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EPISTEMOLOGIE FEMMINISTE

https://niclavassallo.net/ Sommario: La riflessione sull'attività epistemica femminile è un fenomeno decisamente attuale che presenta concrete aspirazioni filosofiche. Quali sono le sue motivazioni e quali le sue innovazioni rispetto all'epistemologia tradizionale? Nonostante da diverse fonti provengano voci a proposito della presunta fine dell'epistemologia, quest'ultima è sempre più oggetto di studio, perlomeno nelle scuole filosofiche di matrice analitica. Tra le ultime forti tendenze da rilevare in seno a queste vi è un cospicuo lavoro nell'ambito delle epistemologie femministe, il quale si oppone sì a diversi assunti della tradizione, ma non ritiene affatto che ogni progetto epistemologico debba venire abbandonato: l'obiettivo è piuttosto quello di criticare e rivedere il quadro tradizionale al fine di presentare nuovi approcci e soluzioni. Tale lavoro è diventato talmente variegato, solido e ragguardevole da indurre una casa editrice prestigiosa, Blackwell, a recepire il bisogno di pubblicare un'introduzione alle suddette epistemologie 1. Qui di seguito tenterò di esporre sinteticamente alcune loro linee di ricerca peculiari. CONTRO LA TRADIZIONE Per la tradizione sono di certo saldi tre punti: primo, l'epistemologia rappresenta la filosofia prima, nel senso di Descartes, ovvero è un'impresa a priori su cui deve basarsi ogni altra speculazione filosofica; secondo, la conoscenza dipende dai fondamenti, ovvero è il fondazionalismo la dottrina della giustificazione da adottarsi per comprendere che cos'è la conoscenza 2 ; terzo, la conoscenza va intesa nei termini delle rappresentazioni che il soggetto cognitivo ha del mondo oggettuale che lo circonda. Questi tre punti vengono contestati da quasi 1 Cf. Tanesini (1999). Sull'epistemologia analitica femminista l'unico lavoro disponibile in italiano è Garavaso (1998). Per un discorso introduttivo e panoramico sulla filosofia femminista si può utilmente consultare Restaino e Cavarero (1999). 2 Per quanto occorra ricordare anche il coerentismo, esso non si trova così massicciamente presente nella tradizione come il fondazionalismo.

EPISTEMOLOGIE FEMMINISTE di Nicla Vassallo https://niclavassallo.net/ Sommario: La riflessione sull’attività epistemica femminile è un fenomeno decisamente attuale che presenta concrete aspirazioni filosofiche. Quali sono le sue motivazioni e quali le sue innovazioni rispetto all’epistemologia tradizionale? Nonostante da diverse fonti provengano voci a proposito della presunta fine dell’epistemologia, quest’ultima è sempre più oggetto di studio, perlomeno nelle scuole filosofiche di matrice analitica. Tra le ultime forti tendenze da rilevare in seno a queste vi è un cospicuo lavoro nell’ambito delle epistemologie femministe, il quale si oppone sì a diversi assunti della tradizione, ma non ritiene affatto che ogni progetto epistemologico debba venire abbandonato: l’obiettivo è piuttosto quello di criticare e rivedere il quadro tradizionale al fine di presentare nuovi approcci e soluzioni. Tale lavoro è diventato talmente variegato, solido e ragguardevole da indurre una casa editrice prestigiosa, Blackwell, a recepire il bisogno di pubblicare un’introduzione alle suddette epistemologie1. Qui di seguito tenterò di esporre sinteticamente alcune loro linee di ricerca peculiari. CONTRO LA TRADIZIONE Per la tradizione sono di certo saldi tre punti: primo, l’epistemologia rappresenta la filosofia prima, nel senso di Descartes, ovvero è un’impresa a priori su cui deve basarsi ogni altra speculazione filosofica; secondo, la conoscenza dipende dai fondamenti, ovvero è il fondazionalismo la dottrina della giustificazione da adottarsi per comprendere che cos’è la conoscenza2; terzo, la conoscenza va intesa nei termini delle rappresentazioni che il soggetto cognitivo ha del mondo oggettuale che lo circonda. Questi tre punti vengono contestati da quasi Cf. Tanesini (1999). Sull’epistemologia analitica femminista l’unico lavoro disponibile in italiano è Garavaso (1998). Per un discorso introduttivo e panoramico sulla filosofia femminista si può utilmente consultare Restaino e Cavarero (1999). 