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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
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UNITRE SARONNO Anno Accademico 2017 – 2018
Prof. GIUSEPPE UBOLDI
CORSO DI FILOSOFIA
IL PENSIERO AL FEMMINILE
SIMONE WEIL
EDITH STEIN
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
L’opera che segue riporta l’esclusiva opinione del suo autore ed è di libero utilizzo
da parte di chiunque ne sia interessato o voglia comunque utilizzarla.
Diffondendone il contenuto in tutto o in parte permane l’obbligo di legge di indicare
il nominativo dell’autore
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
IL PENSIERO AL FEMMINILE
SIMONE WEIL - EDITH STEIN
INTRODUZIONE
LE DONNE E LA FILOSOFIA NELLA STORIA
Inizia quest'anno un ciclo di lezioni centrate sul "pensiero femminile" del Novecento, che presenterà alcune
grandi figure di filosofe del nostro tempo (ma il termine “filosofe” è riduttivo, inadeguato a definirne la
complessa e sfaccettata personalità).
Come premessa all'Intero ciclo tracceremo un rapido quadro del posto che le donne hanno occupato, nella
cultura occidentale, nell’ambito del pensiero filosofico-teologico, dall'antichità ad oggi. Questo per mettere
in evidenza il contributo, spesso rimasto in ombra o addirittura misconosciuto, che esse hanno dato al
patrimonio di idee dell'Occidente.
Ci chiederemo inoltre se esista una specificità del pensiero femminile, rispetto a quello maschile che ha
dominato fino ad oggi nella nostra cultura.
Notiamo, per cominciare, che il termine Sophia, da cui deriva filo-sofia, è femminile. E questo è già
significativo.
Partiamo dalla antichissima nozione di Sophia (in greco “sapienza”): è un concetto filosofico e religioso
comune sia allo gnosticismo che all’ebraismo ed al cristianesimo. Esso assume il significato, secondo i casi, o
di Sapienza divina o di parte femminile di Dio. Già molto tempo fa si pensava dunque che ci potesse essere
una forma di sapienza tipicamente femminile, e che anzi questa avesse una importanza essenziale,
“fondativa”.
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SCHEDA. LA “SOPHIA” Per gli Gnostici cristiani, Sophia è un elemento centrale per la comprensione
cosmologica dell'Universo. E’ la componente femminile di Dio, e coincide con lo Spirito Santo della Trinità. E’
aI tempo stesso sorella e sposa di Cristo; come Cristo viene da Dio, generatore dei due principi, maschile
(Cristo) e femminile (Sophia). Risiede in tutti noi sotto forma di Scintilla Divina.
Pressoché tutti i sistemi gnostici del tipo siriano o egiziano insegnavano che l'universo ebbe inizio da un Dio
originario, inconoscibile, definito come Padre o Bythos (abisso), o Monade. Esso può essere associato al Logos
dello stoicismo, o dell'esoterismo, o a termini teosofici come Ain Sof nella Qabbalah o Brahman
nell'Induismo. Nello gnosticismo cristiano era noto anche come il Primo Eone.
Da questo inizio unitario, l'Uno-Dio emanò spontaneamente gli altri Eoni, entità accoppiate in una sequenza
di potenza sempre inferiore. L'ultima di queste coppie fu quella formata da Sophia e Cristo. Gli Eoni, tutti
insieme, costituivano la pienezza (Pleroma) di Dio. Ma Sophia provocò un'instabilità nell’unità divina,
causando così la creazione della materia.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Nei codici di Nag Hammadi, Sophia è la sizigia – l’eone complementare - di Gesù Cristo. Nel testo "Sull'Origine
del Mondo" è dipinta come Colei che generò senza la sua controparte maschile. In questo modo venne
originato il Demiurgo, ovvero il Dio ebraico Yahweh (noto anche come Yaldabaoth), creatore di tutto
l'universo materiale: un dio minore e malvagio, poiché appunto Sophia lo generò senza la sua sizigia Gesù
Cristo. All’atto della creazione del mondo ad opera del Demiurgo, però, Sophia riuscì ad infondere nella
materia la sua Scintilla Divina (pneuma) - che è presente nel cosmo e in tutte le forme di vita come anima rovinando così i piani del Demiurgo. Cristo poi si incarnò proprio al fine di risvegliare negli uomini questa
scintilla divina (la Sophia che è presente in loro).
La redenzione di Sophia (e del mondo) attraverso Cristo è il dramma centrale dell'universo.
Sempre in "Sull'Origine del Mondo", si dice: "Ella [Sophia] li getterà giù nell'abisso. Ed i loro cieli
precipiteranno uno sull'altro e le loro schiere saranno consumate dal fuoco... La luce vincerà sull'oscurità e
sarà come qualcosa che mai fu prima".
In un certo periodo, nella Chiesa Ortodossa russa, Sophia fu individuata da alcuni teologi come una figura
chiave per la comprensione della Divinità. Tra questo i più famosi furono Vladimir Solov'ëv, Pavel
Aleksandrovič Florenskij, Nikolaj Berdjaev e Sergej Nikolajevič Bulgakov, il cui libro Sophia: La Saggezza di
Dio rappresenta l'apoteosi della Sophiologia. La sua opera fu, però, denunciata dalle autorità ortodosse russe
come eretica. Per Bulgakov, Sophia era sullo stesso piano della Trinità, operando come parte femminile di
Dio di concerto con i tre principi maschili del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questo, in contrasto con
il punto di vista ufficiale della Chiesa Ortodossa Orientale, che affermava che Sophia era la stessa persona del
Figlio (riferito al femminile nel Vecchio Testamento perché "Sophia" in greco è un termine femminile) che si
incarnò in Gesù Cristo.
Nella Chiesa cattolica, la figura di Sophia venne dimenticata finché Santa Ildegarda di Bingen non raccontò
di averne avuto una visione e la celebrò come figura cosmica sia nei suoi scritti che nella sua arte,
raffigurandola con indosso una tunica dorata ornata di gemme preziose. Nell'ambito della tradizione
protestante inglese del XVII secolo la mistica e teosofa fondatrice della “Società di Filadelfia”, Jane Leade,
fornì copiose descrizioni delle sue visioni e dei suoi dialoghi con la 'Vergine Sophia' che, sostenne, le rivelò il
processo spirituale dell'Universo. Leade era fortemente influenzata dagli scritti teosofici di Jakob Böhme, che,
al pari di lei, parlò di Sophia in opere come “La Via per Cristo”.
La differenza principale tra l'idea gnostica di Sophia e quella delle chiese ufficiali è che per le seconde essa
non è precipitata dal mondo divino, e perciò non ha bisogno di redenzione. Inoltre, per il cristianesimo non
è affatto una figura centrale quanto lo è per gli gnostici. In verità, se si eccettuano i mistici ed i teologi sopra
menzionati, in molti movimenti cristiani non è assolutamente una delle figure maggiori, specialmente nelle
Chiese Occidentali (Cattolicesimo, Luteranesimo ecc). Nelle tradizioni degli Ortodossi orientali viene venerata
in misura superiore.
Nel Libro biblico della Sapienza troviamo questa esortazione della Sapienza divina rivolta agli uomini:
“Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio dagli inizi della terra.
Quando ancora non esistevano gli abissi, io fui generata;
quando non vi erano le sorgenti cariche d’acqua,
quando fissava i cieli io ero là; quando stabiliva al mare i suoi limiti
allora io ero con lui come architetto, ed ero la sua delizia ogni giorno.
Ora figli ascoltatemi:
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beati quelli che seguono le mie vie! ascoltate l’esortazione e siate saggi,
non trascuratela! Beato l’uomo che mi ascolta,
vegliando ogni giorno alle mie porte, per custodire attentamente la soglia.
Infatti chi trova me trova la vita, e ottiene favore dal Signore;
ma chi pecca contro di me danneggia se stesso;
quanti mi odiano, amano la morte».
Nella tradizione cristiana l’identificazione della Sapienza con la donna ha trovato il suo modello perfetto nella
figura della Vergine Maria, madre di Cristo. Fin dai primordi infatti la teologia cristiana cattolica e ortodossa
ha identificato in Gesù e Maria la Sapienza divina. Maria sarebbe dunque la nuova Sophia. Fra i suoi titoli
risalta infatti quello di “sedes sapientiae”. Se in Gesù la Sapienza è increata, e prende temporaneamente
forma umana, in Maria si trova invece il modello e la personificazione della Sapienza creata. Essa espleta una
funzione redentrice come l’antica Sophia gnostica.
(liberamente tratto da Wikipedia e da altre fonti)
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Passando dalla teologia alla filosofia, troviamo in Socrate, attraverso la testimonianza di Platone, il primo
grande riconoscimento della qualità e dello spessore del pensiero femminile. Nel dialogo “Simposio”, che ha
come tema una discussione sulla natura dell’Amore, quando arriva il turno di Socrate, questi dice di voler
riferire quanto attorno all’amore gli aveva rivelato Diotima, “una donna di Mantinea, che era sapiente in
questo e in molte altre cose”. Secondo quanto dice Socrate quella donna gli impartì una vera e propria lezione,
confutando il suo punto di vista: un po’ il rovesciamento speculare di quello che poi il grande ateniese fece
in tutta la sua vita con i suoi interlocutori, cioè mettere sistematicamente in discussione le loro presunte
certezze… Insomma, vediamo in Paltone che una donna dà dei punti al più sapiente fra i greci del suo tempo.
A Diotima non per caso fa riferimento oggi una importante comunità filosofica di donne, formatasi nel 1984
attorno a Luisa Muraro presso l’università di Verona, promotrice di un rinnovato modo di affrontare la ricerca
filosofica, in una ottica di genere che valorizza la differenza femminile.
Un’altra donna fuori del comune, nel mondo greco, fu Aspasia, maestra di retorica, che ebbe come discepolo
anche Socrate, e fu amante di Pericle: una donna libera e colta, ispiratrice del grande uomo politico. Ma la
sua appare come una luminosa eccezione, in un mondo che relegava le donne nel chiuso della sfera
domestica, in accordo con la teorizzazione aristotelica dei rigidi ruoli del maschio e della femmina.
Sempre in quel periodo, troviamo altri esempi molto significativi di una presenza femminile nelle scuole
filosofiche. Nel VI secolo avanti Cristo, la scuola di Pitagora consentiva allo stesso titolo a uomini e donne di
far parte della comunità di vita e di studio creata dal maestro. Qualcosa di simile avvenne più avanti nella
scuola di Epicuro, nel terzo secolo a.C.
I Vangeli cristiani ci presentano Gesù che è circondato da donne, che ne accetta la compagnia e le valorizza;
ma la Chiesa cattolica poi ribadirà la condizione subalterna delle stesse all’interno della comunità cristiana.
Tra il IV e il V secolo d.C. troviamo una eccezionale figura di donna filosofa e scienziata, Ipazia, seguace del
neoplatonismo, la cui tragica vicenda (fu violentata e uccisa dai seguaci del vescovo di Alessandria Cirillo) ha
fatto a lungo passare in secondo piano i suoi contributi al pensiero della tarda antichità.
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Nel Medioevo troviamo delle donne colte nelle corti aristocratiche o nei conventi. Alcune figure emergono
con grande rilievo: Chiara da Assisi, Caterina da Siena, Margherita Porete, Eloisa, Ildegarda di Bingen. Esse
andrebbero considerate allo stesso livello dei grandi filosofi e teologi dell’epoca.
Eloisa, discepola e successivamente amante del filosofo e teologo Abelardo, il maestro più prestigioso
dell’università di Parigi, fu donna coltissima; ma il suo ruolo intellettuale fu oscurato dalla vicenda della sua
passione per Abelardo, che ebbe una conclusione tragica. E la sua memoria fu confinata alla storia d’amore,
mentre di Abelardo si trasmise nei secoli l’eredità del pensiero.
Ildegarda di Bingen (1098-1179) fu teologa, filosofa, scienziata e musicista e soprattutto una grande mistica.
Fu in contatto diretto con i grandi del suo tempo, da Federico Barbarossa a Bernardo di Chiaravalle. Fu
proclamata “dottore della chiesa” da Benedetto XVI nel 2012.
Nel tardo medioevo emerge in Francia una straordinaria figura di intellettuale che può essere considerata a
giusto titolo una antesignana del femminismo moderno: Christine de Pizan (1364-1430). Nel suo libro “La
citè des dames” denuncia con forza l’esclusione delle donne dal mondo della cultura.
Un’altra anticipatrice delle idee femministe fu Mary de Gournay (1565-1645), scrittrice e filosofa, che nel
1622 pubblicò “L’egalitè des hommes et des femmes”. Fu amica di Montaigne, di cui pubblicò postuma la
prima edizione dei “Saggi”. Dimenticata dopo la sua morte, fu riscoperta nel XX secolo.
Più famosa fu Olympe de Gouges (1748-1793), autrice, in piena rivoluzione francese, della “Dichiarazione dei
diritti della donna e della cittadina” (1791). Rivoluzionaria moderata, fu mandata alla ghigliottina dai giacobini
nel dicembre 1793.
Ma è nel XX secolo che la presenza femminile in campo filosofico “esplode”, imprimendo alla ricerca filosofica
un carattere nuovo, segnato dalla particolare sensibilità femminile per il concreto, il vissuto, l’esperienza. La
filosofia abbandona i sistemi per farsi “pratica” (nel doppio senso di sostantivo e di aggettivo del termine),
ponendo al centro dei propri interessi l’etica e la politica. I temi dominanti diventano il bene e il male, la
felicità e il dolore, la libertà e la giustizia.
Le figure più significative, che hanno lasciato una traccia profonda nel pensiero filosofico e più in generale
spirituale del secolo scorso, ci paiono essere Hannah Arendt (1906-1975), Simone Weil (1909-1943), Edith
Stein (1891), Etty Hillesum (1914-1943). E’ interessante notare che erano tutte ebree. Un altro grande nome
è quello di Maria Zambrano (1904-1991), una filosofa spagnola scoperta negli ultimi decenni.
Va ricordata anche un’altra pensatrice di origine ebraica, contemporanea delle altre citate: Rachel Bespaloff
(1895-1949). Meno nota al grande pubblico, interessante in particolare è il suo legame indiretto con Simone
Weil. Entrambe scrissero un saggio assai notevole sull’Iliade, interpretata in modo nuovo ed originale, alla
luce della tragedia politica contemporanea (nazismo e persecuzione degli ebrei).
E’ a queste grandi personalità di donne che dedicheremo la nostra attenzione, in questo ed in prossimi corsi.
Cominciando con Simone Weil, che con alcune di loro presenta singolari convergenze di pensiero e di
sensibilità: come Hannah Arendt, ad esempio, la Weil scorge nella bellezza la manifestazione più pregnante
attraverso cui l'Essere si rivela; il suo peculiare modo di filosofare esprime poi una visione simile a quella di
Edith Stein - morta ad Auschwitz un anno prima di lei - che trovava nell'empatia la “cifra” del modo più
autentico di stare al mondo, in mezzo agli altri uomini.
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SIMONE WEIL
“niente di quello che è umano mi è estraneo”
Terenzio
“non essere complici, non mentire, non restare ciechi” Simone Weil
“riguardo alle cose umane non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire” Baruch Spinoza
(epigrafe posta da SW nell’intestazione del saggio “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione
sociale”)
“una pellegrina dell’assoluto”
Franco Ferrarotti
“se tutti fossero come lei, non ci sarebbero più infelici” un operaio amico di Simone Weil
L’anno scorso, all’interno del ciclo di lezioni su “L’uomo e il limite” era stato dedicato uno spazio anche a
Simone Weil, in un capitolo dedicato ai “filosofi dell’eccesso”. Penso che possa essere utile riprendere qui
quelle considerazioni, a mo’ di introduzione al nostro discorso, per mettere in luce i legami che si possono
rintracciare fra il tema affrontato allora e quello di oggi. La vita di SW fu infatti a suo modo una vita all’insegna
dell’eccesso: eccesso di amore e di dedizione agli “sventurati”; eccesso di amore a Dio e di mortificazione di
sé. Il radicalismo (dapprima sociale e politico, poi religioso) è la cifra costitutiva del suo modo di essere e di
pensare.
Come scrisse G.Bataille “In Simone Weil l’eccesso si pone come eccesso nell’amore spirituale, in uno slancio
mistico verso il bene assoluto, fino all’annullamento consapevole di sé; fino alla morte che lei stessa si impose
per eccesso”.
L’esperienza mistica è presente da sempre in tutte le culture e religioni, e si fonda sulla convinzione che ad
alcuni uomini e donne sia possibile accedere direttamente al contatto con l’Assoluto per vie extrarazionali,
superando per questa via i limiti che sono costitutivi della natura umana.
Ma il misticismo di Simone Weil è del tutto particolare, nel suo “estremismo”. Ascoltiamo la sua voce:
“Ogni volta che penso alla crocifissione di Cristo pecco d'invidia...”
“Se perseverando nell'amore si cade fino al punto in cui l'anima non può più trattenere il grido: «Mio Dio,
perché mi hai abbandonato?», se si rimane in quel punto senza cessare di amare, si finisce col toccare
qualcosa che non è più la sventura, che non è la gioia, ma è l'essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile,
comune alla gioia e alla sofferenza, cioè l'amore stesso di Dio. Il male messo così in circolazione circola senza
fine finché cade su una vittima perfettamente pura. Dio che è nei cieli non può distruggere il male […]. Soltanto
quaggiù Dio, diventato vittima, può distruggere il male subendolo”.
“…Guai se non ci fosse questo “troppo” di amore! È l’eccesso irriducibile che è proprio del Soprannaturale,
del Trascendente, è la rottura del circolo dell’immanenza, è l’Agape del capitolo 13 della Prima Lettera ai
Corinzi, è la novità e lo stacco del Nuovo Testamento rispetto alle vette dell’etica classica e moderna. In
definitiva ogni altro amore è egoismo, autoaffermazione, forza, male in agguato”.
Ma se da una parte l’eccesso in SW si presenta nella forma di questo “estremismo” mistico, dall’altra parte
tutto il suo pensiero è dominato dall’idea – attinta dal pensiero greco presocratico e da quello induista – che
è il mondo è retto da un equilibrio fondato sul limite: il limite è la legge dell’universo.
Simone Weil si appella costantemente al famoso frammento di Anassimandro: “Le cose subiscono punizione
ed espiazione le une ad opera delle altre, per via della loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”. Come
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dire che il cosmo è regolato da un ordine misterioso e ineluttabile che impone l’espiazione di ogni hybris, di
ogni eccesso e squilibrio.
Ogni forza visibile è sottoposta a un invisibile limite che non supererà mai. Nel mare, un’onda sale, sale e sale
ancora; ma poi un punto la ferma e la fa ridiscendere.
Simone Weil si richiama infatti continuamente all’idea che solo la grazia divina ci può innalzare, e che quindi
solo un atteggiamento di profonda umiltà può porci nella condizione di una elevazione spirituale: “Io non ho
in me un principio di ascensione. Non posso arrampicarmi in aria fino al cielo. È solo orientando il mio pensiero
verso qualcosa migliore di me che questo qualcosa mi tira verso l’alto. Nessuna perfezione immaginaria può
tirarmi in alto neppure di un millimetro. Perché una perfezione immaginaria si trova matematicamente al
livello di me che l’immagino”.
LA VITA DI SIMONE WEIL
“quel che conta è non mancare la propria vita” Simone Weil
“malgrado tutto ciò che la ostacola, la mia vita è lungi dall’essere stata vuota” Simone Weil 1936
“Simone è un’artista del paradosso. E’ nell’abnegazione che si afferma. E’ restando sulla soglia che partecipa”
Nadia Fusini
“La candela che arde con il doppio di splendore brucia in metà tempo…” (Blade runner”)
“amò sempre l’opera da compiere più di se stesso, e ogni uomo più di qualunque opera” Simone Weil a
proposito di Lèon Letellier
“ci sarà sempre in qualche angolo di mondo un cane sperduto che mi impedirà di essere felice” Jean Anouilh,
La sauvage
“vocazione o vita felice? Quale ha maggior valore? Lo ignoriamo. Vocazioni incompatibili” Simone Weil
“vorrei tanto aver avuto anch’io un amore, una vita felice, ma non è stato possibile” Simone Weil
“sono una con cui non è bene legare il proprio destino” Simone Weil
Premessa
Prima di accostarsi ad una vita così straordinaria e non classificabile mi pare opportuno riportare quanto la
stessa SW diceva a proposito di un certo modo di fare biografia dei grandi uomini:
“Dei letterati spregevoli raccontano la vita di questo o quel grand’uomo in maniera tale da cancellare tutto
ciò che in lui c’è di superiore alla loro anima gretta. Raccontare la vita di grandi uomini, separandola dalla
loro opera, ha come risultato inevitabile di far risaltare soprattutto le loro debolezze, perché è nella loro opera
che hanno messo il meglio di se stessi”. E ancora, in un’altra occasione: “Tutto ciò che in noi è vile e mediocre
si ribella contro la purezza ed ha bisogno, per salvare la sua vita, di insudiciare questa purezza”.
Parole che si possono applicare perfettamente al confronto con una esistenza, così sconcertante per il senso
comune, come quella di SW. Potremo avere davanti ad essa tutte le nostre riserve e perplessità, ma
dovremmo anzitutto, credo, inchinarci di fronte alla grandezza della sua testimonianza.
La vita di Simone Weil ha il sapore di un romanzo, tanto è attraversata da continue svolte, tanto è stata
intensa fino all’eccesso, bruciata dall’ansia di realizzare nel giro di pochissimi anni quella che ella sentiva
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
come la sua irresistibile “vocazione”. Simone disse più volte che non voleva “mancare la propria vita”. Ed
ebbe fin da giovanissima il presentimento che non sarebbe vissuta a lungo. E così un’esistenza brevissima
diventò un concentrato incredibile di esperienze, immediatamente tradotte in riflessioni di una altezza e di
una profondità che hanno pochissimi eguali. “Volle toccare il fondo delle cose, andare all’essenziale”
(Gabriella Fiori). Si potrebbe parlare di una esistenza all’insegna di una “disperata vitalità”, ad onta della
resistenza opposta da un corpo “nemico”. Si direbbe che abbia voluto vivere più vite in una sola.
“La più bella vita possibile mi è parsa sempre quella in cui tutto è determinato sia da circostanze costrittive
sia da precisi impulsi, e dove non vi è mai posto per alcuna scelta” (1942)
Ebbe sempre la sensazione di non avere abbastanza tempo per dare attuazione ad un progetto di vita che
sentiva come frutto di una chiamata dall’alto. E allora si gettò senza risparmio in una ricerca appassionata
della verità, perseguita attraverso la condivisione delle sofferenze e delle lotte degli umili e degli oppressi e
lo scavo profondo del patrimonio spirituale dell’occidente, fin nelle sue radici orientali.
L’infanzia
Nacque a Parigi il 3 febbraio 1909, in una famiglia ebrea non praticante, colta e raffinata; era figlia del medico
Bernard Weil e di Salomea Reinherz, di ricca famiglia ebraica russa, e sorella del futuro grande matematico
André Weil. Quando aveva sei mesi, sua madre ebbe un attacco di appendicite. Costretta a letto e ad un
regime rigoroso, continuò tuttavia ad allattarla. Da allora Simone non godette di buona salute e cresceva con
difficoltà. Questo deperimento precoce pare sia stato causato dal latte materno alterato. Finito lo
svezzamento, a un anno si ammalò gravemente: anche per lei un attacco di appendicite, che la rese gracile.
A tre anni e mezzo, ebbe un altro violento attacco di appendicite. Poi lentamente si riprese, ma rimase
sempre di salute cagionevole, tanto che era solita dire: ”Sono tutta da rifare”.
Frequentò in modo non sistematico la scuola primaria, anche a causa dei continui spostamenti del padre,
ufficiale medico durante la Grande Guerra. Bambina vivacissima, intellettualmente assai precoce, dotata di
una curiosità inesauribile, fu legatissima al fratello, compagno di giochi e di scoperte intellettuali, verso il
quale provava una grandissima ammirazione ed un certo complesso di inferiorità; ed anche ai genitori, a cui
il suo singolarissimo stile di vita e il suo modo di essere procurarono infinite preoccupazioni: “Quel che mi
tormenta è che questa mia figlia si ammazza” disse una volta sua madre, riferendosi alla totale noncuranza
di Simone rispetto agli aspetti pratico-materiali della sua vita. Ad esempio, il suo disinteresse nei confronti
del denaro era totale: “Vorrei proprio che il denaro fosse come l’acqua, e fluisse da solo…”; “quando ho tra le
mani del denaro non ho mai la sensazione che questo denaro mi appartenga”. Ancora la madre diceva: ”E’
davvero troppo irragionevole quando si tratta della vita materiale”; e, a proposito della fama postuma della
figlia: “Ah, quanto avrei preferito che fosse stata felice!”. “Eterea, trasparente, tutto ciò che è materia pareva
abolito in lei” disse di lei la sig.ra Rosin, che la ospitò in diverse occasioni.
L’aspetto fisico ed il carattere
Per tutta la vita fu tormentata da fortissime emicranie: “Sono abitata da un dolore localizzato intorno al punto
centrale del sistema nervoso, al punto di congiunzione dell'anima e del corpo, che dura anche nel sonno e non
mi ha mai lasciato un istante [...] e accompagnato da un tal senso di prostrazione, che il più delle volte i miei
sforzi di attenzione e di lavoro intellettuale erano quasi altrettanto svuotati di speranza di quelli di un
condannato a morte che deve essere giustiziato l'indomani” scrisse una volta all’amico Joe Bousquet.
Le sue condizioni peggiorarono poi progressivamente a causa delle privazioni alimentari che si impose e dei
ritmi di lavoro frenetici che seguì, sia nell’attività sociale che nell’impegno intellettuale. Volle “sottomettere
un corpo sovraffaticato ad uno spirito troppo esigente” (Pètrement). Era del tutto consapevole di questo
squilibrio, tanto che arrivò a scrivere: ”Quando la sproporzione fra i compiti da svolgere e la mia capacità di
lavoro si sarà fatta troppo grande, morire. E trascinare con me ciò che ho dentro” (1936).
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Era molto impacciata e goffa nei movimenti, assai maldestra (anche per via delle mani che aveva piccole e
fragili); ma supplì sempre a questi limiti grazie ad una energia e una determinazione “quasi inumane”.
“Il volto piccolo, stretto, letteralmente mangiato dai capelli e dagli occhiali, il naso affilato, gli occhi neri che
fissavano arditi, il collo teso in avanti davano l’impressione di una curiosità appassionata, quasi indiscreta,
ma la bocca carnosa aveva un che di dolcezza e di bontà” (Simone Pètrement). “Un uccello senza corpo,
ravvolto nella mantellina nera che non si toglieva mai e che arrivava fino ai polpacci” (Nadia Fusini“).
Appariva come una specie di strano spaventapasseri ambulante…
“L’avidità dello sguardo di Simone era quasi insopportabile…quello sguardo che metteva a nudo, che lacerava
ed era esso stesso lacerato…Ti guardava con la bocca…immense labbra troppo umide che sembravano
incessantemente formulare una richiesta sorridente e insieme disperata” (Jean Tortel). “Il suo sguardo,
stupendo relitto nel naufragio della sua bellezza” (Gustave Thibon). “Era un volto insolente e tenero insieme,
audace nel chiedere ma timido nel sorriso… il corpo era fragile, i gesti vivaci ma spesso impacciati. Indossava
abiti di taglio maschile, sempre dello stesso modello, e sempre scarpe basse” (Pètrement).
Considerava una sfortuna essere nata donna, di fronte all’idea che si faceva della vita ed ai progetti che aveva
formulato fin da giovanissima. Della cosiddetta “natura femminile” voleva averne il meno possibile. In realtà
da piccola era considerata, per la sua bellezza, un soggetto degno di Murillo, tanto che ai genitori viene
consigliato di farle fare del cinema (“da bambina era molto bella; poi depose questo dono di bellezza, come
se l’avesse scartato” Pietro Citati). E del resto l’educazione materna – e la competizione con il fratello –
avevano incoraggiato ed accentuato in lei queste propensioni “mascoline”; lei stessa nelle lettere ai genitori
si firmò spesso al maschile.
Insofferente del contatto fisico, non voleva essere baciata né abbracciata, né toccare cose già toccate da altri
(in famiglia avevano un po’ tutti manie igieniste); ma aveva nello stesso tempo una natura emotiva ed
appassionata: “aveva un desiderio sconfinato di tenerezza, di comunione, di amicizia” disse di lei l’amica
Suzanne Gauchon; ma non trovò – o non volle trovare - la via per soddisfare questi suoi ardenti desideri.
Secondo Jean Duperray “stava molto attenta a non offrire alcuna opportunità per un comportamento troppo
libero nei suoi confronti. Già il suo modo di vestire era una precauzione…sembrava in preda alla paura
costante che qualcuno, anche il suo più umile amico, si attaccasse a lei“ .
“C’era in lei una sensibilità ardente e insieme purissima… una strana mescolanza di freddezza e passione”
(S.Pètrement); non cercava mai di piacere a nessuno” “(Albertine Thèvenon). “Era l’essere più tenero e nello
stesso tempo più duro e coraggioso” (Pètrement); “aveva anche momenti deliziosi di abbandono e
distensione” (Thibon), pur meravigliando tutti per il suo rifiuto di qualsiasi clichè legato alla femminilità. E
comunque, sempre secondo l’amica Simone Pètrement “la fedeltà alle proprie esperienze era per lei più
importante che eliminare tutte le contraddizioni o seguire sino in fondo uno sviluppo logico”.
Tutto questo la faceva apparire in qualche modo “non umana” a chi la incontrava per la prima volta. In realtà
“solo per un eccesso di umiltà pensava di non essere amata… ma fu molto amata nei suoi ultimi anni”.
