesso si è in ambito militare! — e
dunque 19.200; gli straordinari saranno perciò 800,
quanti ne mancano per raggiungere l’ipotetico totale di
20.000 uomini.
Seguiamo le indicazioni di Dionisio: dividendo i
20.000 richiamati per le 192 centurie, si ha 104,166…
richiamati per centuria; si moltiplica 104,1666… per le
98 centurie della prima classe, e si ha i richiamati della
prima classe, in cifra tonda 10.20812. Di questi, 9.80013
sono i richiamati fissi e 40814 gli straordinari. Dato che,
in ipotesi, i componenti della classe sono 10.290, restano
di riserva 8215 uomini; e la prima classe dispone di 8
uomini di riserva per ogni 1.000 richiamati16.
Analoghi calcoli sono ripetuti per le diverse classi. La
colonna F della Tabella 2. mostra come, passando via via
dalla prima alla quinta classe, aumenti il rapporto tra
riservisti e richiamati: per la quinta vi sono 4,76 uomini
di riserva per ogni richiamato. La riserva della quinta
classe è, in percentuale, quasi 600 volte maggiore di
quella della prima classe.
La Tabella 3. propone un’ipotesi di ripartizione di
un’imposta complessiva di 9.600 mine; poiché le centurie sono 192, l’imposta è pari a 50 mine per centuria.
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Seguiamo ancora le indicazioni di Dionisio: si moltiplica le 50 mine per centuria per il numero delle centurie di ogni classe, poi si divide l’ammontare tra gli ipotetici componenti di ciascuna classe. Ad esempio, per la
prima classe le 50 mine che ogni centuria deve pagare,
moltiplicate per le 98 centurie della classe, danno in totale 4.900 mine; queste, divise per i 10.290 ipotetici componenti della classe, danno 0,48 mine per ciascuno.
Anche in questo caso, la colonna G della Tabella 3. dà
come risultato finale l’importo dell’imposta che grava su
ogni cittadino delle singole classi: e si va dalle 0,48 mine
a testa della prima classe alle 0,08 mine a testa della quinta. L’imposta pagata dalla prima classe è 6 volte maggiore di quella pagata dalla sesta classe.
In conclusione, l’esempio proposto permette di osservare come si realizza nel concreto, nei numeri, l’affermazione di Dionisio:
Così avveniva che coloro che avevano le più grandi ricchezze, essendo di meno di numero ma distribuiti in più centurie, erano obbligati al servizio militare più di frequente e
senza sosta, e a pagare più tasse degli altri; e che coloro che
avevano le piccole e modeste proprietà, essendo di più di
numero ma distribuiti in meno centurie, erano obbligati al
servizio militare più di rado e a rotazione, e a pagare poche
tasse […]17
A questo punto, però, colpisce l’esistenza, nella Roma
del VI secolo, di un primitivo, ma efficace, principio
d’imposizione progressiva sul capitale; in più, si comincia a intravedere la presenza di un altrettanto primitivo,
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ma altrettanto efficace, principio di assunzione di
responsabilità da parte delle classi più ricche; e si può iniziare a misurare il salto in avanti compiuto dalla riforma
serviana rispetto alla primitiva — quella sì, davvero —
costituzione romulea.
Il titolo di secondo ‘fondatore’18, morale, della repubblica assegnato a Servio ha una sua profonda ragion d’essere.
LA RIFORMA COL TRUCCO
Una volta chiarito il valore ‘truccato’ del termine ‘centuria’ si deve rivolgere l’attenzione a un altro trucco
nascosto nella riforma serviana; un trucco assai sottile,
della cui esistenza già gli antichi sono consapevoli, se è
vero che lo stesso Dionisio a un certo punto della sua
preziosa relazione scrive che Servio lo realizzò «senza che
la plebe se n’accorgesse». Ma conviene procedere con
ordine, sempre seguendo l’antico referente:
Dato che in questo modo aveva addossato ai ricchi l’intero
onere di rischi e di spese, e poiché ne constatava lo scontento, Servio Tullio si sforzò di alleggerirne per altra via il disagio e di mitigarne il risentimento, garantendo loro un vantaggio che li avrebbe resi in tutto padroni dello stato, mentre
escludeva i poveri da ogni ruolo nel governo. E lo mise in
atto senza che la plebe se n’accorgesse19.
Ebbene, in cosa consiste l’ingannevole ma determinante vantaggio? Consiste nella modifica del sistema
elettorale delle assemblee. Là dove si decidono le nomi17
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ne dei magistrati civili e militari, si promulgano e si abrogano le leggi, si dichiara la guerra e si sigla la pace, la vecchia regola romulea voleva che si votasse per curie, e che
tutti i cittadini, i più poveri come i più ricchi, avessero lo
stesso voto; e siccome anche a Roma — come dovrebbe
essere ovvio! — i più ricchi erano meno numerosi e i più
poveri erano più numerosi, questi ultimi prevalevano
con la maggioranza dei loro voti.
Servio riforma il sistema, divide il popolo per ‘centurie’, e non più per curie, e fa votare le 193 centurie in
ordine di classe: prima, i cosiddetti classici, cioè i cavalieri e la prima classe; poi, gli infra classem, cioè la seconda,
terza, quarta e quinta classe; infine, gli extra classem 20,
cioè la sesta e ultima classe.
Questo, in linea teorica. Nella pratica, i soli cavalieri
con la prima classe contano 18 + 80 = 98 centurie, mentre le restanti cinque classi ne contano 95; perciò, se cavalieri e prima classe votano di comune accordo, già raggiungono la maggioranza e la votazione è chiusa. Se,
invece, i cavalieri e la prima classe non votano di comune accordo e i loro 98 voti si dividono tra favorevoli e
contrari, allora è chiamata a votare la seconda classe, e
poi la terza e la quarta e la quinta, e infine l’ultima; ma
questo caso estremo si può verificare soltanto se e quando le 192 centurie delle prime cinque classi si siano divise esattamente a metà, 96 a favore di un provvedimento
e 96 contro. Così, solo in questo particolarissimo caso, il
voto dell’unica centuria della sesta e ultima classe può
diventare decisivo: ma com’è facile intuire e come precisa lo stesso Dionisio,
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ciò accadeva di rado e era quasi impossibile21.
Un trucco perfetto, raffinato, diabolico… Un trucco,
certo, ma basato su un’attenta lettura della realtà sociale
e prodotto da un’acuta razionalità; tanto che, quasi cinquecento anni più tardi, ancora Cicerone lo descrive e lo
loda con poche ma esplicite parole:
(Servio) distinse tra loro (le classi) in modo che i suffragi fossero nelle mani dei ricchi e non della massa, e fissò un principio da mantenere sempre nella costituzione di uno stato,
che i più di numero non contino più di tutti22.
PRIMA VAGLIARE CON CURA, POI ESTRARRE A SORTE
Sulle riforme serviane — si sa — sono stati scritti i
proverbiali fiumi d’inchiostro23, e già in antico ci si è
posti il problema se Servio sia stato davvero l’amico dei
poveri o piuttosto l’inventore di un sistema che favorisce
sfacciatamente i ricchi. Ma non sono mai state lette nella
chiave in cui si proverà a rileggerle ora, sempre passo
passo.
Il primo passo è semplice: Servio abolisce le vecchie
tribù basate sulle etnie e crea, tanto all’interno della cinta
urbana, quanto all’esterno, nell’agro, le nuove tribù basate sul territorio. Così facendo egli realizza un sistema
oggettivo, e non più soggettivo, di ripartizione del popolo: i Ramni possono essere diversi e superiori o inferiori
ai Tizi e ai Luceri, o viceversa — sono questi i nomi delle
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tre etnie di Roma arcaica — ma chi risiede sul Palatino
non è diverso e superiore o inferiore a chi risiede nella
Suburra o sul Quirinale o sull’Esquilino — e questi sono
i nomi delle quattro regioni serviane. Con la riforma,
semplicemente, ogni cittadino romano ‘risiede’ in una
determinata regione dell’urbe o in un determinato
distretto dell’agro, e ‘possiede’ una determinata ricchezza; due criteri oggettivi — residenza e proprietà — che
escludono preferenze o parzialità, e rendono tutti i cittadini uguali tra loro, a prescindere dalle reali e ben presenti differenze. Da questo punto di vista, dunque, il
compito del censore è simile a quello del giudice: al pari
della legge, «la censura è uguale per tutti».
Il secondo passo è più complesso e si articola in tre
momenti. Prima Servio divide il popolo in due parti: i
classici e gli infra classem vanno a comporre l’esercito,
mentre gli esclusi, gli extra classem, vengono separati e
inseriti indistintamente nella sesta classe; poi suddivide
ulteriormente classici e infra classem in cinque classi, in
base al censo; infine ripartisce le classi in ‘centurie’ di
diversa consistenza numerica.
Se si prova a leggere questo secondo passo in chiave
simbolica, balza agli occhi che è come se il re stesse mettendo in pratica, sull’intera cittadinanza, un’operazione
tecnica tipica della lavorazione dei cereali. In qualsiasi
cultura, primitiva o moderna, e qualsiasi sia il genere di
cereale utilizzato — farro, avena, riso, grano, ecc. — una
volta effettuata la raccolta si procede a un’operazione che
si svolge in due fasi ravvicinate e con differenti modalità,
secondo genere e quantità da lavorare. Ma essa inizia
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sempre con la battitura — o trebbiatura — e/o la macinazione, che frantuma i chicchi provocando la loro separazione dalla crusca; e si conclude con la vagliatura — o
setacciamento — che elimina la crusca e seleziona i chicchi secondo le diverse dimensioni.
Servio esegue proprio queste due operazioni: prima
separa i classici e gli infra classem dagli extra classem, e così
separa la crusca dai chicchi, confinando la ‘crusca’ — gli
extra classem — nella sesta classe. Poi seleziona i ‘chicchi’
delle prime cinque classi — i classici e gli infra classem —
come se stesse utilizzando un enorme setaccio, al quale
aumenta progressivamente la sezione dei fori. A ogni
successivo aumento corrisponde la separazione di una
certa categoria di cittadini dal resto della popolazione:
inizialmente dai fori più stretti passano solo i pochi cittadini più ricchi che formano le 80 centurie della prima
classe e le 18 dei cavalieri; poi i fori vengono allargati via
via e lasciano passare i cittadini che costituiranno, in successione, le tre classi seguenti; da ultimo i fori vengono
allargati ancora e lasciano passare i cittadini che costituiranno la quinta classe. E non si deve credere che la
metafora del ‘setaccio’ sia un’immagine letteraria di chi
scrive. Lo strumento è già presente in Livio che fa di Servio il fondatore «di tutte le divisioni in classi dei cittadini»24: il suo termine discrimen deriva dalla stessa radice
della forma verbale cernere, il cui primo significato è
«setacciare, vagliare».