2 Per quanto occorra ricordare anche il coerentismo, esso non si trova così massicciamente presente nella tradizione come il fondazionalismo. 1 1 tutte le teorie femministe della conoscenza: primo, l’epistemologia non è un’impresa a priori perché è calata nella realtà empirica; secondo, il fondazionalismo è dottrina da evitare perché non sussistono fondamenti, essendo tutta la conoscenza dipendente da altra conoscenza; terzo, il rappresentazionalismo è da rifiutarsi in quanto crea una scissione troppo marcata tra il soggetto e il mondo. A questa presa di posizione negativa ne segue una positiva. Da un punto di vista femminista quanto occorre mettere in risalto sono tre tesi: primo, la conoscenza attribuibile alle donne è tradizionalmente una conoscenza pratica (una conoscenza del fare, piuttosto che una conoscenza proposizionale), cosicché è opportuno focalizzarsi sulla prassi; secondo, la conoscenza pratica può istituirsi soltanto sul piano del sociale e, pertanto, essa è essenzialmente collettiva, non individuale; terzo, la conoscenza non può risultare neutra rispetto ai valori, dato che la prassi si costituisce in quanto tale solo relativamente a determinati valori (per esempio, il bagnare con l’acqua un neonato si trasforma nella pratica del battesimo solo nell’ordine dei valori del cristianesimo e del cattolicesimo). E’ evidente come da queste tesi segua che il ruolo sociale del soggetto cognitivo è degno di indagine epistemologica. Il soggetto cognitivo non deve venire considerato isolatamente dal proprio contesto e, più in particolare, dalla propria appartenenza sociale ad un determinato genere (maschile o femminile). Inoltre, visto che i contesti sociali sono tra loro diversi, non si dà la possibilità di presentare le condizioni per la conoscenza in riferimento ad un soggetto universale. Su ciò la distanza tra le epistemologie femministe e l’approccio tradizionale non potrebbe risultare più grande. Nel campo razionalista, a partire da Descartes, la tradizione ci consegna un’epistemologia individualistica: la conoscenza è possesso del soggetto cognitivo singolo, isolato dal proprio ambiente sociale e autonomo nel senso di essere svincolato da possibili interferenze nella sua attività raziocinante. Nel campo empirista quest’idea è stata tra gli altri approfondita da Locke il quale scrive: <<Non che mi manchi il dovuto rispetto alle opinioni degli altri. Ma, dopo tutto, si deve la maggior reverenza alla verità; e spero che non mi si crederà arrogante se dico che forse faremmo maggiori progressi nella scoperta della conoscenza razionale e contemplativa se la cercassimo alla fonte, cioè nella considerazione delle cose stesse e se per cercarla facessimo uso del nostro pensiero piuttosto che di quello altrui. Nella misura in cui consideriamo e comprendiamo noi stessi la verità e la ragione, possediamo una conoscenza vera e reale. Le opinioni altrui che vengono a galleggiare nel nostro cervello, anche se per caso sono vere, non ci rendono di un briciolo più dotti. Ciò che in loro era scienza in noi non è che ostinatezza>>3. L’individualismo si ritrova nel nostro secolo sviluppato sia dal neopositivismo, sia da una corrente, quella naturalistica, che avviatasi con Quine, si oppone per altri versi alla tradizione. Per i 3 Cf. Locke (1690, 1971, p. 127). 2 neopositivisti la conoscenza per eccellenza è rappresentata dalla scienza e, in particolare, dalla fisica. I fattori sociali e personali possono condizionare lo scienziato al livello del contesto della scoperta, ma essi non interessano affatto il contesto della giustificazione. Nel giustificare la propria scoperta scientifica lo scienziato deve sbarazzarsi di tutti i valori non epistemici, delle proprie emozioni e dei propri interessi personali o sociali. Per Quine, invece, : <<L’epistemologia, o qualcosa di simile, trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale. Essa studia un fenomeno naturale cioè un soggetto umano fisico. A questo soggetto umano è dato un certo