(S.Pètrement). Una volta scrisse a Joe Bousquet (1942): “Io non riesco in alcun modo a immaginare la
possibilità che un essere umano provi amicizia per me”, intendendo dire di non meritarla. Ma scrisse anche,
ad un altro amico (1941): Sarei anche molto felice di vivere così, per qualche tempo, con un amico o un’amica;
ma non ho mai avuto occasione di farlo. Forse un giorno potrò farlo con te?”.
Il suo stesso maestro Alain la definì una volta “una marziana”. E Georges Bataille: “Non pare una di questa
terra”. Ma lo stesso Bataille riconobbe che pochissime persone gli avevano suscitato interesse come lei: “La
sua innegabile bruttezza faceva spavento, ma nascondeva una bellezza autentica...riusciva seducente per
un'autorevolezza dolcissima, e molto semplice; era certamente un essere ammirevole, asessuato, con
qualcosa di nefasto. Nera sempre, neri i vestiti, i capelli come ali di corvo, la carnagione bruna. Era senza
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
dubbio molto buona, ma nutrita da un pessimismo impavido e un coraggio estremo attratto
dall'impossibile…”
Dotata di una volontà straordinaria, era però fondamentalmente insicura e dubbiosa riguardo alle sue
capacità, e soffrì del confronto con l’amatissimo, geniale fratello. “Sono venuta al mondo con una dote
mediocre di facoltà intellettuali” scriveva infatti nel 1942 all’amico Maurice Schumann. Disse anche di sé: ”Ho
in me una forte tendenza ad essere gregaria”… E non si trattava di civetteria, di finta modestia… Nel 1934
scrisse queste impressionanti note: “Tu non avresti mai potuto essere un capo, né occupare da nessuna parte
un posto di responsabilità – neppure nella famiglia – a causa di quegli interi periodi in cui ti lasci
completamente andare [considerava la pigrizia il suo più grave difetto!]. Bisogna che tu viva almeno un lungo
spazio di tempo in modo puntuale, per provare a te stessa che ne sei capace. Altrimenti vuol dire che non sei
in grado di essere al mondo – che devi morire”.
C’era però in lei, accanto ad una profonda umiltà, l’acuta consapevolezza di essere stata dotata da Dio di “un
deposito di oro puro”, cioè di essere portatrice – senza alcun merito personale – di idee di verità che non
avrebbero dovuto andare disperse. Grande era la sua disponibilità: “sapeva mettersi al livello di chiunque per
insegnargli qualsiasi cosa” (Gustave Thibon). Ma arrivò a dire che “l’esperienza e l’osservazione dei miei
contemporanei sempre più mi persuadono che non c’è nessuno pronto a riceverlo”; e “se nessuno accetta di
prestare attenzione ai pensieri che, non so come, si sono posati in un essere così insufficiente come me, essi
scenderanno con me nella tomba” (da una lettera alla madre di fine 1942). A questo proposito va detto che
non si preoccupò mai gran che del destino dei suoi scritti, della loro pubblicazione, benchè fosse in realtà
conscia del loro valore. Prima di emigrare negli Stati Uniti lasciò a Marsiglia alcuni dei suoi testi più importanti
agli amici Perrin e Thibon, lasciandoli liberi di farne quello che ritenessero più opportuno.
In una lettera inviata nel 1936 all’amico Boris Souvarine già diceva: ”E’ vero, in tutti gli ambiti ho solo delle
capacità molto deboli… ma ho qualcosa nel ventre. La contraddizione è solo apparente. Quanta gente ha
capacità brillanti ma niente nel ventre! E il tempo che passa non ha solo l’effetto di diminuire
progressivamente le mie forze e le mie facoltà, ma anche quello di farmi scorgere in maniera sempre più
chiara ciò che racchiudo in me. Per dirla con tutta franchezza, ho la convinzione assoluta che si tratti dei germi
di grandi cose”. Definisce la sua intelligenza come una di quelle intelligenze “interamente, esclusivamente
abbandonate e votate alla verità e quindi non utilizzabili da parte di nessun essere umano, compreso quello
in cui risiedono…E’ l’intelligenza che mi utilizza… e la mia volontà non esercita mai su di essa azione alcuna”.
Non tutti sapevano cogliere la complessità del suo modo di essere e di presentarsi agli altri: secondo Colette
Audry in lei “si sentiva una possente ambizione, e la coscienza di una superiorità intellettuale che rasentava
la sufficienza”. Ecco la testimonianza di una collega di insegnamento a Roanne: “Provavamo istintivamente
poca simpatia per quella ragazza, di cui ammiravamo sì l’intelligenza superiore, ma che fu sempre straniera
fra noi, perfino negli atti più familiari della vita quotidiana… sembrava che non ci fosse…uno sguardo che
pareva non vederci”. Quello che metteva molti in soggezione era prima di tutto – al di là delle asperità del
suo carattere - la sua straordinaria intelligenza e cultura, l’estrema franchezza con cui si esprimeva e la stessa
“stranezza” del suo modo di presentarsi. SW fu sicuramente una personalità d’eccezione, fuori dagli schemi,
anomala.
Lo stesso Gustave Thibon, che le fu profondamente amico, lasciò questa testimonianza sulle contraddizioni
presenti nell’animo di S: “Voleva dimenticare se stessa e si ritrovava proprio in questo dimenticarsi; amava il
prossimo con tutto il suo essere, ma la sua dedizione, troppo spesso, passava a lato dei veri desideri e dei veri
bisogni degli altri. Questa creatura, che voleva piegarsi a tutti i moti della volontà divina, non sopportava che
il corso degli eventi o la benevolenza degli amici intervenissero a spostare di un solo pollice le tappe stabilite
dalla sua volontà di immolazione... Il modo con cui faceva la guardia al suo vuoto rivelava ancora una terribile
preoccupazione di sé…Il suo Io era come una parola che lei forse era riuscita a cancellare, ma che rimaneva
sottolineata”; “la sua umiltà è ancora piena di se stessa e diventa talvolta una forma sotto la quale il suo io
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
riappare…Una tale umiltà, per quanto così reale e commovente, mi sembra ancora abbastanza lontana dal
distacco supremo…L’io di SW non è morto; sta suicidandosi in una contrazione eroica…”. Ancora: “Non si può
forse sospettare in SW un appetito disordinato della propria abiezione, dove sussistono le tracce di un orgoglio
rivolto contro se stessa?”; “disprezzarsi profondamente è ancora preferirsi, è ancora essere orgogliosi. Nella
misura in cui si disprezza SW dimentica di dimenticarsi”. Anche secondo l’amico Maurice Schumann era
“impossibile distinguere il suo orgoglio dalla sua umiltà”.
Era indubbiamente affetta di perfezionismo (“la regola aurea è fare bene ciò che si fa” scrisse ad una sua
studentessa). “Aveva il culto della volontà, del dominio di sé”, era molto esigente con se stessa. La definirono
“l'imperativo categorico in gonnella»": “Quel che non sopporto è che si transiga"; “a me non piacciono le
discese, preferisco le salite”.
L’intransigenza con cui guardava a se stessa non valeva però per gli altri: infatti “ha sempre evitato di
predicare una morale troppo dura e di esigere dagli altri ciò che esigeva da se stessa” (Pètrement). Ad una
sua allieva scriveva: “In fondo, i piaceri dei sensi, in quanto tali, sono tutto ciò che vi è di innocente… Tutto
ciò è sano finchè l’anima non cerca di perdervisi per colmare un vuoto. Non si può essere schiavi di nessuna
di queste cose”. “Non era per nulla puritana, né severa con gli altri, almeno in certi ambiti. Le debolezze degli
innamorati erano fra quelle verso cui era maggiormente indulgente… Aveva una grande pietà delle prostitute
e desiderava conoscere il loro ambiente” (Pètrement). Disse una volta ad una sua studentessa - e forse anche
a se stessa: “La vera risposta all’eccesso dell’amore divino non consiste nell’infliggersi volontariamente delle
sofferenze… un essere non ha il potere di distruggere se stesso”. Come dire: la sofferenza va accettata, ma
non cercata.
Ebbe in effetti sempre un grande amore per la vita: “La vita è sempre supremamente bella; solo, per me,
sempre meno accessibile”. Nel 1936, in un periodo di grandi sofferenze fisiche e morali, scrisse:“Non si può
essere rivoluzionari se non si ama la vita... Nulla ha valore se la vita umana non ne ha”.
Simone già dall'età di dieci anni nutrì un forte interesse per il sociale e verso tutte le sofferenze umane,
mettendosi sempre "istintivamente, più per sdegno che per pietà, al posto di quanti erano vittima di
un'oppressione". Non poteva sopportare che altri soffrissero – anche a migliaia di chilometri di distanza senza che lei facesse qualcosa per loro. “Si interessava ai guai di tutti” (Jacques Redon). Cercava un’identità
che coincidesse con l’universo, al di là di qualsiasi legame particolare: “Per lei essere se stessa significava non
appartenersi né appartenere” (Gabriella Fiori). “Soffriva di pregiudizi a favore di tutto ciò che non era
borghese…gettava sulla classe borghese, ed in primo luogo sull’ intellettuale, il peso di tutte le responsabilità”
(Camille Marcoux). Apprezzava come per partito preso i diversi, gli emarginati, i “fuorilegge”.
“Era follemente altruista” (Aimè Patri). “Era di una ingenuità folle. Tendeva per questo a mitizzare le persone,
riponendo in esse una fiducia eccessiva” (Gabriella Fiori). “La sua ingenuità e la sua capacità di illusione in
materia psicologica superavano ogni limite”; “sopravvalutava volentieri le possibilità culturali di tutti gli
uomini” (Thibon), la loro intelligenza e il loro spirito di libertà.
Per tutta la sua vita si privò di soldi, di cibo, di tempo e di salute per intervenire in molti modi in soccorso di
coloro che sapeva essere in difficoltà (poveri, perseguitati, vittime di guerra, disoccupati…). L’unico “vizio” a
cui non seppe mai rinunciare era il fumo. Nello stesso tempo “non le piaceva essere aiutata, le dava fastidio”
(Pètrement). Affermò infatti “mi ripugna essere oggetto di filantropia. Mi lusinga di più…essere oggetto di
persecuzione”. Anche se sapeva che “fino a quando l’orgoglio impedisce di ricevere non si ha il diritto di dare”.
Il principio-guida della sua vita appare il rifiuto assoluto di qualsiasi privilegio legato alla sua condizione
sociale ed intellettuale: “La cultura intellettuale, lungi dal dare diritto a dei privilegi, costituisce essa stessa
un privilegio quasi tremendo, che comporta – come contropartita – responsabilità terribili” (1941); voleva
“essere uguale agli altri, per non ferirli”. Il suo modello era colui che “ha rifiutato tutta la felicità che lo
avrebbe separato dalla sofferenza degli uomini”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Gli studi e le esperienze formative
Dopo ottimi studi liceali con René Le Senne, suo professore di filosofia, e universitari con Alain (Emile August
Chartier) all'Ecole Normale Supérieure (a partire dal 1928), dove si diplomò con una tesi su Descartes,
conseguì brillantemente l'agrégation (1931) e iniziò a insegnare filosofia nei licei di Le Puy, di Auxerre e di
Roanne (“sapessi come è bello essere insegnante…è ancora uno dei modi migliori che hai per entrare
veramente in contatto con il popolo…”). Di lei scrisse un ispettore ministeriale: “Ella sviluppa la personalità
delle sue allieve, piuttosto che le conoscenze richieste per il baccalaureat”. Ma i suoi rapporti con le autorità
scolastiche furono sempre difficili, a causa della sua assoluta indipendenza e libertà nella didattica (“non
invecchierò nell’insegnamento. Sono segnalata…sarò quasi inevitabilmente destituita”).
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SCHEDA. ALAIN
Alain pseudonimo del pensatore e giornalista francese Émile-Auguste Chartier (1868 - 1951). Dopo aver
seguito all’École Normale i corsi di Lagneau, fu prof. di filosofia e collaborò alla Revue de métaphysique et de
morale. Ma il giornalismo e il ‘trafiletto’ divennero la sua migliore espressione. Dal 1906 prese a collaborare
alla Dépêche de Rouen (e ad altri quotidiani e riviste) con brevi articoli: nacquero così i celebri Propos, che
egli raccolse via via in vari volumi (oltre alle 5 serie di Cent et un propos d’Alain, 1908-28, si contano un’altra
ventina di volumi di Propos, 1915-42).
Pur richiamandosi alla tradizione razionalistica, cartesiana e spinoziana, fu assertore di una morale
asistematica, tra lo stoicismo e l’anarchia: convinto che la conoscenza delle cose deve essere sempre viva e
attuale (la verità di un momento e di una situazione), afferma che, nel contrasto tra necessità naturale
dell’esistere e libertà spirituale, l’uomo-individuo deve tendere al dominio delle proprie passioni e
raggiungere la felicità mediante la volontà di felicità (Propos sur le bonheur, 1925) , mentre l’uomo-cittadino
deve ricercare un equilibrio di forze e di poteri ed eliminare ogni pericolo di tirannide da parte dello Stato
(Éléments d’une doctrine radicale, 1925; Le citoyen contre les pouvoirs, 1926). Tra i suoi saggi migliori e più
noti: Mars ou la guerre jugée (1921); Les idées et les âges (1927, 2 voll.); Souvenirs de guerre (1937). Da
ricordare sono anche i suoi saggi su Spinoza (1901), Descartes (1927), Platone (1928), e la sua notevolissima
opera di critico: Système des beaux-arts (1920); Charmes de Paul Valéry avec commentaire d’Alain (1929);
Stendhal (1935); Avec Balzac (1937).
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Sin dal periodo trascorso a Le Puy la Weil, su posizioni vicine al sindacalismo rivoluzionario, era
continuamente intervenuta in difesa dei disoccupati del luogo, e fu perciò accusata dai funzionari comunali
e dai giornali locali di essere, in quanto la più istruita, l'organizzatrice e l'agitatrice di tali manifestazioni. In
quel periodo la chiamavano “la vergine rossa”. A Le Puy, suo primo luogo d'insegnamento, generò scandalo
distribuendo lo stipendio fra gli operai in sciopero e guidando una loro delegazione in municipio. Suscitava
inoltre disorientamento fra le sue alunne, vietando loro di studiare sul manuale di filosofia e rifiutando a
volte di dare i voti. Decise di vivere spendendo per sé solo l'equivalente di quanto percepito come sussidio
dai disoccupati, per sperimentare le loro medesime ristrettezze di vita.
Aveva aderito tra il 1931 e il 1932 al sindacato degli insegnanti, continuando così la sua attività politica. Negli
stessi anni era vicina ad ambienti politici trotskisti ed anarchici, avendo avviato rapporti d'amicizia e
collaborazione, già dal 1931, con noti esponenti del sindacalismo rivoluzionario espulsi dal Partito Comunista
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Francese: Pierre Monatte, Maurice Chambelland, Daniel Guérin. Per comprendere le ragioni del successo in
Germania del nazionalsocialismo nel 1932 approfittò delle vacanze per fare un viaggio al fine di conoscere il
popolo tedesco e i movimenti di sinistra e valutare con nuovi dati la possibilità di una rivoluzione che si
aspettava avvenisse in quel paese.
Rientrata in Francia, preoccupata degli sviluppi politici tedeschi in senso nazista e nel contempo molto critica
verso lo stalinismo ed il principio del "socialismo in un solo paese", accelerò il suo processo di maturazione
politica. Boris Souvarine, di cui fu amica, disse di lei che “è l’unico cervello che il movimento operaio abbia
avuto da anni”. Le sue idee furono sempre eretiche rispetto a qualsiasi ortodossia. D’altra parte lei sapeva
bene che “tutto ciò che vi è di più alto nella vita umana è corrosivo per l’ordine”.
Pur avendo ricevuto soddisfazioni dalla scuola, dove le allieve amavano il suo metodo di insegnamento che,
sull’esempio di Alain, bandiva i manuali per leggere e studiare direttamente le opere dei grandi filosofi, le
esperienze fatte in difesa dei disoccupati la spinsero ad abbandonare l'insegnamento per vivere direttamente
la dura esperienza del lavoro manuale - dal 1934 come fresatrice a Billancourt nelle officine Renault e
successivamente in altri stabilimenti. Il lavoro in fabbrica – per quanto di breve durata – non fu mai per lei
una semplice “esperienza”, ma “un’incarnazione reale e totale”, come la definì l’amico padre Perrin. Fu
un’esperienza sconvolgente: “Emicrania violentissima, lavoro compiuto piangendo quasi senza interruzione.
Tornando a casa, interminabile crisi di singhiozzi… Laggiù mi è stato impresso per sempre il marchio della
schiavitù”.
Coinvolta anch'essa, come altri intellettuali e militanti della sinistra, dall'onda della solidarietà internazionale,
allo scoppio della guerra civile spagnola (1936) intervenne sin dall'inizio al fianco del governo repubblicano
del Fronte Popolare, nelle file degli anarchici del POUM, contro le forze dei generali spagnoli capeggiati da
Francisco Franco con il sostegno dei fascismi europei. Fu un’esperienza breve e traumatica, interrotta da un
incidente che la costrinse presto a ritornare in Francia. Ma nel frattempo si era già resa conto delle ambiguità
e delle contraddizioni presenti in quel conflitto: “Non era più, come mi era sembrata all'inizio, una guerra di
contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra la Russia,
la Germania e l'Italia”. Era inoltre disgustata dalle violenze gratuite ed efferate attuate da entrambe le parti
e per “non aver mai visto nessuno, nemmeno in confidenza, esprimere repulsione, disgusto o solo
disapprovazione per il sangue inutilmente versato”.
Delusa dalle svariate esperienze di militanza politica, il suo distacco dal movimento rivoluzionario e dal
comunismo si fecero definitivi; accantonò anche il marxismo, esattamente nel periodo in cui gli intellettuali
della sua generazione si accingevano a riscoprirlo; formulò un giudizio impietoso e definitivo sul PCF: “il
partito comunista è pessimo. Non si può più tentare di risanarlo” (1932). Provava una insoddisfazione
profonda nei confronti dell’atteggiamento fideista dei rivoluzionari contemporanei: “io soffoco dentro questo
movimento rivoluzionario dagli occhi bendati” scriveva già nel 1933. E ancora: ”La tendenza a persuadere mi
passa sempre più” scriveva sempre nel 1933 a Simone Pètrement. Il suo giudizio sulla rivoluzione sovietica
era senza attenuanti: “Quanto alla rivoluzione russa, penso che i suoi dirigenti attuali… difendono interessi
diversi da quelli degli operai – quindi tradiscono”. Ma nonostante tutto, non si abbandonò mai alla tristezza,
“anche se non aveva più alcuna fiducia nell’evoluzione della società: non aveva bisogno di speranze per essere
allegra” (Pètrement).
Dall’impegno sociale e politico alla svolta religiosa
Al ritorno in Francia, attraverso l'amicizia del domenicano padre Perrin e di Gustave Thibon maturò la sua
evoluzione religiosa, orientandola in senso cristiano; ma si trattava di un cristianesimo del tutto personale,
interpretato in una prospettiva universalistica.
Tre esperienze “mistiche” segnarono questa svolta: il viaggio con i genitori in Portogallo nel 1935, dove in un
villaggio assistette a dei riti religiosi popolari che la commossero profondamente (“Le mogli dei pescatori
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
cantavano canti senza dubbio molto antichi, di una tristezza straziante. Nulla può darne un’idea. Là,
improvvisamente, ebbi la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi
non possono non aderirvi, ed io con loro”); il primo viaggio in Italia nel 1937, che la portò tra l’altro ad Assisi,
dove ebbe una esperienza sconvolgente nella cappella di S.Maria degli Angeli: ”qualcosa più forte di me mi
ha obbligata, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi”; e la partecipazione alle celebrazioni pasquali
nell’abbazia benedettina di Solesmes, per 10 giorni, nel 1938 (“Durante quel periodo la parola Dio non aveva
nessun posto nei miei pensieri. L’ha avuto soltanto dal giorno in cui, circa tre anni e mezzo fa, non ho più
potuto rifiutarglielo. In un momento d’intenso dolore fisico in cui mi sforzavo di amare, ma senza vantare il
diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito - senza esservi preparata per niente, dato che non avevo
mai letto i mistici - una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, analoga
all’amore che traspariva dal più tenero sorriso di un essere amato. Da quel momento il nome di Dio e di Cristo
si sono intessuti sempre più irresistibilmente ai miei pensieri”).
SW affermò sempre di “non aver mai, in tutta la mia vita, in nessuno momento, cercato Dio”: come dire che
è stato Dio a cercare lei, come fa con tutti gli uomini disposti ad accoglierlo. E continuava a rifiutare le facili
consolazioni sentimentali che la religione può offrire. “Durante tutto questo periodo di evoluzione spirituale
non ho mai pregato: temevo il potere di suggestione della preghiera, quel potere per cui Pascal la
raccomanda”.
L'occupazione di Parigi da parte dei tedeschi allo scoppio della seconda guerra mondiale e l'inizio delle
persecuzioni naziste contro gli ebrei francesi la spinsero a rifugiarsi con la famiglia dapprima a Vichy, poi a
Tolosa e infine a Marsiglia dove, esclusa dall'insegnamento, lavorò ancora in fabbrica ed anche in campagna,
presso la fattoria dell’amico Gustave Thibon, presentatole dal padre domenicano Joseph Marie Perrin, con
cui strinse un importante rapporto di amicizia spirituale. In quei mesi ebbe di nuovo intense esperienze
mistiche: “Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona,
ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d'amore della prima volta in
cui mi ha presa”.
Nel frattempo non trascurava l’impegno politico, attivandosi nel procurare documenti falsi ai rifugiati compresi alcuni, come lei, di origine ebraica. A Marsiglia venne arrestata mentre distribuiva volantini contro
il Governo di Vichy e, quando il giudice minacciò di chiuderla in cella con delle prostitute, replicò di aver
sempre desiderato conoscere quell'ambiente e di non avere altro mezzo per farlo che la prigione. Il giudice
la rilasciò, considerandola pazza. Partecipò ai primi tentativi di resistenza antinazista, collaborando alla
distribuzione della stampa clandestina e occupandosi intensamente di rifugiati e internati; ma la
persecuzione estesa alla Francia di Vichy la costrinse – controvoglia - a cercar scampo all'estero, soprattutto
per mettere in salvo i suoi genitori.
Emigrata con la famiglia negli Stati Uniti nel 1942, a New York, là fece di tutto per farsi trasferire in
Inghilterra, dove negli ultimi mesi di vita lavorò a fianco delle autorità in esilio della Resistenza francese, nel
Commissariato per gli Interni e il Lavoro di "France libre", guidata dal generale Charles De Gaulle. Tentò
ripetutamente e vanamente di farsi inviare in Francia in missioni speciali per continuare a lottare con la
Resistenza interna (“si è sempre voluta lanciare in imprese inadatte, cocciutamente” disse di lei l’amico Jean
Lambert). Voleva con tutta se stessa che le venisse procurata la quantità di sofferenza e di pericolo necessarie
per salvarla dal morire di dolore e di vergogna per essere stata inutile, in una situazione così drammatica.
Scrisse infatti a Jacques Maritain: “Se non riuscissi a realizzare né il progetto di una formazione di infermiere
di prima linea né quello di essere inviata in Francia per una missione rischiosa cadrei in uno stato di
prostrazione. Perché, dal momento che condividevo laggiù (a Marsiglia) le sofferenze e i rischi, e che ho
abbandonato tutto ciò nella speranza di una maggiore e più efficace partecipazione, se non potessi farlo,
avrei la dolorosa sensazione di avere disertato”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Il suo progetto di costituire un corpo di infermiere di prima linea dedite al soccorso dei feriti fu giudicato una
pazzia da De Gaulle e il suo entourage. Lei ne era ben cosciente, ma replicava: «Soltanto Hitler ha finora
colpito l'immaginazione delle masse. Ora bisognerebbe colpire più forte di lui. Questo corpo femminile
costituirebbe senza dubbio un mezzo in grado di riuscirci. [...] Questo corpo da una parte e le S.S. dall'altra
creerebbero con la loro contrapposizione un'immagine da preferire a qualsiasi slogan. Sarebbe la
rappresentazione più clamorosa possibile delle due direzioni tra le quali l'umanità oggi deve scegliere”.
Il bilancio che dovette trarre da tutte le esperienze di attivismo politico e sociale fatte negli anni fu amaro;
alla fine si rese conto lucidamente che “mi è prescritto di starmene sola, straniera e in esilio rispetto a
qualsiasi ambiente umano” (1942). Concludeva quindi “Non aspettarti nulla, se non da te stessa… impara a
essere sola”. “Non sono una persona con cui sia bene unire il proprio destino” scrisse nel 1942 a Gustave
Thibon. Era la presa d’atto della distanza fra la sua straordinaria lucidità ed onestà intellettuale, il suo
radicalismo senza eccezioni e le transazioni ed i compromessi della vita sociale e politica. In lei in effetti il
pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà convissero sempre strettamente, e conflittualmente.
Ripensando a tutte le incomprensioni a cui andò incontro si può pensare a quel tipo di “follia” che si ritrova
spesso nei grandi spiriti: “era squilibrata in maniera celeste” disse di lei Thèrése de la Marguette; “Questa
ragazza è una folle oppure un genio” (Guillaume de Tarde). Lei stessa diceva di sè: “La mia reputazione di
persona intelligente è l’equivalente pratico dell’etichetta di matto”.
La salute compromessa nel duro lavoro in fabbrica fece riacutizzare la malattia (tubercolosi), che l'aveva già
colpita in precedenza, aggravata da un regime alimentare volontariamente insufficiente (“quest’essere in
guerra contro la sua vita; mangiare le sembrava una funzione bassa e disgustosa” disse di lei il dr.Bercher,
che tentò di curarla nelle ultime settimane di vita). Dopo una degenza nell’ospedale di Middlesex fu trasferita
in un sanatorio del Kent, dove si spense il 24 agosto del 1943. “La morte non ha potuto coglierla di sorpresa”
scrisse l’amico Joe Bousquet nel 1945; e nel 1947 “la nostra amica Simone ha avuto la morte che desiderava”.
Rimase comunque lucida e vivace fino all’ultimo. Fu sepolta nel cimitero di Ashford, nella sezione riservata
ai cattolici. Al funerale assistettero sette persone, amici suoi. Avevano chiesto ad un prete di venire. Ma
questi non arrivò. “Si sbagliò o perse il treno, ma non venne” (Pètrement). Morì quindi senza il battesimo,
restando sulla soglia di quella Chiesa a cui si era avvicinata, ma in cui non poteva entrare, a causa del suo
modo di concepire la religione e la spiritualità. Attorno alla questione del battesimo in articulo mortis si sono
accese a lungo discussioni e formulate diverse congetture. Verso la fine degli anni ottanta emerse una
testimonianza che proverebbe come, prima di morire, Simone chiese ed ottenne da una sua amica, Simone
Deitz, il battesimo: sentendo la morte ormai vicina, Simone disse all’amica, lei stessa un’ebrea convertita, di
essere pronta a ricevere il sacramento del battesimo. E Simone Deitz avrebbe battezzato Simone Weil in un
giorno della primavera del 1944, utilizzando acqua del rubinetto e pronunciando l’esatta formula canonica:
“nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Molti si sono chiesti se la sua morte sia stata una sorta di suicidio “programmato”: SW voleva morire? Più
volte negli anni giovanili aveva pensato alla morte, a volte arrivando a desiderarla; quello stato d’animo era
sicuramente dovuto alle continue tormentose sofferenze fisiche che le rendevano la vita assai difficile (“Non
solo il mio corpo, ma la mia stessa anima, completamente avvelenata dalla sofferenza, è un luogo dove il
pensiero non può abitare” scrisse a Joe Bousquet nel 1942; e prima ancora: “mi sono chiesta più di una volta
fino a che punto devo ostinarmi a vivere…Se le cose continueranno ancora ad andar male, il momento in cui
la vita mi apparirà indegna di essere vissuta non tarderà a venire” scriveva nel 1936 a Boris Souvarine). Nei
suoi scritti aveva più di una volta condannato nettamente il suicidio, ma in qualche occasione lo sfinimento
psicofisico in cui si trovava l’aveva portata appunto ad accarezzare l’idea di una morte liberatrice. Ma la sua
morte reale ebbe un significato ben diverso, un significato sacrificale e mistico.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Sembra comunque che in Inghilterra non avrebbe mai detto di voler morire; Simone Pètrement dice che
nessuno di quelli che erano con lei a Londra ebbe l’impressione che volesse morire; e che all’ospedale parlava
spesso del futuro, a quello che avrebbe fatto quando la Francia fosse stata liberata, quando lei vi fosse
ritornata (“quanto al dopoguerra, tengo assolutamente, nel momento della liberazione del territorio francese,
a non avere alcun legame ufficiale, anche il più indiretto e vago, sia con France Combattante, sia con i quadri
del governo” - lettera a Louis Closon , 26 luglio 1943). Anche negli ultimi giorni della sua vita, quindi, S.
conservava la sua combattività, che l’aveva portata a rompere con la Resistenza francese in esilio, in cui non
si riconosceva più. Quello che è certo è che alla fine si era ridotta a non poter quasi più mangiare.
Viene comunque spontaneo chiedersi se ci fosse in lei un tratto masochistico, come una “vocazione
all’annientamento” (Gustave Thibon); quello che lei stessa chiamava “quel distacco dalle cose che è consenso
reale e perpetuo alla morte e alla perdita di tutti i beni perituri”. “Il suo ascetismo poteva sembrare esagerato,
nel nostro secolo di mezze misure… e tuttavia era puro da ogni esaltazione sensibile” (Thibon). C’è chi ha
parlato di un suo desiderio di morire, in una sorta di imitazione di Cristo (si noti l’età della sua morte); e chi
ha parlato di un “suicidio mistico”. Naturalmente ci sono stati quelli che si sono esercitati a speculare sugli
aspetti problematici e contraddittori della personalità di Simone, parlando di una sua patologia anoressica, o
chiedendosi quanto abbia potuto influire una salute da sempre così precaria sulla sua vita. Il suo è stato forse
un caso di “santa anoressia”?