Così, anche quello adottato nel secondo passo della riforma è un criterio oggettivo di inquadramento e di ripartizione dei membri di una collettività; un criterio che fran21
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tuma e separa, setaccia e seleziona, ma che esclude sempre
preferenze o parzialità: tratta tutti i cittadini in uguale
maniera, ma non perde mai di vista le reali differenze.
Finalmente, per completare l’opera Servio modifica il
sistema elettorale nel modo che si è detto. Solo che — se
lo si osserva con attenzione — il nuovo sistema è un’estrazione a sorte: si estraggono inizialmente i cavalieri e
la prima classe, e se votano d’accordo — è come dire, se
escono i due numeri vincenti — la votazione è bella e
conclusa; si estrae un ambo e il gioco è fatto. Se, invece,
i cavalieri e la prima classe non votano d’accordo — se
non esce l’ambo — si va avanti, estraendo la seconda, e
poi la terza, e la quarta, e la quinta, e infine la sesta classe; in altre parole, non basta un ambo, né un terno, né
una quaterna, né una cinquina, ma serve addirittura una
sestina, perché i poveri possano uscire vincitori a quest’antica lotteria e chiudere a loro favore il gioco, influendo e addirittura determinando, con il loro unico voto, il
risultato della votazione.
Ma — come sanno gli infiniti, settimanali giocatori
del moderno e nostrano Superenalotto, che devono
indovinare proprio sei numeri per imbroccare una vincita plurimiliardaria — questo non capita quasi mai. È
quel che nota Livio, quando scrive come «di rado, raro»
accada che i cavalieri e la prima classe votino in disaccordo e che «quasi mai, fere unquam» si arrivi a far votare la sesta classe25; ripetendo, con altre parole, quanto si è
già sentito constatare da Dionisio:
ciò accade di rado e è quasi impossibile.
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IL PRIMO CENSORE
Guardando le riforme serviane da questa prospettiva
diviene inutile porsi la classica domanda: che regime
vuole creare Servio, un regime democratico o aristocratico, popolare o oligarchico? Perché Servio non è un Robin
Hood ante litteram, non toglie ai ricchi per dare ai poveri, e non fa nemmeno il contrario, non toglie ai poveri
per dare ai ricchi. L’ottica in cui si muove Servio è un’altra: lui sa bene che i suoi concittadini sono ricchi e poveri, o anche ricchissimi e poverissimi, ma non è su quest’aspetto della vita sociale che vuole e deve intervenire;
il suo compito non è di modificare in un verso o nell’altro lo stato delle cose in questo settore; non è qui che la
sua riforma deve incidere, e non è qui che incide.
In realtà, Servio ha un primo obiettivo, attuare una
condizione di partenza uguale per tutti i cittadini indipendentemente dalla loro ricchezza; e un secondo obiettivo, far entrare in gioco la sorte, manifestazione terrena
della sua personale protettrice celeste, la sua àyami, la dea
Fortuna26.
I ricchi — coloro che hanno avuto in sorte una maggiore dotazione di beni — li sfavorisce accollando loro
l’onere delle tasse e del servizio militare, ma li compensa
con tante centurie con diritto di voto per pochi cittadini; e questo compenso ha una doppia faccia, perché i
pochi cittadini delle tante centurie sono «obbligati al servizio militare più di frequente e senza sosta e a pagare più
tasse degli altri».
I meno ricchi — coloro che hanno avuto in sorte una
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via via sempre minore dotazione di beni — li sfavorisce,
anche loro, con l’onere delle tasse e del servizio militare,
ma li compensa con un discreto numero di centurie con
diritto di voto in proporzione al numero dei cittadini; e
pure questo compenso ha una doppia faccia, perché il
minor numero delle centurie dà diritto a un minor numero di voti, ma il maggior numero di componenti di ciascuna centuria fa sì che questi «sono obbligati al servizio
militare più di rado e a rotazione e a pagare poche tasse».
I poveri — coloro che hanno avuto in sorte una minima dotazione di beni — li favorisce togliendo loro l’onere delle tasse e del servizio militare, ma li danneggia
con una sola centuria per tanti cittadini, per la maggioranza di loro, addirittura!
Tirate le somme, quello di Servio è un sottile gioco
d’equilibrio: pesa, misura, valuta, e poi corregge, cercando sempre di fare in modo che, nella misura delle umane
possibilità, le due facce della medaglia siano equivalenti.
Alla fine sarà la sorte, una sorte individuale, decisa non
dall’atto sovrano del re ma dall’arbitrio capriccioso di
una misteriosa, insondabile, mutevole potenza superiore,
a stabilire quale faccia debba mostrare la medaglia a ciascuno dei componenti della comunità cittadina.
SERVIO E LA RIFORMA FONDATA SUI NUMERI
Torniamo alla riforma serviana per completarne l’esame. E vediamo — riepilogata nella Tabella 4. — la struttura della «più saggia di tutte le misure e quella che è
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stata l’origine dei massimi benefici per i romani»; la
struttura, cioè, del nuovo stato romano e del suo esercito, voluto e creato dal «secondo fondatore».
Come si è già accennato, l’intera popolazione è divisa
in sei classi in base alle proprietà del pater familias, ossia
a quello che oggi è chiamato il capitale; col quale capitale allora ogni cittadino di leva si paga il proprio armamento. Così, nella Roma di Servio chi possiede più di
100 mine fa parte della prima classe, chi possiede meno
di 100 mine ma più di 75 fa parte della seconda, e via
seguitando: chi possiede più di 50 mine fa parte della
terza classe, chi ne ha più di 25 della quarta, chi ne ha più
di 12,5 della quinta, mentre quanti possiedono meno di
12,5 mine compongono la sesta e ultima classe.
La prima classe ha l’armamento migliore — scudo circolare, lancia, elmo di bronzo, corazza, schinieri e spada —
e occupa le prime linee dello schieramento; conta 80 centurie, 40 di giovani dai 16 anni compiuti ai 4527, destinati a
andare in guerra, e 40 di anziani sopra i 45 anni compiuti,
impegnati a difendere la città. A queste 80 centurie di fanti
vanno aggiunte 18 centurie di cavalieri, selezionati tra i
componenti della stessa prima classe28. La seconda classe ha
un armamento appena inferiore — scudo oblungo e niente corazza — e si dispone dietro le prime linee dello schieramento; conta 20 centurie, 10 di giovani e 10 di anziani,
con gli stessi compiti dei precedenti. La terza classe ha un
armamento ancora inferiore — niente schinieri — e si
dispone dietro la seconda classe; conta anch’essa 20 centurie, 10 di giovani e 10 di anziani. La quarta classe è armata
di scudi, spade e lance, e occupa l’ultima linea dello schie25
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classi
centurie
capitale = c.
(in mine)
IUNIORES
SENIORES
totale
i + cavalieri
c. > 100
40 + 18
40
80 + 18
ii
100 > c. > 75
10 + 1
10 + 1
20 + 2
iii
75 > c. > 50
10
10
20
iv
50 > c. > 25
10 + 1
10 + 1
20 + 2
v
25 > c. > 12,5
15
15
30
vi
12,5 > c.
1
totale delle centurie
1
193
84.700
totale dei cittadini censiti
Tabella 4. La costituzione serviana (secondo Dionisio).
N. B. Secondo Dionisio, le due centurie di fabbri e carpentieri
vanno aggiunte alla seconda classe, e le due centurie di trombettieri e suonatori alla quarta. Livio (a. u. c., 1. 43.) le aggrega,
rispettivamente, alla prima classe e alla quinta. Questo non
modifica la sostanza dei conti fatti in precedenza e non incide
sulle considerazioni che seguono.
Livio (a. u. c., 1. 43.) indica non in 12 e mezzo, ma in 11 mine —
più esattamente in 11.000 assi — il limite superiore del censo
della sesta classe, ma anche questo non incide sostanzialmente
sulle nostre considerazioni.
Le centurie dei cavalieri sono solo di iuniores; mentre la sesta classe, non contribuendo a costituire l’esercito, non è divisa tra iuniores e seniores.
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ramento; conta 20 centurie, 10 di giovani e 10 di anziani.
La quinta classe è armata di giavellotti e di fionde, e in battaglia si dispone fuori dello schieramento; conta 30 centurie, 15 di giovani e 15 di anziani. Infine, 2 centurie di fabbri
e carpentieri e 2 di trombettieri e suonatori, sempre suddivise in giovani e anziani, sono unite le prime alla seconda
classe e le ultime alla quarta29.
Tutti questi — come si è visto — costituiscono i classici e gli infra classem 30. A loro — anche questo si è visto
— vanno aggiunti gli extra classem, che costituiscono la
sesta e ultima classe, formata dalla sola 193esima centuria,
nella quale rientrano «tutti gli altri cittadini, che avevano
una proprietà inferiore alle dodici mine e mezzo ma che
erano più numerosi dei precedenti»; questa sesta classe è
esente dal servizio militare e da ogni sorta di tassazione.
Dunque — riepiloga lo stesso Dionisio,
vi erano 6 divisioni che i romani chiamano ‘classi’[…] e le
centurie incluse in queste divisioni ammontavano a 193. La
prima classe contava 98 centurie, compresa la cavalleria; la
seconda, 22, con gli artigiani; la terza, 20; la quarta, ancora
22, con i trombettieri; la quinta, 30; e l’ultima, 1 centuria,
composta dai cittadini poveri31.
Si nota subito — e del resto già risulta dalla Tabella 4.
— che la descrizione della costituzione serviana è ricca di
dati e di numeri. Purtroppo, ne mancano alcuni che la
tradizione non riporta e che non si possono ricavare da
quelli noti, e sono — come si è notato — i numeri che
risponderebbero a queste domande: come sono ripartiti
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gli 84.700 cittadini censiti nelle 6 classi e nelle 193 centurie? e le centurie, pur non contando 100 uomini ciascuna, hanno tutte lo stesso numero di componenti? o
seguono invece, ad esempio, una successione inversa a
quella che si riscontra nei valori dei capitali che costituiscono i limiti di ciascuna classe?
Perché, se si prendono i limiti inferiori di questi valori censuari, ci si accorge che essi seguono una specie di
successione: se si fanno uguale a 1 le 12,5 mine che costituiscono il limite inferiore della quinta classe, e si risale
via via le classi32, si ha un limite inferiore 2 per la quarta
classe, 4 per la terza, 6 per la seconda, 8 per la prima; e la
successione 1, 2, 4, 6, 8.