input sperimentalmente controllato – certi modelli di irradiazione di frequenze assortite, per esempio – e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia>>4. Sebbene Quine si opponga nettamente alla tradizione con la sua richiesta che l’epistemologia faccia parte della psicologia, non rinuncia ad un approccio individualistico e, difatti, considera un soggetto cognitivo singolo che, sulla base di certi input sensoriali (e non affatto sociali), produce la sua individuale descrizione del mondo. L’individualismo è stato recentemente criticato da almeno un filosofo analitico. Si tratta di Kitcher secondo il quale la conoscenza del soggetto cognitivo può dipendere dalle caratteristiche degli altri soggetti o dalla comunità a cui quel soggetto appartiene5. Questa tesi non è peraltro nuova e può essere riportata alla filosofia kuhneana. Le soluzioni più radicali contro l’individualismo giungono però dalla riflessione femminista. Una cosa infatti è dire che il singolo soggetto cognitivo non può conoscere se non in relazione ad un determinato contesto sociale, mentre tutt’altra cosa è dire – come fanno alcune filosofe femministe – che sono innanzitutto le comunità, e non i singoli individui, a possedere credenze e conoscenze. Si giunge facilmente ad affermare ciò se si sostiene sia che la conoscenza dipende dall’evidenza a disposizione, sia che quest’ultima appartiene sempre alle comunità o che essa può essere posseduta o compresa nella sua totalità solo dalle comunità. Veniamo ora a trattare dell’impossibilità di presentare le condizioni per la conoscenza in riferimento ad un soggetto universale. Si è detto che tale impossibilità è legata alla diversità tra i contesti sociali. Allo scopo di concludere che il soggetto spacciato per universale dall’epistemologia tradizionale non è altro che un soggetto maschile, alcune teorie femministe insistono particolarmente sul fatto che il contesto sociale del genere maschile è, nella nostra cultura, diverso da quello del genere femminile. Per mostrare questo si avvalgono del contributo della psicoanalisi. I bambini di genere sia femminile, sia maschile aspirano a raggiungere la maturità cognitiva ed emotiva, ovvero a sviluppare il senso di un sé separato dagli altri e dall’ambiente circostante. L’obiettivo consiste nel conseguire l’autonomia. Quest’ultima nasce ed inizia a svilupparsi nei primi anni di vita come un processo di separazione dalla propria madre. Nonostante il complesso di 4 Cf. Quine (1969, 1986, p. 106). 3 Edipo, il bisogno di separazione è recepito in modo più acuto dai bambini di genere maschile, dato che essi devono sviluppare non solo un senso del sé individualmente separato da quello della madre, ma anche un senso del sé che nulla condivide col genere femminile a cui appartiene la madre. La separazione è certamente drammatica e conduce ad una forte ansia di autonomia anche rispetto agli altri, oltre che alla madre. Occorre, tra l’altro, non dimenticare che su questa pressante ricerca di autonomia incide pesantemente la richiesta di una cultura, qual è la nostra, che il maschile non presenti alcuna traccia del femminile. Si ottiene così il soggetto a cui l’epistemologia tradizionale si riferisce. Si tratta di un soggetto individualista, autonomo e distaccato dagli altri. Si tratta di un soggetto che appartiene indubbiamente al genere maschile, dato che il soggetto di genere femminile è culturalmente collettivista, dipendente e correlato agli altri. LA PROSPETTIVA FEMMINISTA La teoria epistemico-femminista più nota è la “Standpoint Theory”, ovvero la teoria del punto di vista o la teoria della prospettiva. Il suo assunto di partenza consiste in un’ovvietà: quando si guarda il mondo da punti di vista o da prospettive diverse, si ottengono molto probabilmente esperienze ed osservazioni diverse. La sua tesi principale è la seguente: c’è un punto di vista sulla realtà che è peculiarmente femminile, e pertanto distinto da quello maschile, e che è privilegiato rispetto a quello maschile. Questa tesi che collega la conoscenza al punto di vista non è nuova. Marx, ad esempio, decreta che