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SCHEDA. LA SANTA ANORESSIA
I primi studi scientifici sull’anoressia e la bulimia risalgono alla fine del Seicento: si tratta di disturbi con una
lunga storia, che inizialmente venivano descritti come isteria o confusi con psicosi gravi. Ancora agli inizi del
1800 i sintomi dell’anoressia nervosa erano descritti in trattati generali sull’isteria: in effetti, tra questo
genere di disturbo e l’anoressia nervosa vi sono molti elementi in comune, ma anche aspetti di diversità.
Il termine “santa anoressia” è stato coniato dallo studioso R.M. Bell: egli nota che alcune sante del Tardo
Medioevo manifestavano dei sintomi molto simili a quelli dell’anoressia moderna.
Egli inizia così a studiare la vita di queste donne e, in particolare, il loro comportamento anoressico,
concentrando la sua attenzione sulle donne italiane.
Bell nota una corrispondenza tra i modelli di santità a cui si aspirava nel Medioevo e la magrezza come ideale
di bellezza femminile a cui si tende ai giorni nostri; egli intuisce che la società e i relativi valori potrebbero
essere dei fattori che incidono sull’originarsi dell’anoressia. “Il fatto che l’anoressia sia santa o nervosa
dipende dal tipo di cultura nella quale si trova la giovane che lotta per acquisire il dominio della propria vita.
In entrambi i casi l’anoressia insorge quando la giovane tende a un fine socialmente apprezzato (salute
corporea, magrezza, autocontrollo nel ventesimo secolo/salute spirituale, digiuno e autoprivazione nel
cristianesimo medievale)” (Bell, 1987).
Nell’anoressia contemporanea è molto rilevante la distorsione visiva tale per cui la malata si vede realmente
grassa, ma si sente bene ed è estremamente attiva. La santa anoressica, invece, “vede l’anello di Gesù al suo
dito e un posto per lei in Paradiso; sente l’amore di Dio e si ciba della sola ostia” (Bell). Entrambe si impegnano
per raggiungere degli obiettivi/ideali approvati dalla società che, ovviamente, sono diversi, ma hanno lo
stesso valore psicologico.
E’ per questo motivo che la santità medievale e la magrezza contemporanea possono essere paragonate e
accomunate: “entrambe rappresentano due stati ideali negli ambienti culturali considerati” (Davies, 1987).
Bell individua nell’anoressia un modo in cui la donna del Medioevo riusciva a spostare la lotta con il mondo
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
esterno in un conflitto con quello interno, nel quale riusciva ad ottenere una vittoria e una sua autonomia:
“in questo senso la risposta anoressica è senza tempo. E almeno temporaneamente, è una vittoria potente e
reale sull’unica cosa che la civiltà occidentale (o occidentalizzata) permette a una ragazza di conquistare: se
stessa” (Bell, 1987).
Nonostante gli elementi comuni tra l’anoressia nervosa e la santa anoressia, occorre notare un aspetto, e
non l’unico, che differenzia la prima dalla seconda. Ciò che l’anoressica contemporanea persegue è una
passione per il corpo magro: si tratta quindi di una passione che non è tesa ad elevarsi a Dio ma che è legata
all’attaccamento narcisistico alla propria immagine ideale, rappresentando così “un’ascesi del corpo, senza
passione mistica” (Recalcati, 2002).
(Alessia Besana)
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Un grande estimatore postumo di SW fu Albert Camus, che pubblicò una parte dei suoi “Quaderni” e “La
prima radice” nel 1949. Di lei disse: ”SW portava con fierezza il suo gusto, o meglio la sua follia di verità…E’
questa follia che ha permesso a SW di capire la malattia della sua epoca e di distinguerne i rimedi. In ogni
caso, mi sembra impossibile immaginare per l’Europa una rinascita che non tenga conto delle esigenze
definite da SW in L’enracinement… Grande senza disperazione. Tale è la virtù di questa scrittrice. Così, è
ancora solitaria. Ma si tratta stavolta della solitudine dei precursori, carica di speranza”. Sempre Camus la
definì “il solo grande spirito del nostro tempo” e rimpianse di non averla potuta conoscere.
André Gide la chiamerà «la santa degli esclusi».
L'antropologo Claude Lévi-Strauss, ricordando un incontro avuto a New York con la Weil, affermerà: «Le
intellettuali della nostra generazione erano spesso eccessive: lei non faceva eccezione, ma ha spinto questo
rigorismo fino a farsi distruggere».
Susan Sontag esprimerà – assieme alla commozione – un giudizio analogo: «Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio».
Elsa Morante, che fu profondamente influenzata dal pensiero di SW, affermò che essa era dotata di una
“intelligenza della santità”, da intendersi come intelligenza del mondo che può venire solo da una santità
risolta soprattutto in capacità di capire, in intelletto.
Il teologo Christian Möller parlerà di «romanzo tragicamente inumano della Weil”. Un altro grande teologo,
H. Urs Von Balthasar, la definì sprezzantemente “l’ultima sibilla”.
Il critico Thomas Nevin, definendola «un'ebrea che si volle esiliare», osserverà che, dal punto di vista della
Weil, «coraggio, dignità e onore trovano la loro verifica solo nell'essere distrutti; l'eroismo doveva finire in
sconfitta». Come si vede Simone Weil divide, è “pietra di contraddizione”.
Forse l’hanno capita meglio l’amico Maurice Schumann, che si chiese: “Non ha forse cercato di essere il Cristo
invece di cercare il Cristo?” O la sua amica-biografa Simone Pètrement. “…se c’è santità, essa si manifesta
nella vita. La ragione per credere nell’esperienza mistica di Simone Weil è la sua vita”. Ancor più ci colpiscono
le lapidarie testimonianze dei due amici che hanno penetrato più a fondo la sua straordinaria spiritualità:
Gustave Thibon “sono stato vinto, mio malgrado, dalla purezza della sua anima, dalla qualità del suo spirito”;
e Joseph M.Perrin, che evoca “il suo amore appassionato, assoluto, per la verità… e la sua compassione
interamente fraterna nei confronti del prossimo”.
Nell’ambito della Chiesa Cattolica abbiamo due testimonianze a favore di SW di grande rilievo per la loro
autorevolezza: Papa Paolo VI, nel considerarla come una delle figure più influenti sulla propria vita, affermerà
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
di dispiacersi per il suo mancato approdo al battesimo, giudicandola meritevole di essere proclamata santa.
Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, nunzio apostolico a Parigi, lesse diverse opere di carattere
religioso di SW appena queste furono pubblicate, a partire dal 1947. “Come amo quest’anima!” disse dopo
aver letto il “Prologo”. Successivamente entrò in contatto con i genitori di Simone, scrivendo loro nel 1952.
Riportiamo infine un ritratto spirituale di SW posto da Gabriella Fiori a conclusione della sua bellissima
biografia di SW:
“Una donna non definibile né etichettabile… il suo più chiaro retaggio a ognuno è l’impegno di fedeltà alla
propria vocazione personale”; “il senso della vita che Simone ci comunica è questo: sapere di non essere niente
e accettarlo”. “Il suo destino fu di non potere mai rifugiarsi, né mai posare il capo nell’abbandono di una
felicità personale… l’impossibilità di appagarsi di una unione umana … Il suo genio ha tutti gli aspetti femminili
della fecondità spirituale: l’importanza del nutrire, del curare, del proteggere…l’attenzione al conservare, al
rimediare, all’utilizzare; il prevalere della debolezza sulla forza, l’importanza della parola, del linguaggio
comunicante; l’importanza della partecipazione e del calore…nel modo di vivere, di lavorare, di studiare, di
insegnare; l’accento posto sull’applicazione pratica della saggezza ai fini della massima felicità possibile
dell’uomo sulla terra”. (Gabriella Fiori)
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LA “FORTUNA” DI SIMONE WEIL IN ITALIA
Nonostante l’attenzione che si è sviluppata anche in Italia attorno al pensiero di SW, soprattutto a partire
dagli anni ’80 con la pubblicazione dei suoi “Quaderni”, “Va notato che il pensiero weiliano non è mai entrato
davvero nel dibattito filosofico e politico, né in Italia né in altri paesi, come invece autori molto più astratti,
equivoci e sfuggenti, per esempio gli studiatissimi e citatissimi Martin Heidegger e Carl Schmitt. La sinistra ha
di gran lunga preferito autori come questi, compromessi più o meno direttamente con il nazismo, a Simone
Weil, che avrebbe permesso di riflettere a fondo sull’intera vicenda della sinistra europea in un’ottica diversa
rispetto a quella che oscilla ossessivamente fra confuse riproposte rivoluzionarie, speranze progressiste e
riscoperte del pensiero liberale. Parlo della sinistra. Ma neppure la destra ha mai osato servirsi seriamente
della riflessione della Weil nel suo insieme, che evidentemente non attira chi abbia intenzione di servirsene in
funzione propagandistica”. “La Nuova Sinistra nacque ignorando di proposito che c’era, doveva esserci un
rapporto fra critica allo stalinismo e critica al marxismo.…così i giovani marxisti antiumanisti o nichilisti degli
anni Sessanta italiani potevano ridere di Orwell e della Weil. Nessuno vide allora quanta lucidità teorica e
competenza politica c’era nel saggio “Oppressione e libertà” che genialmente Simone Weil scrisse a
venticinque anni”. (Alfonso Berardinelli).
La straordinaria figura di SW ha ispirato anche il cinema. Prima di tutti Roberto Rossellini, che nel delineare
la protagonista del suo film del 1952 “Europa 51” si ispirò deliberatamente a Simone Weil. E più
recentemente Emanuela Piovano, che nel 2011 realizzò un film a lei dedicato, “Le stelle inquiete”, vincitore
di un Globo d’oro”.
Negli ultimi anni, a seguito della pubblicazione di un libro dello psichiatra Eugenio Borgna “L’indicibile
tenerezza. In cammino con Simone Weil” (Feltrinelli 2016), che è un “manifesto” intriso di totale entusiastica
ammirazione per la sua anima straordinaria, tra i numerosi commenti dedicati a questo lavoro ne è apparso
uno, a firma dello psicanalista Enrico Pozzi, che è una stroncatura sia del libro di Borgna che – soprattutto –
dell’intera personalità di SW. Pur apparendo manifestamente (e programmaticamente?!) malevolo, ne
riportiamo ampi stralci per dare conto di una posizione estremamente critica e controcorrente rispetto al
coro di apprezzamenti ricevuti negli ultimi anni dall’opera di questa pensatrice.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
“Al centro del Dasein di Simone Weil sta l’odio, un odio smisurato verso se stessa, dunque verso gli altri.
Questo nucleo di odio – oppure di distruttività, per chi predilige parole igienizzate – è stato il principio motore
della vita fisica e psichica di questa donna, il principio ordinatore latente della sua vita intellettuale… solo chi
si ama può amare. Chi non si ama amerà gli altri per dovere, per risarcimento, per possesso, per sadismo, per
mangiarseli, per esigere doveroso amore, per dono che implica il controdono, per rispecchiarsi in loro, per
salvarsi l’anima. Tutte varianti del non-amore, e strategie per nascondere a se stessi e agli altri il proprio odio,
verso gli altri e se stessi… Simone Weil ha odiato gli altri divorandoli d’amore, e ha dovuto divorarli
mortalmente d’amore per nascondere a se stessa quel cuore di odio per se stessa e per gli altri che la
costringeva ad amarli fino alla distruzione di se stessa, al proprio annientamento per odio… Illimitatamente
famelica, Simone Weil divora d’amore odiante i gruppi, le classi, i popoli, le società, tutto ciò che non ha corpo
e non può opporre il corpo al suo incorporamento da parte di questo abisso che è la bocca psichica della
giovane donna… Delirio? Troppo semplice. Piuttosto il conferire a se stessa una onnipotenza sconfinata, una
capacità salvifica di cambiare le cose attraverso il proprio martirio, il farsi vittima sacrificale per consacrarsi,
alla lettera per rendersi ‘sacra’. Sacra, non santa… Una tipica morte da anoressica… una che sintetizzava e
incarnava tutti, condensazione di una moltitudine, corpo-folla, corpo mistico. Simone Weil che contiene in se
stessa e vive una infinità di vite…
Un pensiero divorante, il suo. Il cibo che rifiutava alla propria bocca e al proprio ventre veniva sostituito dal
cibo disincarnato che faceva ingurgitare alla propria mente. La sua storia intellettuale è una forsennata
bulimia. Incorpora caoticamente tutto ciò che le capita a tiro nella cultura francese di quegli anni, nella
filosofia, nelle vicende politiche, nei personaggi incontrati, nella letteratura e nella poesia, nella religione, ma
in chi la legge rimane l’impressione di un pensiero… coacervo di oggetti bizzarri spesso vicino a una fuga delle
idee scambiata per creatività e curiosità nobilmente insaziabili… il rifiuto di mangiare è il tentativo di tenere
a bada e negare a se stessi e agli altri l’evidenza di questa distruttività scatenata… Il disastro della Weil come
donna, la sua lotta a morte contro il proprio corpo anche in quanto corpo di donna… quel farsi dio della Weil
attraverso il sacrificio di se stessa”.
L’ OPERA DI SIMONE WEIL
“lei aveva il dono di pronunciare parole dal significato umano illimitato” Joe Bousquet
“tutto ciò che di folle c’è in noi guadagna ad essere espresso, perché si dà così un carattere umano a ciò che
ci separa dall’umanità” Simone Weil
Con questa frase sorprendente SW ci dice già che la sua opera va accostata con la necessaria disposizione
spirituale di chi accetta di confrontarsi con un universo misterioso che gli è estraneo, e che potrebbe anche
apparirgli incomprensibile. Ognuno di noi è infatti irriducibilmente diverso e separato dagli altri; ma
esprimendosi, comunicando con gli altri, getta un ponte sulla reciproca solitudine. L’urgenza di comunicare
fu sempre fortissima in Simone, che nel contempo era però ben consapevole della “follia” che albergava nei
suoi incandescenti pensieri.
Dei suoi scritti, nati tutti nel vivo di un appassionato impegno umano, sociale e politico e strettamente legati
alle problematiche da lei direttamente vissute, diversi articoli furono pubblicati dapprima su varie riviste
militanti come “Révolution prolétarienne”,“Critique sociale”,“Nouveaux Cahiers”,“Cahiers du Sud”; la
maggior parte furono invece raccolti e pubblicati postumi da suoi amici: padre Perrin, Gustave Thibon,
Simone Petrement (autrice della prima grande biografia di Simone Weil); da Albert Camus, e infine jdai suoi
familiari.
Un ruolo del tutto particolare, nella sua opera, è occupato dai “Quaderni”, pubblicati in Francia fra il 1951 e
il 1956. Sono una enorme massa di appunti di letture, di intuizioni, di riflessioni continuamente riprese, in un
modo che può apparire quasi ossessivo: un diario interiore, un dialogo con se stessa sui grandi temi della sua
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
ricerca spirituale. Sono una autentica miniera d’oro, “un cristallo perfetto composto di molteplici cristalli”,
che richiede nel lettore la stessa pazienza e la stessa motivazione dei cercatori d’oro e degli esploratori.
Furono stesi su 16 grossi quaderni fra l’inizio del 1941 e l’ottobre 1942, nell’ultimo periodo della sua vita. Nei
Quaderni ritroviamo tutta Simone Weil, tutte le sue passioni intellettuali ed i suoi miti spirituali: “qui parla
un pensiero trasparente e durissimo, caparbiamente concentrato su un esile fascio di parole che la Weil
incontrava interrogando pochi testi inesauribili (le Upanisad, la Bhagavad Gita, i Presocratici, Platone,
Sofocle, i Vangeli, san Paolo): amore, forza, necessità, equilibrio, bene, desiderio, sventura, bellezza, limite,
sacrificio, vuoto” (Giancarlo Gaeta)
SW scriveva continuamente, quasi compulsivamente, in qualsiasi situazione e contesto, incurante della fatica
o delle scomodità. Aveva un’esigenza divorante di scrittura. Scrive per lo più per frammenti, perché ha fretta.
Una sorta di frenesia le toglie il tempo necessario per “comporre”. Scrive per svuotarsi di ciò di cui è gravida.
Non le interessa la “proprietà intellettuale”, spesso firma con un nome falso. Non vuole il privilegio
dell’autorialità; non dimentica infatti che c’è chi non sa, chi non può scrivere. E in fondo si sente solo un
“mediatore” di verità che non sono sue, che le sono state consegnate, date in deposito. Perciò prima di partire
per l’America affida i suoi scritti più importanti a degli amici intimi, perché le idee che vi sono contenute
possano fruttificare in altri, passare di mano e maturare. Tutto in lei tende all’impersonalità, che è il suo
ideale.
Questo l’ordine di pubblicazione, in Francia, dei suoi testi postumi (tra parentesi i titoli delle edizioni italiane):
La pesanteur et la grâce, 1948 (trad. it. “L’ombra e la grazia”1951)
L'enracinement: prélude à une déclaration des devoirs envers l'être humain, 1949 (“La prima radice” 1954),
scritto a Londra tra il 1942 e il 1943, ultima sua opera sistematica
L'attente de Dieu, 1950 (“L’attesa di Dio”)
La connaissance surnaturelle, 1950
Lettre à un religieux, 1951 (“Lettera a un religioso”)
Intuitions pré-chrétiennes, 1951
La condition ouvrière, 1951 (“La condizione operaia”)
Cahiers, 3 voll., 1951-56 (“Quaderni”1982-84)
La source grecque, 1953 (“La rivelazione greca”)
Oppression et liberté, 1955 (Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”1956)
Écrites de Londres et dernières lettres, 1957
Pensées sans ordre concernant l'amour de Dieu, 1962 (trad. it. 1968).
La W. ha anche scritto per il teatro la tragedia rimasta incompiuta Venise sauvée, 1955 (Venezia salva”). Sotto
la direzione di A.A. Devaux e F. de Lussy sono state pubblicate in Francia le sue Oeuvres complètes (1988-97).
Le sue opere iniziano ad essere tradotte in italiano per iniziativa di Adriano Olivetti nei primi anni cinquanta.
I volumi La pesanteur et la grâce e L'enracinement vengono editi in lingua italiana dalle Edizioni di Comunità
secondo la traduzione poetica, meno letterale, di Franco Fortini. Per la stessa casa editrice, Fortini traduce
La condizione operaia, mentre a Carlo Falconi viene affidata la traduzione di Oppressione e libertà, raccolta
di saggi politici della Weil. Negli ultimi 20 anni le edizioni e riedizioni degli innumerevoli scritti di SW si sono
succedute con un ritmo crescente, testimoniando di una forte crescita di interesse nei suoi confronti, che ha
sviluppato un dibattito ancora molto vivo.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
IL SUO “STILE DI PENSIERO”
“Lei riposava in pensieri che mi toglievano il riposo” Joe Bousquet
“Simone Weil é una donna assoluta: pensatrice degli estremi, e come tale figlia del '900. A differenza di
Hannah Arendt, che ha fatto uno sforzo incredibile per fluidificare l'estremo… in lei si possono trovare pagine
di luminoso amore per il mondo e per la vita accanto ad altre di segno opposto; e se dovessi paragonarla a
un pittore, penso che potrei fare il nome di Caravaggio, Rembrandt... La purezza, la bellezza matematica del
suo stile di scrittura e di pensiero, la forza delle sue idee sul lavoro in fabbrica, sulle parole vuote della politica
sono una delle espressioni più alte del pensiero del '900” Vito Mancuso
Troviamo nelle pagine di SW molte intuizioni folgoranti, molte illuminazioni che lasciano stupiti e spesso
incantati. Ma anche delle generalizzazioni e delle estremizzazioni che appaiono poco fondate, non
sufficientemente supportate da elementi probanti. Le hanno rimproverato “la sua propensione a
sistematizzare e universalizzare istantaneamente, prima di ogni verifica oggettiva”, come pure “la mancanza
di oggettività storica…il conflitto fra l’amore per la verità e l’attaccamento alle sue idee” (padre Perrin). Lo
stesso padre Perrin arrivò perfino ad affermare che “la sua erudizione e le sue informazioni erano molto
deficienti su molti punti”. Ma per aggiungere poi “il polverone sollevato attorno a SW abbia alquanto distolto
l’attenzione da ciò che vi è di più positivo in lei. E’ fin troppo facile sottolineare le sue incoerenze, i suoi eccessi,
le sue contraddizioni”.
Abbiamo già accennato al carattere non sistematico del pensiero di SW; i suoi scritti furono quasi tutti “di
occasione” (nel senso più alto dell’espressione), cioè nati dal vivo di una attività inesausta in campo
educativo, sociale, politico; e dall’esperienza religiosa - che da un certo momento in poi assorbì le sue migliori
energie spirituali. Il suo stile di scrittura tende a privilegiare il frammento, l’aforisma, il saggio breve ed
incisivo; ma questo non significa che il suo pensiero manchi di organicità, perché al contrario in SW tutto si
tiene, con una grande coerenza e continuità fra i temi fondamentali della sua ricerca, i quali tornano
incessantemente in ogni fase della sua evoluzione spirituale. L’opera di SW appare così nello stesso tempo
organica e aliena dallo spirito di sistema.
Non si deve dimenticare, nel valutare l’insieme della sua opera, che in SW è stata molto importante la
dimensione poetico-mitica (“fu un’inesauribile creatrice di miti” disse di lei l’amico Gustave Thibon); un po’
come il grande modello a cui si ispirò forse più che ad ogni altro pensatore, Platone). Molte sue affermazioni
andrebbero quindi interpretate come metafore, come figure poetico-mistiche più che come rigorose
definizioni filosofiche.
Altrettanto importante è poi tener sempre presente che quello che ci è arrivato di lei è un lavoro interrotto,
incompiuto, un work in progress drammaticamente spezzato da una fine prematura. I pensieri che lievitavano
e turbinavano in lei non hanno avuto per lo più il tempo di sedimentarsi, di comporsi in una forma stabile;
sono spesso rimasti allo stato di abbozzi, suscettibili di evoluzioni anche imprevedibili. Darne un giudizio è
quindi sempre un po’ un azzardo.
Pochissimi dei suoi testi furono pubblicati mentre era viva (per lo più solo articoli o brevi saggi); i testi che le
hanno dato questa grande fama postuma e che hanno sollevato tanto clamore furono editi dopo la sua
morte, a cura di persone diverse, ad alcune soltanto delle quali (Perrin e Thibon) aveva affidato i suoi
manoscritti. Dobbiamo insomma domandarci che cosa avrebbe potuto fare di quegli scritti se avesse avuto il
tempo di riprenderli in mano e dare loro una veste definitiva.
Ecco che cosa scrisse a questo proposito padre Perrin: “Lei sapeva che il suo pensiero era in evoluzione e
quindi ancora incompiuto. Per comprenderla, per non rimproverale le sue contraddizioni, i suoi brancolamenti
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
e le sue oscillazioni, bisogna ricordarsi che SW non è una soluzione, ma una domanda; non una risposta ma
un appello; non una conclusione ma un’esigenza”.
Il pensiero di SW è stato ispirato soprattutto dalla grande tradizione del platonismo, ma più in generale dalla
filosofia greca presocratica e dallo stoicismo. Tra gli altri filosofi che l’hanno maggiormente influenzata va
citato in una prima fase Descartes, su cui preparò la sua tesi di laurea; poi Spinoza e in particolar modo Kant.
Ma anche Montaigne e Rousseau figurano tra i suoi filosofi di riferimento. Fra i pensatori a lei contemporanei
l’influsso decisivo fu quello di Alain (Chartier), che fu suo insegnante all’Università, e le cui idee lasceranno
una impronta profonda e duratura sulla sua visione della vita.
Interessanti sono, così come le sue preferenze, anche le sue idiosincrasie: non sopportava per esempio Pascal
(che pure cita frequentemente), e soprattutto Nietzsche; eppure a questi due pensatori la avvicinano lo stile
di pensiero frammentario ed asistematico, come pure l’approccio intuitivo e “poetico” ai grandi enigmi
dell’uomo. Si direbbe quasi che sferzasse quelli che in certo modo le somigliavano di più…
Ma sarebbe riduttivo limitare all’ambito della filosofia ufficiale o “accademica” la ricerca delle fonti del
pensiero di Simone, perché in esso affluiscono ispirazioni provenienti dalle religioni, dalle filosofie e dalle
mitologie extraeuropee, dall’antico Egitto fino all’India e alla Cina. SW è convinta infatti che la Verità sia una
e universale, declinata in innumerevoli versioni, che sono state tutte veicoli di una unica Rivelazione. Per
questo ai suoi occhi non ha senso parlare di progresso in campo filosofico, se non in riferimento ai linguaggi
in cui l’eterna verità di volta in volta trova espressione.
Quello di SW è uno di quei rari casi in cui la vita ed il pensiero sono totalmente inscindibili, tanto l’uno si è
sempre nutrito dell’altra, tanta la vita è stata ispirata dal pensiero, seguendone tutte le svolte e vivendone le
inevitabili contraddizioni. Tanto è vero che la sua opera, asistematica ed originale, difficilmente collocabile
all' interno di categorie o correnti tradizionali, ha rischiato inizialmente di passare in secondo piano rispetto
al vissuto dell'autrice.
La ricerca di una coerenza assoluta è stato l’obiettivo-guida di tutta l’esistenza di SW. Come disse la sua amica
e biografa Simone Pètrement: “Nessuno ha più eroicamente posto i propri atti in sintonia con le proprie idee”.
In effetti SW concepiva “il pensiero come lavoro. Lavoro su se stessi e sulle cose, al di fuori di ogni schema, di
ogni itinerario prefissato” (Gabriella Fiori).
Un altro contrassegno caratteristico del suo pensiero è la radicalità, come pure lo straordinario coraggio
intellettuale, l’onestà e l’intransigenza con cui si poneva di fronte a qualsiasi problema, incurante delle
conseguenze che potessero derivarne nei rapporti con amici, compagni, organizzazioni di appartenenza. SW
si rendeva perfettamente conto – come afferma sempre la Pètrement – che le sue idee erano eretiche
rispetto a tutte le ortodossie, filosofiche, politiche o religiose che fossero: “Rifuggiva dal ripetere le idee degli
altri. Esprimeva soltanto idee personali, maturate da sé” (Edoardo Volterra). Perciò si può dire che “come
ogni pensiero vertiginoso e radicale, quello della Weil si presta alla strumentalizzazione dei criminali e dei
poveri di spirito” (Nicola Lagioia).
Osservando l’evoluzione del suo pensiero, si nota un progressivo smorzarsi del radicalismo sui temi sociali e
politici, mentre è sul terreno religioso che le sue posizioni raggiungono vertici di radicalismo (verrebbe da
dire: estremismo) eccezionali. Nella vita di SW è evidente una transizione dall’iniziale frenetico impegno
sociale e politico ad una dimensione religioso-mistica che invaderà via via la sua esistenza; ma questa svolta
spirituale non cancellerà la sua passione per la giustizia e la libertà, anzi la sostanzierà con un più di senso, le
darà un’anima più profonda.
Il crescente pessimismo, da lei vissuto come una ferita sempre più dolorosa (secondo il filosofo Augusto Del
Noce Simone Weil trova la propria collocazione nella storia della filosofia occidentale al punto estremo del
pessimismo, dov'esso è infine «costretto» a rovesciarsi nella mistica), non si tradurrà mai in senso di
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
impotenza. Fino all’ultima sua ora di vita, quando ormai non aveva più energie da bruciare, Simone
continuerà a battersi per la resistenza contro il nazismo, chiedendo insistentemente di essere inviata in
missione in Francia, per restare a fianco di chi combatteva in prima linea. E’ proprio questo essenziale nesso
fra pratica e teoria a conferire unità e grandezza al suo pensiero, che è sempre vivo, mobile, in movimento.
I GRANDI TEMI DELLA SUA RIFLESSIONE
“Per me la vita non ha avuto mai altro senso che l’attesa della verità” Simone Weil
“Volere l’impossibile. Pensare l’assurdo. Amare il male” Simone Weil
Abbiamo pensato di dividere per temi l’esame del suo pensiero, che si presenta come una “opera aperta”,
come una ricerca continua e problematica, soggetta a revisioni e rettifiche, sostanzialmente incurante delle
contraddizioni in cui il pensiero può cadere inoltrandosi in territori ardui ed inesplorati. Per lei anzi “la
contraddizione ha la capacità di portare il pensiero al cospetto del chiaro-scuro della vita, che è meraviglia e
che è terrore nello stesso tempo; e Simone Weil la teorizza esplicitamente...”(Vito Mancuso); è convinta che
sia il contrassegno dell’autentica Verità, della complessità inesauribile del reale:“La contraddizione,
l’impossibilità è il segno del soprannaturale”).
In una vita dominata da una grande passione per la verità e da una inesausta curiosità intellettuale il tema
centrale e unificante di tutta la ricerca di SW può essere rintracciato nella riflessione sul significato del dolore
nel mondo. L’esperienza del “malheur”, della sventura-infelicità – la sua e quella degli altri – sconvolse SW
fin da piccola e indirizzò tutta la sua vita, facendo da filo rosso di tutta la sua investigazione del reale. Accanto
al dolore, l’altro grande “fuoco” della sua ricerca è quello della forza, che per lei rappresenta la chiave di
lettura di tutta la storia umana e di ogni tipo di società.
Sono innumerevoli i temi da lei affrontati, tutti legati da una visione di insieme che si presenta estremamente
coerente dietro l’apparente frammentarietà. Noi li abbiamo presentati uno dopo l’altro, secondo una
successione che cerca di mettere in luci i nessi concettuali che li uniscono: prima un gruppo di temi di
carattere sociale e politico, poi quelli più strettamente legati alla dimensione etica e religiosa. Ma è una
suddivisione puramente funzionale, di comodo, perché nel pensiero di SW tale distinzione non esiste.