È come dire che i componenti della prima classe
hanno un capitale di almeno 8 volte quelli della sesta, i
componenti della seconda un capitale di almeno 6 volte
quelli della sesta, e così via. Allora la domanda è: è possibile che, all’inverso, i componenti della sesta classe siano
8 volte più numerosi di quelli della prima, 6 volte quelli
della seconda, e così via? Certo, è possibile; ma si è sicuri
che calcoli di questo tipo non allontanino da una città
reale e non riportino a una città puramente ideale? All’opposto, la testimonianza di Dionisio33 lascia intravedere
una ripartizione del tutto casuale dei componenti delle
centurie delle diverse classi e sembra orientata non su una
rigida e astratta architettura di numeri, progettata a tavolino e immodificabile per l’eternità, ma su dei numeri
reali e dunque — come si è detto — variabili col tempo
e con gli eventi naturali, culturali e sociali che fanno della
popolazione di una città un organismo vivo e mutevole.
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D’altra parte, se la costituzione serviana fosse stata
costruita sulla base di quella o di un’altra ipotetica architettura, come mai se ne sarebbe perso il ricordo? Se una
semplice regola matematica avesse stabilito per ogni classe il numero dei componenti delle centurie, è probabile
— ma non certo — che se ne sarebbe conservata la
memoria, come si è conservata la memoria della successione dei valori del censo.
Comunque si vogliano considerare le cose, è più prudente stare ai fatti, e i fatti sono i numeri di cui si dispone: il 6 delle classi, il 193 delle centurie, l’84.700 dei cittadini, e gli altri numeri dei livelli delle classi di reddito
e delle centurie nelle diverse classi. Una dotazione sufficiente per definire la riforma serviana come una riforma
fondata sui numeri.
Soprattutto quando si nota qualcosa che è sfuggito
finora all’attenzione degli studiosi, e cioè che il più significativo di questi numeri — il 193 delle centurie — ha la
proprietà di essere la somma di due quadrati: 193 è la
somma del quadrato di 12 più il quadrato di 7 34. Nella simbologia matematica: 193 = 122 + 72.
Questa proprietà del numero 193 rimanda al teorema
di geometria che, nella nostra cultura, continua a prendere il nome di ‘teorema di Pitagora’, anche se oggi si sa
con certezza che esso era conosciuto già nel secondo millennio in Mesopotamia e in Egitto:
in un triangolo rettangolo, l’area del quadrato costruito sul
lato più lungo — l’ipotenusa — è uguale alla somma delle
aree dei quadrati costruiti sui due lati più corti — i cateti.
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4.
Tre triangoli rettangoli con cateto maggiore A, cateto minore B e ipotenusa C. I lati del triangolo esterno sono rispettivamente: A = 168, B =
95, C = 193; quelli del triangolo di mezzo sono: A = 12, B = 7, C = √193;
quelli del triangolo interno sono: A = 3, B = 4, C = 5. Questi ultimi sono
i tre numeri interi più piccoli che misurano le lunghezze dei lati di un
triangolo rettangolo; perciò 3, 4, e 5 costituiscono la prima ‘terna pitagorica’.
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Nella simbologia matematica, se l’ipotenusa è C e i
cateti sono A e B, il teorema si esprime con l’equazione:
C 2 = A 2 + B 2. Confrontata con la precedente — 193 = 122
+ 72 — l’ultima equazione ci dice che, nel triangolo rettangolo costruito con questi numeri, i valori dei cateti A
e B sono, rispettivamente, 12 e 7, mentre il valore dell’ipotenusa C è dato dalla radice quadrata di 193 (fig. 4). 12
e 7, però, non sono due numeri qualsiasi, ma numeri
dalle precise implicazioni cosmologiche: 12 sono i segni
zodiacali e 7 i corpi celesti ‘erranti’; la scelta non ha l’aria
di esser stata casuale.
PITAGORA E IL MONDO FONDATO SUI NUMERI35
Il fatto che 193 sia pari alla somma di due quadrati,
unito alla dotazione di numeri della riforma serviana,
spinge a orientarne l’analisi in una nuova direzione. Perciò, qui si apre una digressione utile a esaminare concisamente la figura di Pitagora e le conquiste scientifiche,
di gran lunga più avanzate del ‘semplice’ teorema, che la
tradizione attribuisce al Maestro e ai suoi successori: l’armonia delle note musicali e quella delle sfere celesti, i
poliedri regolari, le terne pitagoriche; da queste ultime si
tornerà al punto di partenza, al numero 193.
«Tutto è numero», proclama il motto della scuola
pitagorica. «Tutto è numero»: così 1 è il loro progenitore,
e quasi quasi non è un numero nel senso più completo
del termine; è rappresentato dal punto, che a sua volta è
il progenitore di tutte le dimensioni dello spazio, pur
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non possedendone alcuna. 2 è il primo numero femminile, e il numero della divisione e della linea estesa in una
dimensione. 3 è il primo vero numero, maschile e reale,
con un inizio, un mezzo e una fine; è rappresentato dal
triangolo, primo esempio di superficie estesa su due
dimensioni. 4 è il numero della giustizia e dell’ordine;
poiché tre punti giacciono per forza su un piano, ma
quattro no, ecco che 4 è rappresentato da un volume —
quello del primo esempio di figura solida, il tetraedro o
prisma — che si espande su tre dimensioni. E ora la
somma di 1 + 2 + 3 + 4, cioè il 10, rappresenta il cosmo
intero, il ‘tutto’. E poi il 5, unione del primo numero
femminile — 2 — e del primo numero maschile — 3, è
il numero dell’amore; e infine, il 6 è il numero della
‘creazione’, il primo numero perfetto, pari alla somma dei
suoi divisori: 1, 2 e 3, con 1 + 2 + 3 che dà 6.
Si potrebbe proseguire, ma prima è meglio vedere chi
è Pitagora, padre-profeta di un’idea del mondo che unisce e fonde in un insieme indistinguibile razionalità e
visionarietà. Al pari di Servio Tullio, Pitagora è una figura al confine tra mito e storia; questo già dal nome, che
in antico è inteso «colui che annuncia (la verità) come
l’Apollo Pizio»36. D’altra parte, egli non ha lasciato suoi
scritti, né vi è testimonianza diretta su di lui. Tutto quello che si sa ci giunge per via indiretta e a volte anche
tarda; così, ad esempio, le tre Vite — di Diogene Laerzio,
di Porfirio e di Giamblico — che risalgono al III o al IV
sec., costituiscono dei documenti importanti e attendibili, ma di quasi un millennio posteriori agli eventi.
Ciò nonostante, nessuno dubita che Pitagora sia vis32
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suto davvero, che sia nato a Samo, nel mare Egeo di fronte alle coste dell’Anatolia, attorno al 580-570 a. C., che si
sia stabilito a Crotone, in Magna Grecia, verso il 530, e
che sia morto poco dopo il 500, sempre nel Mezzogiorno d’Italia, forse a Metaponto. Di modo che l’arco della
sua vita verrebbe — il condizionale è d’obbligo, non
fosse che per il dubbio su Servio — a sovrapporsi per
buona parte a quella del sesto re di Roma, il cui regno è
datato negli anni che vanno tra 578 e 535. Pure, non una
sola testimonianza antica lega tra loro le due figure, mentre, sfidando più o meno consapevolmente la cronologia,
Pitagora è messo in rapporto con un predecessore di Servio, Numa Pompilio37, il secondo re, le cui date tradizionali sono 715-673.
Sia ben chiaro: qui non si ha intenzione di rimettere
in discussione tale visione dei fatti, né di formulare ipotesi fantasiose circa un’influenza di Pitagora, e meno
ancora del suo più tardo seguace Platone, su Servio e la
sua costituzione; ma si vuole richiamare l’attenzione su
un aspetto finora ignorato, in base al quale questa costituzione potrebbe esser definita ‘pitagorica’, o meglio
‘pitagorico-platonica’.
Tralasciando le tante sfaccettature della figura di Pitagora — il profeta e fondatore di una società segreta, lo
sciamano, il maestro di vita di discepoli, anche etruschi38,
l’istruttore e il consigliere di legislatori, anche romani39; in
una sola parola che oggi va tanto di moda, un guru —
concentriamo l’attenzione sulle sue vaste e profonde competenze scientifiche, tutte senza eccezione originarie di
quell’Oriente in cui egli trascorse lunghi anni di studio:
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A proposito della formazione di Pitagora, i più affermano
che egli avrebbe appreso le scienze cosiddette matematiche
dagli egizi, dai caldei e dai fenici — perché gli egizi sin dall’antichità si erano occupati della geometria, i fenici della
scienza dei numeri e del calcolo, i caldei dell’osservazione
della volta celeste.
Le cerimonie del culto divino e ogni altra abitudine di vita
— a quanto dicono — le apprese dai magi e da essi le
mutuò40.
Così, stando alla tradizione, il risultato degli studi
presso i popoli che erano considerati dagli stessi greci
come i depositari di una millenaria sapienza fu una serie
di conquiste del pensiero, che andranno descritte brevemente. Non senza aver precisato che i moderni studiosi
di storia della matematica ritengono che l’attribuzione di
tutte queste conquiste al solo Pitagora rappresenti una
forzatura della tradizione più tarda, che le avrebbe progressivamente accentrate attorno alla sua figura; nei fatti,
è assai più probabile che esse siano il risultato di una serie
di sforzi individuali e collettivi, che nascono col Maestro
e si sviluppano nell’arco dei cento o duecento anni successivi, grazie anche a altre figure eminenti come Enopide, Filolao, Archita, e a tutti quelli che già Aristotele
chiama indistintamente «i cosiddetti Pitagorici».
Da parte loro, gli studiosi di filologia sono ancora più
drastici e tendono a sottolineare che
nessun testimone antico attesta che Pitagora sia stato uno
scienziato; nello studiare l’ombra che egli proiettò sulle generazioni successive, tutto ciò di cui possiamo essere sicuri è
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quel misterioso plšon ti e„dšnai (‘sapere di più’) dello sciamano e dello ierofante41,
così che solo al tempo di Aristotele — circa duecento
anni più tardi — si sarebbe affermata «una concezione di
Pitagora che era naturalmente del tutto ignota agli autori preplatonici».
In altre parole, per i filologi, l’autentico Pitagora
sarebbe stato, sì, il creatore di un PuqagÒreioj trÒpoj
toà b…ou, «costume di vita pitagorico»42; ma non il grande innovatore della geometria e della matematica e il
fascinoso ideatore di una nuova visione del cosmo.
PITAGORA E L’ARMONIA DELLE NOTE MUSICALI
E DELLE SFERE CELESTI
Comunque siano andate effettivamente le cose, qui
noi stiamo studiando delle conoscenze scientifiche e
delle idee del mondo che certamente giunsero e si svilupparono e si radicarono e da lì si diffusero, in Grecia e
in Magna Grecia tra il VI e il IV secolo, e che da un dato
momento in poi furono stabilmente legate al nome di
Pitagora e della sua Scuola.