il punto di vista del proletariato è peculiare e distinto rispetto a quello delle classi dominanti. Il proletariato ha una conoscenza particolare del sistema capitalistico e ha di conseguenza una particolare presa di consapevolezza della realtà sociale, presa che è più accurata rispetto a quella di altre classi sociali. Cosa garantisce la consistenza di questo punto di vista? L’esperienza lavorativa e manuale, ed è essa a fondare una prospettiva distinta sulla realtà. Alcune teorie femministe del punto di vista si rifanno consapevolmente all’impianto marxista e lo applicano alla conoscenza femminile; altre invece criticano Marx per il fatto di non aver prestato alcuna attenzione alle divisioni di genere che regolano la nostra società: egli si concentra troppo sui sistemi di produzione e sorvola disinvoltamente sui sistemi di riproduzione i quali spesso acquisiscono una preponderante centralità nell’esistenza femminile. L’esperienza della riproduzione è peculiare delle donne. Si tratta di un’attività sociale complessa che include la gestazione, il parto e l’allevamento dei figli, e che comporta un’unificazione della mente con il corpo. Tale esperienza consente alle donne una particolare comprensione di quel mondo sociale e naturale che è legato ai sistemi di riproduzione. E’ il contenuto di tale esperienza a creare la differenza tra uomini e donne. Per esempio, gli uomini possono erroneamente interpretare 5 Cf. Kitcher (1994, p. 113) 4 l’allevamento degli figli come un’attività che sostanzialmente richiede solo una buona dose d’istinto materno, mentre le donne lo sperimentano concretamente e correttamente come un’attività sociale difficile e articolata, la quale richiede una maturità emotiva e cognitiva adulta, unita a molteplici doti razionali e organizzative. E’ ovvio però che sottolineare troppo la questione della riproduzione, quale unica differenza concreta tra uomini e donne, conduce a sostenere che le donne possiedono una conoscenza privilegiata solo relativamente al mondo sociale e naturale che è legato ai meccanismi riproduttivi. E che le donne possiedano tale conoscenza può ben essere ammesso anche dall’epistemologia tradizionale. Così, alcune teorie femministe del punto di vista, invece che puntare sull’esperienza della riproduzione e sul suo contenuto, sostengono che le donne dispongono di uno stile cognitivo di sperimentare la realtà che è diverso da quello in possesso degli uomini. Tale stile sarebbe connesso alla sfera affettiva e, più in generale, all’emotività. Al proposito le critiche ovviamente non mancano e mettono in evidenza che affermare una differenza tra uomini e donne a proposito dello stile cognitivo significa semplicemente rivalutare quelle vecchie e inconsistenti dicotomie di origine patriarcale che vogliono l’uomo razionale ed attivo, mentre la donna emotiva e passiva. In generale si può concordare sul fatto che le teorie femministe del punto di vista corrono il pericolo di assumere: che sussista un’unica natura o essenza femminile; che l’esperienza delle donne sia abbastanza simile da poter rappresentare un preciso punto di vista; che la sola esperienza possa fondare la conoscenza. Consideriamo meglio questi pericoli. E’ senza dubbio vero che si può sfociare nell’essenzialismo esasperato e nell’universalizzazione indebita. Infatti asserire che vi sono contenuti o stili esperenziali che appartengono unicamente alle donne può condurre da una parte a ritenere che tutte le donne condividono caratteristiche essenziali e dall’altra ad ignorare le differenze che intercorrono necessariamente tra di esse (per esempio, una donna che vive in Europa ed ha accesso all’istruzione non può essere assimilata tout court ad una donna che vive in un regime islamico-fondamentalista e che non ha alcun accesso ad alcuna istruzione; o, ancora, una donna bianca che si trova ad allevare un bambino bianco in una società razzista non può essere assimilata tout court ad una donna di colore che si trova ad allevare un bambino di colore nella medesima società). Occorre pertanto riconoscere che tra le donne intercorrono