1.La filosofia e la vita
“accusata di tradimento dalla sinistra, fraintesa dalla destra, dimenticata dai manuali di filosofia. Eppure è
uno dei maggiori pensatori del secolo” Alfonso Berardinelli
“una certa mania di pensare di cui non riesco a sbarazzarmi…” Simone Weil
SW era convinta che i sistemi filosofici non valgono molto e che la forza di un pensatore si vede dal modo con
cui affronta i singoli problemi concreti: il pensiero autentico deve passare non dal particolare all’universale,
ma al contrario dall’universale al particolare. Ci sono secondo lei solo due tipi di filosofi: quelli che
costruiscono dei sistemi e quelli invece che si richiamano alla tradizione platonica, in cui la ricerca è orientata
verso la salvezza. Questi ultimi sono i veri filosofi. Non ci sono idee vere, nel senso proprio del termine, ma
piuttosto pensieri veri, uomini veri. Ed in ogni pensiero vero si trova il dubbio, che è il marchio della ragione.
Troviamo in SW un vero e proprio culto della ragione e della sua dignità, che le deriva probabilmente
dall’influsso decisivo di Descartes, Spinoza e Kant.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Per SW “La sapienza di Platone non è una filosofia”, ma un itinerario di continua elevazione spirituale, che
comporta un morire a se stessi (“la filosofia è orientata verso la vita attraverso la morte”) per poter accedere
al Bene; già Platone appunto affermava che “filosofare è imparare a morire”.
La filosofia di SW non teme le contraddizioni, che al contrario ne sono l’anima, la leva; le contraddizioni del
resto sono la legge profonda dell’universo: “le contraddizioni, che la riflessione trova nel pensiero quando ne
fa l’inventario, sono essenziali al pensiero, anche al pensiero di coloro che fabbricano i sistemi; essi sono
consapevoli di tali contraddizioni mentre elaborano od espongono i loro sistemi, ma fanno un uso delle parole
che non è conforme al loro pensiero, e ciò per un eccesso di ambizione… si farebbe un progresso decisivo se ci
si decidesse a esporre onestamente le contraddizioni essenziali al pensiero invece di cercare inutilmente di
evitarle”; “il compito più alto del pensiero… è quello di definire e contemplare le contraddizioni insolubili che
– come dice Platone, tirano verso l’alto”.
Per SW la filosofia non consiste in una acquisizione di conoscenze, ma in un mutamento di tutta l’anima: “non
può esservi riflessione filosofica senza una trasformazione essenziale nella sensibilità e nella pratica di vita”;
e ancora: “l’altezza del pensiero va di pari passo con la generosità di cuore”. Un mutamento che lei chiama
“distacco”: ”Il distacco ha per oggetto l’istituzione di una gerarchia vera di valori… dunque un modo di vivere,
una vita migliore… in questo mondo e subito”; infatti “la nozione di valore sta al centro della filosofia… lo
spirito è essenzialmente e sempre… una tensione verso un valore”.
Di conseguenza anche lo “stile” filosofico deve cambiare: “la filosofia deve tornare ad essere una forma di
ascolto più che uno spreco di parole”. Il pensiero autentico lavora contemporaneamente sul piano reale e su
quello simbolico, convinto com’è che tutto l’universo sia un sistema di simboli del divino. SW è lontanissima
dalla filosofia accademica: “la cultura è uno strumento maneggiato da professori per fabbricare professori,
che a loro volta fabbricheranno professori”. Anzi, non esita a dichiarare, con uno dei suoi tipici paradossi:
“dalla scomparsa della Grecia in poi non ci sono stati filosofi”.
2. La necessità, Il bene e il male
“sapere quanto differiscono l’essenza del necessario e quella del bene” Platone, “Repubblica”
“non è dato all’uomo fare il bene; solo allontanare dal male” Simone Weil
“la sofferenza non ha significato” Simone Weil
La nozione di necessità domina la visione del mondo di SW: partendo dall’idea che “l’universo è
assolutamente privo di finalità; le cose hanno cause, non fini” ella dice che “la necessità domina la materia
come una rete di relazioni immateriali e senza forza…la necessità è fatta di rapporti che sono pensieri”; “per
lo spirito umano la realtà non è altro che il contatto con la necessità”.
La necessità va compresa ed accettata; ma per poterla riconoscere “è necessario dimenticare ogni bisogno
per concepire i rapporti nella loro immateriale purezza…”; ”La cieca necessità, che ci trattiene con la
coercizione e che ci appare nella geometria, è per noi qualcosa da vincere; per i Greci era una cosa da amare,
poiché Dio stesso è l'eterno geometra”. Quella di necessità è in lei un’idea complessa, attinta originariamente
dalla frequentazione del pensiero greco presocratico (da Anassimandro ad Eraclito agli Stoici). SW trova che
esista una profonda affinità fra stoicismo e cristianesimo: “al centro dell’uno come dell’altro troviamo
l’umiltà, l’obbedienza e l’amore” “il pensiero stoico fu anche quello di tutto il mondo antico, fino in estremo
oriente”.
SW identifica una netta differenza fra la necessità naturale – che l’uomo può fronteggiare senza esserne
umiliato e schiacciato – e quella umana-sociale, che invece le appare distruttiva per la dignità umana. L’uomo
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
deve saper riconoscere l’imperio della necessità a cui è soggetto per natura – anzi, questa è la condizione
fondamentale per poter esistere come uomo – ma deve cercare in ogni modo, con gli strumenti
dell’intelligenza, di difendersi di fronte alla pressione della necessità sociale. La sua riflessione sul rapporto
fra l’uomo e il mondo, ed in particolare fra l’uomo ed il lavoro la portano a queste nette conclusioni.
Il bene e il male fanno entrambi parte del sistema della necessità, che l’uomo deve imparare ad accettare.
“L’apeiron di Anassimandro è la madre del Timeo, la materia pura, indifferente, specchio della giustizia. È il
contrario del bene, ma non è il male; è il correlativo del bene. Il male non è il contrario del bene, come l’errore
non lo è della verità“. Anassimandro, ingiustizia delle cose. Se le cose non fossero ingiuste, ci sarebbe
equilibrio, cioè immobilità. Il divenire è il male. Al contrario l’indeterminato, origine e fine degli esseri, nutrice
e tomba, è di per sé perfettamente puro”.
Bene e male non sono quindi banalmente contrapposti; la loro relazione è più complessa: “il bene è
essenzialmente altro dal male. Il male è multiplo e frammentario, il bene è uno; il male è apparente, il bene è
misterioso, il male consiste in azioni, il bene in non-azioni, in azioni non agenti…”; “ciò che il male viola non è
il bene, perché il bene è inviolabile. Si viola soltanto un bene degradato”; “il male è il contrario del bene, ma
il bene non è il contrario di alcunchè”. Un altro aspetto del rapporto fra bene e male è la “parentela del male
con la forza e del bene con la debolezza”- che però si rovesciano alla fine l’una nell’altra.
SW ci spiazza ancora affermando che “il Cristo non è venuto a cancellare il male, ma ad operare una
discriminazione fra il bene e il male” e che “patire il male è il solo modo per distruggerlo”; bisogna “serbare
in sé il male che si patisce. Non liberarsene diffondendolo intorno”. Il male è banale, noioso, in fondo irreale:
“monotonia del male: nulla di nuovo, tutto vi è equivalente…tutto vi è immaginario. La quantità vi ha una
parte così importante. Molte donne (don Giovanni) o uomini… Condannato alla falsa infinità. Questo è
l’inferno”.
Per SW però anche dal male può – anzi deve– derivare il bene; infatti solo “una sofferenza di cui non è
possibile fare alcun uso sarebbe male puro”.
L’atteggiamento corretto di fronte a tale realtà è dunque questo: “l’obbedienza è la virtù suprema. Amare la
necessità”; “noi abbiamo la possibilità di essere mediatori fra Dio e la parte di creazione che ci è affidata”;
“noi dobbiamo amare Dio attraverso tutte le cose buone e cattive, indistintamente. Finché lo amiamo nelle
cose buone, ci illudiamo soltanto di amarlo; in realtà amiamo qualcosa di terreno a cui diamo il nome di Dio.
Non dobbiamo tentare di trasformare il male in bene, cercando dei compensi o delle giustificazioni al male.
Dobbiamo amare Dio attraverso il male che c’è nel mondo, unicamente perché tutto quel che avviene è reale
e dietro ogni realtà si trova Dio”. Nella dimensione mistica dell’unione con Dio bene e male non sono più
opposti; in essa ci si trova realmente “al di là del bene e del male”.
Come si vede SW riflettè moltissimo sulla questione del male presente nel mondo, interrogandosi sul suo
rapporto con il bene, e con Dio, che è il Bene per essenza. Si è parlato molto, a questo proposito, di una sua
vicinanza a posizioni teologiche di tipo dualistico-manicheo. E in effetti in tutta la sua opera si riscontra una
tensione, se non proprio una lacerante contraddizione, fra natura e grazia, fra il riconoscimento del bene pur
presente nel mondo e la sua negazione. Così “nello stesso momento in cui esalta Dio sminuisce la sua opera”
(Thibon). Nella sua sete di assoluto, SW finisce per annullare il relativo: “Sbalordita dall’assoluto, vacilla e si
orienta male nel relativo. E’ là la sua debolezza” (Thibon).
E’ certo che ebbe molta simpatia per il tipo di religiosità che si era affermata in Francia, nel medioevo, nel
movimento dei Catari – sui quali scrisse un importante saggio. Per questo inseriamo qui una scheda sulla
gnosi e sul Catarismo.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
SCHEDA LA GNÒSI. IL CATARISMO
La Gnosi è una forma di conoscenza religiosa, spesso raggiunta per mezzo di procedimenti misterici. Essa
sottolinea (a discapito della fede e delle opere) la centralità dell'elemento conoscitivo nella ricerca di Dio,
vista come un processo di illuminazione interiore riservato a pochi iniziati e fonte di sicura salvezza. Elemento
caratteristico della gnosi è il forte dualismo tra spirito e materia, anima e corpo, che può condurre ad
atteggiamenti etici opposti (ascetismo o rifiuto di ogni legge morale comune). Forme di gnosi si trovano in
molte religioni (induismo, buddismo, talune tradizioni ebraiche e islamiche) e in alcune correnti vicine o
interne al cristianesimo primitivo (fino al 3° secolo) - dette appunto, nel loro insieme, gnosticismo - contro
le quali polemizzarono diversi Padri della Chiesa.
Fra l’XI e il XIII secolo si diffusero in tutta l’Europa centro-meridionale delle dottrine dualiste che, nate
probabilmente da un’interpretazione radicale di alcuni passi evangelici, fra cui il Prologo del Vangelo di
Giovanni (la frase ‘sine ipso factum est nihil’ – “nulla è stato fatto senza di lui” - poteva essere interpretata
identificando il cosmo materiale con la negatività di tutto ciò che è stato fatto al di fuori del volere divino),
furono sicuramente rafforzate dal contatto con la forma di manicheismo sopravvissuta nelle regioni orientali
d’Europa (per esempio i Bogomili in Bulgaria). Il dualismo manicheo, che postulava due princìpi all’origine
del mondo, sostenendo di conseguenza la sostanzialità del male e la limitazione dell’onnipotenza divina, era
stato combattuto duramente, dopo un’iniziale adesione, da Sant’Agostino e, insieme alle dottrine gnostiche,
classificato come eresia.
Col nome di Catarismo il dualismo si diffuse nel mondo latino: in forma organizzata e manifesta nella regione
occitanica, dove si legò alla cultura cortese, e anche nel Nord Italia, dove fu collegato a movimenti spirituali
e pauperistici (Patarini e Valdesi) diffusi nelle nuove realtà comunali; in forme più segrete nella regione
renana e fiamminga, dove divenne ben presto oggetto di persecuzione, con modalità analoghe a quelle delle
persecuzioni antisemite.
Anche nel sud della Francia, tuttavia, il Catarismo finì per essere aspramente combattuto e sconfitto nella
cosiddetta ‘crociata contro gli Albigesi’ (dalla città di Albi, centro vitale della cultura catara) iniziata nel 1209,
che si concluse con la presa di Tolosa nel 1228 e il concilio tenuto nella stessa città nel 1229; nella
predicazione contro l’eresia catara si era mobilitato Domenico di Guzman, il fondatore dei domenicani. Alla
sconfitta militare seguì una durissima persecuzione che si concluse nel 1244 con l’espugnazione dell’ultimo
rifugio dei perfetti catari sopravvissuti, il castello-fortezza di Montségur, col rogo per i seguaci della ‘eresia’
e con la distruzione quasi totale dei libri in cui erano esposte le dottrine e la liturgia catara.
Ciò nonostante, la presenza di temi anti-catari è avvertibile negli scritti di diversi teologi scolastici, da cui
intuiamo che l’inquietudine nei confronti di questa forma alternativa di cristianesimo perdurò a lungo; ancora
nel XIV secolo, la sopravvivenza di credenze catare è attestata nella regione pirenaica (Montaillou).
Secondo i Catari discende, due principi reggono la terra e il cielo: uno cattivo, che ha creato il mondo, l'altro
buono. Da una doppia creazione (quella del Bene ad opera di Dio, e quella del Male) deriva la duplicità di
tutto il reale, che si sdoppia nel ‘regno della luce’ e nel ‘regno delle tenebre’, fra i quali esiste un eterno stato
di conflitto; nell’uomo la duplicità si esprime in una concezione secondo cui l’anima è rinchiusa nella prigione
del corpo.
La materia è opera del dio cattivo: la carne è dunque colpita da maledizione; gli adepti della setta dovevano
dunque astenersi dalle relazioni sessuali e da tutti gli alimenti che fossero carne, latte, formaggi... È per
questo anche che l'Incarnazione venne negata: per loro Gesù non era di natura divina ma solamente
spirituale. Ritenevano che la Passione fosse stata simulata e i Catari si facevano scoprire spesso per il loro
orrore di fronte al segno della Croce. Per essi la salvezza consisteva in un processo di purificazione morale
che permetteva di liberarsi dalla materia per ritornare attraverso una serie di reincarnazioni successive alla
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
propria origine spirituale. Inoltre ogni uso della forza, il servizio militare e il giuramento erano proibiti, il che
mise i Catari in opposizione anche al potere politico.
Il ricupero della propria origine spirituale era significato dal battesimo dello Spirito Santo o consolamentum.
Si trattava di un rito di accoglienza che, attraverso l'imposizione delle mani, era conferito dai continentes e
operava la remissione di tutti i peccati. Esso vincolava i "perfetti", distinguendoli così dai semplici credenti,
ad una vita di povertà, di penitenza e di castità, che impressionava molto le popolazioni, in un'epoca nella
quale certi chierici non praticavano affatto queste virtù.
Solo i perfetti erano sicuri della salvezza. Ogni “caduta” nel peccato era considerata irreparabile e veniva
talvolta impedita perfino col suicidio, la cosiddetta endura. Si trattava di un suicidio ottenuto lasciandosi
morire di fame o tagliandosi le vene per lasciarne uscire il sangue.
Il successo dei Catari è da collegare al fatto che essi sfruttarono i difetti della Chiesa medievale e l'appello dei
riformatori ad una Chiesa povera, per affermare la loro dottrina ascetica di disprezzo del mondo. Con il loro
insegnamento riuscirono a sedurre molti. Nello stesso tempo essi costrinsero le forze cattoliche a una doppia
difesa: a una riformulazione dogmatica della comprensione cristiana del mondo, e ad una riforma morale più
aderente al modello evangelico (apostolato dei laici, cura pastorale delle parrocchie, Ordini Mendicanti). Solo
quando la Chiesa realizzò le due istanze le teorie ereticali catare persero via via la loro presa sul popolo
cristiano. (da Cathopedia)
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3. La forza e l’amore, l’equilibrio
“la Forza non tocca l’Amore; e quando questo agisce non agisce con forza” Platone, Simposio
“per una necessità di natura qualunque essere, per quanto può, esercita tutto il potere di cui dispone”
Tucidide
“ad ogni nuovo crimine e orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà” Etty Hillesum
Un altro concetto-chiave del pensiero di SW è quello di forza - strettamente connesso a quello di necessità intesa come una catena di relazioni umane di dominio: “al centro dei rapporti umani c’è la nozione di forza”;
”La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa…essa muta l’uomo in pietra”.
A livello dei rapporti umani la forza nasce dall’esercizio del potere di vita e di morte; e la storia ci mostra
come “quando le autorità temporali o spirituali hanno escluso una categoria di esseri umani dal numero di
coloro la cui vita ha un valore, non c’è per l’uomo nulla di più naturale che uccidere”.
SW trova una formula di una verità folgorante: ”dal potere di trasformare un uomo in cosa, facendolo morire,
deriva un altro potere, altrettanto prodigioso: quello di trasformare in cosa un uomo che pur è vivo”.
Tutta la sua riflessione ruota attorno al tema della forza. Essa governa tutti i rapporti umani, e li marchia con
il suo sigillo di fuoco, generando rapporti di schiavitù e trasformando gli uomini in cose. Essa non agisce solo
sui rapporti materiali, ma pure sugli spiriti: “contrariamente a quello che spesso si afferma, la forza uccide
benissimo i valori spirituali”. Anche qui SW trae ispirazione dal mondo greco, vedendo nell’Iliade la
rappresentazione tragica del trionfo della forza, a cui sono sottomessi sia i vincitori che i vinti. Alla forza
bisogna opporre la debolezza, o meglio la forza-debole dell’amore-compassione, che lei crede di trovare
presente appunto già nel poema di Omero, dove la forza non viene esaltata, ma descritta come la terribile
regina del mondo.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
SW analizza acutamente le dinamiche della forza, il suo eccezionale potere di seduzione, la sua dialettica
contraddittoria per cui alla fine ad essa soggiacciono sia i vincitori che i vinti, sia lo schiavo che il padrone.
“la forza si fa non solo temere, ma insieme sempre un po’ amare, anche da coloro che fa piegare
violentemente sotto di sé… E’ mediante tale ascendente sopra il pensiero che la forza regna, ancor più che
attraverso la costrizione effettiva…questa forza che regna fin nelle coscienze è sempre in gran parte
immaginaria”; “a partire da un certo grado di oppressione, i potenti arrivano necessariamente a farsi adorare
dai loro schiavi”; “tutti i deboli vanno verso la forza come mosche verso la fiamma”.
Vede la forza come l’essenza stessa della nostra cosiddetta “civiltà: “la forza bruta. Questa è la nostra civiltà”.
D’altronde “si è sempre barbari verso i deboli ”e “la barbarie è un carattere permanente e universale della
natura umana”, perchè “la simpatia del forte per il debole è contro natura”.
Della forza si tende inevitabilmente ad abusare: “Forti del loro potere, non dubitano mai che le conseguenze
dei loro atti li obbligheranno a loro volta a piegarsi”; “gli uomini che non impongono ai loro atti quel tempo
di sospensione da cui solo dipende il rispetto verso i nostri simili concludono che il destino ha dato loro ogni
licenza … da quel momento vanno al di là della forza di cui dispongono: inevitabilmente eccedono, ignorando
che essa è limitata”. In effetti “un uso moderato della forza richiederebbe una virtù sovrumana, rara quanto
una costante dignità nella debolezza”.
SW mette anche sotto accusa l’ipocrisia insita nell’ideologia umanitaria dell’occidente: “da due o tre secoli
crediamo contemporaneamente che la forza sia l’unica signora di tutti i fenomeni della natura, e che gli
uomini possano e debbano fondare le loro reciproche relazioni sulla giustizia, riconosciuta mediante la
ragione. Questa è un’assurdità patente”. Allo stesso modo denuncia la falsa obiettività delle narrazioni
storiche, che sono per lo più di fatto delle celebrazioni mistificanti dell’imperio della forza: “lo spirito storico
consiste nel prendere in parola gli assassini”.
Ma in realtà la forza non è irresistibile, e contiene in sé una contraddizione insuperabile: “la forza inebria
chiunque la possiede o crede di possederla. Nessuno la possiede veramente… non vi è un solo uomo che in
qualche momento non sia costretto a piegarsi alla forza”; “l’esercizio della forza è un’illusione”; “il forte non
è mai forte in assoluto, né il debole è mai debole in assoluto, ma entrambi lo ignorano”; “la forza pietrifica in
modo diverso, ma in egual misura, le anime sia di chi la subisce sia di chi la usa”.
Già nell’universo fisico “la forza bruta non è onnipotente…in questo mondo sono onnipotenti la
determinazione e il limite… la forza bruta della materia, che ci sembra onnipotente, non è in realtà se non
perfetta obbedienza…”; “quanto fa obbedire la forza cieca della materia non è già un’altra forza più forte: è
l’amore”. Più in generale “non è la debolezza a seguire ciecamente la forza; è la forza che è docile alla
saggezza eterna”. In definitiva “solamente l’equilibrio annulla la forza”… l’ordine sociale non può essere che
un equilibrio di forze. La bilancia…”. SW ricorre molto spesso all’immagine della bilancia per ribadire la sua
convinzione che la forza può essere controbilanciata e fermata solo dalla “forza debole” dell’amore.
“in questo mondo l’unica forza è la purezza”, “non v’è grandezza se non nella mitezza”.
SW insomma crede fermamente che la forza possa essere contrastata ed anche sconfitta; ma perché ciò
avvenga è necessaria una radicale conversione spirituale: “finchè l’uomo sopporta di avere l’anima occupata
dai propri pensieri…è interamente sottoposto alla pressione dei bisogni ed al gioco meccanico della forza…
ma tutto muta quando, in virtù d’una attenzione autentica, egli vuota la propria anima per lasciarvi penetrare
i pensieri della saggezza eterna”; “nessuna vittoria del male può far sì che il male cessi di essere male. Al
contrario, una disfatta totale del bene può far sì che il bene cessi di essere bene. Ma finchè il male è giudicato
come tale, il bene non è del tutto vinto.”. È la comprensione della forza che apre alla "regina delle virtù",
ovvero all'umiltà.
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Solo l’irruzione – discreta ma pervasiva - del soprannaturale nel mondo può contrastare efficacemente il
dominio della forza: “ogni realtà soprannaturale è quaggiù un infinitamente piccolo che si accresce in modo
esponenziale”; “la parte del soprannaturale quaggiù è il segreto, il silenzio, l’infinitamente piccolo; ma
l’azione di questo infinitamente piccolo è decisiva”; “un chicco di melagrana di bene è sufficiente”.
Il programma che SW ci consegna è racchiuso in queste lapidarie formule:“…non ammirare mai la forza, non
odiare i nemici e non disprezzare gli sventurati”; “il giusto deve poter dire dopo la morte: non ho fatto paura
a nessuno”.
4. Il potere, il prestigio
“esiste qualcosa di più bello di chi non ama ubbidire: colui che non ama comandare” Alain
Collegato al tema della forza c’è quello del potere, che SW considera sostanzialmente come un miraggio,
un’illusione, che però esercita uno straordinario fascino-attrazione sugli esseri umani (sia su chi lo esercita
che su chi lo subisce): “l’unico gioco veramente appassionante per gli esseri umani, quello che ha come
oggetto il dominio sugli uomini”. Ammette la necessità che esista un potere sociale, ma ne rifiuta nel
contempo il carattere arbitrario: “la necessità che esista un potere è tangibile, palpabile, perché l’ordine è
indispensabile all’esistenza, ma l’attribuzione del potere è arbitraria”.
Individua acutamente il rapporto esistente fra il potere ed il prestigio, e la natura immaginaria di entrambi:
“il prestigio, cioè l’illusione, sta nel cuore stesso del potere”, “il prestigio costituisce più di tre quarti della
forza”.
Descrive la natura espansiva, irresistibile del potere (“come un gas, l’anima tende ad occupare tutto lo spazio
che le è accordato…Non esercitare tutto il potere di cui si dispone vuol dire sopportare il vuoto. Ciò è contrario
a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo”); e la fatale disfatta a cui è destinato ad andare incontro:
“ogni potere è instabile… non c’è mai potere, ma solamente corsa al potere”.
Ne riconosce la trasversalità-pervasività, vedendolo all’opera non solo nella sfera politica od economica, ma
nell’ambito di ogni forma di relazione umana, comprese quelle intime. E dice quindi che “è necessario arrivare
al punto che il potere sia nelle mani di coloro che lo respingono, e non di coloro che lo ambiscono”.
5. Il lavoro, la tecnica
“la grandezza dell’uomo consiste sempre nel ricreare la sua vita. Ricreare ciò che gli è dato. Forgiare anche
ciò che subisce. Mediante il lavoro produce la sua esistenza naturale. Mediante la scienza ricrea l’universo per
mezzo di simboli. Mediante l’arte ricrea l’alleanza fra il suo corpo e la sua anima” Simone Weil
“la nostra civiltà è fondata sulla quantità” Simone Weil
“noi che abbiamo svuotato e imbrattato tutto il globo terrestre” Simone Weil
Il tema del lavoro è il primo di cui SW si occupò a fondo, negli anni del suo intenso impegno sociale e politico.
Per lei il lavoro è alla base e al centro dell’umana esperienza: è il duro marchio della nostra finitudine, è la
chiave per comprendere i meccanismi di potere vigenti nelle società umane; ma ha anche - in sé e prima di
tutto - un profondo significato spirituale, religioso: “il lavoro è il consenso all’ordine dell’universo”. È il tramite
attraverso cui l’uomo entra in contatto con il mondo e può attingere il Bene; o all’opposto viene schiacciato
dalla necessità e viene ridotto a schiavo, a semplice cosa.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
SW si concentra a fondo sulla questione della tecnica e su quella dell’organizzazione del lavoro, cioè sui
meccanismi che producono quella che Marx aveva chiamato l’alienazione, che disumanizza il lavoro umano:
Denuncia anzitutto “l’opposizione, creata dai mezzi stessi di produzione, fra chi dispone delle macchine e
quelli di cui la macchina dispone” (1933), per cui “un solo spirito basta per mille braccia”. Mette in luce
“l’imbroglio che ha fatto dell’uomo lo schiavo delle proprie creazioni”. Nel sistema industriale di produzione
“la funzione di controllo è passata dal pensiero alle cose”, “la cosa pensa e l’uomo è ridotto alla condizione di
cosa”; perciò “mettendosi dinanzi alla macchina bisogna uccidere la propria anima per otto ore al giorno”; si
arriva così alla condizione paradossale per cui “il lavoro è troppo macchinale per fornire materia al pensiero,
e impedisce tuttavia ogni altro pensiero”. E invece “la tecnica dovrebbe essere di natura tale da mettere
perpetuamente in azione la riflessione metodica”.
In assenza della soddisfazione profonda che deriverebbe da un lavoro di cui l’uomo fosse artefice
consapevole si ha così “un lavoro per il quale l’unico stimolante è la paura, o l’appetito del guadagno”. L’unica
finalità superstite nel mondo della produzione è quindi l’aumento incessante della produzione stessa: “lo
spirito che soccombe sotto il peso della quantità ha l’efficacia come unico criterio superstite”, perchè “le
macchine automatiche danno origine alla tentazione di produrre molto di più di quanto non sia necessario
per soddisfare i bisogni reali”. La crescita quantitativa diventa fine a se stessa, anziché soddisfazione di
bisogni reali. L’infernale meccanismo autoriproducentesi della tecnica sottomette alla sua logica inesorabile
anche il capitalista: “il padrone…anche lui è schiavo della macchina come gli operai.” Perciò lo sviluppo
tecnologico non è affatto la magica soluzione di tutti i problemi sociali, anzi “più il livello della tecnica è
elevato, più i vantaggi diminuiscono rispetto agli inconvenienti”.
Sono molteplici i livelli su cui SW considera il lavoro. Da un lato esso è costrizione: “Il lavoro manuale. Il tempo
che penetra nel corpo. Che sia regolare e inesorabile. Ma vario, come i giorni e le stagioni. Nel lavoro l’uomo
si fa materia come il Cristo nell’Eucarestia. Il lavoro è come una morte. Bisogna passare per la morte, che il
vecchio uomo muoia…bisogna subire la gravità, il peso del mondo… Chi deve lavorare tutti i giorni sente nel
suo corpo che il tempo è inesorabile. Lavorare. Sentire il tempo e lo spazio”. Il lavoro è in sé e per eccellenza
il dominio di quella che SW chiama la “pesanteur”, la “gravità”, insomma quella forza che è la legge del
mondo fisico. Esso schiaccia l’uomo con il suo peso, lo spinge verso il basso. Ma dall’altro è apertura
sull’universo: maledizione e benedizione insieme… E’ possibile infatti innalzarsi verso lo spirito proprio dentro
e attraverso il lavoro.
E’ compito dell’uomo trasformarlo in via di salvezza: “Il lavoro come esercizio spirituale. Il lavoro come
esperienza mistica. Il lavoro come poesia”. Riflettendo sulle sue esperienze di lavoro in fabbrica SW dice che
si aspettava di “assistere all’estinzione della mia intelligenza come conseguenza della fatica. Tuttavia
considero il lavoro fisico una purificazione – ma una purificazione dell’ordine della sofferenza e
dell’umiliazione. Vi si trovano anche, nel fondo, dei momenti di una gioia profonda, feconda, che non ha
equivalenti altrove”.
Per dare un’idea di come SW sapesse leggere la presenza del soprannaturale nella natura, anzi nella stessa
tecnica umana, e cogliesse il nesso profondo fra universo, leggi matematiche e tecniche umane, leggiamo
questo brano: “Le leggi della macchina, che derivano dalla geometria e comandano le nostre macchine,
contengono verità sovrannaturali. L’oscillazione del movimento alternante è l’immagine della condizione
terrestre. Queste verità e molte altre sono iscritte nella semplice contemplazione d’una puleggia che
determina un movimento oscillante; possono esservi lette mediante conoscenze geometriche
elementarissime; il ritmo stesso del lavoro, che corrisponde all’oscillazione, le rende sensibili al corpo; una
vita umana è uno spazio fin troppo corto per poterle contemplare”.