Tra i tanti esempi di questa straordinaria sapienza,
quello di più comune cognizione è dato dalla ‘tavola pitagorica’ — le cosiddette ‘tabelline’ — banale strumento
mnemonico dei valori ottenuti moltiplicando tra loro i
primi dieci numeri naturali, che si studia a scuola fin dalle
elementari. Meno noti, più specialistici, sono altri due
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La struttura del sistema solare e i cinque solidi regolari, secondo Giovanni Keplero, Mysterium cosmographicum del 1596.
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eccezionali contributi che lo «studioso appassionato della
sapienza» — fu proprio lui, secondo una leggenda tarda e
forse bugiarda, a coniare la parola ‘filosofo’ per definire se
stesso43 — avrebbe fornito: le regole matematiche dell’armonia delle note musicali e i solidi regolari. Quando poi,
sviluppando ulteriormente la propria riflessione, Pitagora
mise in rapporto sia l’armonia delle note sia i solidi regolari con i moti planetari, con la struttura dell’universo e
con gli elementi di cui questo è costituito, fissò davvero
un caposaldo del pensiero di tutti i tempi. Un caposaldo
destinato a durare più di duemila anni, se ancora l’ultimo
degli astronomi-astrologi classici e primo dei moderni,
Giovanni Keplero, nel suo Mysterium cosmographicum del
1596, descrive la struttura del sistema solare distanziando
le orbite dei sei pianeti conosciuti sulla base dei rapporti
determinati dai cinque solidi regolari (fig. 5).
Un aneddoto riferito da più di un autore antico racconta la storia della prima scoperta: furono i suoni acuti
e gravi, provenienti dalla bottega di un fabbro intento a
battere il ferro incandescente, che indussero Pitagora a
fare una serie di esperimenti — e si tratta probabilmente dei più antichi esperimenti ‘scientifici’ di cui ci sia
giunta notizia — con martelli, pesi, corde, campane,
flauti (fig. 6). Ne risultarono sei valori di rapporti tra le
lunghezze delle corde tese di uno strumento a arco, o tra
le lunghezze di uno strumento a fiato, capaci di produrre note armoniche tra loro:
L’epitrito è il rapporto di due numeri, di cui il più grande
contiene il più piccolo per intero più la sua terza parte, come
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6.
Gli esperimenti di Pitagora, in una rappresentazione tratta da Franchino Gafurio, Theorica Musicae del 1492.
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quattro su tre. In realtà, il quattro è la somma di tre più la
terza parte di tre, cioè uno. Questo numero si chiama epitrito e genera l’accordo chiamato ‘di quarta, di¦ tess£rwn’44.
Allo stesso modo, Pitagora individuò (Tabella 5):
— l’emiolo, il rapporto di due numeri, di cui il più
grande contiene il più piccolo per intero più la sua metà,
come tre su due, che genera l’accordo chiamato «di quinta, di¦ pšnte»;
— il rapporto di doppio, tra due numeri di cui il più
grande contiene due volte il più piccolo, come quattro su
due, che genera l’accordo chiamato «di ottava, di¦ pasîn»;
— il rapporto di triplo, tra due numeri di cui il più
grande contiene tre volte il più piccolo, come tre su uno,
che genera l’accordo chiamato «di ottava più quinta, di¦
pasîn kaˆ di¦ pšnte»;
— il rapporto di quadruplo, tra due numeri di cui il
più grande contiene quattro volte il più piccolo, come
quattro su uno, che genera l’accordo chiamato «di doppia ottava, dˆj di¦ pasîn»;
— l’epogdo, tra due numeri di cui il più grande contiene un numero più piccolo più l’ottava parte di questo,
come nove su otto, che genera l’accordo chiamato «di
tono, tÒnoj».
Una volta accertate sperimentalmente le proprietà
armoniche legate ai rapporti tra le lunghezze delle corde
di uno strumento, i «cosiddetti Pitagorici» si spinsero
arditamente più avanti nella loro ricerca:
vedevano che le proprietà e i rapporti degli accordi armonici
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nome del rapporto valore del rapporto accordo musicale
armonico
armonico
generato
epitrito
4÷3
di quarta
emiolo
3÷2
di quinta
di doppio
4÷2
di ottava
di triplo
3÷1
di ottava più quinta
di quadruplo
4÷1
di doppia ottava
epogdo
9÷8
di tono
Tabella 5. I rapporti armonici pitagorici.
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consistono di numeri e infine pareva loro che anche per il
resto tutta la realtà fosse a immagine dei numeri […] essi
arrivarono a supporre che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose e tutto quanto il cielo fosse armonia e
numero. E tutte le concordanze con le vicende e le parti del
cielo, nonché con l’ordinamento dell’intero universo che essi
riuscivano a mostrare nei numeri e negli accordi armonici, le
raccoglievano e le ponevano in correlazione45.
Così, dalla pratica si passò alla teoria — e dalla terra al
cielo — sempre in base ai numeri e ai loro rapporti: «nel
numero c’è tutto e fra tutti i numeri intercorre un rapporto»46. E qui un’intera serie di testimonianze tarde riferisce
direttamente al Maestro la nuova, straordinaria visione di
un’armonia del mondo, che ci viene descritta da Censorino:
Pitagora rivelò che tutto questo universo è organizzato in
base a rapporti musicali e che le sette stelle erranti tra cielo e
terra, che regolano le nascite dei mortali, hanno un moto
armonico e delle distanze corrispondenti agli intervalli musicali; in rapporto alla propria distanza, ognuna di loro emette suoni diversi, così armonici da creare una melodia soavissima, che però noi non udiamo per l’intensità del suono che
la limitatezza delle nostre orecchie non riesce a contenere…
Quindi, Pitagora riteneva che dalla terra alla luna ci fossero
circa 126.000 stadi, e questo intervallo è di un tono; dalla
luna alla stella di Mercurio, che è detta Stilbonte, la metà,
cioè un semitono; da questa a Fosforo, la stella di Venere,
circa altrettanto, cioè un altro semitono; e da qui fino al sole
tre volte tanto, cioè un tono e mezzo.
Così, il sole dista dalla terra tre toni e mezzo, ossia l’intervallo detto di quinta, di¦ pšnte, e dalla luna due toni e mezzo,
ossia l’intervallo di quarta, di¦ tess£rwn.
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cielo
accordo
parziale
generato
distanza
accordo
totale
generato
stelle fisse
½ tono
di quarta
o
½ tono
di¦ tessarwn
½ tono
=
2 + ½ toni
saturno
giove
marte
di ottava
o
1 tono
di¦ pasîn
1 + ½ toni
=
sole
venere
½ tono
di quinta
o
½ tono
di¦ pšnte
1 tono
=
3 + ½ toni
mercurio
luna
terra
Tabella 6. L’armonia delle sfere celesti secondo Pitagora.
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6 toni
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l’armonia delle sfere sociali
Dal sole alla stella di Marte, chiamata Pirois, la distanza è la
stessa che vi è dalla terra alla luna, e che fa un tono; da qui
alla stella di Giove, chiamata Fetonte, (la distanza è) la metà
della precedente, che fa un semitono; altrettanto da Giove
alla stella di Saturno, che fa un altro semitono; da qui al cielo
più alto, dove sono i segni zodiacali, lo stesso un semitono.
Così, dal sommo dei cieli al sole vi è un intervallo di quarta,
di¦ tess£rwn, ossia di due toni e mezzo; e ancora dal
sommo dei cieli alla terra vi sono sei toni, ossia l’accordo di
ottava, di¦ pasîn47.
Fu di fronte a uno schema come questo (Tabella 6)
che Pitagora sentì la necessità — o fu ardire, o orgoglio?
— di chiamare con un nuovo nome niente meno che
quel cielo stellato che da tempo immemorabile attira
irresistibilmente lo sguardo di ogni rappresentante dell’umanità in terra: kÒsmoj, il ‘cosmo’, cioè — alla lettera
— «l’ornato, l’ordinato, il ben ordinato»48.
Sempre da uno schema come questo, e dalla concezione che ne è alla base, Pitagora trasse l’idea che il suono
melodioso prodotto dal moto dei pianeti nel loro eterno
ruotare attorno alla terra, e la conseguente «armonia
delle sfere celesti», potessero essere uditi soltanto da un
individuo dalle caratteristiche eccezionali; non era da
comuni mortali sentirlo, così come non era stato da
comuni mortali concepirlo, e con ciò il Maestro riaffermava ancora una volta il potere che nasce da «quel misterioso sapere di più dello sciamano e dello gerofante»:
Lui ascoltava l’armonia del Tutto, in grado com’era di comprendere l’universale armonia delle sfere e degli astri che
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entro queste si muovevano, che la pochezza della nostra
natura umana ci impedisce di udire […]49
PITAGORA, TEETETO, PLATONE E IL MONDO
FONDATO SUI SOLIDI REGOLARI
L’altra grande scoperta di Pitagora — i solidi regolari
— è suggerita esclusivamente da un accenno isolato di
Giamblico:
Quanto a Ippaso, dicono che fosse un pitagorico e che fosse
morto in mare, alla stregua di un reo di sacrilegio, per essere
stato il primo a divulgare, per iscritto, il segreto della sfera
dai dodici pentagoni; ma che si fosse guadagnato la fama di
essere stato lui l’artefice della scoperta, laddove ogni cosa
apparteneva in realtà all’‘Uomo’ — così chiamano Pitagora,
senza utilizzare il suo nome50.
Qui, con l’espressione «la sfera dai dodici pentagoni»
si indica certamente il ‘dodecaedro’, la figura geometrica
con dodici facce pentagonali, primo dei cinque solidi
regolari di cui ora ci si dovrà occupare.
In realtà, sul rapporto tra Pitagora e i solidi regolari la
discussione è più aperta che mai, e le testimonianze
vaghe e frammentarie. Oltre a quella di Giamblico, ve ne
sono altre due, di Proclo e di Aezio, che dicono rispettivamente,
(Pitagora) trovò anche la trattazione delle proporzionali e la
costruzione delle figure cosmiche;
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l’armonia delle sfere sociali
e:
Pitagora, delle figure solide che sono cinque — che si chiamano anche matematiche — dal cubo afferma che sia provenuta la terra, dal tetraedro il fuoco, dall’ottaedro l’aria, dall’icosaedro l’acqua, e dal dodecaedro la sfera del tutto51.
A queste testimonianze si contrappone una terza, di
uno scolio anonimo agli Elementi di Euclide, che sostiene:
In questo 13° libro sono descritte le cinque figure, cosiddette
di Platone, che non sono però sue. Ma tre delle cinque — il
cubo, il tetraedro e il dodecaedro — sono dei Pitagorici; l’ottaedro e l’icosaedro, invece, (sono) di Teeteto. Presero la
denominazione da Platone per via che egli ne ha fatta menzione nel Timeo52.