differenze. E, tuttavia, occorre anche accettare che ciò non implica affatto che non si possa parlare delle donne in generale: difatti non è per nulla scontato che ammettere alcune differenze voglia dire rifiutare di attribuire alle donne qualsiasi tipo di caratteristica comune. Relativamente alla questione del genere e di come questa categoria sociale sia vissuta, l’esperienza delle diverse donne può risultare per certi aspetti talmente simile da riuscire a rappresentare un preciso punto di vista. Circa il rischio di assumere che la sola esperienza possa fondare la conoscenza, esso è realmente presente e bisogna evitare di 5 correrlo. Al fine di conoscere, infatti, non è sufficiente l’esperienza; si richiede anche una certa concettualizzazione, e, pertanto, quanto viene sperimentato dipende sempre dai concetti disponibili (per esempio, per sapere che di fronte a me si trova un computer non è sufficiente che io percepisca l’oggetto che si trova di fronte a me; devo anche possedere il concetto di computer). Per evitare l’appello all’esperienza, è consentito dirigere la propria attenzione sulla vita delle donne, sostenendo che è da qui che la ricerca epistemologica femminista deve prendere avvio. Si mantiene così salda la convinzione base delle teorie del punto di vista, ovvero quella secondo la quale la vita delle donne, e comunque la vita di coloro che sono marginalizzati, differisce in modo strutturale dalla vita dei gruppi dominanti. E, tuttavia, invece di focalizzarsi sull’esperienza, ci si concentra sui fatti oggettivi che concernono la vita e, di conseguenza, anche la conoscenza. Guardare la realtà dal punto di vista della vita delle donne può mettere in discussione la visione dominante (per esempio, nel caso dell’allevamento dei bambini mette in discussione il fatto che esso sia legato solo all’istinto materno). Più in generale guardare la realtà dal punto di vista della vita dei gruppi marginalizzati rende possibile una migliore comprensione dei meccanismi dell’oppressione. Non è che in tal modo si possa giungere all’unica comprensione possibile, ma si può certamente giungere ad una comprensione migliore. Tutti i punti di vista vanno ovviamente considerati e, pertanto, anche quelli degli uomini e dei gruppi dominanti. Non per questo però essi si presentano sul medesimo piano: solo alcuni, infatti, sono in grado di fornirci una conoscenza del mondo meno distorta. RIFLESSIONI SULL’OGGETTIVITA’ Nel proprio confronto con la tradizione il femminismo epistemologico presenta il merito di avere riflettuto molto sulla nozione di oggettività e di avere prodotto diverse teorie, sia critiche, sia costruttive. Ne esporrò qui brevemente alcune al fine di offrire una visione un po’ più completa del pensiero femminista. Tradizionalmente si ha conoscenza oggettiva quando un soggetto afferra cognitivamente i fatti o gli oggetti in modo neutro, ovvero in un modo decontaminato dalla propria soggettività. Si richiede pertanto una separazione tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto. Alcune teorie femministe trovano in ciò una lampante caratteristica della mascolinità. E’ il preponderante bisogno di autonomia, e pertanto di separazione dagli altri e dagli oggetti, a contrassegnare l’esperienza esistenziale del genere maschile e a fare sì che da questa scaturisca la nozione tradizionale di oggettività. Un visione più femminile consiste nel riguardare la conoscenza oggettiva come una forma di interazione tra l’esperienza emotiva e l’esperienza cognitiva; come ad una tensione del soggetto, non spogliato delle proprie caratteristiche soggettive, verso un oggetto che non sia completamente contrapposto al soggetto; come ad una continuità tra il soggetto e la realtà fisica. All’oggettività, intensa come una forma di ragionamento non emotivo, viene così 6 sostituita un’oggettività che non può fare a meno delle componenti emotive. Tale sostituzione risulta però criticabile in diversi modi. Per esempio, se quelle componenti sono soggettive, non si comprende in qual modo essa riesca ancora a consegnarci una nozione di oggettività che non precipiti