Ed anche il lavoro agricolo – anzi, ancor di più – può dare, a chi sa leggervi dentro, una straordinaria apertura
sul soprannaturale: “Il sole e la linfa vegetale parlano continuamente, nei campi, di quel che c’è di più grande
al mondo. Viviamo solo di energia solare, ci nutriamo di essa ed è quella energia a tenerci in piedi, a farci
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
muovere i muscoli, ad operare corporalmente in noi tutti i suoi atti. Essa è, forse, sotto forme diverse, la sola
cosa nell’universo che costituisca una forza antagonista alla pesantezza”.
SW pensa che la valorizzazione del lavoro sia stata una delle grandi conquiste spirituali dell’umanità: “la
nozione di lavoro considerato come un valore umano è l’unica conquista spirituale che il pensiero umano
abbia fatto dopo il miracolo greco; era forse questa l’unica lacuna che la Grecia aveva lasciato nel suo ideale
di vita umana”.
La dignità del lavoro si fonda sul fatto che “la realtà della vita non è la sensazione: è l’attività…; coloro che
vivono di sensazioni sono solo dei parassiti”; uomo autentico è solo colui che attraverso le proprie mani entra
in contatto con la natura. Per questo SW celebra il lavoro manuale ed in particolare la figura dell’operaio:
“amo gli operai. Li amo naturalmente; trovo che sono più belli dei borghesi”.
Ma è pienamente consapevole che quella degli operai è “la classe di quelli che non contano”; sa benissimo
che “gli operai comprendono che la loro condizione umana non ha un posto nel sistema, in quanto sono
semplici strumenti” (1933); conosce “l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori”,
per averla vissuta di persona nelle sue diverse esperienze di lavoro in fabbrica. “Gli operai sono come degli
sradicati, in esilio sulla terra della loro stessa patria” dice di loro; “in fabbrica non ci si sente a casa, non vi si
ha diritto di cittadinanza”. Eppure “solo in fabbrica si conosce che cos’è la fraternità umana. Ma ce n’è poca,
pochissima”, date le condizioni di sfinimento e di abbrutimento a cui gli operai sono ridotti.
La conclusione di SW è molto amara: “denaro, macchinismo, algebra. I tre mostri della civiltà attuale.
Analogia completa”; “la società attuale non fornisce, come mezzi di azione, altro che macchine per schiacciare
l’umanità”; “la squalificazione del lavoro è la fine della civiltà. Ecco il vero materialismo”. Allargando poi il
suo sguardo al di là del mondo chiuso della fabbrica SW osserva che “viviamo in un mondo dove nulla è a
misura d’uomo…e i giovani riflettono più degli altri in loro stessi il caos che li circonda”, individuando nel
mondo giovanile l’anello più debole di una crisi sociale generale.
Dopo aver militato con passione nelle file del sindacalismo rivoluzionario degli anni trenta SW giunse alla
conclusione che anche i sindacati avevano tradito la loro missione: “i delegati degli operai, eletti per vigilare
sull’applicazione delle sociali, sono diventati rapidamente un potere dentro le fabbriche e si sono
considerevolmente allontanati dalla loro missione teorica…”, costituendosi come una nuova burocrazia, un
nuovo potere separato dai lavoratori. Di conseguenza “uno dei risultati di questi abusi è che i tecnici e gli
impiegati sono passati in gran parte nel campo antioperaio” (Pètrement).
Eppure: “La civiltà più pienamente umana sarebbe quella che avesse al suo centro il lavoro manuale” –
beninteso radicalmente trasformato. Che cosa si dovrebbe fare per restituire all’uomo il controllo sul suo
lavoro, per ridargli dignità? SW immagina una utopia fondata sulla spiritualità dell’operare umano; va in cerca
dunque non di una libertà dal lavoro, bensì di una libertà nel lavoro; ma le sue sono indicazioni di un nuovo
orientamento ideale, più che programmi concreti. Sembra credere che si possa davvero creare una tecnica
diversa, posta al servizio dell’uomo e non del puro profitto: “mettersi alla ricerca non della tecnica che dia il
maggior rendimento, ma della tecnica che procuri la più grande libertà”; “lacerare il velo che viene interposto
dal denaro fra il lavoratore e il lavoro”; “bisognerebbe dare agli operai non già piaceri che si pagano, ma gioie
gratuite che non ledano lo spirito di povertà”; “che per ciascuno il proprio lavoro sia un oggetto di
contemplazione” poichè “i lavoratori han bisogno di poesia più che di pane”. Il punto di incontro del lavoro
intellettuale e del lavoro manuale è infatti per SW la contemplazione.
Ma prima ancora di una radicale trasformazione della tecnica sarebbe necessaria un profondo cambiamento
nella relazione fra uomo e natura, che rovesci l’atteggiamento predatorio di sfruttamento impostosi nella
cultura occidentale: “l’uomo comanda alla natura obbedendole (Bacone) dovrebbe essere la Bibbia della
nostra epoca”. SW sostiene che “la natura ti può spezzare, ma non umiliare”; solo l’uomo ha costruito un
sistema che oltre a spezzare umilia e degrada se stesso. E va ancora oltre nella sua requisitoria contro l’homo
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faber moderno, mettendo in questione l’idea-madre stessa del mondo occidentale, quella della crescita
indefinita, senza fine e senza fini: “l’idea di progresso è il veleno della nostra epoca”.
6. L’individuale ed il collettivo
SW è convinta che solo l’individuo sia dotato della facoltà di pensare, mentre il collettivo, la società, la massa
non sono in grado di farlo: “le collettività non pensano affatto”; “l’intelligenza non può essere esercitata
collettivamente”. Proprio in questa facoltà consiste l’unica forma di superiorità dell’individuale sul collettivo:
“è grazie alla religione e all’arte che si è potuti arrivare alla rappresentazione dell’individuale; è grazie al
sentimento che un essere umano si distacca dagli altri”. Nell’indistinto collettivo invece, nel “gioco cieco della
vita collettiva” tutto questo va a perdersi; perché “tutto ciò che vi è di più alto nella vita umana… è corrosivo
per l’ordine”.
La vita sociale è dominata dall’immaginazione e dall’illusione: “l’immaginazione è sempre il tessuto della vita
sociale ed il motore della storia. Le vere necessità, i veri bisogni, le vere risorse, i veri interessi agiscono solo
in maniera indiretta, perché non arrivano mai alla coscienza delle folle… le folle umane non fanno attenzione”.
La sua visione della società è estremamente pessimistica. Per SW la società in quanto tale è un male (“tutte
le società in grado di produrre qualcosa sono organizzate in modo oppressivo”), perciò bisogna cercare di
ridurre il più possibile l’enorme influenza che essa esercita sugli individui.
Il rapporto fra individuo e società è di natura complessa: da un lato la società precede l’individuo; ma è
l’individuo a dare valore ad una società: “la società non è un insieme di individui; l’individuo è qualcosa che
viene dopo la società… l’individuo esiste solo in virtù della società, e la società trae il suo valore dall’individuo”.
Dato il predominio assoluto che questa esercita su quello “è assurdo pretendere di riformare la società
riformando l’individuo…il funzionamento stesso della società impedisce agli uomini di essere virtuosi; è una
macchina per fabbricare schiavi e tiranni”. Riprendendo da Platone l’immagine del “grosso animale” ne
delinea a tinte fosche le caratteristiche di ottuso e cieco dominio sui singoli: “la società è essa stessa una
forza della natura tanto cieca…”.
Il fatto è che gli uomini si sottopongono volentieri alla società, spesso per liberarsi da rischi e responsabilità,
e svendendo così la loro libertà in cambio dell’illusione della sicurezza. Gli individui vedono spesso nella
società l’unica dimensione che possa consentire loro di trascendersi, di superare l’angusto orizzonte
individuale: “una sola cosa quaggiù può essere presa per fine, perché possiede una specie di trascendenza
rispetto alla persona umana: la collettività. La collettività è l’oggetto di ogni idolatria, è quella che ci incatena
alla terra”.
L’uomo si illude spesso che il numero sia forza; invece “il numero…è un fattore di debolezza… solo fra un
numero esiguo di uomini ci può essere coesione”. Le grandi masse sono in balia dei pochi, dei gruppi elitari
decisi a prendere il potere, come insegnano tutte le rivoluzioni politiche. Gli individui possono arrivare a
sacrificarsi per questo feticcio collettivo, in cui spesso si identificano ciecamente: “l’uomo sente che una vita
umana senza fedeltà è ignobile…sente di essere nato anche per il sacrificio; e nell’immaginazione pubblica
non esisteva altra forma di sacrificio se non quello militare, offerto allo stato”; e ancora: “tutti gli uomini sono
pronti a morire per quello che amano. Differiscono solo per il livello della cosa amata e per la concezione o la
dispersione del loro amore. Nessuno ama se stesso. L’uomo vorrebbe essere egoista e non può…”.
Gli uomini devono insomma guardarsi sia dalla tirannia dell’io che – ancor più – da quella del Noi: “la parte
dell'anima che dice "noi" è ancora infinitamente più pericolosa”, perchè “la carne fa dire Io, il diavolo fa dire
Noi”; quindi “non si deve essere Io, ma ancor meno essere Noi”.
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Sw difende strenuamente i valori dell’individuo: “Noi vogliamo porre come supremo valore l’individuo e non
la collettività”; “la subordinazione della società all’individuo è la definizione dell’autentica democrazia, ed è
anche quella del socialismo”; “la socialità getta sul relativo la colorazione dell’assoluto. Il rimedio è l’idea di
relazione… Essa è monopolio dell’individuo. La società è la caverna, l’uscita è la solitudine. La relazione
appartiene allo spirito solitario… Nessuna folla concepisce la relazione”; “solo dei fanatici possono trovare un
valore alla loro esistenza unicamente in quanto serva una causa collettiva”.
E arriva a dire: ”Questo mondo è inabitabile. Per questo bisogna fuggire nell’altro…bisogna smettere di essere
un essere sociale”. La conclusione è: “rispetto al sociale non c’è altro dovere che tentare di limitare il male”.
7. La libertà e l’oppressione
“la società si è chiusa ai giovani. Viviamo in un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più
speranza, ma angoscia” Simone Weil
Premesso che per SW a rigore la libertà non esiste in questo mondo dominato dalla necessità, e tanto meno
esiste il libero arbitrio, per cui “dire ‘io sono libero’ è una contraddizione”, è un fatto che per tutta la sua breve
ed intensissima vita ella si adoperò senza tregua a difesa della libertà contro ogni forma di oppressione.
Va detto anzitutto che per lei la libertà autentica non è definita dal rapporto tra desiderio e soddisfazione,
ma da quello tra pensiero e azione.
Le “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale” sono l’opera più profonda della SW del
periodo dell’impegno politico e sociale. Lei stessa la considerò allora il suo scritto fondamentale. In essa si
riversano delle osservazioni straordinariamente acute e spregiudicate sulle condizioni che producono
l’oppressione, a tutti i livelli, a partire dall’ambito che costituisce secondo lei il cuore e la matrice
dell’oppressione stessa, cioè il mondo della produzione, la fabbrica. La questione della libertà viene quindi
ricondotta al discorso già svolto sul “grosso animale” sociale.
Partendo dalla constatazione che “mai vi fu un'epoca come l'attuale, in cui le anime fossero in un tale pericolo
nel mondo intero” e che “su tutta la superficie della terra trionfano l’oppressione e il nazionalismo”, nella sua
analisi SW demolisce i tradizionali miti del pensiero socialista e comunista, individuando le radici
dell’oppressione nelle strutture stesse della società, a prescindere dai regimi politici. Ribadisce più volte che
“l’oppressione deriva esclusivamente da condizioni oggettive”; perciò è necessario un nuovo approccio di tipo
oggettivo, non ideologico, allo studio della società: “si tratta di studiare la società nei modi della biologia,
analizzandone le condizioni di equilibrio”.
Alla base dell'ingiustizia e dell’oppressione, prima ancora della proprietà privata dei mezzi di produzione, vi
è la separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra funzioni direttive e funzioni esecutive . Con lo
sviluppo dell'economia e conseguentemente della divisione del lavoro, aumenta la dipendenza dell'individuo.
Dopo l'esperienza storica dell'oppressione attuata con la forza delle armi e di quella prodotta dalla ricchezza
concentrata nel capitale privato, l'umanità comincia a sperimentare ora una forma nuova di oppressione
determinata appunto dalla divisione del lavoro, che costringe l'uomo a forme estreme di specializzazione.
SW comincia col dire che “si direbbe che l’uomo nasca schiavo e che la servitù sia la condizione che gli è
propria”; “…questa è la sorte di tutti gli uomini. Lo schiavo dipende dal padrone e il padrone dallo schiavo”;
“i termini di oppressori e oppressi, la nozione di classe, tutto ciò sta perdendo ogni significato, tanto sono
evidenti l’impotenza e l’angoscia di tutti gli uomini dinanzi alla macchina sociale”.
Accanto alla specializzazione attacca allo stesso modo la centralizzazione come radice della maggior parte
dei mali della società moderna, sia nel campo economico che in quello politico, individuando nella crescente
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burocratizzazione un pericolo ancora peggiore del dominio capitalistico. Invoca perciò una larga
decentralizzazione in tutti i settori: “occorre trovare il modo per formare un’organizzazione che non generi
una burocrazia”; infatti prima ancora che il capitalista “il nemico capitale rimane l’apparato amministrativo,
poliziesco e militare.”
A livello psicosociale infine la matrice dell’oppressione è “il male essenziale dell’umanità…la sostituzione dei
mezzi ai fini”: “quelli che l’uomo prende per fini sono sempre soltanto mezzi”.
Le indicazioni che SW fornisce per cercare di uscire da questo vicolo cieco sono: anzitutto “è tempo di
rinunciare a sognare la libertà e di decidersi a concepirla” – vale a dire prima di tutto comprenderne l’essenza
autentica; la direzione in cui muoversi è quella di una società “in cui la maggior parte degli uomini si trova
per lo più obbligata a pensare mentre agisce, ha la maggiore possibilità di controllo sulla vita collettiva e
possiede la maggiore indipendenza”.
Come si vede, una prospettiva realistica, non certo apocalittica. SW non crede più alle palingenesi
rivoluzionarie – dopo aver visto quello che è successo in Russia e altrove. Constata che di solito “ci si rivolta
per un attimo, e si cade in ginocchio l’attimo seguente,” e sostiene che “la lotta di classe ha certamente un
senso, ma è una lotta non una guerra, ed è efficace solo nella misura in cui non è una guerra… solo se è una
lotta permanente, che si limita a ristabilire un equilibrio continuamente spezzato”; perciò “dobbiamo
consigliare la rivolta agli oppressi soltanto quando può avere successo”.
L’ultimo messaggio di resistenza umana di una SW ormai disillusa è un appello a salvaguardare in qualsiasi
circostanza la dignità dell’uomo: “che cosa possono fare quanti si ostinano ancora, a dispetto di tutto, a
rispettare la dignità umana in se stessi e negli altri? Niente, se non sforzarsi di allentare un poco gli ingranaggi
della macchina che ci stritola; cogliere tutte le occasioni per risvegliare un poco il pensiero ovunque possono”.
E comunque una cosa è certa: “il renitente è moralmente e materialmente solo, e lo sarà sempre di più”.
Comunque vada, però “sceglierò sempre, anche in caso di disfatta sicura, di condividere la disfatta degli
operai piuttosto che la vittoria degli oppressori”.
8. La sacralità della parola, il linguaggio, la propaganda
Il potere insito nel linguaggio è enorme: “ogni cosa diventa un nostro giocattolo grazie al linguaggio”.
Il rispetto per l’uomo implica prima di tutto il rispetto della parola, del linguaggio, dell’uso che se ne fa: “si
può ricondurre tutta l’arte di vivere a un buon uso del linguaggio”. Del resto il controllo monopolistico della
parola è stata la prima forma di potere sugli uomini, ed ancora oggi costituisce uno dei presupposti
fondamentali della disuguaglianza fra le classi e dell’oppressione sociale: “in ogni epoca, la facoltà di
maneggiare le parole è sembrata agli uomini qualcosa di miracoloso…Il dominio di coloro che sanno
maneggiare le parole su coloro che sanno maneggiare le cose si ritrova ad ogni tappa della storia umana…
Nell’insieme, questi assemblatori di parole, sacerdoti o intellettuali, sono sempre stati dalla parte della classe
dominante, degli sfruttatori contro i produttori”.
Dalla convinzione del carattere sacro della parola SW deriva la sua requisitoria contro l’uso disinvolto o
truffaldino della stessa, condannando perciò ogni forma di propaganda (in primis quella politica) e di
pubblicità, equiparate tout court alla menzogna (“La nostra epoca è talmente avvelenata di menzogna che
muta in menzogna tutto quel che tocca…“) ed arrivando a ipotizzare misure di controllo della stessa libertà
di opinione e di espressione per i professionisti della comunicazione.
SW conduce una vera e propria crociata contro la profanazione di cui sono fatte oggetto alcune parole “sacre”
del linguaggio politico e sociale; un pervertimento-stravolgimento del loro significato che le ha rese
inservibili, o ancor peggio strumenti di corruzione dell’opinione pubblica: “screditare parole simili lanciandole
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in mezzo al pubblico senza infinite precauzioni vorrebbe dire fare un male irreparabile… non dobbiamo
guastarle, come ha fatto Pètain con le parole “lavoro, famiglia, patria,” e nemmeno come la terza repubblica
ha guastato le parole “libertà, uguaglianza, fraternità”. Non devono diventare parole d’ordine”. E richiama
“la geniale osservazione di Hitler sulla propaganda: che la forza bruta da sola non può vincere le idee, ma che
ci riesce facilmente accompagnandosi a qualche idea, volgare e bassa quanto si voglia”.
9. La libertà d’opinione
“Quando il pensiero non esiste non è libero. Nel corso degli ultimi anni c’è stata molta libertà di pensiero, ma
non c’era pensiero” Simone Weil
SW da un lato è una strenua sostenitrice della libertà-dignità dell’individuo – che si fonda principalmente
sull’uso della ragione, anzi del “pensiero”: “la libertà d’espressione totale, illimitata, di qualsiasi opinione,
senza nessuna restrizione né riserva, è un bisogno assoluto per l’intelligenza. Quindi è un bisogno
dell’anima…” – e la oppone direttamente allo strapotere del collettivo; perciò la libertà d’opinione non può
che essere ai primi posti all’interno della sua rivendicazione della priorità del singolo.
Dall’altra parte però, consapevole come è dei danni che derivano agli individui dalla “dittatura” dell’opinione
pubblica, della maggioranza, si preoccupa di porre dei robusti paletti all’esercizio del potere legato alla
parola. Di qui alcune sue discutibili prese di posizione sulla libertà di stampa (o meglio di pubblicazione).
“le pubblicazioni destinate ad influire su ciò che si chiama opinione, cioè in realtà sulla condotta della vita,
sono atti veri e propri e debbono essere sottoposti alle medesime restrizioni cui vengono sotto posti tutti gli
altri atti… è chiaro che tutta la stampa quotidiana e settimanale fa parte di questa categoria…dev’essere
pacifico che uno scrittore, dal momento in cui entra a far parte di coloro che hanno un’influenza determinante
sull’opinione pubblica, non possa pretendere a una libertà illimitata…il bisogno stesso di libertà esige una
protezione contro la suggestione, la propaganda, l’influenza ottenuta con l’ossessione… la pubblicità, per
esempio, dev’essere rigorosamente limitata dalla legge…allo stesso modo può esistere una repressione contro
la stampa, le trasmissione radiofoniche e simili… per la bassezza del tono e del pensiero, per il cattivo gusto,
per la volgarità… una simile repressione può esercitarsi senza minimamente violare la libertà d’opinione. Un
giornale, per esempio, può essere soppresso senza che i membri della redazione perdano il diritto di pubblicare
dove meglio credano… Anzi, la protezione della libertà di pensiero esige che l’espressione di un’opinione da
parte di un gruppo sia vietata per legge. Perché un gruppo, quando vuol avere delle opinioni, tende
inevitabilmente ad imporle ai suoi membri”.
10. La giustizia
L’idea di giustizia in SW è strettamente legata a quella del rispetto della dignità dell’uomo; non ha un
contenuto legale-giuridico, bensì essenzialmente morale e religioso: “la giustizia e la verità sono la medesima
cosa…colui che è senza potenza può uguagliare chi è molto potente mediante la giustizia”. Definisce la
giustizia “questa fuggitiva dal campo dei vincitori”, per significare la sua estraneità alla Forza. Il principioguida della sua idea di giustizia può essere individuato in questa affermazione: “non ho diritto a nulla, se
tante persone non hanno diritto a nulla”.
Anche fra giustizia e carità non c’è differenza: “Cristo non chiama i benefattori né amorevoli né caritatevoli.
Li chiama giusti. Il Vangelo non fa alcuna distinzione fra l’amore del prossimo e la giustizia … Siamo noi che
abbiamo inventato la distinzione fra giustizia e carità”. Infatti per SW “il sentimento della miseria umana è
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una condizione della giustizia e dell’amore… Possiamo amare ed essere giusti solo se conosciamo l’imperio
della forza e siamo capaci di non rispettarlo”. Perciò: “ho vergogna di contare qualcosa in una organizzazione
sociale che calpesta l’umanità”.
11. Bisogni, diritti e obblighi
Un radicale capovolgimento della tradizionale retorica dei diritti umani si ha nelle considerazioni che SW
svolge sui temi dei bisogni, e conseguentemente del rapporto fra diritti e doveri (che lei preferisce chiamare
“obblighi”). Partendo dall’individuazione dei bisogni fondamentali dell’essere umano – fra i quali include
anche quelli di natura spirituale, ed in particolare l’originalissimo tema del “radicamento”, inteso in molteplici
significati – ella pone in primo piano il tema dell’obbligo che ciascuno di noi ha nei confronti di ogni suo
simile, in nome del principio kantiano della dignità dell’essere umano, che deve sempre essere considerato
e trattato come un fine e mai come un mezzo.
Prima – e al posto dei - diritti si deve dunque parlare di obblighi. Molto più del diritto vale il rispetto autentico
che si deve ad ogni essere umano. E del resto sui diritti lei ha una posizione molto originale: ritiene che si
tratti di una “invenzione” storica, di un artificio – certo meritorio e dalle conseguenze positive – che non ha
solide basi in natura, e che è sempre suscettibile di trasformazioni e modificazioni anche radicali. In altri
termini, se i diritti sono storicamente determinati e condizionati, non possono essere quindi considerati
universali, assoluti ed immutabili. In definitiva, “si conservano i propri diritti solo se si è capaci di esercitarli”.
“I diritti appaiono sempre legati a date condizioni. Solo l’obbligo può essere incondizionato…perchè è al di
sopra di questo mondo… Gli uomini del 1789 riconoscevano solo la realtà delle cose umane. Per questo hanno
cominciato con la nozione di diritto. Ma nello stesso tempo hanno voluto porre dei principi assoluti. Questa
contraddizione li ha fatti cadere in una confusione di linguaggio e di idee che in gran parte ritroviamo
nell’attuale confusione politica e sociale”.
“La nozione di obbligo predomina su quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace
di per sé, ma solo attraverso l’obbligo corrispondente; l’adempimento effettivo di un diritto non viene da chi
lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono – nei suoi confronti – obbligati a qualcosa…un diritto
che non è riconosciuto da nessuno non vale molto… Un uomo, considerato per se stesso, ha solo dei doveri,
fra i quali si trovano certi doveri verso se stesso...Un uomo, che fosse solo nell’universo, non avrebbe nessun
diritto, ma avrebbe degli obblighi”.
“L’oggetto dell’obbligo, nell’ambito delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo
verso l’essere umano per il solo fatto che è un essere umano…Quest’obbligo è eterno. Risponde al destino
eterno dell’essere umano. Soltanto l’essere umano ha un destino eterno. Le collettività umane non ne hanno.
Quindi, rispetto a loro non esistono obblighi diretti che siano eterni”.
“la possibilità dell’espressione indiretta del rispetto verso l’essere umano è il fondamento di ogni obbligo.
L’obbligo ha come oggetto i bisogni terrestri dell’anima e del corpo degli esseri umani…ogni bisogno
costituisce l’oggetto di un obbligo… i bisogni di un essere umano sono sacri…si tratta di bisogni sia dell’anima
che del corpo… l’anima umana ha bisogno di eguaglianza e di gerarchia… la gerarchia è la scala delle
responsabilità… l’anima umana ha bisogno di obbedienza consentita e di libertà …ha bisogno di verità e di
libertà di espressione…ha bisogno per un verso di solitudine e di intimità, per l’altro di vita sociale…ha bisogno
di proprietà personale e collettiva…che considera come prolungamento di sé e del corpo… ha bisogno di
castigo e di onore. Ogni essere umano che il crimine ha estromesso dal bene ha bisogno di esservi reintegrato
mediante la sofferenza… ha bisogno di partecipazione disciplinata a un compito condiviso di pubblica utilità,
e ha bisogno di iniziativa personale in questa partecipazione… ha bisogno di sicurezza e rischio… ha bisogno
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
sopra ogni altra cosa di essere radicata in molteplici ambienti naturali e di comunicare tramite loro con
l’universo”l.
SW aggiunge anche che in generale ”Tutti gli uomini sono pronti a riconoscere una morale rigorosa quando
non si tratta di applicarla. L’affermazione del cristianesimo non ha cambiato niente”.
12. Il confronto con il marxismo
“potrete dire che è a casa vostra che è stata fondata la IV Internazionale” (Leo Trotzkij a Simone Weil, 1934)
Pur mostrando un grande rispetto per la figura morale e per il pensiero di Marx - che distingue nettamente
da quello dei suoi continuatori teorici e pratici (“il pensiero di Marx differisce sensibilmente da quello dei
marxisti” (1939);“tutta l’opera di Marx è impregnata di uno spirito incompatibile con il materialismo
grossolano di Engels e di Lenin”) SW, oltre che criticare diversi aspetti importanti della sua dottrina non
condivide affatto l’impostazione generale del marxismo inteso come programma politico.
“Marx non spiega perché l’oppressione è invincibile finché è utile. Né perché gli oppressi in rivolta non sono
mai riusciti a costituire una società non oppressiva”. SW ritiene che il marxismo sia un surrogato di religione,
che Marx abbia sacrificato il rigore scientifico delle sue analisi del capitalismo e della società borghese al suo
sogno umanitario di liberazione degli oppressi, ponendo i suoi desideri al posto della realtà e consegnando
così la classe operaia ad una grande illusione di palingenesi, destinata ad essere amaramente smentita: “Nulla
legittima l’affermazione secondo cui - come diceva Marx - gli operai hanno una missione, una finalità storica;
che a loro compete di salvare l’universo…Come gli schiavi, come i servi, gli operai sono degli sventurati,
ingiustamente infelici; è bene che si difendano, sarebbe bello che si liberassero, non c’è nulla da dire di più”
(1937); addirittura: “le masse non pongono dei problemi, e tanto meno li risolvono; esse non organizzano né
costruiscono alcunchè… le loro aspirazioni portano il contrassegno del regime [sotto cui vivono]” (1937).
Anche sul terreno dell’analisi del sistema capitalistico SW va oltre Marx, cogliendo correttamente i grandi
mutamenti intervenuti nel sistema di produzione e nel regime proprietario: “ai nostri giorni è la funzione, e
non la proprietà, che fa la potenza economica”; “il nocciolo della questione è la grande industria e non il
regime della proprietà”. Oltretutto “la proprietà borghese non esiste più. Ampliandosi, la vera proprietà è
scomparsa”. Deve allora concludere: “ma neppure Marx ci è più caro della verità” (1933).
Quel che è peggio è stato che il socialismo marxista è rimasto subalterno al feticcio del produttivismo
capitalista, e dell’idea illuminista di un progresso fatale ed inevitabile: “anche il socialismo mette gli uomini
al servizio del progresso…della produzione”.
13. La rivoluzione
“non è necessario sperare per intraprendere” Guglielmo I d’Orange (1544-1584)
L’interesse per la rivoluzione occupò gli anni giovanili di SW, che fin da piccola aveva mostrato di avere una
acutissima sensibilità sociale e politica. Negli anni di insegnamento si accostò al sindacalismo rivoluzionario
(“la vera organizzazione rivoluzionaria è il sindacato”) e ai partiti di sinistra – in particolare quello comunista;
ma ben presto si rese conto dei limiti teorici e pratici delle loro posizioni, e progressivamente se ne distaccò.
Appassionatasi alla questione operaia, volle andare a verificare in prima persona, sulla propria pelle, la realtà
della condizione del lavoro di fabbrica, lavorando per alcuni mesi in alcune aziende meccaniche della regione
parigina. Ne ricavò una visione molto pessimistica sulle possibilità di una reale emancipazione del lavoro e di
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una effettiva eliminazione della oppressione – dovuta a suo parere più a condizioni oggettive, strutturali del
sistema sociale che non alla malvagità umana.
Espresse in modo accorato tutta la sua delusione per l’inadeguatezza delle forze rivoluzionarie del tempo:
“io soffoco dentro questo movimento rivoluzionario dagli occhi bendati… la rivoluzione è un lavoro, un
compito metodico che non può essere fatto da ciechi”. E arrivò a dire: “non la religione, ma la rivoluzione è
oppio del popolo”, denunciando con forza “il grave pericolo della rivoluzione come fuga da se stessi”.
Ammoniva infatti che “raramente le credenze che danno conforto sono al tempo stesso ragionevoli” e che “la
speranza nella rivoluzione è sempre uno stupefacente”; quindi “non bisogna costruirsi paradisi illusori…”.
