EPISTEMOLOGIE FEMMINISTE
di Nicla Vassallo
https://niclavassallo.net/
Sommario:
La riflessione sull’attività epistemica femminile è un fenomeno decisamente attuale che presenta
concrete aspirazioni filosofiche. Quali sono le sue motivazioni e quali le sue innovazioni rispetto
all’epistemologia tradizionale?
Nonostante da diverse fonti provengano voci a proposito della presunta fine
dell’epistemologia, quest’ultima è sempre più oggetto di studio, perlomeno nelle scuole filosofiche
di matrice analitica. Tra le ultime forti tendenze da rilevare in seno a queste vi è un cospicuo lavoro
nell’ambito delle epistemologie femministe, il quale si oppone sì a diversi assunti della tradizione,
ma non ritiene affatto che ogni progetto epistemologico debba venire abbandonato: l’obiettivo è
piuttosto quello di criticare e rivedere il quadro tradizionale al fine di presentare nuovi approcci e
soluzioni. Tale lavoro è diventato talmente variegato, solido e ragguardevole da indurre una casa
editrice prestigiosa, Blackwell, a recepire il bisogno di pubblicare un’introduzione alle suddette
epistemologie1. Qui di seguito tenterò di esporre sinteticamente alcune loro linee di ricerca
peculiari.
CONTRO LA TRADIZIONE
Per la tradizione sono di certo saldi tre punti: primo, l’epistemologia rappresenta la filosofia
prima, nel senso di Descartes, ovvero è un’impresa a priori su cui deve basarsi ogni altra
speculazione filosofica; secondo, la conoscenza dipende dai fondamenti, ovvero è il
fondazionalismo la dottrina della giustificazione da adottarsi per comprendere che cos’è la
conoscenza2; terzo, la conoscenza va intesa nei termini delle rappresentazioni che il soggetto
cognitivo ha del mondo oggettuale che lo circonda. Questi tre punti vengono contestati da quasi
Cf. Tanesini (1999). Sull’epistemologia analitica femminista l’unico lavoro disponibile in italiano è Garavaso (1998).
Per un discorso introduttivo e panoramico sulla filosofia femminista si può utilmente consultare Restaino e Cavarero
(1999).
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Per quanto occorra ricordare anche il coerentismo, esso non si trova così massicciamente presente nella tradizione
come il fondazionalismo.
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tutte le teorie femministe della conoscenza: primo, l’epistemologia non è un’impresa a priori perché
è calata nella realtà empirica; secondo, il fondazionalismo è dottrina da evitare perché non
sussistono fondamenti, essendo tutta la conoscenza dipendente da altra conoscenza; terzo, il
rappresentazionalismo è da rifiutarsi in quanto crea una scissione troppo marcata tra il soggetto e il
mondo. A questa presa di posizione negativa ne segue una positiva. Da un punto di vista femminista
quanto occorre mettere in risalto sono tre tesi: primo, la conoscenza attribuibile alle donne è
tradizionalmente una conoscenza pratica (una conoscenza del fare, piuttosto che una conoscenza
proposizionale), cosicché è opportuno focalizzarsi sulla prassi; secondo, la conoscenza pratica può
istituirsi soltanto sul piano del sociale e, pertanto, essa è essenzialmente collettiva, non individuale;
terzo, la conoscenza non può risultare neutra rispetto ai valori, dato che la prassi si costituisce in
quanto tale solo relativamente a determinati valori (per esempio, il bagnare con l’acqua un neonato
si trasforma nella pratica del battesimo solo nell’ordine dei valori del cristianesimo e del
cattolicesimo). E’ evidente come da queste tesi segua che il ruolo sociale del soggetto cognitivo è
degno di indagine epistemologica. Il soggetto cognitivo non deve venire considerato isolatamente
dal proprio contesto e, più in particolare, dalla propria appartenenza sociale ad un determinato
genere (maschile o femminile). Inoltre, visto che i contesti sociali sono tra loro diversi, non si dà la
possibilità di presentare le condizioni per la conoscenza in riferimento ad un soggetto universale. Su
ciò la distanza tra le epistemologie femministe e l’approccio tradizionale non potrebbe risultare più
grande.