Sulla base di questa documentazione, il quadro che la
critica ricostruisce è il seguente: a Pitagora e ai suoi studi
in Egitto e in Mesopotamia vanno fatte risalire una serie
di conoscenze di geometria, e a lui e ai suoi primi e diretti allievi l’individuazione di tre dei poliedri regolari:
cubo, tetraedro e dodecaedro, e probabilmente la loro
prima associazione con gli elementi. Solo alla generazione successiva, e in particolare a Teeteto, risale la conoscenza di ottaedro e icosaedro; mentre al contemporaneo
Platone, che si avvalse anche degli insegnamenti del pitagorico Archita di Taranto, se ne deve la definitiva collocazione in un complesso sistema filosofico.
«Non varchi questa soglia chi ignora la geometria»,
era scritto sulla porta dell’Accademia di Atene; e i cinque
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7.
I cinque solidi regolari ‘platonici’ sono:
1 - il tetraedro - o prisma - con quattro facce triangolari;
2 - il cubo - o esaedro - con sei facce quadrate;
3 - l’ottaedro, con otto facce triangolari;
4 - il dodecaedro, con dodici facce pentagonali;
5 - l’icosaedro, con venti facce triangolari.
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solidi regolari ‘platonici’ sono la quintessenza della geometria. Essi sono le sole figure geometriche tridimensionali a possedere le seguenti proprietà: tutte le facce sono
uguali; tutte le facce sono equilatere; tutti i vertici toccano la superficie della sfera circoscritta a ciascun solido.
In particolare, i cinque solidi sono: il tetraedro — o
prisma — con quattro facce triangolari; il cubo — o esaedro — con sei facce quadrate; l’ottaedro, con otto facce
triangolari; il dodecaedro, con dodici facce pentagonali;
l’icosaedro, con venti facce triangolari (fig. 7).
Ogni solido regolare fu associato a un elemento, e
precisamente: il tetraedro al fuoco, in quanto di forma
«più mobile»; l’ottaedro all’aria, «di mobilità intermedia»; l’icosaedro all’acqua, «meno mobile»; il cubo alla
terra, «più solida» (fig. 8).
Il quinto e ultimo — ma il primo dei tre solidi più
complessi a essere individuato da Pitagora? — il dodecaedro, fu associato direttamente con l’universo, forse
perché le sue facce sono due volte 6, «numero generatore della vita», o sono dodici come i segni dello zodiaco, o
— più probabilmente — perché tra i solidi regolari è
quello che occupa il maggior volume della sfera in cui è
inscritto. Della forma del dodecaedro, «il dio si è servito
per abbellire il disegno dell’universo»53.
A questa visione d’insieme, il filosofo del Timeo
aggiunse successivamente un suo particolarissimo sviluppo, fondato su una voluta esaltazione del triangolo e, in
particolare, di quel triangolo rettangolo scaleno che,
ribaltato lungo il cateto maggiore, genera un triangolo
equilatero. Ecco come lo si può riassumere, rielaborando
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8.
L’associazione tra solidi regolari e elementi, nella concezione di Platone:
1 - il tetraedro è associato al fuoco, in quanto di forma ‘più mobile’;
2 - il cubo alla terra, ‘più solida’;
3 - l’ottaedro all’aria, ‘di mobilità intermedia’;
5 - l’icosaedro all’acqua, ‘meno mobile’.
4 - Il dodecaedro è associato all’universo.
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la descrizione fornita da un moderno storico della matematica:
Nella concezione di Platone, le facce dei solidi regolari non
sono semplici triangoli o quadrati o pentagoni. Ad esempio,
nel caso del tetraedro, ciascuna faccia triangolare equilatera si
scompone in sei triangoli rettangoli scaleni, con l’ipotenusa
pari al doppio del cateto minore (fig. 9).
Così, si può immaginare il tetraedro — che risponde all’elemento ‘fuoco’ — come composto di 4 x 6 = 24 di questi
triangoli. Analogamente, l’ottaedro — che risponde all’elemento ‘aria’ — sarà composto da 8 x 6 = 48 triangoli, e l’icosaedro — che risponde all’elemento ‘acqua’ — da 20 x 6 =
120 triangoli54.
Ora, sommando insieme i numeri dei triangoli immaginati da Platone sulle facce del tetraedro — 24 — dell’ottaedro — 48 — e dell’icosaedro — 120, si ottiene: 24
+ 48 + 120 = 192; e 192 è — come noto — il numero delle
centurie delle prime cinque classi della costituzione serviana, le centurie che vanno a costituire l’esercito. Del
tutto inaspettatamente, ci si trova così di fronte all’applicazione pratica del precetto del filosofo all’uomo di guerra, il quale
deve imparare l’arte dei numeri, altrimenti non saprà come
schierare le proprie truppe55.
Quando, poi, lo stesso storico osserva che
l’associazione dei primi quattro solidi regolari con i tradizionali quattro elementi dell’universo fornisce a Platone nel
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9.
Nel tetraedro ogni faccia è un triangolo equilatero. Ogni triangolo si
scompone in sei triangoli rettangoli scaleni, con l’ipotenusa pari al
doppio del cateto minore. Nella visione di Platone, il tetraedro è composto da 4 x 6 = 24 triangoli rettangoli scaleni, l’ottaedro da 8 x 6 =
48, l’icosaedro da 20 x 6 = 120. La somma di 24 + 48 + 120 = 192 è il
numero delle centurie delle prime 5 classi che costituiscono l'esercito
romano voluto da Servio Tullio.
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Timeo una bella teoria unitaria della materia, secondo la
quale ogni cosa è composta di triangoli rettangoli ideali. Non
solo le scienze della materia inerte, ma anche tutta la fisiologia è basata, nel Timeo, su questi triangoli. La crescita normale del corpo, per esempio, viene spiegata in questi termini: ‘Quando la struttura della creatura è giovane e i triangoli dei suoi corpi costituenti sono ancora, per così dire, freschi
di fabbricazione, le loro giunture sono saldamente connesse
[…] Di conseguenza, poiché i triangoli che compongono il
cibo e le bevande sono tutti più vecchi e deboli di quelli del
corpo giovane, questo con i suoi freschi triangoli li vince e li
taglia; in tal modo, l’animale cresce e diventa più grande56;
ecco che, dalla contrapposizione tra triangoli ‘giovani’
e ‘vecchi’, si è ricondotti immediatamente a quella tra
iuniores e seniores, che distingue proprio le 192 centurie
dell’esercito serviano.
Prima, però, si deve notare un’ultima cosa sull’intera
costruzione del pensiero pitagorico-platonico. La ‘tavola’
che noi attribuiamo a Pitagora, la nostra ‘tavola pitagorica’, nella realtà è conosciuta molti secoli prima in Mesopotamia e in Egitto; lo stesso vale per le cosiddette ‘terne
pitagoriche’ — sulle quali si tornerà subito — conosciute almeno in Mesopotamia fin dall’inizio del II millennio. Del tutto assente, invece, è una documentazione,
anche solo approssimativa, della preistoria e protostoria
di una serie di conoscenze, come le proprietà armoniche
di uno strumento musicale o i concetti stessi di rapporto
armonico e di «armonia delle sfere celesti»57 e, soprattutto, i solidi regolari. Anche se, per quel che riguarda questi ultimi, qualche sporadico ritrovamento sembra segna51
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10. I modellini dei cinque solidi regolari trovati in un giacimento neolitico in Scozia.
11. Il dodecaedro etrusco di Padova, 500 a. C.
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re le tracce di una lunga e non sempre lineare storia, con
tappe segnate dalla presenza dei loro modelli in un giacimento neolitico in Scozia (fig. 10) o dalla «scoperta presso Padova di un dodecaedro di pietra etrusco risalente a
prima del 500 a. C.»58, conservato oggi al British
Museum di Londra (fig. 11).
Può ben darsi che tale documentazione sia destinata a
saltar fuori, un giorno, dalle migliaia e migliaia di tavolette già portate alla luce solo per conservarle in qualche
magazzino di museo, o da quelle, forse più numerose,
che ancora giacciono sottoterra, là dove il destino volle
che i nostri lontani predecessori disperdessero i risultati
dei loro lunghi anni di studio. Per il momento si può soltanto restare ammirati, e un po’ sconcertati, dal dover
ammettere che un solo uomo — Pitagora — o al massimo un ridottissimo gruppo di individui, nel breve arco
di due o tre generazioni, sia potuto giungere da questa
bassa terra alle vette dei cieli e del pensiero59.
LA COSTITUZIONE SERVIANA,
O DELL’ARMONIA DELLE SFERE SOCIALI
Al termine della digressione pitagorica-platonica, torniamo a considerare i dati della costituzione serviana
sulle classi e sui loro limiti di censo, sulle centurie e sui
cittadini censiti (Tabella 4); e gli altri dati dei rapporti
armonici pitagorici sui nomi e sui valori del rapporto
numerico tra le lunghezze delle corde e sugli accordi
musicali generati (Tabella 5).
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Con questi dati sotto gli occhi, prendiamo di nuovo
in considerazione i limiti inferiori del censo delle diverse
classi: 100 mine per la prima classe, 75 per la seconda, 50
per la terza, e così via. Si nota subito che:
— il rapporto tra i limiti della prima e della seconda
classe — 100 ÷ 75 — è pari al rapporto armonico chiamato epitrito — 4 ÷ 3;
— il rapporto tra i limiti della seconda e della terza
classe — 75 ÷ 50 — è pari al rapporto armonico chiamato emiolo — 3 ÷ 2; e così via.
La Tabella 7. riunisce i rapporti armonici pitagorici
che esistono tra i valori dei limiti inferiori di censo delle
classi serviane e, per ciascun limite, specifica quali classi
pone in rapporto: l’epitrito — come si diceva — tra
prima e seconda classe, l’emiolo tra seconda e terza, e così
via. Per un totale di 8 concordanze, distribuite su cinque
rapporti armonici; al momento solo l’epogdo — il rapporto 9 ÷ 8 — sembra restare senza riscontro; ma non è
così, come si vedrà subito.
Sempre con i dati delle Tabelle 4. e 5. sotto gli occhi,
prendiamo adesso in considerazione i numeri delle centurie delle diverse classi serviane. Anche in questo caso si
nota subito che il rapporto tra le centurie della prima classe e la somma delle centurie della seconda, terza e quarta
classe — 80 ÷ (20 + 20 + 20) — è di nuovo pari al rapporto armonico chiamato epitrito — 4 ÷ 3; e che il rapporto tra le centurie delle prime cinque classi e la somma
delle centurie della prima classe, coi cavalieri, e della quinta — 192 ÷ (80 + 18 + 30) = 192 ÷ 128 — è di nuovo pari
al rapporto armonico chiamato emiolo — 3 ÷ 2; e così via.