Su questi temi ebbe modo di scontrarsi anche con la posizione di Georges Bataille e di altri surrealisti, che
concepivano la rivoluzione come una grande festa dello spirito e dei sensi, come una liberazione generalizzata
degli istinti: “per lui [Georges Bataille] la rivoluzione è il trionfo dell’irrazionale, per me del razionale, per lui
una catastrofe, per me un’azione metodica di cui ci si deve sforzare di contenere i danni; per lui la liberazione
degli istinti… per me una moralità superiore”; non una specie di carnevale, dunque, ma un lavoro quotidiano,
paziente, da talpa, dentro il tessuto della società.
SW critica duramente ogni impostazione ideologica astratta dei problemi rivoluzionari: “agiamo, lottiamo,
sacrifichiamo noi stessi e gli altri in nome di astrazioni cristallizzate”; e “solo dei sacerdoti possono pretendere
di misurare il valore di un’idea dalla quantità di sangue che essa ha fatto scorrere”.
Le grandi idee di cambiamento vanno sempre sottoposte al vaglio della realtà, prima di mandare allo
sbaraglio le masse oppresse: “a spiriti assai grandi, assorbiti dall’elaborazione di idee nuove, manca il tempo
per sottoporre ad esame critico ciò che hanno scoperto”.
“Il fascino della rivoluzione porta a dire che la situazione è oggettivamente rivoluzionaria; manca solo quel
dato soggettivo, come se il dato soggettivo che dovrebbe trasformare il regime non fosse un carattere
‘oggettivo’ della situazione attuale…”.
Perciò sarebbe irresponsabile e criminale forzare i lavoratori ad avventure azzardate e pericolose: “l’idea, da
parte di alcuni comunisti, di rendere miserabili gli operai per costringerli alla rivoluzione mi farebbe orrore…
io voglio aiutarli, se posso, non spingerli a farla”; e ammonisce: “non si può essere rivoluzionari se non si ama
la vita, nulla ha valore se la vita umana non ne ha”.
Si convinse presto che i conati rivoluzionari erano destinati inevitabilmente al fallimento (“la parola
rivoluzione è una parola per la quale si uccide, per la quale si muore, per la quale si mandano le masse popolari
alla morte, ma che non ha alcun contenuto”) – o ad inaugurare una forma di oppressione ancor peggiore, se
non si fossero fondati su una profonda rivoluzione (questa sì) nell’organizzazione della produzione e della
tecnica. Alla base di tutto ella metteva infatti il problema della conoscenza, del controllo cosciente di ogni
lavoratore sull’intero sistema di produzione. Anche qui “la questione sta nel trovare il modo di formare
un’organizzazione che non generi una burocrazia. Perché la burocrazia tradisce sempre. E l’azione non
organizzata resta pura, ma fallisce”.
Certamente non basta dare il potere agli oppressi, rovesciando il vigente sistema di classe: “han creduto che
dando il potere agli oppressi si distrugga il male. Sogno impossibile…non si esce dalla coppia oppressionedominazione”; anzi, per avere qualche speranza di potersi consolidare “una rivoluzione deve appoggiarsi,
dopo il successo, sugli elementi che l’hanno combattuta, ed eliminare quelli che l’hanno favorita”…
La sua analisi delle illusioni rivoluzionarie è spietata e nello stesso tempo dolente: “L’illusione della rivoluzione
consiste nel credere che le vittime della forza siano innocenti riguardo alle violenze che si verificano - e quindi,
se si mette la forza nelle loro mani, esse ne faranno un uso giusto. Ma, se si eccettuano quelli che sono almeno
assai prossimi alla santità, le vittime sono macchiate dalla forza quanto i carnefici. Il male che è
all’impugnatura della spada si trasmette alla punta. E così le vittime, pervenute ai fastigi e inebriate dal
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cambiamento, fanno altrettanto o più male, poi ricadono ben presto. […] Il socialismo consiste nel collocare
il bene nei vinti; il razzismo, nel collocarlo nei vincitori. Ma l’ala rivoluzionaria del socialismo si serve di quelli
che, benché nati in basso, sono per natura e per vocazione vincitori; e così approda alla stessa etica”.
La valutazione degli sviluppi della rivoluzione effettivamente attuata in Russia la confermò ancora di più nel
suo punto di vista radicalmente critico: “l’URSS, una dittatura burocratica, militare e poliziesca che di
socialista e comunista non ha altro che il nome”; “bisogna considerare il regime staliniano non come uno
stato operaio che non funziona, ma come un meccanismo sociale diverso” (1933); “l’URSS non ha più alcun
titolo per essere considerata la patria socialista” (1933). Alla fine, “anche il capitalismo è preferibile allo stato
totalitario, tipo l’URSS”.
Il suo giudizio sullo stato sovietico non concede nessuna attenuante; non è mai giusto infatti “opprimere nella
speranza di liberare, come ha fatto Lenin”. Radicale è la sua critica anche nei confronti di chi – come Trotzkij
– fu vittima dello stalinismo, ma non seppe prendere le distanze da una rivoluzione nata male, da presupposti
sbagliati, fin dall’inizio (per SW “il corso staliniano fu uno sviluppo naturale della rivoluzione d’ottobre”).
Trotzkij a sua volta la accusò di «esaltazione anarchica a buon mercato» e di essere vittima «dei pregiudizi
piccoloborghesi più reazionari». Pur nella tragica situazione politica degli anni dell’affermazione di Hitler SW
affermò senza esitazioni “mi rifiuto di stare al gioco dello stato maggiore russo con il pretesto della lotta
antifascista”.
Così, nella fase più matura del suo pensiero si spostò su posizioni di un riformismo, radicale nei suoi
presupposti e nei contenuti, ma dai connotati gradualistici. E di fronte alla prevedibile prospettiva di una
sconfitta epocale del movimento rivoluzionario concludeva sconsolata: “Se, come tutto lascia credere,
dobbiamo perire, facciamo in modo di non perire senza essere esistiti” (1933).
14. La guerra
Le analisi di SW sul fenomeno della guerra sono di una profondità straordinaria; esse vanno a ricercarne i
presupposti psicologici, economici, culturali, politici, in una interconnessione fra le diverse dimensioni.
Da quando l’uomo ha sostanzialmente vinto la sua battaglia contro la natura, la sua carica aggressiva si è
spostata nella guerra contro i suoi simili: “le fatiche e le privazioni diventate inutili nella lotta contro la natura
verranno assorbite dalla guerra”; “la guerra ed eros sono le due fonti di illusione e menzogna fra gli uomini.
La loro mescolanza è la massima impurità”.
Il guaio è che “la guerra è il principale motore della vita sociale… la guerra è fatta di prestigio”. Come il potere,
è fondata su illusioni, sull’immaginazione, su fantasmi di potenza (“la guerra è il trionfo del sogno sulla
realtà”).
C’è un nesso essenziale fra guerra ed oppressione sociale: “le guerre costituiscono l’ingranaggio essenziale
del meccanismo dell’oppressione”; infatti “la guerra è in primo luogo un fatto di politica interna”.
Contrariamente a ciò che si crede “i conflitti più minacciosi…non hanno un obiettivo definibile”; infatti “la
guerra cancella ogni idea di scopo, persino l’idea degli scopi della guerra”. Essa insomma si autogiustifica, è
autoreferenziale; e così in definitiva “quando si fa la guerra è per conservare o accrescere i mezzi utili per
farla”; “bisogna giudicare la guerra dai mezzi violenti che impiega, non dagli obiettivi a cui mirano questi
mezzi”.
ll fascino sinistro che la guerra presenta agli occhi di molti è dovuto anche al fatto che “gli uomini alla guerra
se ne vanno come a giocare, come a trascorrere una vacanza fuori dagli obblighi della quotidianità”. E’ come
una grande vacanza, una fuga di massa dalle responsabilità, dalle preoccupazioni e dalla noia del quotidiano.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Sulla guerra SW prese posizione in tutti i momenti della sua vita; partita da un pacifismo intransigente e
assoluto, frutto delle suggestioni venutele dalla prima guerra mondiale e dai suoi strascichi, approdò
successivamente ad un punto di vista molto più articolato, fino ad arrivare – quando la politica della Germania
nazista si manifestò in tutta la sua aggressività – a scegliere apertamente di accettare l’uso delle armi per
fermare Hitler.
Insomma, il pacifismo di SW, rimasto sostanzialmente intatto nei suoi fondamenti, ebbe una sua significativa
evoluzione in senso pragmatico: “Amate i vostri nemici non ha niente a che fare con il pacifismo e il problema
della guerra… Se sono pronta ad uccidere i Tedeschi in caso di necessità strategica, non è perché ho sofferto
a causa loro… E’ perché sono nemici di tutte le nazioni della terra… e disgraziatamente non si può impedire
loro di fare il male senza ucciderne un certo numero” (1943)
Partecipò infatti alla guerra di Spagna, sia pure per breve tempo e senza effettivamente combattere – e aderì
alla Resistenza francese, prima nella Francia di Vichy e poi in Inghilterra, chiedendo insistentemente di essere
inviata in patria a compiere missioni rischiose.
Interessanti sono infine le sue osservazioni sul rapporto fra rivoluzione e guerra, ispiratele dalle vicende della
rivoluzione francese e poi di quella sovietica: “La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione e lo sarà
sempre fino a quando non si sarà dato ai soldati, o piuttosto ai cittadini armati, la possibilità di fare la guerra
senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza leggi eccezionali, senza punizioni per i disertori.
Una volta sola nella storia moderna la guerra è stata fatta in questo modo, sotto la Comune [...] Entrata in
guerra la rivoluzione però soccombe sotto i colpi della controrivoluzione e diventa controrivoluzione per
effetto stesso della lotta militare”. Da queste frasi si capisce come l’atteggiamento di SW sia in sostanza più
antimilitarista che strettamente pacifista.
15. Lo stato, la politica, i partiti
SW analizza la struttura ed il funzionamento degli stati inquadrandoli in una prospettiva molto ampia, al di là
dell’orizzonte strettamente politico, e riportandoli alla fondamentale esigenza umana di radicamento e di
identità: “ai tempi nostri il denaro e lo stato hanno sostituito tutti gli altri legami… il bene più prezioso
dell’uomo nell’ordine temporale, cioè la continuità nel tempo, al di là dei limiti dell’esistenza umana, è stato
interamente rimesso allo stato”. Dallo stato risale poi al principio nazionale, colto in tutte le sue ambiguità:
“la nazione non esiste; come potrebbe essere sovrana?”; “mentre l’orgoglio della grandezza nazionale è per
natura esclusivo e non trasferibile, la compassione è per natura universale… l’orgoglio nazionale, nella
prosperità come nella sventura, è incapace di suscitare una fraternità reale e calda”; di conseguenza “la
nozione giuridica di nazione sovrana è incompatibile con l’idea di un ordine internazionale”.
Passa poi a considerare il nodo fondamentale della centralizzazione del potere nelle mani dello stato,
denunciata come il male fondamentale: “ogni stato centralizzato e sovrano è in potenza conquistatore e
dittatoriale”; “uno stato totalitario è più atto a schiacciare i propri sudditi che a conquistarne molti altri”. Ma
nello stesso tempo, e paradossalmente, “l’eccesso stesso di centralizzazione indebolisce il potere centrale”.
L’esperienza fatta nei sindacati e nei partiti di sinistra convinse sempre più SW dell’inadeguatezza del vigente
modo di fare politica, anzi della sua negatività. In esso “l’operazione di prendere partito si è sostituita
all’obbligo di pensare”. Ed è stata proprio la mancanza di un pensiero pensante a rendere possibile la
costituzione dei fascismi e dei regimi totalitari.
La sua veemente polemica si concentra soprattutto sui partiti, che considera come strumenti di oppressione
delle masse, come macchine autoritarie che soffocano il libero pensiero e la libera iniziativa; tanto da
giungere ad invocarne la soppressione: “un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva;
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un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di
ognuno degli esseri umani che ne fanno parte; il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito
politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite. Per via di questa tripla caratteristica, ogni partito
è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade perché quelli che lo circondano non
lo sono di meno”. Simone considera i partiti come il caso particolare di un fenomeno che si verifica ovunque
la collettività prenda il sopravvento sugli esseri pensanti: “I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù
del quale in tutta l’estensione di un paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere,
negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità”.
Perciò “l’immediata soluzione pratica è l’abolizione dei partiti politici. La lotta dei partiti è intollerabile… il
partito unico, che ne è l’inevitabile conclusione, è l’estremo grado del male; non resta altra possibilità che
quella di una vita pubblica senza partiti… Una democrazia dove la vita pubblica si riducesse alla lotta fra i
partiti politici non è in grado di impedire l’avvento di un partito capace di distruggerla”.
Eliminare i partiti per sostituirli con che cosa? Su questo SW non è chiara, anche se appare evidente la sua
simpatia per forme di organizzazione politica dal basso, autonome, orizzontali, di matrice anarchica. Ma essa
è ben consapevole di non avere una soluzione per questo enorme problema della costruzione e del
mantenimento della democrazia. Una democrazia che avverte come intrinsecamente debole ed indifesa di
fronte agli attacchi che le vengono portati: “la democrazia non oppone alcun baluardo ai dittatori”; “il
meccanismo stesso della democrazia può essere utilizzato per sopprimere questi diritti”. In effetti “il numero
è una forza nelle mani di chi può disporne, non in mano a quelli che ne sono parte”.
Con gli anni SW maturò una sfiducia sempre più profonda nel sistema politico, in tutti i suoi aspetti, e nello
stato nelle sue varie forme politiche. Amaramente convinta che “tutte le organizzazioni operaie hanno
completamente fallito,” giunse a questa conclusione: “data la situazione, sono ben decisa a non partecipare
più a niente nell’ambito politico e sociale”; “ho deciso di ritirarmi del tutto da ogni specie di politica, salvo per
quel che riguarda la ricerca teorica. Ciò non esclude per me nel modo più assoluto l’eventuale partecipazione
ad un grande movimento di massa spontaneo (nei ranghi, come soldato), ma non voglio nessuna
responsabilità per quanto piccola, neppure indiretta, perché sono sicura che tutto il sangue che verrà versato
verrà versato invano, e che si è battuti in partenza” (1934).
In realtà il suo impegno continuò, in forme diverse, fino al termine della sua vita, ma tenne fermo il suo rifiuto
di aggregarsi a qualsiasi organizzazione politica, da lei giudicata sempre autoritaria ed oppressiva. Era arrivata
peraltro alla convinzione che “l’opposizione tra fascismo e comunismo non ha rigorosamente alcun
senso…sono due concezioni politiche e sociali quasi identiche”; ”quante volte in Germania, nel 1932, un
comunista e un nazista, parlando per la strada, devono essere stati colti da vertigini mentali constatando che
erano d’accordo su ogni punto!”. La sua amara constatazione finale è “quasi tutti amano un totalitarismo e
ne odiano un altro”, perché i totalitarismi non sono che sono surrogati delle religioni.
16. Il futuro dell’Europa e del mondo
Nel suo ultimo anno di vita, ed in particolare nei mesi in cui visse a Londra in contatto con la resistenza
francese in esilio, SW fu coinvolta nei progetti politico-costituzionali che si andavano elaborando in vista della
situazione del dopoguerra. Stese perciò alcuni piani per una Francia nuova, e ancor più per una nuova Europa,
che rompesse definitivamente con quella sua malattia morale e politica che aveva spianato la strada ad Hitler.
La sua preoccupazione per il futuro dell’Europa la assillò nell’ultima fase della sua esistenza e le ispirò alcune
proposte anticipatrici, ispirate ai principi del federalismo e dell’integrazione, e di un nuovo rapporto paritario
con le ex-colonie: “l’ordine internazionale postula che si stabilisca un certo federalismo non solo fra le nazioni,
ma all’interno di ogni grande nazione”.
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Diede a mo’ di testamento una grande lezione di moralità politica: “la vittoria di quelli che difendono con le
armi una causa giusta non è necessariamente una vittoria giusta; una vittoria è più o meno giusta non in
funzione della causa che ha spinto a prendere le armi, ma in funzione dell’ordine che si instaura una volta che
le si è deposte… i vincitori accettino per se stessi la trasformazione che avrebbero imposto ai vinti”.
Proprio per scongiurare il risorgere dei nefasti nazionalismi che avevano portato due volte l’Europa alla
catastrofe SW arrivò ad affermare di “vedere un ulteriore pericolo nell’insediamento ebraico in Palestina:
perché creare una nuova nazione? Già soffriamo per l’esistenza di giovani nazioni, nate nel XIX secolo,
animate da un nazionalismo esasperato… Allo stesso modo, non bisogna dare vita a una nazione che, fra
cinquant’anni, potrà diventare una minaccia per il Medio Oriente e per il mondo” (Gabriel de Tarde 1938).
17. La scienza, la conoscenza, la verità
“una scienza che non ci accosta a Dio non vale niente” Simone Weil
“ogni progresso delle scienze non serve che a ottenebrare” Simone Weil
SW ebbe sempre un grande interesse per la scienza, soprattutto per le matematiche (di cui suo fratello fu
uno dei maggiori esponenti a livello internazionale); coltivò in particolare l’algebra e la geometria, ma si
interessò anche di scienze naturali, di fisica, di chimica, di meccanica.
Pensava che la scienza nascesse dalla contemplazione della bellezza del mondo (“la scienza è lo studio della
bellezza del mondo”), e quindi fosse qualcosa di più che semplice conoscenza; infatti “è a partire dalla
religione che si è sviluppato il pensiero umano, compresa la scienza più positiva”. Addirittura arrivò a dire:
“l’investigazione scientifica non è che una forma della contemplazione religiosa”. Proprio per questo suo
rapporto originario con la contemplazione religiosa “L’amore della verità è sempre accompagnato da umiltà”,
perchè “è la relatività che costituisce il valore della conoscenza”.
La natura della verità è del tutto particolare: “la verità non si trova mediante prove, ma mediante
esplorazione; essa è sempre sperimentale”; ed il suo culmine è nell’esperienza-limite a cui un essere umano
possa arrivare, quella mistica. La verità a cui pensa SW è infatti ciò che i greci chiamavano aletheia: un
concetto che apre a un modo di pensare religioso, all’idea di una “rivelazione”.
SW mette in questione tutto il modo con cui il pensiero razionalista della modernità occidentale si è
rapportato al mondo: “L’indagine della Weil si addentra anche nel piano della percezione, nodo fondamentale
della filosofia occidentale moderna, da Cartesio a Kant e agli Idealisti: l’errore nel processo conoscitivo,
secondo la pensatrice francese, si realizza allorquando si vuole colmare un vuoto, non accettando l’alterità
del mondo in sé, per come si pone: «La condizione (per discernere il reale dall’illusorio, ndr) è che l’attenzione
sia uno sguardo e non un attaccamento. L’attaccamento fabbrica illusioni, e chiunque vuole il reale deve
essere distaccato» (Giulia Rioli)
Questa concezione non intellettualistica, ma concreto-pratica della verità fa dire a SW che “la dignità del
pensiero umano consiste nell’andare dall’astratto al concreto mediante le idee universali”; cioè che la vera
conoscenza procede non dal concreto all’astratto, come ci hanno sempre abituato a pensare, ma al contrario
dall’astratto al concreto, all’individuale. Ciò la porta a denunciare quella che a lei appare la deriva formalistica
della scienza moderna. Questa in origine è stata la conseguenza inevitabile del modo di procedere della
mente umana nel suo rapporto col mondo: “l’uomo è re quando manipola i propri simboli, mentre è
completamente impotente davanti alla natura. L’uomo non può costruire mettendo direttamente mano al
mondo, può ritornare al mondo quando ha costruito astrattamente”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
I testi di SW, in particolare i suoi “Quaderni”, sono fitti di pagine e pagine di riflessioni sulla matematica
(aritmetica, geometria, algebra) e di tentativi di mettere in relazione le sue leggi con quelle del mondo fisico
e con quelle dell’uomo sociale. Sono arditi sforzi del pensiero che derivano dalla sua profonda convinzione
secondo cui “la matematica eterna…è la stoffa di cui è tessuto l’ordine del mondo”; “la matematica è bella
come non lo è nessuna opera umana”. Richiamandosi apertamente e sistematicamente alla scienza
pitagorico-platonica ribadisce anche a proposito delle matematiche la sua ferma persuasione della affinità
fra queste e la religione: “la geometria greca e la fede cristiana sono scaturite dalla stessa fonte”; a riprova
porta un esempio: “la costruzione geometrica della media proporzionale tra un numero e l’unità, centro della
geometria greca, era il simbolo della mediazione divina tra Dio e l’uomo”, perché “il numero è l’intermediario
fra l’uno e l’illimitato”. SW individua nel cerchio e nel moto circolare – contrapposti alla linea retta ed al
movimento rettilineo in cui si è riconosciuta la scienza occidentale moderna – il simbolo dell’eternità e
dell’assoluto, del divino: “l’uomo ha nostalgia del cerchio. Newton ha compiuto una specie di crimine
vanificando la nozione di movimento rotatorio”. Vorrebbe che l’uomo moderno ritrovasse quell’antica
saggezza, depositata sia nei testi scientifico-religiosi della Grecia presocratica che nelle filosofie e religioni
dell’India e della Cina, che vede nell’armonia del circolo l’unità degli opposti e la sintesi delle contraddizioni.
Proprio per la grande considerazione in cui teneva la scienza fu molto preoccupata per la tendenza che essa
era andata assumendo nel mondo contemporaneo. Riteneva infatti che avesse deviato dalla retta via,
allontanandosi sempre più dalla conoscenza comune, e costituendosi come un mondo a sé, esoterico, chiuso
in un suo linguaggio formale lontano dalla realtà e incomprensibile ai più: “il rapporto fra segno e cosa
significata scompare. Il gioco dello scambio tra i segni si moltiplica da sé e per sé...E la complicazione crescente
esige segni di segni…”; “quando si affida il coordinamento delle idee ai segni, la mente abdica alla sua capacità
di pensare. E’ così che le matematiche sono diventate una pratica, un’arte di manipolare i segni, e come ogni
pratica costituiscono un mistero assolutamente opaco per i profani, un monopolio cui corrisponde un potere
temporale”. Appare quindi chiara “la lontananza della Weil dalla scienza moderna, che vide soggetta alla
categoria dell'utile ed esposta allo scientismo” (Marco Vannini).
L’allontanamento crescente del sapere scientifico da quello ordinario le appariva come uno dei grandi mali
del secolo, accanto alla separazione del lavoro manuale da quello intellettuale ed alla espropriazione dei
lavoratori dal lavoro stesso. Ciò le appariva tanto più grave quanto più la scienza si trovava ormai ad occupare
nella sensibilità collettiva quel ruolo di guida e rassicurazione già svolto nei secoli dalla religione: “le masse
lavoratrici si trovano così costrette a credere come sono obbligate ad obbedire. La religione, ai nostri giorni,
non è più sufficiente ad assolvere a questo ruolo, e la scienza ha preso il suo posto“ (1933).
In ogni caso, per SW la verità non è di casa in questo mondo, dominato – avrebbe detto Platone dall’opinione: “La verità è troppo pericolosa da afferrare. E’ come un esplosivo”. Di conseguenza “la verità e
la sventura sono entrambe mute… la verità è sventurata. Perché soltanto l’eloquenza è felice quaggiù”.
18. La Bellezza, il Bene, la Verità
“finchè ci sono cose come il mare, le montagne, il vento, il sole, le stelle, la luna, il cielo non si può essere
infelici del tutto… e anche se si fosse privi di questo e chiusi in una prigione, il solo sapere che queste cose
esistono, che sono belle, che altri ne gioisce liberamente deve sempre essere una consolazione” (lettera ad
Antonio Atarès 1940)
Come in Platone, come poi nella Scolastica medievale, Bellezza, Verità e Bene si tengono insieme in Dio, di
cui sono espressioni: “per me non c’è gioia più grande che guardare il cielo in una notte limpida, con
un’attenzione così concentrata che tutti gli altri pensieri scompaiono; si ha allora l’impressione che tutte le
stelle entrino nell’anima”. Del resto “in un giardino non abbiamo forse…tutto l’universo?”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
La bellezza è tramite fondamentale fra l’uomo e Dio: “io credo che il mistero del bello sia un riflesso sensibile
del mistero della fede”; la bellezza disseminata nell’universo è il segno della presenza di Dio, la traccia del
Bene: “la bellezza è l’eternità di questo mondo”; “due cose irriducibili ad ogni razionalismo: il tempo e la
bellezza”.
La natura della bellezza è però elusiva, sfuggente, misteriosa; SW insiste continuamente sul rapporto fra
bellezza e distanza: “la bellezza è come uno specchio, che ci rimanda il nostro desiderio di bene. E’ una sfinge,
un enigma, un mistero dolorosamente irritante. Vorremmo nutrircene, ma essa si offre solo al nostro sguardo
ed è visibile solamente a una certa distanza”; “l’attrazione della bellezza è un’attrazione che tiene a distanza”;
“la distanza è l’anima del bello”; “bellezza: un frutto guardato senza tendere la mano; “bello è ciò che non si
può voler mutare. Il predominio su qualcosa è insozzare. Possedere è insozzare” “il bello è ciò che si desidera
senza volerlo mangiare. Desideriamo che sia”; “guardare invece di mangiare…”Nello stesso tempo per la
nostra anima “La bellezza…è un nutrimento” spirituale.
La bellezza inoltre è strettamente associata al dolore, alla sventura; entrambi sono i simboli fondamentali
attraverso i quali Dio si lascia intravedere nel mondo: “affinità del bello e del dolore”.
La bellezza è anche legata alla fragilità; per questo va riguardata con un particolare rispetto: “la vulnerabilità
delle cose preziose è bella”; “la compassione per la fragilità è sempre legata all’amore per la vera bellezza”.
SW si spinge fino a dire: “io insozzo il silenzio del cielo e della terra con il mio respiro”; quindi “la concupiscenza
ispirata dalla bellezza di un volto e di un corpo non è l’amore che questa bellezza si merita; è una specie di
odio che afferra la carne davanti a ciò che è troppo puro per essa”.
La bellezza è qualcosa di fine a se stesso: “soltanto la bellezza non è un mezzo, essa sola è buona in se
stessa…sembra che sia in se stessa una promessa e non un bene; offre solo se stessa…; poiché è l’unica finalità,
la bellezza è presente in tutte le ambizioni umane”. Non dev’essere per noi un oggetto, qualcosa da
possedere: “insegnamento dell’opera d’arte: è vietato toccare le cose belle…non appropriarsi di ciò che si
ama, rifiutare la potenza”.
La bellezza è sacra, è qualcosa di terribilmente serio; per questo “il punto di vista degli esteti è sacrilego…
Esso consiste nel divertirsi con la bellezza, manipolandola e guardandola.”; “la ricerca della sensazione implica
un egoismo che mi fa orrore”.
La bellezza ispira quanto di più alto c’è in noi; ed è anche – anche se noi non lo sappiamo – all’origine dei
desideri più bassi dell’uomo, dei vizi e delle depravazioni, che sono modi distorti di inseguire quell’assoluto
che è nascosto nella bellezza: “forse i vizi, le depravazioni, i delitti sono…nella loro essenza, tentativi di
mangiare la bellezza, di mangiare ciò che bisogna soltanto guardare. Aveva cominciato Eva”; “l’uomo che si
crede succubo del piacere in realtà è succubo dell’assoluto che egli vi attribuisce”.
La Verità a sua volta non ha una valenza concettuale, ma si coglie piuttosto attraverso le esperienze vissute
della bellezza e dell’amore. Essa non è un oggetto esterno al nostro intelletto, ma è presente nel più intimo
di noi stessi. È Dio in noi. Ma proprio perché è dentro di noi non ci accorgiamo di essa; ci servirebbe quindi
un di più di attenzione per coglierne la presenza. La verità è accessibile a qualsiasi essere umano, purchè si
ponga nelle condizioni necessarie per poterla accogliere: “ Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi d’improvviso
e per sempre la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle,
penetra in questo regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità e faccia un continuo sforzo
d’attenzione per raggiungerla: in questo modo diventa egli pure un genio, anche se per mancanza di talento
non può apparire tale esteriormente (…) Il concetto di verità comprendeva per me anche la bellezza, la virtù
e ogni sorta di bene”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Nel suo ultimo messaggio ai genitori scrisse: “Non siate ingrati verso le cose belle. Godete di esse, sentendo
che durante ogni secondo in cui godete di loro, io sono con voi... Dovunque c'è una cosa bella, ditevi che ci
sono anch'io”.
E’ chiaro che SW attribuisce alla bellezza un ruolo centrale nella sua concezione del mondo: è la bellezza,
molto più che la scienza, ad introdurci al mistero del mondo e di Dio. Il suo amore per il mondo greco classico
nasce proprio dalla convinzione che là si sia elaborata una mirabile sintesi fra bellezza e verità.
19. L’intelligenza, il pensiero
“Quanto più una cosa ci viene vicino, quanto meglio la conosciamo, tanto più misteriosa essa diventa per noi”
Dietrich Bonhoeffer
SW considera il pensiero il contrassegno più alto della dignità dell’uomo. Lo celebra con accenti pascaliani:
“l’uomo non ha nulla di essenzialmente individuale, se non la facoltà di pensare”; “doveri verso se stessi:
subordinare tutto al fine supremo, quello di pensare”; “il pensiero è la condizione di ogni bene”. La
precondizione essenziale perché ci sia il pensiero, l’esercizio effettivo dell’intelligenza, è la libertà: “La
funzione propria dell’intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, senza nulla
dominare. Dovunque essa usurpa il comando, si verifica un eccesso di individualismo. Dovunque si senta a
disagio, c’è una collettività oppressiva”.
Ma la sua nozione di pensiero non è quella del razionalismo occidentale moderno. Noi conosciamo, astraiamo
e formiamo dei concetti partendo sempre dal contatto con il mondo, e non possiamo mai dimenticare questa
genesi "sporca" delle nostre idee, ossia l’origine sensibile e corporea della conoscenza. La mente dipende
strutturalmente dal corpo nel suo contatto con l’esterno. "L’anima è legata al corpo; e mediante il corpo, a
tutto l’universo".