irrimediabilmente in quella di soggettività. Più che all’intenzione di separare soggetti e oggetti, l’oggettività può venire tradizionalmente associata ad un accordo intersoggettivo sui fatti. Alcune teorie femministe tendono in qualche modo a sviluppare questo punto, sostenendo che l’oggettività viene assicurata dal carattere sociale dell’indagine epistemica. Nell’accumulare evidenza a favore di una certa proposizione o di una certa teoria il soggetto individuale non riesce a fare a meno di utilizzare assunzioni di background che contengono valori soggettivi e non epistemici. La comunità può però bloccare tale interferenza della soggettività: quei valori possono infatti essere criticati ed eliminati grazie ad uno sforzo intersoggettivo. Si ottiene così a livello comunitario una reale conoscenza oggettiva, ovvero una conoscenza priva delle componenti soggettive. Non tutti però concordano circa la possibilità e la necessità di rimuovere i valori non epistemici dall’impresa conoscitiva. Per alcune teorie femministe essi sono ineliminabili: non si può infatti rifiutare di riconoscere l’importanza dei valori nell’indagine epistemica. Dato che il contesto sociale è determinante per i valori a cui i soggetti cognitivi aderiscono, occorre connettere ad esso la nozione di oggettività. Ciò però non significa connetterla a qualsiasi contesto sociale. Vi sono infatti valori “buoni” e “valori” cattivi, valori che conducono ad una migliore indagine epistemica e valori che conducono invece ad una peggiore indagine epistemica (per esempio, i valori democratici sono certamente “buoni”, mentre i valori anti-democratici sono certamente “cattivi”; lo stesso vale rispettivamente per i valori anti-misogini e i valori misogini, e così di seguito). L’oggettività emerge pertanto da quei contesti che sorreggono valori “buoni”. RIFLESSIONI SULLA RAGIONE In epistemologia la nozione di ragione gioca tradizionalmente un ruolo essenziale: si suddividono spesso le credenze ottenute tramite ragione, ovvero le credenze razionali, da quelle ottenute per un diverso tramite, ovvero dalle credenze irrazionali, e si sostiene che le prime presentano, rispetto alle seconde, probabilità ben maggiori di condurci alla verità. Data la consueta assimilazione del genere maschile con la ragione e del genere femminile con qualcosa d’altro, le epistemologie femministe devono necessariamente riflettere sulla ragione. Volente o nolente, in un’ottica tradizionale sembra che solo gli uomini, e non le donne, possano acquisire credenze razionali e possano pertanto disporre di effettive possibilità di giungere alla verità. In opposizione a tale ottica vi sono così coloro che sostengono sia che il femminismo deve esaltare la nozione di ragione, sia che le donne devono mostrarsi razionali al pari degli uomini, in modo da conseguire la 7 verità e falsificare, al contempo, l’assunto che le vuole irrazionali. Le cose sembrano tuttavia più complicate per il fatto che è sicuramente troppo semplicistico pensare alle donne come a quel genere che è sempre stato tout court escluso dalla sfera razionale. Difatti, a questo riguardo, il genere femminile è stato storicamente caratterizzato in diversi modi: come ciò che è meno razionale del genere maschile, come ciò che risiede al di fuori della ragione, come ciò che rappresenta il necessario complemento della ragione. Nel primo caso il genere femminile è visto come carente rispetto a quello maschile; nel secondo caso, se intendono essere razionali, le donne sono incoraggiate a trasformarsi in uomini; nel terzo caso, se non si vuole lasciare la ragione priva del suo fondamentale complemento, le donne devono rimanere prettamente emotive. Comunque, in tutti i tre casi, il genere femminile deve, al fine di acquisire una piena e matura razionalità, rinunciare alla propria femminilità. Tale richiesta pare davvero eccessiva, a meno di non predicare la fine della dicotomia tra genere femminile e genere maschile, cosa che, comunque, viene auspicata da alcuni. Chi non vuol rinunciare a questa dicotomia, e tuttavia non vuole richiedere alle donne di abbandonare