Nel campo razionalista, a partire da Descartes, la tradizione ci consegna un’epistemologia
individualistica: la conoscenza è possesso del soggetto cognitivo singolo, isolato dal proprio
ambiente sociale e autonomo nel senso di essere svincolato da possibili interferenze nella sua
attività raziocinante. Nel campo empirista quest’idea è stata tra gli altri approfondita da Locke il
quale scrive: <<Non che mi manchi il dovuto rispetto alle opinioni degli altri. Ma, dopo tutto, si
deve la maggior reverenza alla verità; e spero che non mi si crederà arrogante se dico che forse
faremmo maggiori progressi nella scoperta della conoscenza razionale e contemplativa se la
cercassimo alla fonte, cioè nella considerazione delle cose stesse e se per cercarla facessimo uso del
nostro pensiero piuttosto che di quello altrui. Nella misura in cui consideriamo e comprendiamo noi
stessi la verità e la ragione, possediamo una conoscenza vera e reale. Le opinioni altrui che vengono
a galleggiare nel nostro cervello, anche se per caso sono vere, non ci rendono di un briciolo più
dotti. Ciò che in loro era scienza in noi non è che ostinatezza>>3.
L’individualismo si ritrova nel nostro secolo sviluppato sia dal neopositivismo, sia da una
corrente, quella naturalistica, che avviatasi con Quine, si oppone per altri versi alla tradizione. Per i
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Cf. Locke (1690, 1971, p. 127).
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neopositivisti la conoscenza per eccellenza è rappresentata dalla scienza e, in particolare, dalla
fisica. I fattori sociali e personali possono condizionare lo scienziato al livello del contesto della
scoperta, ma essi non interessano affatto il contesto della giustificazione. Nel giustificare la propria
scoperta scientifica lo scienziato deve sbarazzarsi di tutti i valori non epistemici, delle proprie
emozioni e dei propri interessi personali o sociali. Per Quine, invece, : <<L’epistemologia, o
qualcosa di simile, trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale.
Essa studia un fenomeno naturale cioè un soggetto umano fisico. A questo soggetto umano è dato
un certo input sperimentalmente controllato – certi modelli di irradiazione di frequenze assortite,
per esempio – e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una descrizione del mondo
esterno tridimensionale e della sua storia>>4. Sebbene Quine si opponga nettamente alla tradizione
con la sua richiesta che l’epistemologia faccia parte della psicologia, non rinuncia ad un approccio
individualistico e, difatti, considera un soggetto cognitivo singolo che, sulla base di certi input
sensoriali (e non affatto sociali), produce la sua individuale descrizione del mondo.
L’individualismo è stato recentemente criticato da almeno un filosofo analitico. Si tratta di
Kitcher secondo il quale la conoscenza del soggetto cognitivo può dipendere dalle caratteristiche
degli altri soggetti o dalla comunità a cui quel soggetto appartiene5. Questa tesi non è peraltro nuova
e può essere riportata alla filosofia kuhneana. Le soluzioni più radicali contro l’individualismo
giungono però dalla riflessione femminista. Una cosa infatti è dire che il singolo soggetto cognitivo
non può conoscere se non in relazione ad un determinato contesto sociale, mentre tutt’altra cosa è
dire – come fanno alcune filosofe femministe – che sono innanzitutto le comunità, e non i singoli
individui, a possedere credenze e conoscenze. Si giunge facilmente ad affermare ciò se si sostiene
sia che la conoscenza dipende dall’evidenza a disposizione, sia che quest’ultima appartiene sempre
alle comunità o che essa può essere posseduta o compresa nella sua totalità solo dalle comunità.
Veniamo ora a trattare dell’impossibilità di presentare le condizioni per la conoscenza in
riferimento ad un soggetto universale. Si è detto che tale impossibilità è legata alla diversità tra i
contesti sociali. Allo scopo di concludere che il soggetto spacciato per universale dall’epistemologia
tradizionale non è altro che un soggetto maschile, alcune teorie femministe insistono
particolarmente sul fatto che il contesto sociale del genere maschile è, nella nostra cultura, diverso
da quello del genere femminile. Per mostrare questo si avvalgono del contributo della psicoanalisi.
I bambini di genere sia femminile, sia maschile aspirano a raggiungere la maturità cognitiva
ed emotiva, ovvero a sviluppare il senso di un sé separato dagli altri e dall’ambiente circostante.
L’obiettivo consiste nel conseguire l’autonomia. Quest’ultima nasce ed inizia a svilupparsi nei
primi anni di vita come un processo di separazione dalla propria madre. Nonostante il complesso di
4
Cf. Quine (1969, 1986, p. 106).