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l’armonia delle sfere sociali
rapporto
nome del valore del fra
classi
i limiti poste
rapporto rapporto inferiori
in
armonico numerico di censo rapporto
accordo
musicale
generato
epitrito
4÷3
100 ÷ 75
i e ii
di quarta
emiolo
3÷2
75 ÷ 50
ii e iii
di quinta
100 ÷ 50
i e iii
50 ÷ 25
iii e iv
25 ÷ 12,5
iv e v
di doppio
4÷2
di
ottava
di triplo
3÷1
75 ÷ 25
ii e iv
di ottava
più quinta
di quadruplo
4÷1
100 ÷ 25
50 ÷ 12,5
i e iv
iv e v
di
doppia ottava
epogdo
9÷8
---
di tono
---
Tabella 7. I rapporti armonici pitagorici tra i limiti inferiori di censo delle
diverse classi.
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La Tabella 8. riunisce i rapporti armonici pitagorici
che esistono tra i numeri, o le loro somme, delle centurie delle diverse classi e, per ciascun caso, specifica quali
classi pone in rapporto. In totale, si hanno undici concordanze, distribuite su sei rapporti armonici.
Così, si accerta che l’intera struttura della costituzione serviana, con i limiti di capitale e le suddivisioni in
centurie per le varie classi, è basata sui rapporti armonici pitagorici. Del resto, il numero stesso delle classi — 6
— è, per Pitagora, un numero del tutto particolare: 6 è,
contemporaneamente, il primo numero perfetto, cioè —
come si è visto — pari alla somma di tutti suoi divisori,
e il prodotto del primo numero femminile — 2 — per il
primo numero maschile — 3.
Per queste, e forse per altre più segrete, quasi cabalistiche, ragioni, al 6 la tradizione antica attribuisce tutta
una serie di qualità magiche e taumaturgiche, che sono
precisate e riassunte nella testimonianza di Giovanni
Lido:
Il numero 6 è il numero generatore della vita, perché è partendo dal 6 che si rappresenta in piano la sfera dell’universo;
e lo stesso 6 mescola i contrari, e porta alla concordia e all’amicizia, e ancora dona la salute ai corpi, e gli accordi con la
lira e in musica, e il coraggio negli animi, la prosperità nelle
città, la provvidenza nell’universo.
Per questo, anche Orfeo del numero 6 dice così: ‘Sii propizio, numero glorioso, padre dei celesti, padre dei mortali’60.
Qui, il richiamo a Orfeo dovrebbe garantire il fondo
antico di una testimonianza che è, sì, tarda, ma che rie56
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nome
valore
del rapporto del rapporto
armonico
numerico
rapporto
fra i numeri
delle centurie
classi
poste
in rapporto
epitrito
4÷3
80 ÷ (20 + 20 + 20)
i e ii + iii + iv
emiolo
3÷2
192 ÷ (80 + 18 + 30)
i + ii + iii + iv + v
ei+v
i e ii + iii
80 ÷ 40
di doppio
di triplo
4÷2
i e iii + iv
(80 + 20) ÷ (20 + 30)
i + ii e iv + v
192 ÷ 64
i + ii + iii + iv + v
e ii + iii + iv *
3÷1
i e ii
80 ÷ 20
di quadruplo
4÷1
i e iv
(80 + 20 + 20) ÷ 30
epogdo
9÷8
i e iii
i + ii + iii e v
(20 + 20 + 20 + 30) ÷ 80 ii + iii + iv + v e i
Tabella 8. I rapporti armonici pitagorici tra i numeri delle centurie delle
diverse classi.
* La prima classe con i cavalieri, la seconda e quarta con i fabbri e
i suonatori.
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cheggia temi attestati già quasi un millennio prima:
Neante di Cizico definisce, appunto, il 6 come «il numero generatore della vita» e, sommando la sua alle testimonianze di Andocide, Eubulide, Aristosseno, Ippoboto,
lega il cubo dello stesso numero 6 alla durata degli intervalli tra le reincarnazioni, o metempsicosi, del Maestro61.
Ora, anche il cubo del numero 6 — 21662 — ha delle
curiose particolarità: perché 216 non è solo il 6 moltiplicato 3 volte per se stesso — verrebbe voglia di definirlo un
estremo perfezionamento di un numero già perfetto di
suo — ma è anche la somma dei cubi di 3, 4 e 5, cioè dei
tre numeri interi più piccoli che misurano le lunghezze
dei lati di un triangolo rettangolo, cioè ancora della prima
«terna pitagorica»63. Ed è proprio il numero 216 che è legato da un rapporto di 9 ÷ 8 al numero delle centurie che
costituiscono l’esercito romano, secondo la proporzione:
216 sta a 192 come 9 sta a 8, che in termini matematici si
scrive: 216 ÷ 192 = 9 ÷ 864. Così anche l’epogdo — il solo
rapporto armonico pitagorico che, poco sopra, sembrava
senza riscontro tra i valori dei limiti inferiori di censo
delle classi serviane — è presente all’appello.
A sua volta, il 192 non è solo — come si è già visto —
la somma di 24 + 48 + 120, cioè dei triangoli rettangoli
scaleni che, nella concezione di Platone, compongono le
facce del tetraedro, dell’ottaedro e dell’icosaedro. 192 è
anche, nella concezione di Pitagora, un numero più che
perfetto, perché la somma dei suoi divisori è maggiore del
numero stesso: i divisori di 192 sono 1, 2, 3, 4, 6, 8, 12, 16,
24, 32, 48, 64 e 96, e la loro somma dà 316. Mentre, all’altro estremo delle classi sociali e dei numeri, l’1, il nume58
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ro dell’unica centuria della sesta e ultima classe dei poveri — come si è già detto — quasi quasi non è numero nel
senso più completo del termine.
Infine, anche il 193 presenta due caratteristiche particolari: è un numero dispari, e questa è legata al fatto che,
dovendo contare i voti a disposizione del popolo romano, il dispari consente di ottenere una maggioranza; è un
numero primo, privo di divisori che non siano 1 e se stesso, e questa lo rende un numero puro.
Ma — come già sappiamo — anche questo non basta:
perché 193 è, per così dire, un «numero pitagorico», e
precisamente la somma di due quadrati, di 144, quadrato di 12, e di 49, quadrato di 765. Però — attenzione — la
radice quadrata di 193 è un numero non intero, compreso tra 13 e 1466; più precisamente, un numero che non si
può esprimere con un rapporto tra numeri interi, ovvero
con un numero razionale. Insomma, la radice quadrata
di 193 è un numero irrazionale: √193 = 13,892443… x
13,892443… Ne risulta che il triangolo con cateto maggiore pari a 12, cateto minore pari a 7 e ipotenusa pari a
13,892443… è un triangolo rettangolo, ma la terna costituita da 12, 7 e 13,892443 non è una terna pitagorica, perché non rispetta la regola fissata dal Maestro, che i tre
numeri che la compongono siano tre numeri interi.
Fortunatamente, esiste un metodo per generare terne
pitagoriche, e i relativi triangoli rettangoli, se si dispone
di un valore — come 193 — che sia la somma dei quadrati di due numeri interi67. Applicandolo, si ottiene la
«terna pitagorica» 168, 95 e 193, da cui deriva il triangolo
rettangolo con cateto A pari a 168, cateto B pari a 95 e
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ipotenusa C pari a 193; un triangolo che sembra, ma non
è, simile a quello dato dalla terna non pitagorica 12, 7 e
√19368 (ancora fig 4). In questo triangolo, l’ipotenusa sarà
misurata dal numero — 193 — di tutte le centurie previste dalla riforma serviana e il cateto minore dal numero
— 95 — della minoranza, perdente, delle centurie delle
cinque ultime classi.
Non solo, questo triangolo rettangolo scaleno sarà
molto vicino — senza essere simile — a quello apprezzato
da Platone, con il cateto minore — 95 — pari quasi alla
metà dell’ipotenusa — 193 ÷ 2 = 96,5. La piccola differenza, incolmabile, è quella che separa una democrazia, in cui
la maggioranza supera coi suoi voti la minoranza e afferma
la propria volontà, da una diarchia, in cui maggioranza e
minoranza si fronteggiano irrimediabilmente alla pari.
In conclusione, dall’analisi dei ‘numeri’ della costituzione serviana appare chiaro che è la matematica a conferirle la sua struttura armoniosa, presupposto indispensabile di stabilità e durevolezza, e lo fa grazie ai rapporti tra i
numeri, alle armonie musicali, alle terne pitagoriche — in
una parola, a tutto quello che Pitagora scopre e valorizza.
Qualcosa di simile, del resto, lo ha già previsto il Maestro, se di lui si può leggere:
Grazie a Pitagora, a noi è pervenuta una concezione giusta,
corrispondente alla realtà e non contraddittoria rispetto ai
dati dei sensi e dell’intelletto, per quanto concerne gli dei, gli
eroi, i demoni, il cosmo, i multiformi moti delle sfere e degli
astri — le interferenze, i ritardi, le irregolarità, le eccentricità,
gli epicicli, infine tutto ciò che è nell’universo — il cielo, la
terra, i corpi naturali intermedi manifesti o invisibili.
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Per opera sua, si radicarono in Grecia le scienze, la speculazione e tutto il sistema del sapere: esattamente ciò che conferisce
all’anima la capacità di vedere e libera la mente dall’accecamento indotto da tutte le altre occupazioni, in modo che questa possa conoscere le reali origini e le cause di tutte le cose.
Per opera sua, infine, tutta una serie di obiettivi apparvero
degni di essere appassionatamente perseguiti agli amanti
della conoscenza: la miglior costituzione, la concordia del
popolo […]69
Quasi duecento anni più tardi, Platone arriva, più o
meno, alla stessa conclusione: in due passi della Repubblica, prima, spiega come «la scienza del numero e del
calcolo, quella che insegna a distinguere l’uno e il due e
il tre», sia l’unica disciplina che, avendo «applicazione
generale», permette di passare dalla teoria alla pratica, e
per ciò stesso è utile a tutti, governanti e uomini di guerra; poi, distingue tra un numero prodotto di numeri
uguali, che esprime la natura divina e perfetta del cosmo,
e lo stesso numero, prodotto di numeri diseguali ma in
rapporti armonici coi primi, che esprime la natura
tutt’altro che perfetta della società umana70.