la propria femminilità, può del resto pensare che l’associazione della ragione con la mascolinità sia solo contingente, e non necessaria: dato che è solo contingente, essa potrà venire sostituita in futuro con una nozione di razionalità più progressista, vale a dire con una nozione dalla connotazione neutra rispetto al maschile e al femminile, cosicché entrambi i generi abbiano la possibilità di accedere alla ragione in modo paritario e, di conseguenza, a quelle credenze razionali che conducono con elevata probabilità alla verità. A questo punto è però necessario evidenziare che la stessa nozione di ragione è oggetto di diversi scetticismi generali. C’è chi sostiene che non si possa parlare di una sola ragione, perché, ad esempio, la ragione che ci conduce a credere che qualcosa è bello è diversa da quella che ci conduce a credere che qualcosa è vero o che qualcosa è utile. C’è inoltre chi afferma che la ragione esaltata dalla nostra società è una ragione prettamente strumentale e che essa ha effetti deleteri perché, enfatizzando solo un tipo di ragionamento legato ai mezzi più proficui per conseguire determinati obiettivi, è necessariamente legata all’impulso del controllo e del dominio. C’è anche chi vede qualsiasi tipo di ragione legata in tal modo. C’è infine chi – soprattutto nel fronte femminista – ritiene che qualsiasi discorso sulla ragione in sé perda di senso una volta che si prendano in considerazione le conquiste della psicoanalisi. Le nostre motivazioni e i nostri desideri inconsci giocano difatti un notevole ruolo nell’acquisizione delle nostre credenze. La psicoanalisi ci mostra così che non si possono ottenere credenze prettamente razionali: le motivazioni e i desideri inconsci sono coinvolti alla base delle nostre credenze, proprio come lo è la ragione. Non si può dare la seconda senza i primi e, pertanto, è psicologicamente o empiricamente errato pensare ad una ragione capace in sé e per sé di determinare da sola le nostre credenze. 8 CONCLUSIONI Di fronte alla riflessione epistemologica femminista molti, di primo acchito, sorridono divertiti, giudicandola poco interessante, o decisamente traballante, o completamente insensata. Questa reazione non è del tutto inappropriata, dato che il femminismo pare non abbia molto da dirci circa un’epistemologia che per tradizione e consuetudine si riferisce ad un soggetto individuale, neutro per genere e universale per capacità cognitive. Ma è proprio mettendo in discussione la possibilità di riferirsi a questo soggetto che le epistemologie femministe propongono interessanti e lodevoli riflessioni. Qui ho considerato quelle sulla prospettiva, sull’oggettività e sulla ragione e ho dovuto tralasciare, per ragioni di spazio, le considerazioni e le innovazioni nel campo della filosofia della scienza propriamente detta, dell’empirismo, dell’epistemologia naturalizzata, del postmodernismo e dei rapporti tra conoscenza e potere. Mi pare comunque che, benché incompleto, il quadro qui offerto delle epistemologie femministe sia sufficiente a mettere in evidenza la loro forza e la loro peculiarità rispetto all’impostazione tradizionale, e il loro contrapporsi a questa, senza tuttavia cadere nella richiesta di abbandonare l’epistemologia. Nicla Vassallo Università di Genova Bibliografia Garavaso P. (1998), “Il controverso rapporto fra naturalismo e femminismo”, in Agazzi E. e Vassallo N., a cura di, Introduzione al naturalismo filosofico contemporaneo, Franco Angeli, Milano, pp. 35-68. Kitcher P. (1994), “Contrasting Conceptions of Social Epistemology”, in Schmitt F. (ed.), Socializing Epistemology, Rowman & Littlefield, Lanham, pp. 111-34. Locke J. (1690), An Essay concerning Human Understanding, London. Tr. it. (1971), Saggio sull’intelletto umano, Utet, Torino. Quine W.V.O. (1969), Ontological Relativity and Other Essays, Columbia University Press, New York. Tr. it (1986), La relatività ontologica e altri saggi, Armando Roma. Restaino F. e Cavarero A. (1999), Le filosofie femministe, Paravia, Torino. Tanesini A. (1999), An Introduction to Feminist Epistemologies, Blackwell, Oxford. 9