Il pensiero come lo intende SW è profondamente intriso di sensibilità e di affettività; un pensiero senza corpo,
sensazioni ed emozioni sarebbe sterile, anzi letteralmente impossibile: “il pensiero è fecondo solo quando
comincia con un sentimento”; “le affezioni dominano i pensieri”. Queste convinzioni furono rafforzate dalla
sua dolorosa esperienza personale: “non solo il mio corpo, ma la mia stessa anima, interamente avvelenata
dalla sofferenza, sono inabitabili per il mio pensiero”. Come dire che se il corpo non funziona a dovere anche
il pensiero inevitabilmente ne soffre. Nella concezione di SW il pensiero perciò, sia allo stato nascente che –
ed ancor più – nei suoi esiti più alti, nelle sue vette mistiche, va ben oltre la dimensione meramente
concettuale-discorsiva-raziocinante.
E’ ancora il pensiero a rendere possibile l’esercizio del rispetto dell’altro, da cui conseguono l’amore
autentico, la carità, la giustizia stessa; occorre infatti “suscitare tra l’impulso e l’atto quel breve intervallo in
cui abita il pensiero. Dove il pensiero non ha posto, nemmeno la giustizia o la prudenza ne hanno”; bisogna
creare sempre in noi “quel tempo di sospensione da cui solamente procede il rispetto verso i nostri simili…”.
Inoltre c’è un nesso essenziale fra pensiero e azione: “il pensiero costituisce una forza…unicamente nella
misura in cui interviene nella vita materiale”; “non si può pensare senza movimento. Dunque si uccidono in se
stessi i pensieri non espressi per mezzo di atti tutte le volte che è possibile esprimerli”. Così l’agire traduce in
atto, dà esistenza ai pensieri, e nello stesso tempo uccide, elimina quelli che non vengono tradotti in atto.
Quello di pensare è un lavoro nel senso più alto del termine, un esercizio metodico e rigoroso, che richiede
una grande onestà intellettuale (“la mia vocazione esige un’assoluta probità intellettuale”); deve essere
aperto a tutti i punti di vista possibili: “metodo di investigazione: quando si è pensato qualcosa, cercare in che
senso sia vero il contrario”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Ma – e qui ancora una volta SW ci sconcerta - “la capacità di scacciare una volta per tutte un pensiero è la
porta dell’eternità”. Dunque il pensiero, oltre un certo limite, finisce per costituire un ostacolo sulla via del
perfezionamento spirituale. Ad un certo punto occorre saperlo superare, metterlo fra parentesi,
neutralizzarlo, per fare spazio alla contemplazione di quella Verità che si situa al di là di qualsiasi sforzo
intellettuale; perché più progrediamo nella conoscenza razionale più ci accorgiamo di penetrare sempre più
profondamente nel mistero.
L’esercizio dell’intelligenza è in definitiva una vera e propria arte. In esso risiede la dignità essenziale
dell’essere umano, al punto che “quel che abbassa l’intelligenza degrada tutto l’uomo”. Ma anch’essa è pur
sempre una facoltà umana, limitata, che deve essere superata e trascesa, per aprirsi alla luce del
soprannaturale, che si trova al di là del pensiero e dell’intelligenza: “La natura dell’intelligenza consiste
nell’essere qualcosa che si annulla esercitandosi. Nulla è più vicino alla vera umiltà di quanto non sia
l’intelligenza. E’ impossibile essere fieri della propria intelligenza quando realmente la si esercita”; “quando
l’intelligenza torna ad esercitarsi di nuovo, dopo aver fatto silenzio per consentire all’amore di invadere tutta
l’anima, si troverà a possedere più luce di prima”; questo perché “l’intelligenza è illuminata dall’amore”, “per
l’uomo è impossibile esercitare pienamente l’intelligenza senza la carità”. SW conclude affermando:
“l’intelligenza si esercita solo nella gioia”, vale a dire nell’amore per il soprannaturale.
20. La persona, l’impersonale, l’umiltà
“l’io è odioso” Blaise Pascal
“il bene è l’unica fonte del sacro” Simone Weil
“C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia fino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei
crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non
del male. E’ questo, prima di tutto, ciò che è sacro in ogni essere umano” Simone Weil
(secondo Simone Weil) “il peccato è la persona, ciò che in noi dice Io” Simone Pètrement
“molto spesso mi sento come una piccola matita nelle mani di Dio. E’ Lui che scrive, Lui che pensa, Lui che
compie ogni movimento” madre Teresa di Calcutta 1979
“vorrei bruciare tutti i documenti che rivelino qualcosa di me” madre Teresa 1956
“c’è dell’eroismo in lei, ma soprattutto…un desiderio folle di anonimato” (Nadia Fusini)
C’è in SW una netta distinzione concettuale fra individuo e persona: in lei questo termine, che il Cristianesimo
ha posto al centro della sua concezione dell’altissima dignità dell’uomo figlio di Dio, assume un significato del
tutto negativo: la persona è la maschera, è una deformazione, è lo schermo che nasconde l’anima autentica
dell’essere umano (“il centro della mia anima è esterno a ciò che chiamo IO”). La persona è il modo in cui si
presenta l’Io nella sua presunzione di essere al centro del mondo. Essa si “realizza” solo quando il prestigio
sociale la gonfia; la sua realizzazione non ha a che fare col sacro, ma con la sua falsa imitazione prodotta dal
collettivo.
E’ proprio l’io-persona che va cancellato (“essere un uomo significa separare l’io e il me, lavoro da perseguire
incessantemente)”. Per SW “l’Io è un termine privo di significato”, “dire Io è mentire”; “quaggiù nessuno ha il
diritto di dire: io”. Bisogna ricollocare l’uomo nel posto che gli compete, riscoprendo quell’umiltà che è la
madre di tutte le virtù, e che consiste nella corretta considerazione di ciò che veramente siamo: “l’umiltà è
la radice di tutte le virtù autentiche”; perfino ”la soddisfazione di sé dopo un’azione è una degradazione di
energia superiore”; “se ci si sorprende a provare soddisfazione di sè dopo un’azione in sé buona…smettere di
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compierla fino a nuovo ordine”. E reciprocamente: “finchè l’orgoglio impedisce di acconsentire a ricevere non
si ha il diritto di donare”.
L’umiltà è anche la forma più autentica di conoscenza, come già pensava il mistico medievale Meister
Eckhart. Essa ci fa capire che “in ciascun uomo vi è qualcosa di sacro; ma non è la sua persona…è lui,
quest’uomo, molto semplicemente”. L’umiltà autentica nasce dalla consapevolezza che “tutto ciò che in me è
prezioso viene da ciò che è altro da me; non come dono, ma come prestito che deve essere continuamente
rinnovato”.
L’impersonale, l’anonimo è il sigillo del sacro in questo mondo: “ciò che nell’uomo è l’immagine stessa di Dio
è la facoltà di rinuncia alla persona”; “tutto quel che chiamo Io dev’essere passivo. L’attenzione sola mi è
richiesta, quella attenzione tanto piena che l’Io vi scompare”. Strettamente legato al tema dell’impersonalità
è il principio dell’azione-non agente, che Simone riprende dalla spiritualità induista. È quel tipo di agire non
legato alla volontà dell’io, ma che nasce dall’obbedienza alla Necessità. E’ una forma di azione in cui “si è
agiti”, spinti da una imperiosa forza superiore. La stessa che fece dire a Madre Teresa di Calcutta “perché
interessarsi tanto a me quando l’opera è tutta Sua? …essa mi è stata data…Io ho dovuto soltanto arrendermi
al Suo progetto, alla Sua volontà. Oggi l’opera è cresciuta perché è Lui, e non io, a compierla attraverso me”.
La consegna che SW ci lascia è “Accettare di essere anonimi…rinunciare al prestigio, alla considerazione”;
perché “ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale”; “le cose
veramente di prim’ordine sono essenzialmente anonime”; ”un’opera è perfetta quando ha in sé qualcosa di
anonimo”.
21. Il limite, l’eccesso, la perfezione
“il furore con cui visse la sua dismisura” Pietro Citati
“sognava la dura purezza verginale delle eroine greche, Elettra ed Antigone” Pietro Citati
“fu una fanatica dell’esattezza, nel pensiero e nella vita” Ingeborg Bachmann
“proporsi mete ideali di vita così alte e così complesse da non poter essere capite, e da non potersi realizzare”
Eugenio Borgna
“il limite è il segno del dominio dell’infinito sull’indefinito” Simone Weil
Il limite è per SW la legge universale che regola tutte le cose, in natura; essa deriva dalla stessa necessità che
domina il mondo: è “la rete di limiti che regge tutte le cose in un unico ordine”; “ogni forza visibile e palpabile
è sottoposta a un invisibile limite che non supererà mai”. Anzi, la condizione stessa perché le cose esistano è
che siano determinate dal limite: “ciò che è illimitato non ha esistenza, se non ricevendo un limite
dall’esterno”. Bisogna “accettare il limite, contemplarlo, e assaporarne tutta l’amarezza”. La stessa libertà è
un limite, in quanto è “necessità superata”. Riconoscere il limite significa di conseguenza comprendere che
“pensare le relazioni vuol dire accettare la morte”.
Ma l’uomo pare non volersi assoggettare a questa legge, perché in lui “la tentazione dell’eccesso è quasi
irresistibile”.
La tendenza all’eccesso nell’uomo deriva dal fatto che – afferma SW : “l’uomo non può consolarsi che non
gli sia dato l’infinito”. La vita e il pensiero di SW si possono anch’esse correttamente inquadrare all’insegna
dell’eccesso, ma un eccesso di natura del tutto particolare: eccesso di amore, eccesso di dedizione, eccesso
nella mortificazione del corpo e nell’annullamento di sé, eccesso nella tensione verso la perfezione.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Ma nel suo pensiero l’idea di limite occupa un posto centrale, di assoluto rilievo. SW trova questo principio
nel pensiero greco, nella grande epica dell’Iliade e nei grandi tragici, oltre che nel pensiero presocratico, in
particolare in Pitagora.
La sua condanna della civiltà moderna si basa proprio sul fatto che questa ha assunto come suo criterio la
dismisura, l’eccesso, la crescita quantitativa senza limite e senza scopo (“la vita moderna è in balia della
dismisura”). Invece “la coscienza del proprio limite è proprio ciò che distingue il genio autentico dall’uomo di
talento” – e dall’uomo comune, in balìa delle sue passioni.
Ritroviamo qui ancora quella logica della contraddizione che anima tutta la filosofia di SW: quell’eccesso che
lei condanna nella storia umana, nell’organizzazione della società e nei comportamenti individuali di
acquiescenza ai desideri ed alle pulsioni istintive, lo coltiva poi nel suo progetto di vita, di ricerca dell’assoluto;
come se solo nella dimensione della ricerca di Dio fosse consentito, anzi richiesto, di non porsi alcun limite:
è la “santa follia” del misticismo. Non c’è dubbio che in SW ci sia stata una tensione perfezionistica (“la
perfezione è un dovere”; “è un’onta non riuscire a dominarsi”), volta al superamento continuo di sé, fino alla
autonegazione: annullare l’io per ritrovarsi in Dio.
22. La donna, la questione femminile
“Benchè composto di donne disarmate, farebbe senza dubbio impressione sui soldati nemici, nel senso che la
loro presenza e la loro resistenza farebbero sentire in modo nuovo e inatteso fin dove giungono da parte
nostra le risorse morali e la risolutezza… Questo corpo femminile costituirebbe precisamente l’evocazione
concreta ed esaltante delle case lontane” (dal “Progetto per la costituzione di un corpo di infermiere di
prima linea” 1943).
Ci sono due vuoti, due grandi “buchi neri” nella riflessione di SW, due zone grigie che sconcertano: la
questione ebraica e la questione femminile. Sulla prima in realtà ella ha scritto molto, ma sempre sul passato
lontano, e in termini storicoculturali e religiosi; silenzio pressochè completo invece sulla terribile tragedia
contemporanea della Shoah. Sulla seconda questione troviamo solo degli accenni, ma nessuna riflessione
esplicita e approfondita, come se intendesse rimuoverla dal suo orizzonte di interessi. La filosofa francese ha
infatti sempre trascurato, anzi rifiutato quando richiesta, di mettere a tema la donna e la sua condizione.
Che ella avesse fin da piccola respinto l’immagine femminile tradizionale, ripudiandone del tutto gli
stereotipi, è noto. D’altra parte sua madre l’aveva educata in modo da favorire in lei lo sviluppo di virtù
soprattutto virili: ”Faccio del mio meglio per incoraggiare in Simone non le grazie della bambinetta, ma la
dirittura del ragazzo, anche a rischio che sembri sgarbatezza”. In famiglia si scherzava affettuosamente sulla
sua volontà di essere trattata come un ragazzo, e anche lei ci giocava. I genitori la chiamavano “Simon”
oppure “il nostro figlio numero due”.
Ma c’è di più: rifiutava l’idea stessa di essere considerata, percepita come una donna; riteneva una sfortuna
l’essere nata tale, una specie di ostacolo sulla via del progetto di vita che si era assegnata – che ai suoi occhi
richiedeva qualità essenzialmente maschili. Del resto, con tutto quello che riuscì a fare nella sua breve vita,
si può capire come non avesse molto tempo per scegliersi i vestiti o il look più adatto per attirare l’attenzione
(lei che del resto puntava sull’anonimato).
Solo negli ultimi anni lasciò trapelare qualche aspetto della sua intima natura femminile, dicendo qualcosa di
più di sé, e lasciando trasparire i suoi desideri più profondi e le sue sofferenze.
Detto questo, resta il fatto che dai suoi testi e dalla sua corrispondenza non emergono i temi della condizione
femminile, delle lotte delle donne: sembrano costituire un pianeta sconosciuto.Appare in effetti che agli
occhi di SW conti piuttosto il genere umano che non quello femminile: come la nazione o altre appartenenze
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
come quelle partitiche anche l’identità sessuale non appariva importante ai suoi occhi, anzi costituiva un
impedimento; ogni forma di particolarismo non faceva per lei.
Eppure Simone Weil rappresenta oggi un punto di riferimento privilegiato per diversi movimenti delle donne
di oggi. In particolare, le deve molto il pensiero filosofico postfemminista centrato sul tema della differenza.
Proprio l’essere andata al di là del femminismo emancipazionista, con l’assunzione della singolarità del corpo
e dei corpi – anime incluse – rende Simone Weil una madre simbolica del femminismo della differenza e della
politica del simbolico.
Leggendo con attenzione i suoi Quaderni, le lettere, il diario di fabbrica, le poesie, e soprattutto il suo
progetto di creare un corpo di infermiere di prima linea, destinate al primo soccorso dei feriti al fronte, si
possono trovare dei segni profondi ed inequivocabili della sua sensibilità squisitamente femminile, fatta di
tenerezza, dolcezza, accoglienza, dedizione assoluta e disponibilità al sacrificio. Colei che non voleva essere
considerata una donna, che rimpiangeva di non essere nata maschio, che rifiutava ogni manifestazione della
femminilità, aveva dentro di sé un’anima di donna generosa e totalmente disinteressata.
Anche il suo misticismo si inscrive perfettamente nella tradizione della grande mistica femminile cristiana,
quella medievale di santa Chiara d’Assisi o di Caterina da Siena, o quella di Teresa d’Avila, di Teresa di Lisieux,
di Edith Stein - filosofa e mistica come lei; o ancora quella a noi contemporanea di una Madre Teresa di
Calcutta – di cui condivide il folgorante corto circuito fra esperienza interiore dell’incontro con Dio e
dedizione totale al prossimo.
La parte femminile di SW trapela dunque indirettamente ma prepotentemente, per chi sa individuarla,
attraverso quello che ha scritto e - ancor più - quello che ha fatto.
23. L’amore e l’amicizia, i rapporti umani, l’educazione
“amate come il sole illumina” Simone Weil
[Secondo SW] “l’amore impersonale, che è compassione, è l’unico sentimento d’amore che sia legittimo, in
quanto ci permette di comunicare con gli altri senza far loro del male, senza mangiarli, senza distruggerli… in
genere il nostro è amore da cannibali…amiamo gli altri come un nutrimento… Il nostro amore per loro non
può essere un amore da proprietari” (Gabriella Fiori)
“L’amicizia è una uguaglianza fatta di armonia” (Pitagora)
Quello dell’amore e dell’amicizia è un altro tema che appare assai controverso e problematico, nella vita e
nell’opera di SW. Da un lato ella esalta l’amore, come via privilegiata per l’accesso al bene e al vero, dall’altro
diffida profondamente di ogni forma d’amore che sia fondata sulla sensibilità e sul sentimento, perché la
ritiene legata al desiderio, quindi alla forza e alla potenza. Ecco che cosa afferma in proposito: “per natura
ogni amore è sadico, Il segno umano è dato dal rispetto”; “dal momento in cui vi è bisogno, desiderio – anche
reciproco – esiste oltraggio”.
Sui sentimenti la posizione di SW è di un rigore e di una intransigenza straordinari: del resto per lei “i
sentimenti veri sono opere d’arte”. L’ideale che delinea esige “…che altri esseri esistano senza dominare né
essere dominati. Quando c’è incontro morale, è amicizia. Quando c’è incontro fisico, è amore. Ma solo nella
misura in cui vi può essere amore senza desiderio. Essere oggetto di desiderio. È questo che genera in me una
repulsione e un’umiliazione fortunatamente invincibili”.
Il suo sguardo sull’amore umano è amaramente lucido, crudo: “L’amore è sempre dominio o servitù”; “Così
è l’amore umano. Si ama solo ciò che può essere mangiato. Quando qualcosa cessa di essere commestibile
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
non lo si ama più e lo si lascia…”. Fondamentalmente, al di là della retorica e delle ipocrisie correnti, “negli
esseri umani noi amiamo la speranza di soddisfare il nostro desiderio”. Ed arriva a scrivere queste parole
terribili: “la morte di un essere amato è orribile perché rivela la verità sulla natura dell’amore che si aveva per
lui”.
Solo l’amore che sappia mantenersi a distanza dal suo oggetto (“amare puramente vuol dire consentire alla
distanza. Adorare la distanza fra sé e l’obiettivo del proprio amore”), che non sia inficiato dalla brama del
possesso (l’amore non è consolazione, è luce”), che rispetti l’altro nella sua dignità, può essere considerato
legittimo. In una lettera ad una studentessa scrive: “Il rischio di diventare arbitro di un’altra esistenza umana,
qualora si sia profondamente amati; non è che si debba fuggire l’amore, ma non bisogna cercarlo, soprattutto
quando si è molto giovani”). SW pensa che proprio nell'amore si annidino il desiderio di dominio (“come
perdonare all’altro di restare altro?”), il narcisismo, l'impurità – e che esso, come la vera amicizia, debba
restare segreto.
Avvertì precocemente in sé una vocazione alla verginità. A proposito del suo rapporto con l’amore confessò:
«Il concetto di purezza, con tutto ciò che la parola può implicare per un cristiano, si è impadronito di me a
sedici anni, dopo che avevo attraversato, per qualche mese, le inquietudini sentimentali proprie
dell'adolescenza. Tale concetto mi è apparso mentre contemplavo un paesaggio alpino e a poco a poco si è
imposto a me in maniera irresistibile”.
Teme che l’amore sensuale possa distrarre dai compiti più elevati della vita, e che possa ridurci schiavi, o
ridurre l’altro nostro schiavo. In realtà SW appare divisa fra un ardente desiderio di amore ed il rifiuto di
consegnarsi ad esso. Si confida ad una amica: “vorrei tanto aver avuto anch’io un amore, una vita felice, ma
non è stato possibile” (1940); ma dice anche a se stessa: “non lasciarti imprigionare da nessun affetto.
Preserva la tua solitudine” (dai “Quaderni”); e ad una sua studentessa scrive: “quando ho avuto la tentazione
di cercar di conoscere l’amore l’ho respinta, dicendo a me stessa che era meglio non rischiare di impegnare la
mia vita in una direzione che non mi era possibile prevedere…”.
Analogamente per l’amicizia: essa è considerata da SW come la relazione umana più elevata e nobile:
“l’amicizia è un miracolo…come la bellezza”; “l’amicizia è il miracolo grazie al quale un essere umano accetta
di guardare a distanza e senza avvicinarsi quello stesso essere che gli è necessario come un nutrimento”;
“l’amicizia è per me un beneficio incomparabile, una sorgente di vita, in senso non metaforico, ma letterale”.
Ma nello stesso tempo afferma che non debba essere ricercata: “l’amicizia non si cerca, non si sogna, non si
desidera; si esercita (è una virtù)”; e soprattutto che non debba avere alcuna connotazione sentimentale:
“l’amicizia esiste soltanto quando è mantenuta e rispettata la distanza.”
In generale, ella sembra considerare quello delle relazioni umane, specialmente di tipo affettivo, come un
campo di contraddizioni, che nasconde insidie e pericoli.
Alla base di questa profonda diffidenza verso l’amore ed i suoi succedanei c’è l’analisi che SW compie sulla
natura contraddittoria del desiderio: “tutti i desideri sono contraddittori…Vorrei che colui che io amo mi ami.
Ma, se mi è totalmente devoto, non esiste più; e io cesso di amarlo. Ma finchè non mi è totalmente devoto,
non mi ama abbastanza…”.
SW indaga a fondo la struttura del desiderio umano: “Noi amiamo le cose per noi. Ma non troviamo
soddisfazione in noi. Il desiderio ci fa uscire continuamente da noi stessi”; “Nessuno è soddisfatto a lungo di
vivere puramente e semplicemente. Si desidera sempre qualcosa d’altro. Si vuole vivere in funzione di qualche
altra cosa”.
Il desiderio non è solo pericoloso; in realtà, a ben vedere, è letteralmente impossibile: “il desiderio è
impossibile. Esso distrugge il suo oggetto. Gli amanti non possono essere uno, né Narciso può essere due. Don
Giovanni, Narciso. Siccome desiderare qualcosa è impossibile, bisogna desiderare il nulla”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Ma – e qui assistiamo all’ennesimo rovesciamento tipico della logica weiliana della contraddizione - il
desiderio è necessario, è la premessa indispensabile per poter arrivare al bene supremo, purchè lo si sappia
orientare correttamente: “Il desiderio è malvagio e bugiardo, eppure senza il desiderio non si ricercherebbe il
vero assoluto, il vero illimitato. Bisogna essere passati attraverso di lui”; “il desiderio deve trasformarsi in
attenzione e amore”; occorre trasformare “il desiderio in contemplazione”. Infatti “colui che sa amare dirige
su un particolare essere umano un amore universale”.
L’ultima parola su questo tema potrebbe essere questa frase, che sottolinea la natura impersonale,
disinteressata dell’autentico amore: “l’amore non è consolazione, è luce”.
Per SW anche il rapporto educativo, se da un lato comporta un fortissimo coinvolgimento emotivo e ideale
dell’insegnante nei confronti degli alunni (“gli uomini non sanno mai mettersi gli uni nei panni degli altri”;
“bisogna commuovere per interessare”; “per educare qualcuno bisogna anzitutto innalzarlo ai propri occhi”),
dall’altro esige il mantenimento di un distacco che deriva dalla necessità di rispettare la sensibilità del giovane
in formazione e di evitare quindi qualsiasi forma di “plagio” o di seduzione intellettuale.
“I suoi doni pedagogici erano prodigiosi…sapeva mettersi al livello di chiunque per insegnargli qualsiasi cosa.
La vedevo in grado di adempiere altrettanto bene tanto le funzioni di maestra di scuola elementare che quelle
di professoressa universitaria”; “la sua bocca parlava come un albero dona i suoi frutti; le sue parole non
traducevano la realtà, la versavano in me nuda e totale”: così affermò Gustave Thibon.
Nella sua pratica educativa SW tentava di ottenere dal suo discepolo quella qualità di estrema attenzione
che, nella sua concezione, si identificava con la preghiera.
Su tutti questi temi si riscontrano chiaramente l’intransigenza ed il radicalismo così caratteristici di SW.
24. Il radicamento, lo sradicamento
Uno dei temi più importanti nella riflessione di SW è quello dello sradicamento, che lei considera la tragedia
fondamentale della condizione umana, e soprattutto della civiltà occidentale e dell’uomo contemporaneo.
Sono idee che svolge in una delle sue opere più importanti, “La prima radice”. L’uomo, ogni uomo, ha bisogno
di radici, di essere radicato in un sistema di valori e di relazioni comunitarie. Questa sua convinzione la porta
ad attribuire una grandissima importanza alla tradizione, al passato, a quelle radici spirituali che affondano
nella remota antichità, ben prima del Cristianesimo, dall’Egitto alla Grecia all’India alla Cina: radici che
l’Europa ha perduto, perdendo così anche se stessa. Sono temi che ritroviamo anche, in forme diverse, nella
ostinata polemica di Pier Paolo Pasolini contro la modernità neocapitalistica.
SW afferma senza mezzi termini che “la distruzione del passato è forse il delitto supremo”, perché “è criminale
tutto ciò che ha come effetto di sradicare un essere umano o di impedirgli di mettere radici”. E’ convinta che
l’Europa moderna - e la Francia in particolare - abbia perso il legame organico con le sue radici profonde,
perdendo così la propria anima, la propria stessa identità: “si è avuto in Francia questo paradosso di un
patriottismo fondato non sull’amore del passato, ma sulla più violenta rottura con il passato del paese. Eppure
la rivoluzione aveva un passato nella parte più o meno sotterranea della storia di Francia…ma l’influenza degli
Enciclopedisti, tutti intellettuali sradicati, spinti dall’idea di progresso, impedì che si compisse qualche sforzo
per evocare una tradizione rivoluzionaria… Fu per questo che la corrente liberatrice del XVIII secolo rimase
senza radici storiche. Il 1789 fu veramente una rottura”.
SW denuncia la brutale centralizzazione realizzata dagli stati nazionali “villaggi, città, province, regioni… la
nazione da sola si è sostituita a tutte queste collettività; la nazione, cioè lo stato…Così, eccetto lo stato, non
esiste nulla cui la fedeltà possa rivolgersi”. E invece bisognerebbe “non privare nessun essere umano dei suoi
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
beni relativi… (casa, patria, tradizioni, cultura…) che riscaldano e nutrono l’anima e senza i quali, eccetto per
la santità, una vita umana non è possibile”.
“In questa situazione quasi disperata non si può trovare nessun aiuto se non nei nuclei di passato rimasti vivi
sulla superficie della terra… è cosa vana distogliersi dal passato per pensare soltanto all’avvenire…noi non
possediamo altra vita, altra linfa che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati da noi”. A causa
di questa situazione “l’avvenire è vuoto ed è la nostra immaginazione che lo colma; la perfezione che
immaginiamo è a nostra misura”.
Ma non finisce qui; quel che è peggio è che: “chi è sradicato sradica: chi è radicato non sradica”, poichè “lo
sradicamento genera l’idolatria”, l’idolatria della nazione, della potenza dello stato assurto a divinità; così
“l’Europa è stata sradicata spiritualmente…e a partire dal XVI secolo è andata a sradicare gli altri continenti”.
Insieme allo stato, uno degli agenti principali dello sradicamento è il denaro: “il denaro distrugge le radici
ovunque penetra”; “il denaro e lo stato hanno sostituito tutti gli altri legami”.
A scanso di equivoci, SW tiene a precisare che “l’amore per il passato non ha nulla a che fare con un
orientamento politico reazionario. Come tutte le attività umane, la rivoluzione trae la sua linfa da una
tradizione”.
25. La sventura, il dolore, la gioia
“Zeus che ha avviato i mortali a essere saggi, che ha posto come valida legge: “saggezza attraverso la
sofferenza” Eschilo, “Agamennone”
“se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche,
attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, per i campi di battaglia e i tribunali, aprendogli
poi tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da
ultimo facendogli ficcar l’occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch’egli con
l’intendere di qual sorta sia questo meilleur des mondes possibles” Arthur Schopenhauer
“l’esistenza mi pesa spaventosamente: me ne sarei liberato da un pezzo se non fosse proprio questo stato di
sofferenza e di rinuncia quasi totale quello che mi permette di fare le prove e gli esperimenti più istruttivi nella
sfera spirituale e morale – la lietezza che mi dà questa sete di conoscenza mi solleva ad altezze tali che riesce
a trionfare di ogni tormento e di ogni disperazione. Friedrich Nietzsche (da una lettera del 1880)
“noi dobbiamo generare costantemente i nostri pensieri dal nostro dolore” Nietzsche “La gaia scienza”
“La pienezza dell’amore del prossimo è semplicemente la capacità di domandargli: ‘Qual è il tuo tormento?’.
È sapere che lo sventurato esiste non come elemento di un insieme, non come esemplare della categoria
sociale che porta l’etichetta di “sventurati”, ma in quanto uomo, esattamente tale e quale noi, un uomo che
un giorno è stato colpito dalla sventura con un marchio inimitabile. Per questo motivo saper posare su di lui
un certo sguardo è sufficiente, ma anche indispensabile” Simone Weil
Il tema centrale di tutta l’esistenza e la riflessione di SW fu la grande interrogazione sulla presenza del dolore
nel mondo, sul suo significato. Ma prima di tutto ella fece esperienza diretta del dolore nel suo corpo, sulla
sua pelle, e perciò la sua riflessione su di esso fu sempre strettamente intrecciata al suo vissuto personale. In
questo senso possiamo avvicinare i suoi pensieri a quelli altrettanto vertiginosi di un Leopardi o di un
Nietzsche, due altri grandi “maestri del dolore”.