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Edipo, il bisogno di separazione è recepito in modo più acuto dai bambini di genere maschile, dato
che essi devono sviluppare non solo un senso del sé individualmente separato da quello della madre,
ma anche un senso del sé che nulla condivide col genere femminile a cui appartiene la madre. La
separazione è certamente drammatica e conduce ad una forte ansia di autonomia anche rispetto agli
altri, oltre che alla madre. Occorre, tra l’altro, non dimenticare che su questa pressante ricerca di
autonomia incide pesantemente la richiesta di una cultura, qual è la nostra, che il maschile non
presenti alcuna traccia del femminile. Si ottiene così il soggetto a cui l’epistemologia tradizionale si
riferisce. Si tratta di un soggetto individualista, autonomo e distaccato dagli altri. Si tratta di un
soggetto che appartiene indubbiamente al genere maschile, dato che il soggetto di genere femminile
è culturalmente collettivista, dipendente e correlato agli altri.
LA PROSPETTIVA FEMMINISTA
La teoria epistemico-femminista più nota è la “Standpoint Theory”, ovvero la teoria del
punto di vista o la teoria della prospettiva. Il suo assunto di partenza consiste in un’ovvietà: quando
si guarda il mondo da punti di vista o da prospettive diverse, si ottengono molto probabilmente
esperienze ed osservazioni diverse. La sua tesi principale è la seguente: c’è un punto di vista sulla
realtà che è peculiarmente femminile, e pertanto distinto da quello maschile, e che è privilegiato
rispetto a quello maschile. Questa tesi che collega la conoscenza al punto di vista non è nuova.
Marx, ad esempio, decreta che il punto di vista del proletariato è peculiare e distinto rispetto a
quello delle classi dominanti. Il proletariato ha una conoscenza particolare del sistema capitalistico
e ha di conseguenza una particolare presa di consapevolezza della realtà sociale, presa che è più
accurata rispetto a quella di altre classi sociali. Cosa garantisce la consistenza di questo punto di
vista? L’esperienza lavorativa e manuale, ed è essa a fondare una prospettiva distinta sulla realtà.
Alcune teorie femministe del punto di vista si rifanno consapevolmente all’impianto
marxista e lo applicano alla conoscenza femminile; altre invece criticano Marx per il fatto di non
aver prestato alcuna attenzione alle divisioni di genere che regolano la nostra società: egli si
concentra troppo sui sistemi di produzione e sorvola disinvoltamente sui sistemi di riproduzione i
quali spesso acquisiscono una preponderante centralità nell’esistenza femminile. L’esperienza della
riproduzione è peculiare delle donne. Si tratta di un’attività sociale complessa che include la
gestazione, il parto e l’allevamento dei figli, e che comporta un’unificazione della mente con il
corpo. Tale esperienza consente alle donne una particolare comprensione di quel mondo sociale e
naturale che è legato ai sistemi di riproduzione. E’ il contenuto di tale esperienza a creare la
differenza tra uomini e donne. Per esempio, gli uomini possono erroneamente interpretare
5
Cf. Kitcher (1994, p. 113)
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l’allevamento degli figli come un’attività che sostanzialmente richiede solo una buona dose d’istinto
materno, mentre le donne lo sperimentano concretamente e correttamente come un’attività sociale
difficile e articolata, la quale richiede una maturità emotiva e cognitiva adulta, unita a molteplici
doti razionali e organizzative.
E’ ovvio però che sottolineare troppo la questione della riproduzione, quale unica differenza
concreta tra uomini e donne, conduce a sostenere che le donne possiedono una conoscenza
privilegiata solo relativamente al mondo sociale e naturale che è legato ai meccanismi riproduttivi.
E che le donne possiedano tale conoscenza può ben essere ammesso anche dall’epistemologia
tradizionale. Così, alcune teorie femministe del punto di vista, invece che puntare sull’esperienza
della riproduzione e sul suo contenuto, sostengono che le donne dispongono di uno stile cognitivo
di sperimentare la realtà che è diverso da quello in possesso degli uomini. Tale stile sarebbe
connesso alla sfera affettiva e, più in generale, all’emotività. Al proposito le critiche ovviamente
non mancano e mettono in evidenza che affermare una differenza tra uomini e donne a proposito
dello stile cognitivo significa semplicemente rivalutare quelle vecchie e inconsistenti dicotomie di
origine patriarcale che vogliono l’uomo razionale ed attivo, mentre la donna emotiva e passiva.