E ancora trecento e più anni dopo, è Cicerone a
riprendere e a portare a Roma la medesima concezione,
quando scrive — guarda caso — nel De re publica:
Come infatti nella musica delle cetre o dei flauti e nello stesso canto vocale bisogna osservare nell’unione di suoni tra
loro diversi un accordo intonato e armonioso, che un orecchio esperto non potrà sopportare se è alterato o stonato; allo
stesso modo, dall’armonia delle varie classi sociali, delle più
elevate, delle medie e delle infime, come dall’accordo dei
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suoni, nasce l’ordinato temperamento dello stato, per l’equilibrata fusione degli elementi più diversi. Quella che nel
canto è dai musici chiamata armonia, è in una città la concordia, che ha per fondamento la giustizia, ed è il vincolo più
saldo e perfetto per mantenere unito e potente uno stato71.
Però Cicerone, che pure conosce la costituzione serviana e la descrive e — come si è visto — la loda, si guarda bene dal riferire a questa costituzione la concezione
pitagorico-platonica. Così, non disponendo di elementi
che suffraghino l’esistenza di un collegamento diretto tra
Servio e Pitagora72, non resta che pensare a uno sviluppo
parallelo: in due aree non troppo distanti del Mediterraneo centrale — Roma etrusca e Magna Grecia — e quasi
nello stesso torno di tempo — seconda metà del VI secolo — sviluppando un identico filone di antiche intuizioni e concezioni di origine orientale, il re romano Servio
Tullio studia e applica nella realtà viva della sua gente le
idee che il filosofo greco Pitagora teorizza e insegna in
astratto ai suoi discepoli e successori.
La leggenda vuole che proprio un pitagorico, richiesto di come educare il figlio nel modo migliore, risponda: «Facendolo nascere cittadino di una città ben governata»73. Quel pitagorico — ora lo si può affermare con
sicurezza — ignora che Servio Tullio, con la sua riforma,
ha già dato a Roma la migliore delle costituzioni possibili, la costituzione che prende a modello le sfere celesti e
realizza sulla terra l’armonia delle sfere sociali.
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NOTE
Avvertenza — Servio Tullio e la riforma della costituzione
romana, assieme a tutti gli argomenti connessi — censimento, classi, centurie, struttura dell’esercito, numero dei censiti, ecc. — sono
stati e continuano a essere oggetto di una quantità sterminata di
studi. Nel suo caso, come in altri dell’antichità classica, nessuna persona normale è più in grado di padroneggiare l’intera materia. Fortunatamente, l’ottica da cui muove la presente ricerca è tale che l’autore si sente autorizzato a ignorare gli studi precedenti, e a ripartire
essenzialmente dalle testimonianze classiche: in particolare, dalla
testimonianza ampia e dettagliata di Dionisio di Alicarnasso, antichità romane, 4. 13-22, che qui è citata o riassunta passo passo; la versione più succinta di Livio, ab urbe condita, 1. 42-4, ne differisce in
dettagli minori. La ricerca è nata come parte centrale del capitolo su
Servio Tullio del saggio La dea bendata, di prossima pubblicazione.
1
Sui Compitalia come festa della luna all’apogeo, vedi Magini
2003, pp. 103-8.
2
3
Dionisio, a. r., 4. 16. 1.
All’epoca della rivoluzione francese, il terzo stato conta il 98%
della popolazione; la rivoluzione riconosce «l’uguaglianza civile, ma
non quella civica. Le donne restano escluse dal voto, come pure i cittadini troppo poveri per pagare l’imposta minima, vale a dire quasi
la metà dei maschi adulti»; dall’intervista a M. Vovelle di F. Gambaro, «La Repubblica», 7 gen. 2004, pp. 32-3.
4
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Dionisio, a. r., 4. 18. 2; l’espressione chiave è: […] ple…ouj
<tÕn> ¢riqmÕn Ôntaj tîn protšrwn. Anche Cicerone, che si riferisce a una costituzione serviana riformata, parla dell’unica centuria
dei proletari e afferma (de re publica, 2. 22.): «In una sola di quelle
novantasei centurie (di tutte le classi, esclusa la prima coi cavalieri e
i carpentieri; n. d. a.) erano censiti più cittadini che in tutta la prima
classe», «Illarum autem sex et nonaginta centuriarum in una centuria tum quidem plures censebatur quam paene in prima classe tota».
5
Dionisio, a. r., 4. 19. 1-2. In questo passo, per due volte D. fa
riferimento a tutte e 193 le centurie, ma da quanto scrive prima e
dopo è chiaro che la 193esima centuria dei proletari è esentata dalla
leva e dalle tasse; dunque, dove qui è scritto 193, si deve intendere 192.
6
Varrone, l. l., 5. 88: «centuria qui sub uno centurione sunt, quorum centenarius iustus numerus»; Festo, p. 46 L.: «centuria significat… in re militari centum homines».
7
Dionisio, a. r., 4. 22. 2.; Livio e Eutropio danno cifre diverse,
ma non distanti: 80.000 e 83.000.
8
9
84.700 ÷ 193 = 438,860…
Il lettore meno informato non può neanche immaginare quanti fiumi di parole siano stati sprecati, su una questione semplice da
acclarare in base alle testimonianze disponibili.
10
L’ipotesi di Tabella 1. non è l’unica che soddisfi la regola universale e le indicazioni di Dionisio, ma qualsiasi altra ipotesi non
avrà cifre molto diverse, perché dovrà rispettare quelle tre rigide condizioni. Alle quali si aggiunge il numero totale dei cittadini, che nel
nostro caso è quello dato da Dionisio, di cui qui non è necessario
valutare la verosimiglianza. Naturalmente, anche questo numero
non è fisso e varia col passare del tempo, così come può variare il
rapporto tra il numero dei cittadini della sesta classe e quello complessivo delle prime cinque.
11
12
104,1666 x 98 = 10.208,333…
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13
100 per ciascuna delle 98 centurie: 100 x 98 = 9.800.
14
10.208 — 9.800 = 408.
15
10.290 — 10.208 = 82.
82 ÷ 10.208 = 0,008. Si noti che nel caso di chiamata di un
contingente superiore ai 20.000 uomini non sarebbe possibile mantenere costante la quota di ogni classe nella composizione dell’esercito con le cifre ipotizzate in Tabella 1. D’altra parte, non si possono
aumentare più di tanto i componenti della prima classe se si vogliono rispettare i normali rapporti tra le diverse classi e, in particolare,
l’indicazione di Dionisio sulla sesta classe che da sola deve avere più
cittadini delle prime cinque classi insieme. Ma Dionisio non prende
nemmeno in considerazione l’ipotesi di una chiamata alle armi di
più di 20.000 uomini…
16
Mi sfugge cosa intende Nicolet 1999, p. 71 quando scrive che in
Dionisio, 4. 19. 1-2 «si riscontrano alcune ambiguità. In particolare,
lo storico greco non dice se la ‘ripartizione’ della cifra della leva necessaria tra le centurie avviene in modo egualitario o non, cioè se ciascuna centuria deve, o non, fornire lo stesso numero di soldati (o lo
stesso ammontare di imposte). Si può propendere per questa seconda ipotesi. Ma anche se le cose non stessero così […]». A me sembra
evidente che tutte le centurie contribuiscono con lo stesso numero di
uomini alla leva e con la stessa somma al pagamento delle imposte,
ma — dal momento che le centurie amministrative e fiscali delle
diverse classi hanno un diverso numero di componenti — ciascuno dei
loro componenti, man mano che si scende di classe, «è obbligato al
servizio militare più di rado e a rotazione, e a pagare poche tasse».
17
18
«Conditor», lo chiama Livio, a. u. c., 1. 42. 4.
Dionisio, a. r., 4. 20. 1: kaˆ toàto diaprax£menoj œlaqe toÝj
dhmotikoÚj. Dionisio torna sull’argomento più avanti (a. r., 4. 21. 1)
19
per ripetere con altre parole quanto già detto in precedenza: «Nell’istituire questo sistema politico che diede un così gran vantaggio ai
ricchi, Tullio — come dissi — ingannò la plebe senza che essa lo
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notasse, escludendo i proletari da un qualsiasi ruolo nei pubblici affari. Dal momento che a ciascuno era richiesta la sua opinione, ognuno nella centuria cui apparteneva, tutti loro pensarono di avere un’eguale quota di governo. Ma essi furono ingannati in questo: che l’intera centuria, sia che consistesse di un piccolo o di un grandissimo
numero di cittadini, aveva un solo voto; che le centurie che votavano
per prime, formate da uomini del massimo rango, sebbene fossero in
numero superiore a tutte le rimanenti, contavano un minor numero
di cittadini; e soprattutto che i proletari, che erano molto numerosi,
avevano soltanto un voto e erano gli ultimi a essere chiamati».
Come si vedrà meglio descrivendo la formazione dell’esercito,
i nomi vanno intesi tecnicamente: i classici e gli infra classem sono
«(quelli) chiamati per appello» e «gli inferiori ai chiamati per appello»; gli extra classem sono «(quelli) fuori dalla chiamata per appello».
20
21
Dionisio, a. r., 4. 20. 5: toàto d' Ãn sp£nion kaˆ oÙ makr¦n
¢pšcon t¢dun£tou.
de re publica, 2. 22: «[…] easque ita disparavit, ut suffragia non
in multitudinis, sed in locupletium potestate essent, curavitque, quod
semper in re publica tenendum est, ne plurimum valeant plurimi».
22
Thomsen 1980 conta 20 pagine di bibliografia, Vernole 2002
ne conta 14; i testi citati dai due autori coincidono solo in parte.
23
24
Livio, a. u. c., 1. 42: «omnis in civitati discriminis».
25
a. u. c., 1. 43. 11.
I rapporti tra Servio Tullio e Fortuna sono noti e studiati; vedi,
per tutti, Dumézil 1981. Su Fortuna come personificazione della
‘luna nuova’, vedi Magini 1996, pp. 25-40.
26
Aulo Gellio n. a., 10. 28: «Tuberone nel I libro delle Storie scrisse che Servio Tullio […] considerò come ragazzi i minori di diciassette anni; dal diciassettesimo anno in poi, ritenendoli ormai atti a
servire lo stato, li arruolò come soldati, chiamandoli fino all’età di
quarantasei anni giovani e al di là di quell’anno anziani», «Tubero in
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historiarum primo scripsit Servium Tullium regem […] pueros esse
existimasse, qui minores essent annis septem decem, atque inde ab
anno septimo decimo, quo idoneos iam esse reipublicae arbitraretur,
milites scripsisse, eosque ad annum quadragesimum sextum ‘iuniores’ supraque eum annum ‘seniores’ appellasse». Poiché l’uso romano di contare inclusivamente aumenta di un’unità i valori rispetto al
nostro modo di contare, si deve intendere che dai 16 anni compiuti
ai 45 si è ‘giovani’, dai 45 compiuti in avanti ‘anziani’.