In generale si può concordare sul fatto che le teorie femministe del punto di vista corrono il
pericolo di assumere: che sussista un’unica natura o essenza femminile; che l’esperienza delle
donne sia abbastanza simile da poter rappresentare un preciso punto di vista; che la sola esperienza
possa fondare la conoscenza. Consideriamo meglio questi pericoli. E’ senza dubbio vero che si può
sfociare nell’essenzialismo esasperato e nell’universalizzazione indebita. Infatti asserire che vi sono
contenuti o stili esperenziali che appartengono unicamente alle donne può condurre da una parte a
ritenere che tutte le donne condividono caratteristiche essenziali e dall’altra ad ignorare le
differenze che intercorrono necessariamente tra di esse (per esempio, una donna che vive in Europa
ed ha accesso all’istruzione non può essere assimilata tout court ad una donna che vive in un regime
islamico-fondamentalista e che non ha alcun accesso ad alcuna istruzione; o, ancora, una donna
bianca che si trova ad allevare un bambino bianco in una società razzista non può essere assimilata
tout court ad una donna di colore che si trova ad allevare un bambino di colore nella medesima
società). Occorre pertanto riconoscere che tra le donne intercorrono differenze. E, tuttavia, occorre
anche accettare che ciò non implica affatto che non si possa parlare delle donne in generale: difatti
non è per nulla scontato che ammettere alcune differenze voglia dire rifiutare di attribuire alle
donne qualsiasi tipo di caratteristica comune. Relativamente alla questione del genere e di come
questa categoria sociale sia vissuta, l’esperienza delle diverse donne può risultare per certi aspetti
talmente simile da riuscire a rappresentare un preciso punto di vista. Circa il rischio di assumere che
la sola esperienza possa fondare la conoscenza, esso è realmente presente e bisogna evitare di
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correrlo. Al fine di conoscere, infatti, non è sufficiente l’esperienza; si richiede anche una certa
concettualizzazione, e, pertanto, quanto viene sperimentato dipende sempre dai concetti disponibili
(per esempio, per sapere che di fronte a me si trova un computer non è sufficiente che io percepisca
l’oggetto che si trova di fronte a me; devo anche possedere il concetto di computer). Per evitare
l’appello all’esperienza, è consentito dirigere la propria attenzione sulla vita delle donne,
sostenendo che è da qui che la ricerca epistemologica femminista deve prendere avvio. Si mantiene
così salda la convinzione base delle teorie del punto di vista, ovvero quella secondo la quale la vita
delle donne, e comunque la vita di coloro che sono marginalizzati, differisce in modo strutturale
dalla vita dei gruppi dominanti. E, tuttavia, invece di focalizzarsi sull’esperienza, ci si concentra sui
fatti oggettivi che concernono la vita e, di conseguenza, anche la conoscenza. Guardare la realtà dal
punto di vista della vita delle donne può mettere in discussione la visione dominante (per esempio,
nel caso dell’allevamento dei bambini mette in discussione il fatto che esso sia legato solo all’istinto
materno). Più in generale guardare la realtà dal punto di vista della vita dei gruppi marginalizzati
rende possibile una migliore comprensione dei meccanismi dell’oppressione. Non è che in tal modo
si possa giungere all’unica comprensione possibile, ma si può certamente giungere ad una
comprensione migliore. Tutti i punti di vista vanno ovviamente considerati e, pertanto, anche quelli
degli uomini e dei gruppi dominanti. Non per questo però essi si presentano sul medesimo piano:
solo alcuni, infatti, sono in grado di fornirci una conoscenza del mondo meno distorta.
RIFLESSIONI SULL’OGGETTIVITA’
Nel proprio confronto con la tradizione il femminismo epistemologico presenta il merito di
avere riflettuto molto sulla nozione di oggettività e di avere prodotto diverse teorie, sia critiche, sia
costruttive. Ne esporrò qui brevemente alcune al fine di offrire una visione un po’ più completa del
pensiero femminista. Tradizionalmente si ha conoscenza oggettiva quando un soggetto afferra
cognitivamente i fatti o gli oggetti in modo neutro, ovvero in un modo decontaminato dalla propria
soggettività. Si richiede pertanto una separazione tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto.
Alcune teorie femministe trovano in ciò una lampante caratteristica della mascolinità. E’ il
preponderante bisogno di autonomia, e pertanto di separazione dagli altri e dagli oggetti, a
contrassegnare l’esperienza esistenziale del genere maschile e a fare sì che da questa scaturisca la
nozione tradizionale di oggettività. Un visione più femminile consiste nel riguardare la conoscenza
oggettiva come una forma di interazione tra l’esperienza emotiva e l’esperienza cognitiva; come ad
una tensione del soggetto, non spogliato delle proprie caratteristiche soggettive, verso un oggetto
che non sia completamente contrapposto al soggetto; come ad una continuità tra il soggetto e la
realtà fisica. All’oggettività, intensa come una forma di ragionamento non emotivo, viene così
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sostituita un’oggettività che non può fare a meno delle componenti emotive. Tale sostituzione
risulta però criticabile in diversi modi. Per esempio, se quelle componenti sono soggettive, non si
comprende in qual modo essa riesca ancora a consegnarci una nozione di oggettività che non
precipiti irrimediabilmente in quella di soggettività. Più che all’intenzione di separare soggetti e
oggetti, l’oggettività può venire tradizionalmente associata ad un accordo intersoggettivo sui fatti.
Alcune teorie femministe tendono in qualche modo a sviluppare questo punto, sostenendo che
l’oggettività viene assicurata dal carattere sociale dell’indagine epistemica. Nell’accumulare
evidenza a favore di una certa proposizione o di una certa teoria il soggetto individuale non riesce a
fare a meno di utilizzare assunzioni di background che contengono valori soggettivi e non
epistemici. La comunità può però bloccare tale interferenza della soggettività: quei valori possono
infatti essere criticati ed eliminati grazie ad uno sforzo intersoggettivo. Si ottiene così a livello
comunitario una reale conoscenza oggettiva, ovvero una conoscenza priva delle componenti
soggettive. Non tutti però concordano circa la possibilità e la necessità di rimuovere i valori non
epistemici dall’impresa conoscitiva. Per alcune teorie femministe essi sono ineliminabili: non si può
infatti rifiutare di riconoscere l’importanza dei valori nell’indagine epistemica. Dato che il contesto
sociale è determinante per i valori a cui i soggetti cognitivi aderiscono, occorre connettere ad esso la
nozione di oggettività. Ciò però non significa connetterla a qualsiasi contesto sociale. Vi sono infatti
valori “buoni” e “valori” cattivi, valori che conducono ad una migliore indagine epistemica e valori
che conducono invece ad una peggiore indagine epistemica (per esempio, i valori democratici sono
certamente “buoni”, mentre i valori anti-democratici sono certamente “cattivi”; lo stesso vale
rispettivamente per i valori anti-misogini e i valori misogini, e così di seguito). L’oggettività emerge
pertanto da quei contesti che sorreggono valori “buoni”.
RIFLESSIONI SULLA RAGIONE
In epistemologia la nozione di ragione gioca tradizionalmente un ruolo essenziale: si
suddividono spesso le credenze ottenute tramite ragione, ovvero le credenze razionali, da quelle
ottenute per un diverso tramite, ovvero dalle credenze irrazionali, e si sostiene che le prime
presentano, rispetto alle seconde, probabilità ben maggiori di condurci alla verità. Data la consueta
assimilazione del genere maschile con la ragione e del genere femminile con qualcosa d’altro, le
epistemologie femministe devono necessariamente riflettere sulla ragione. Volente o nolente, in
un’ottica tradizionale sembra che solo gli uomini, e non le donne, possano acquisire credenze
razionali e possano pertanto disporre di effettive possibilità di giungere alla verità. In opposizione a
tale ottica vi sono così coloro che sostengono sia che il femminismo deve esaltare la nozione di
ragione, sia che le donne devono mostrarsi razionali al pari degli uomini, in modo da conseguire la
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verità e falsificare, al contempo, l’assunto che le vuole irrazionali. Le cose sembrano tuttavia più
complicate per il fatto che è sicuramente troppo semplicistico pensare alle donne come a quel
genere che è sempre stato tout court escluso dalla sfera razionale. Difatti, a questo riguardo, il
genere femminile è stato storicamente caratterizzato in diversi modi: come ciò che è meno razionale
del genere maschile, come ciò che risiede al di fuori della ragione, come ciò che rappresenta il
necessario complemento della ragione. Nel primo caso il genere femminile è visto come carente
rispetto a quello maschile; nel secondo caso, se intendono essere razionali, le donne sono
incoraggiate a trasformarsi in uomini; nel terzo caso, se non si vuole lasciare la ragione priva del
suo fondamentale complemento, le donne devono rimanere prettamente emotive. Comunque, in tutti
i tre casi, il genere femminile deve, al fine di acquisire una piena e matura razionalità, rinunciare
alla propria femminilità. Tale richiesta pare davvero eccessiva, a meno di non predicare la fine della
dicotomia tra genere femminile e genere maschile, cosa che, comunque, viene auspicata da alcuni.