Dionisio e Livio non parlano di una divisione delle 18 centurie di cavalieri in centurie di anziani e di giovani. Evidentemente, i
cavalieri non sono destinati a difendere la città, ma a andare in guerra, e la gioventù è per loro un requisito essenziale; superata una certa
età, scendono da cavallo e vanno in fanteria.
28
La suddivisione in due parti uguali — ‘giovani’ e ‘anziani’ —
del numero delle centurie delle diverse classi obbliga a riformulare la
domanda già posta prima: in quale città reale si potrebbero avere —
non solo in un determinato momento, ma nel corso del tempo —
esattamente 8.000 uomini chiamati a formare le 80 centurie della
prima classe, divisi in 4.000 giovani al di sotto dei 45 anni e altri
4.000 anziani di età superiore? e così via per le altre quattro classi?
La risposta è già stata data: in nessuna.
29
Lo schieramento dell’esercito in battaglia comprende 18 centurie di cavalieri, più 40 di fanti della prima classe, 10 della seconda,
10 della terza e 10 della quarta, più 1 centuria di fabbri e carpentieri
e 1 di trombettieri e suonatori, per un totale di 90 centurie e 9.000
uomini, con un rapporto di 4 a 1 tra fanti e cavalieri. Questi 9.000
uomini vanno divisi in 3 legioni di 3.000 uomini? Livio 2003, pp.
54-5, parlando del numero 3 nella visione di Pitagora, nota come «3
fosse la base per la costituzione di unità militari» anche nella Bibbia,
e cita 2 Samuele 23, Giudici 7, 2 Samuele 6.
30
31
Dionisio a. r., 4. 18. 2-3.
32
Se 12,5 = 1, allora: 25 = 2, 50 = 4, 75 = 6, 100 = 8.
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a. r., 4. 19. 2: «Così avveniva che coloro che avevano le più
grandi ricchezze, essendo di meno di numero ma distribuiti in più
centurie, erano obbligati al servizio militare più di frequente e senza
sosta, e a pagare più tasse degli altri; e che coloro che avevano le piccole e modeste proprietà, essendo di più di numero ma distribuiti in
meno centurie, erano obbligati al servizio militare più di rado e a
rotazione, e a pagare poche tasse, e quelli le cui proprietà non bastavano al loro stesso mantenimento erano esenti da ogni carico».
33
Lo stesso vale per 84. 701: 84. 701 = 2502 + 1492. La trascrizione di LXXXIVDCC al posto di LXXXIVDCCI, con la perdita dell’unità
finale, è un errore facile per chi non conosce più l’origine di quello
specifico numero. Si noti che attorno al valore di 84.700 solo un
numero ogni 250 è pari alla somma di due quadrati, mentre attorno
al 193 questo è vero per un numero ogni 12.
34
Per questo paragrafo e per i successivi mi avvalgo di Boyer 1990,
pp. 52-117; di Livio 2003, pp. 42-112; di Joseph 2000, pp. 71-137.
35
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 8. 21: «Aristippo di Cirene,
nell’opera Sulle indagini naturalistiche, dice che fu chiamato Pitagora perché annunciava la verità non meno che il dio di Pito».
36
Un approfondito esame dei rapporti tra Numa e Pitagora, con
ampia bibliografia, in Storchi Marino 1999.
37
38
Giamblico, La vita pitagorica, 27. 127.
39
Aristosseno, fr. 17; Wehrli ap. Porfirio, Vita di P., 22
Porfirio, Vita di P., 6. Anche secondo la tradizione ripresa da
Giamblico (La vita pitagorica, 4. 19.) P. «passò 22 anni in Egitto, nei
penetrali dei templi, dedito all’astronomia e alla geometria, e intento a
farsi adepto, in modo tutt’altro che casuale e superficiale, di tutti i misteri divini», e 12 anni a Babilonia, dove «venne istruito (dai magi) nei loro
riti solenni, apprese il perfetto culto divino, raggiunse la vetta delle
conoscenze aritmetiche, musicali e scientifiche in genere». Non vi è
bisogno di ricordare che ‘divino’ vale ‘celeste’, cioè «pertinente agli astri».
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Burkert 2000, p. XVI. Si noti che l’espressione greca è tratta da
Ippocrate, Sul morbo sacro, 6. 354 Littré, ma non si riferisce a Pitagora.
41
42
Platone, Repubblica, 600ab.
La riporta Eraclide Pontico, fr. 87; Wehrli 2, in Diogene Laerzio, 1. 12. 1; e la ricorda anche Cicerone, Tusculanae disputationes, 5.
3. 8-9. Pitagora vi sostiene che solo il dio è sofÒj, sapiente, e che
l’uomo, al massimo, può essere filÒ-sofÒj, ‘appassionato della
sapienza’, cioè ‘filosofo’.
43
Macrobio, Commento al Somnium Scipionis, 2. 15; di seguito
ne riassumo il passo successivo. Su P. e le armoniche, vedi anche
Giamblico, La vita pitagorica, 26. 115-21.
44
45
Aristotele, Metafisica, 985b 23 s.
Aristosseno, fr. 23; Wehrli, in Stobeo, 1. 6, p. 20, 1; Wachsmuth; cit. in Giangiulio 2000, vol. 1, p. 49.
46
47
Censorino, de die natali, 13. 3-5.
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 8. 48. Le più avanzate ricerche dell’astrofisica mostrano, ancora una volta, la validità anticipatrice delle intuizioni degli antichi nella conoscenza della natura; si
veda, ad esempio, Sinfonia cosmica: le nuove scoperte sulla radiazione
di fondo a microonde dimostrano che l’universo primordiale risuonava
di armoniose oscillazioni di Wayne Hu e Martin White, «Le Scienze»,
n. 427, marzo 2004, pp. 46-54.
48
49
Porfirio, Vita di P., 30.
50
Giamblico, La vita pitagorica, 18. 88.
Proclo, Comm. a Euclide, 65. 11., che cita Eudemo (vedi Lami 1991,
pp. 154-5). Aezio, che cita Teofrasto, 2. 6. 5. (vedi Lami 1991, pp. 476-7).
51
Scolio a Euclide, 13. 1. (vedi Lami 1991, pp. 154-5, n. 6). Anche
il lessico bizantino Suida attribuisce la costruzione dei «cinque
cosiddetti solidi» a Teeteto.
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Il 6 come «numero generatore di vita» in Neante, FrGrHist, 84
F 33. Per il resto, riassumo o cito Platone, Timeo, 55. a. -56. a.
53
54
Da Boyer 1990, p. 103.
55
Citato in Boyer 1990, p. 102.
56
Boyer 1990, p. 103.
L’‘armonia’ avrebbe un’origine orientale, stando alla testimonianza di Aristosseno riferita da Ippolito, Confutazione di tutte le eresie, I. 2. 12. (vedi Giangiulio 2000, vol. I, p. 43): «Diodoro di Eretria
e il teorico della musica Aristosseno affermano che Pitagora arrivò
dal caldeo Zarata (Zarathustra). Questi gli spiegò che […] il cosmo
sarebbe conforme all’armonia musicale, ragion per cui anche la rivoluzione che il sole compie è conforme alle consonanze musicali».
57
Boyer 1990, p. 59. Inutile cercare conferma del ‘dodecaedro
etrusco’ sui testi di etruscologia…
58
Le recentissime ricerche di M. Ranieri sulla geometria di Stonehenge, allo stadio del 1.800 a. C., mostrano la conoscenza delle
terne pitagoriche in un monumento legato a dati e a eventi astronomici. La concezione pitagorica del cosmo ha alle spalle una lunga
preistoria, non limitata al mondo classico.
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60
Giovanni Lido, De mensibus, 2. 10.
Neante, FgrHist, 84 F 33 (14 A DK) ([Giamblico] Teologumeni
dell’aritmetica, p. 52, 8 De Falco Klein). Su Neante di Cizico, vedi
Giangiulio 2000, vol. I, p. 74-5.
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62
216 = 6 x 6 x 6 = 63.
216 = (3 x 3 x 3) + (4 x 4 x 4) + (5 x 5 x 5) = 33 + 43 + 53 = 27 +
64 + 125.
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La proporzione 216 ÷ 192 = 9 ÷ 8 ricorre anche nel passo del
Timeo (35B-36B) in cui è descritta la composizione dell’anima del
mondo da parte dell’artefice divino; vedi Marconi 2004, pp. 26-28.
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l’armonia delle sfere sociali
Si pensa — vedi Cary nel commento a Dionisio, a. r., 4. 21. 3.
— che la riforma del 241 a. C. della costituzione serviana abbia portato a un totale di 373 centurie: 350 delle prime 5 classi, più 18 di
cavalieri, più 4 di fabbri e suonatori, più 1 di proletari. Anche 373 è
la somma di due quadrati: 373 = 182 + 72.
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13 x 13 = 169; 14 x 14 = 196.
Si supponga di avere un triangolo rettangolo con altezza A, base
B e ipotenusa C; se si dispone di un valore C che sia la somma di due
quadrati di numeri interi, x e y, con x maggiore di y, il valore di A è
dato dal doppio del prodotto di x per y, e il valore di B dalla differenza dei quadrati di x e di y. In altre parole, se C = x 2 + y 2, si ha A = 2xy
e B = x 2 — y 2. Nel nostro caso, con C = 193 = 122 + 72, si ha A = 2 . 12
. 7 = 168, e B = 122 — 72 = 144 — 49 = 95. In accordo col teorema di
Pitagora, 1932 = 1682 + 952, ossia 37.249 = 28.224 + 9.025.
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Nel triangolo pitagorico il rapporto tra altezza e base dà 168 ÷ 95 =
1,7684; nel triangolo non pitagorico lo stesso rapporto dà 12 ÷ 7 = 1,7142.
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Giamblico, La vita pitagorica, 6. 31.
70
Repubblica, 521. a-522. e. e 546. a-c.
71
Cicerone, De re publica, 2. 42.
Non mi sembra il caso di speculare sull’origine ‘tirrenica’ —
dai Tirreni/Pelasgi di Lemno — e sul nome ‘Tirreno’ di uno dei fratelli maggiori di Pitagora (Teopompo, FGrHist, 115 F 72; Neante,
FGrHist, 84 F 29; cfr. Giangiulio 2000, vol. I, p. 17 e p. 19), o sull’episodio del serpente dal morso mortale ucciso da un morso di P. «in
Tirrenia» (Aristotele fr. 191 Rose; cfr. Giangiulio 2000, vol. I, p. 27).
Tutto questo può confermare i rapporti tra Tirreni/Pelasgi di Samo
e Tirreni/Etruschi d’Italia ancora al VI secolo, ma non testimonia
contatti diretti tra P. e l’etrusco Servio Tullio/Mastarna.
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Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 8. 16.
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