Chi non vuol rinunciare a questa dicotomia, e tuttavia non vuole richiedere alle donne di
abbandonare la propria femminilità, può del resto pensare che l’associazione della ragione con la
mascolinità sia solo contingente, e non necessaria: dato che è solo contingente, essa potrà venire
sostituita in futuro con una nozione di razionalità più progressista, vale a dire con una nozione dalla
connotazione neutra rispetto al maschile e al femminile, cosicché entrambi i generi abbiano la
possibilità di accedere alla ragione in modo paritario e, di conseguenza, a quelle credenze razionali
che conducono con elevata probabilità alla verità. A questo punto è però necessario evidenziare che
la stessa nozione di ragione è oggetto di diversi scetticismi generali. C’è chi sostiene che non si
possa parlare di una sola ragione, perché, ad esempio, la ragione che ci conduce a credere che
qualcosa è bello è diversa da quella che ci conduce a credere che qualcosa è vero o che qualcosa è
utile. C’è inoltre chi afferma che la ragione esaltata dalla nostra società è una ragione prettamente
strumentale e che essa ha effetti deleteri perché, enfatizzando solo un tipo di ragionamento legato ai
mezzi più proficui per conseguire determinati obiettivi, è necessariamente legata all’impulso del
controllo e del dominio. C’è anche chi vede qualsiasi tipo di ragione legata in tal modo. C’è infine
chi – soprattutto nel fronte femminista – ritiene che qualsiasi discorso sulla ragione in sé perda di
senso una volta che si prendano in considerazione le conquiste della psicoanalisi. Le nostre
motivazioni e i nostri desideri inconsci giocano difatti un notevole ruolo nell’acquisizione delle
nostre credenze. La psicoanalisi ci mostra così che non si possono ottenere credenze prettamente
razionali: le motivazioni e i desideri inconsci sono coinvolti alla base delle nostre credenze, proprio
come lo è la ragione. Non si può dare la seconda senza i primi e, pertanto, è psicologicamente o
empiricamente errato pensare ad una ragione capace in sé e per sé di determinare da sola le nostre
credenze.
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CONCLUSIONI
Di fronte alla riflessione epistemologica femminista molti, di primo acchito, sorridono
divertiti, giudicandola poco interessante, o decisamente traballante, o completamente insensata.
Questa reazione non è del tutto inappropriata, dato che il femminismo pare non abbia molto da dirci
circa un’epistemologia che per tradizione e consuetudine si riferisce ad un soggetto individuale,
neutro per genere e universale per capacità cognitive. Ma è proprio mettendo in discussione la
possibilità di riferirsi a questo soggetto che le epistemologie femministe propongono interessanti e
lodevoli riflessioni. Qui ho considerato quelle sulla prospettiva, sull’oggettività e sulla ragione e ho
dovuto tralasciare, per ragioni di spazio, le considerazioni e le innovazioni nel campo della filosofia
della
scienza
propriamente
detta,
dell’empirismo,
dell’epistemologia
naturalizzata,
del
postmodernismo e dei rapporti tra conoscenza e potere. Mi pare comunque che, benché incompleto,
il quadro qui offerto delle epistemologie femministe sia sufficiente a mettere in evidenza la loro
forza e la loro peculiarità rispetto all’impostazione tradizionale, e il loro contrapporsi a questa,
senza tuttavia cadere nella richiesta di abbandonare l’epistemologia.
Nicla Vassallo
Università di Genova
Bibliografia
Garavaso P. (1998), “Il controverso rapporto fra naturalismo e femminismo”, in Agazzi E. e
Vassallo N., a cura di, Introduzione al naturalismo filosofico contemporaneo, Franco Angeli,
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Quine W.V.O. (1969), Ontological Relativity and Other Essays, Columbia University Press, New
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Restaino F. e Cavarero A. (1999), Le filosofie femministe, Paravia, Torino.
Tanesini A. (1999), An Introduction to Feminist Epistemologies, Blackwell, Oxford.
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