La nozione di sventura occupa un ruolo fondamentale nel pensiero di SW. La sua definizione è complessa:
essa è più della mera infelicità; è la condizione che annulla l’uomo, lo schianta, gli chiude qualsiasi orizzonte
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
di senso e qualsiasi prospettiva: “l’infelicità è uno sradicamento della vita, un equivalente in qualche modo
attenuato della morte…” E’ inutile chiedersi – come faceva Giobbe – il senso della sventura: “l’infelicità, come
la bellezza, non ha un perché, un fine”. Essa è peraltro il nucleo profondo del cristianesimo stesso: “L’essenzafondamento del cristianesimo non è tanto la sofferenza, quanto l’infelicità”.
La sventura agli occhi di SW è un dono di Dio (è “l’Amore infinitamente tenero che mi ha fatto il dono della
sventura”); perciò può - e quindi deve - essere la porta privilegiata per l’incontro con Lui e diventare il luogo
di esperienza della Grazia. La condizione perché ciò avvenga è lo svuotamento di sé. Solo così la sventura
diventa lo spazio di accoglienza della Grazia per chi la sappia riconoscere, perchè anche “il dio degli sventurati
è debole”. “Per aver la forza di contemplare la sventura quando si è sventurati, occorre il pane sovrannaturale.
[...] Istanti di sosta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale.
Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale”.
“…Il dolore, se accettato, è fruizione di trascendenza, è contatto con Dio. La forza invece è immanenza voluta,
negazione ad oltranza di ogni trascendenza, è immanenza contagiosa. Il dolore accettato non trasferisce ad
altri la propria sofferenza, anzi soffre perché altri non soffrano. Nel dolore accettato gli altri sono Dio stesso
che soffre perché io non faccia soffrire gli altri, perché li ami. In un dolore accettato c’è eccesso di amore, sia
in quello dell’uomo sia in quello di Dio. Ogni contatto fra Dio e l’uomo è dolore per entrambi. […] Dio che ama
troppo l’uomo, l’uomo che ama troppo Dio”.
La sventura ha quindi una sua “selvaggia bellezza” agli occhi di SW. Il suo valore si fonda sul fatto che Dio
stesso l’ha assunta, attraverso Cristo che si è addossato il male dell’universo espiandolo attraverso il suo
sacrificio sulla croce. Ma bisogna fare attenzione, occorre saper fare un “buon uso” della sventura: “la
sventura che ha ferito troppo profondamente suscita una disposizione alla sventura e spinge a precipitarvi se
stessi e gli altri”.
SW è sempre stata sconvolta dalla realtà universale della sventura che domina nel mondo, fino al punto di
sentire di essere irresistibilmente chiamata a condividerla, anzi ad assumerla su di sé: “non ho mai ricercato
la sventura, anche se sono stata tentata spesso e fortemente in tal senso”; però “né gli anni né la malattia
hanno potuto mutarmi al punto da farmi considerare il mio benessere e la mia comodità come oggetto di
importanza anche minima di in mezzo a un tale sconvolgimento… il pensiero delle sofferenze e dei pericoli a
cui non partecipo mi riempie di orrore pietà vergogna e rimorso, un miscuglio che mi toglie ogni libertà di
spirito” (1940).
E ritiene che sia una benedizione poter identificare-superare la propria sventura personale in quella di tutti
gli altri: “felici coloro per i quali la sventura entrata nella loro carne è la sventura del mondo stesso nella loro
epoca”. D’altra parte “gli sventurati non hanno bisogno d’altro che di uomini capaci di prestare loro
attenzione”.
Ma la realtà della sventura che incombe sull’uomo non cancella perciò la gioia del vivere. Tutta l’opera di SW
è attraversata da continue celebrazioni della bellezza della vita e della meraviglia del creato. Ecco due frasi
memorabili: “è segno di grande debolezza d’animo non saper trovare nei sentimenti altro che dolore”; “un
animo è forte in proporzione alla sua capacità di gioire”. Ed un’altra ancora: “la gioia ci inchioda all’eternità,
il dolore al tempo”. In realtà dolore e gioia vanno insieme: ”la sventura da un lato, e dall’altro la gioia, intesa
come adesione totale e pura alla perfetta bellezza, poiché entrambe comportano la perdita dell’esistenza
personale, sono le due sole chiavi grazie a cui si entra nel paese puro… Occorre però che l’una e l’altra siano
pure: la gioia senza ombra di insoddisfazione, la sventura senza alcuna consolazione”.
La vera dimensione dell’essere umano, la sua “vocazione” è dunque la gioia, non il dolore, pur onnipresente.
A condizione però di saper uscire da se stessi, dalla prigione del proprio io: “potrebbe godersi la vita meglio
se fosse capace di dimenticare se stessa” diceva in una lettera ad una sua studentessa. Infatti “la gioia
perfetta esclude il sentimento della gioia, perché nell’anima colmata dall’oggetto nessun angolo è disponibile
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per dire: io”. Le gioie a cui pensa SW sono soprattutto quelle pure e semplici dei poveri, dei lavoratori: “gioie
parallele alla pena. Gioie sensibili. Mangiare, riposarsi, i piaceri della domenica. Ma non il denaro… Gioie
immediate, gioie di partecipazione al mondo”.
L’atteggiamento giusto di fronte alla vita dovrebbe quindi essere questo: “la rassegnazione autentica non è
un sentimento triste, è un’accettazione gioiosa della vita così com’è, comprese le sofferenze”.
26. Il tempo, la vita, la morte
“Non si tratta di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva”
Etty Hillesum
SW torna spesso sulla natura paradossale del tempo: “Che cos’è il tempo al di fuori del mio pensiero?”; “Il
tempo propriamente non esiste, e tuttavia noi siamo sottomessi ad esso…Il tempo, irreale, vela ogni cosa e
noi stessi di irrealtà”; “Il tempo fa violenza. E’ la sola violenza”. Esso è l’ossessione fondamentale dell’uomo
(“il tempo è la preoccupazione più profonda e tragica degli esseri umani”), è il marchio della sua finitudine,
della sua “vocazione” alla morte. Tutto quello che l’uomo fa può essere visto infatti come un tentativo di
sfuggire al tempo ed alla morte: “tutti i peccati sono tentativi di sfuggire al tempo”. E il “potere su di sé è
potere sul modo di sentire il tempo”.
D’altra parte la morte è considerata il senso stesso della vita (“mi sono sempre proibita di pensare a una vita
futura, ma ho sempre creduto che l’istante della morte sia la norma e lo scopo della vita”), il criterio che la
misura e la verifica: “bisogna amar molto la vita per amare ancor di più la morte”; “anche la morte è una cosa
grande e bella… è bello amare l’universo nel lasciarlo”; “la morte è ciò che è stato dato all’uomo di più
prezioso”; “amare la verità significa sopportare il vuoto, e di conseguenza accettare la morte. La verità è dalla
parte della morte”.
Perché allora gli uomini temono la morte? “Che cosa ci fa temere la morte? L’unica ragione che possa indurci
a temerla è il timore di non saper morire bene”. Il giusto atteggiamento nei confronti della morte: “Non
desiderare mai la propria morte, ma accettarla”.
Delle tre dimensioni del tempo SW sembra privilegiare il passato; il presente infatti a rigore non esiste (“il
presente è il nulla”), e il futuro neppure. Ciò che davvero ci appartiene – e ci definisce – è il nostro passato
(“il passato ci trattiene. E’ più reale del presente”). Ma “l’uomo cerca di sfuggire al passato e al futuro
sprofondando nel presente”.
Dobbiamo capire che non conta tanto la durata di una esistenza quanto la sua intensità, perché “un essere
umano può mettere una sorta di eternità in un solo giorno ben vissuto”.
SW ha sempre affermato di amare la vita appassionatamente, di amare la bellezza diffusa nel creato, di
apprezzare quello che i sensi ci offrono (a condizione di non diventarne schiavi). Fu però drammaticamente
consapevole degli ostacoli che il suo corpo le poneva, impedendole di “aggredire” la vita come il suo
temperamento appassionato e ardito l’avrebbe spinta a fare: “so anche troppo che cosa significa assaporare
la morte da viva; vedere gli anni stendersi davanti a sé, avere mille volte di che riempirli, e pensare che la
debolezza fisica costringerà a lasciarli vuoti”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
27. L’attenzione, l’attesa, l’obbedienza, la Grazia
Queste nozioni assumono un rilievo straordinario nel pensiero religioso di SW, mettendone in luce il
significato più profondo. Sono tutte legate all’idea che la salvezza giunge all’uomo dall’alto, da Dio, e non c’è
sforzo né volontà umana che possa produrla (“i beni più preziosi non devono essere cercati ma attesi”).
“Criterio e prerequisito per la relazione interumana è, per la Weil, l’attenzione. Il termine attenzione (che ha
la stessa radice di attesa, attente in francese, una delle parole più ricorrenti nel lessico della scrittrice) deriva
dal verbo latino ad-tendere, cioè “tendere verso”, “rivolgere l’animo a” una persona, una cosa, una
situazione. Nell’origine etimologica, pertanto, l’attenzione ha una connotazione fortemente dinamica, di
movimento, richiedendo una concentrazione e una focalizzazione delle energie fisiche e mentali del soggetto
verso un oggetto esterno. L’esercizio di questa facoltà, subordinato ad un atto libero della volontà, muove
anzitutto dal desiderio di comprendere la realtà nella sua verità, desiderio che richiede uno sforzo, un moto,
un’uscita da sé” (Giulia Rioli).
SW si sofferma ripetutamente sul valore dell’attenzione: “l’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in se
stessi, così come si inspira e si espira… consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile,
vuoto…”; “L’attenzione è la forma più rara e pura di generosità”; “la preghiera non è altro che la pienezza
dell’attenzione”. La luce dell’attenzione va distolta dalle cose di questo mondo, e soprattutto dall’invadenza
dell’io, per portarla sul Bene, su Dio: “l’attenzione sola mi è richiesta, quell’attenzione tanto piena che l’Io vi
scompare. Privar tutto quello che chiamo “io” della luce dell’attenzione e proiettarla sull’inconcepibile”.
Simone ammonisce che “nessuno sforzo di autentica attenzione va mai perduto”.
Prendendo spunto dalla sua esperienza scolastica SW scrive: “Molto spesso si confonde l’attenzione con una
specie di sforzo muscolare. Se si dice agli allievi: ‘E ora fate attenzione’, ecco che aggrottano le sopracciglia,
trattengono il respiro, contraggono i muscoli. Se dopo due minuti si domanda loro a che cosa stanno facendo
attenzione, non sanno rispondere: non hanno fatto attenzione a nulla, non hanno fatto attenzione; hanno
solo contratto i muscoli”. Al contrario, “l’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in se stessi, così come si
inspira e si espira; essa consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e
permeabile all’oggetto. (…) Il pensiero deve essere vuoto, in attesa, non deve cercare alcunché, ma essere
pronto ad accogliere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi”.
A maggior ragione, l’atteggiamento più corretto di fronte a Dio è quello dell’ascolto, dell’attenzione,
dell’attesa e infine dell’obbedienza, dell’accettazione piena. Solo allora, solo a queste condizioni la Grazia
può agire, può entrare in noi. Perché non è l’uomo che deve cercare Dio, è Dio che va in cerca dell’uomo, e
gli si manifesta solo se questi è disposto ad accoglierlo: “lo sforzo grazie al quale l’anima si salva è simile a
quello di colui che guarda, di colui che ascolta, a quello di una sposa che dice sì. E’ un atto di attenzione, di
consenso, mentre ciò che si intende per volontà è qualcosa di analogo allo sforzo muscolare… La volontà non
può produrre alcun bene nell’anima……negli atti di obbedienza a Dio si è passivi. Come dice Eschilo, ciò che è
divino è senza sforzo”; “la salvezza sta nello sguardo”; “la religione non consiste in nessun’altra cosa, se non
in uno sguardo”. Infatti “l’attenzione è uno sguardo e non un attaccamento e il metodo di esercizio
dell’intelligenza consiste nel guardare”; “Ciò che vale è unicamente la veglia, l'attesa, l'attenzione. Fortunati
dunque coloro che dedicano l'adolescenza e la gioventù soltanto a sviluppare questo potere d'attenzione”.
Va precisato che – come sempre in SW – ciò che vale nel mondo dello spirito vale già prima nel mondo
materiale, nella vita di tutti i giorni, dato che non esiste frattura fra questi due piani dell’esistenza:
l’attenzione e l’obbedienza sono per esempio due virtù che devono guidarci nella vita quotidiana,
costituendo l’atteggiamento di fondo che l’uomo dovrebbe assumere di fronte alla natura, all’universo
intero, agli altri.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Sulla scorta della grande lezione dello stoicismo antico SW pensa che il punto di partenza e di arrivo per
l’uomo debba essere l’accettazione dell’ordine del mondo – quella che lei chiama “necessità” – e delle sue
leggi. L’obbedienza non è quindi l’umiliante sottomissione a poteri arbitrari, ma l’adesione interiore a questo
ordine eterno ed immutabile. Sulla base di questo “apprendistato” è allora meno difficile entrare nella logica
della mistica, che ha come presupposto proprio l’adesione totale alla volontà di Dio, in tutte le sue
manifestazioni.
La grazia viene contrapposta a quella che SW chiama l’ombra (in originale la “pesanteur”), cioè la gravità,
quella forza che domina il mondo fisico ed anche quello umano: “La forza di gravità è la costrizione che noi
subiamo, la catena, salire è il soprannaturale”). La gravità (in senso morale) ci spinge incessantemente verso
il basso; noi dobbiamo sfruttare questa forza negativa proprio per elevarci, come fa la leva che si abbassa per
innalzare. L’inerzia che ci trascina verso il basso deve suscitare una forza eguale e contraria (che però non
viene da noi, ma da Dio, quindi si tratta di lasciarsi elevare da Lui). Si tratta di una lotta contro l’entropia dello
spirito, che possiamo vincere solo abbandonandoci a Dio.
28. Dio
“Zeus, in procinto di creare, si trasformò in Amore” Ferecide, frammento 3
Per SW “Dio è veramente al di là del mondo, cioè – in qualche modo - assente dal mondo…Questo è prima di
tutto l’impero delle potenze, l’impero delle forze” Simone Pètrement
“Dio si è imposto due limiti: la necessità del mondo e l’autonomia degli esseri pensanti” Pètrement
La concezione weiliana di Dio si definisce negli anni, a partire da una giovinezza atea, frutto di una educazione
familiare del tutto agnostica. Alcune esperienze spirituali segneranno delle tappe fondamentali sulla strada
della sua “scoperta” di Dio. La prima avvenuta in un povero villaggio del Portogallo, nel 1935, assistendo ad
una processione religiosa popolare; la seconda in Italia, ad Assisi, nella cappella francescana di S.Maria degli
Angeli; l’ultima nell’abbazia benedettina francese di Solesmes, dove trascorse una decina di giorni a seguire
i riti della settimana santa. L’incontro con Cristo fu per lei un’esperienza sconvolgente e del tutto inaspettata;
la sua vita ne fu travolta e trasformata.
L’imitazione di Cristo divenne da allora l’imperativo della sua esistenza. Il programma che SW si impose può
essere efficacemente riassunto in queste sue parole: “coloro che preferiscono scoprire la verità e morire
piuttosto che vivere un’esistenza lunga e felice nell’illusione, vedranno da soli Dio”.
Del resto, tutto parla di Dio, nel mondo: “Mi sembra duro pensare che il rumore del vento tra le foglie non sia
un oracolo; duro pensare che questo animale, mio fratello, non abbia anima; duro pensare che il coro delle
stelle nei cieli non canti le lodi dell'Eterno”.
Ma il Dio di cui SW parla nei suoi testi è molto diverso da quello trasmesso dalla tradizione cristiana ufficiale:
agli antipodi dell’immagine di un Dio creatore onnipotente, esso si presenta con i caratteri di un Dio
depotenziato, defilato rispetto al mondo che ha creato, un Dio che lascia libero l’uomo e va in cerca di lui,
“mendicando” il suo amore e la sua attenzione: “il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore”;
“riconoscere la divinità solamente come potenza e non in quanto bene è idolatria”; “dobbiamo spogliare Dio
della sua divinità per amarlo, perché se si va a Dio senza svuotarlo della sua divinità, si tratta allora di Yahweh
o Allah – cioè di due idoli”. Invece bisogna coltivare “la vera religione, la religione d’amore, nella quale Dio è
al tempo stesso vittima sacrificata e signore onnipotente”.
La Creazione del mondo è vista come un atto di abdicazione da parte di Dio (“L’atto di creazione non è un
atto di potenza; è un’abdicazione”; “la creazione: Dio che si incatena mediante la necessità”; “non un atto di
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espansione di sé, bensì di limitazione, di rinuncia”): un ritirarsi, un negarsi per dare spazio alle sue creature.
Creando il mondo “Dio si è svuotato”. Dio insomma ha voluto essere “assente dal mondo”, che è lasciato in
mano al libero gioco delle potenze della Forza e della Necessità. “Dio ha espiato la creazione…” scrive Simone.
Sulla creazione troviamo nei suoi “Quaderni” delle espressioni che sono lontane dall’ortodossia cristiana: “Il
delitto più efferato è quindi la creazione commessa da un dio decaduto, un Dio crudele che è sì costruttore
dell’umanità, ma nello stesso tempo espressione del male, disceso per emanazione dal vero Dio; il quale per
salvare l’umanità ha inviato sulla terra suo figlio Gesù Cristo ad espiare così la colpa originaria del Dio
decaduto e dell’umanità”. Queste concezioni si rifanno allo gnosticismo e all’eresia catara, da cui SW fu molto
attratta.
Di Dio, paradossalmente, non è neppure importante sapere che esiste; sono la nostra fede ed il nostro
desiderio che lo fanno esistere: “Che cos’è questo Bene? Non ne so niente. Che importa?”; “Dio è perché io
Lo desidero”. D’altra parte, “la parola di Dio è silenzio” e “Dio vuol restare nascosto: il Padre vostro che abita
nel segreto”.
Il rapporto fra l’uomo e Dio presuppone che sia l’uomo a chiedere la presenza di Dio, che “agisce soltanto in
quanto ottiene un consenso…egli non dà se non si chiede”; infatti “in materia puramente spirituale, Dio
esaudisce tutti i desideri, quelli che hanno di meno hanno chiesto di meno”. Dio non è invadente, interviene
solo se richiesto da una viva fede, da un ardente desiderio da parte dell’uomo. Il quale a sua volta deve
cercarlo, ma in una attitudine per così dire passiva, di attesa.
SW dissemina nelle sue meditazioni diverse “definizioni” o caratteristiche di Dio come lei lo ha sentito: “Dio
è per essenza mediazione”, “Dio è colui che fissa un limite”, “Dio è buono prima ancora che potente”, “il Bene
è al di sopra dell’Essere e Dio è Bene prima ancora di essere quello che è”. In particolare: “Dio è insieme
personale e impersonale: “… deve essere impersonale per essere innocente del male, personale per essere
responsabile del bene”.
29. Amore di Dio, amore del prossimo
“gli amori possibili sono per i deboli, i saggi scelgono gli amori impossibili” una copla popolare spagnola
Per SW l’amore del prossimo non deve essere una conseguenza di quello verso Dio, ma ha un valore in sé,
in quanto ogni essere umano è sacro, ha in sé il divino, ed è quindi degno di essere amato: “Avevo fame e mi
avete soccorso. Ma quando, Signore? Non lo sapevano. Non bisogna saperlo…non bisogna soccorrere il
prossimo per il Cristo, ma mediante il Cristo…non andare verso il prossimo per Dio, ma essere spinto da Dio
verso il prossimo come la freccia è spinta dall’arciere verso il bersaglio”.
La vera fede in Dio si vede da come un uomo si rapporta ad un altro uomo: “non è dal modo in cui un uomo
parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri che si può meglio discernere se la sua anima ha
soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio”. L’amore per il prossimo deve scaturire dall’autentica compassione
che si prova per chi è colpito dalla sventura, dall’immedesimazione con l’infelicità altrui, senza nessuna
motivazione-giustificazione a priori. “Lode a Dio e compassione per le creature” è la mirabile formula con cui
SW riassume questa sua concezione. Certo le cose di questo mondo devono essere amate in subordine, e in
funzione dell’amore
verso Dio: “adora il vero Dio chiunque ama le cose condizionate solo
condizionatamente”; “amare un estraneo come se stesso implica l’inverso: amare se stesso come un
estraneo”.
L’amore di Dio inoltre non ha bisogno di esprimersi in azioni clamorose, come il martirio, tanto meno in
imprese che implicano l’uso della forza o della costrizione (Crociate, conversioni missionarie), perché “morire
per Dio non è una testimonianza che si ha fede in Dio”.
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“attraverso la compassione conosciamo” Richard Wagner “Parsifal”
“ogni puro e sincero amore è pietà” Arthur Schopenhauer
Dice SW: “Lei non m’interessa. Un uomo non può rivolgere queste parole a un altro uomo senza commettere
crudeltà e ferire la giustizia”. La compassione rappresenta la cifra dell’autenticità della fede di una persona,
e costituisce il giusto atteggiamento che dobbiamo avere nei confronti dell’altro (“la compassione è il
riconoscimento della propria miseria negli altri”; “l’attitudine alla compassione pura è esattamente
proporzionale all’accettazione della propria sofferenza”) - ed in realtà prima ancora verso se stessi: “amare
se stessi solo con un amore di compassione”.
Per SW “la compassione…è l’unico amore terrestre che sia vero e giusto”, l’unico che riconosca la reale
posizione dell’uomo nel mondo e che rispetti l’eguaglianza della condizione creaturale di ciascun essere
umano. Ai suoi massimi livelli la pietà significa far propria la sofferenza di tutti gli esseri passati e presenti e
assumere su di sé il dolore cosmico; la compassione significa identificazione totale con il nostro simile:
“l’oggetto della mia ricerca era l’umanità e l’oggetto del mio amore erano gli ultimi, i diseredati”. Invece la
semplice “pietà naturale è una forma di crudeltà”, perché guarda dall’alto in basso e manifesta un
atteggiamento di compiaciuta condiscendenza.
30. La fede in Dio e l’universalità della rivelazione divina
“ogni religione è l’unica vera” Simone Weil
“la Grecia è la giovinezza dell’umanità. Ma la virilità promessa da questa giovinezza , ahimè, non è venuta”;
“l’Umanesimo non è stato un ritorno all’antichità, ma uno sviluppo dei veleni interni al cristianesimo” Simone
Weil
“la Weil vide nei Vangeli l'espressione estrema di quello spirito greco che nell'Iliade aveva già una sua
compiutezza” Marco Vannini
SW è stata sempre profondamente convinta dell’universalità e perennità della rivelazione divina; vale a dire
che quella di Cristo è stata l’ultima di una molteplicità di rivelazioni del Bene – cioè di Dio – e che il
cristianesimo non detiene affatto il monopolio della verità su Dio: “la redenzione è stata presente sulla terra
fin dall’origine”; “non si può dire con certezza che il Verbo non abbia avuto incarnazioni anteriori a Gesù”.
Contro ogni concezione secondo cui “fuori della Chiesa non c’è salvezza” SW sostiene con decisione che i veri
credenti sono quei “giusti” che praticano le virtù fondamentali della carità e dell’obbedienza: “quelli che
posseggono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo, compresa la
sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono in apparenza atei”.
Il contenuto della fede è il suo stesso atto, che è essenzialmente distacco, negazione: fare il vuoto di ogni
preteso sapere, rifiutare il consenso a ciò che assoluto non è. La vera fede è altra cosa dalla credenza, che si
fonda sull’immaginazione ed è legata all’ego ed alle sue menzogne. E “la religione in quanto fonte di
consolazione è un ostacolo alla vera fede”.
Esiste secondo SW tutto un filone di religiosità che partendo dall’antico Egitto (vedi il “Libro dei morti”)
attraverso la Fenicia arriva in Grecia e si esprime nella religiosità dei Misteri, nei culti di Orfeo e di Dioniso,
e nella grande filosofia presocratica, a partire dal Pitagorismo per arrivare al grande pensiero di Platone (che
ella considera un grande mistico, prima ancora che un filosofo).
Il Cristianesimo, nella sua ispirazione più genuina ed originaria, è erede di questa plurimillenaria tradizione,
che si ritrova con espressioni diverse nelle grandi esperienze spirituali dell’Asia, dall’India al Tibet al Taoismo
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(“Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade ne è la prima”). SW crede
fermamente che il meglio della spiritualità umana si ritrovi nelle correnti mistiche presenti all’interno delle
grandi religioni storiche; queste correnti sarebbero depositarie del nucleo più profondo della universale
rivelazione divina: “i mistici accettano l’insegnamento della Chiesa non come se fosse la verità, ma come
qualcosa dietro a cui si trova la verità…Due religioni distinte: quella dei mistici e l’altra. Io credo che la
religione vera sia la prima”.
Rispetto alle religioni monoteistiche il giudizio di SW è molto duro, in particolare sull’Ebraismo. Ritiene che
questo abbia corrotto l’idea di Dio, mondanizzandola e riducendo Dio a protettore esclusivo di un popolo. Il
Dio ebraico sarebbe un Dio di violenza e di dominio, non un Dio dell’amore. Il Giudaismo avrebbe sequestrato
per sé il Dio universale, facendone il feticcio di una nazione.
L’Antico Testamento sarebbe qualcosa di estraneo all’autentico spirito religioso che ritroviamo nelle grandi
esperienze spirituali di cui SW ricostruì la genealogia. Solo alcune parti di esso (che secondo lei deriverebbero
da fonti non ebraiche) sarebbero in sintonia con quel tipo di spiritualità pura: il libro di Giobbe, il Cantico dei
Cantici, le figure di Abele, i profeti Daniele ed Isaia, e poche altre.
31. Il rapporto con l’ebraismo
“Non le piacevano quanti mettevano al primo posto la loro condizione di ebrei separandosi così dagli altri
uomini. Ciò che non approvava dell’ebraismo era che poteva comportare eventualmente un certo settarismo
o fanatismo” Simone Pètrement
“era molto ebraica nel suo senso dell’assoluto, nella sua sete di giustizia, nella sua esigenza di verità” Suzy
Allemand
“un’anima molto ebraica. C’era in lei qualcosa del Talmud. Rigorosissima nella sua logica” Stanislas Fumet
“troppo ebrea, e arrogante come tutti gli ebrei” abate De Naurois, cappellano nell’ospedale londinese di
Middlesex, 1943
“di noi ebrei aveva la goffaggine di esibire i difetti e nascondere le qualità” Berthe Ergas
“avvertivo… nel suo spirito quel qualcosa di duro, rigido e intransigente che rimproverava nel popolo ebraico”
canonico Vidal
“gli uomini hanno sempre sentito il bisogno di purificarsi sacrificando vittime innocenti” Simone Weil
Come abbiamo detto, l’altro “buco nero” della ricerca di SW è quello dell’ebraismo, questione attorno alla
quale ella cadde nella più forte contraddizione della sua vita. Pare che abbia frainteso, o quanto meno non
compreso a fondo, la natura della autentica spiritualità ebraica – trascurando soprattutto l’evoluzione che
essa ebbe dopo l’avvento del Cristianesimo.
Credette di essere totalmente estranea al giudaismo, mentre ai nostri occhi oggi emergono, nel suo pensiero
e nel suo stesso modo di essere, evidenti segni della sensibilità e della spiritualità ebraica. La sua incessante
requisitoria contro la tradizione religiosa e l’identità ebraica arrivò – secondo alcuni - ad obnubilarle la mente
e a non farle vedere la realtà della tragedia del “suo” popolo.
Non si rese conto quanto meno della inopportunità delle sue dure prese di distanza dal giudaismo proprio
nel momento in cui questo popolo era sottoposto alla più feroce delle persecuzioni. Un’altra grande filosofa
ebrea del Novecento, Hannah Arendt, si trovò – nel secondo dopoguerra - nell’occhio del ciclone di veementi
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polemiche per certe sue posizioni sull’ebraismo e sul sionismo; ma le affermazioni di SW hanno suscitato,
dopo la sua morte, uno sconcerto ancora maggiore, per la radicalità e la continuità con cui le aveva espresse.
In mezzo alle centinaia di pagine di critica storico-religiosa da lei scritte sull’ebraismo è difficile trovare
qualche accenno alla tragedia della Shoah; e se c’è, compare solo per allusioni, in via indiretta. Su Vichy e
sulla condizione degli ebrei sembra non esserci stata da parte sua né piena conoscenza né una presa di
posizione. Solo una vaga eco in queste annotazioni: “apporteranno in Francia una forma più o meno
accentuata di razzismo. In un caso simile, mi troverò nel novero dei paria. Tutto sommato, mi rincresce, è
stupido soffrire per qualcosa che non si è scelto e a cui non si è legati. Ma in definitiva, così andranno le cose.
E io non ho alcun modo per sottrarmi a ciò”; ”se sembra giusto al popolo francese, in questo momento, che
io sia fra i sudra [i non arii], forse è bene che mi adegui” (1941). O queste parole inquietanti: “in un periodo
di miseria e violenza diffusa è preferibile che una categoria ben determinata e limitata di esseri umani attiri
su di sé le forme più acute della sventura. Non parlerei certo così se non facessi parte di questa categoria”.
Ad un questionario sullo “Statuto degli ebrei” imposto dal governo di Vichy rispose di non avere niente a che
fare con l’ebraismo dal punto di vista religioso, culturale, identitario. Alcune sue dichiarazioni in questo senso
sono inequivocabili: “La tradizione cristiana, francese, ellenica, questa è la mia; la tradizione ebraica mi è
estranea”; “non so cosa significhi essere ebrei”; “quanto a me, che non pratico né ho mai praticato alcuna
religione, niente certamente ho ereditato dalla religione ebraica”.
Ma non c’è solo questo: risulta che “si spinse a sposare le proposte xenofobe e antisemite di un'organizzazione
che pure fiancheggiava la Resistenza, l'Organisation Civile et Militaire, per adottare misure discriminatorie per esempio impedire agli ebrei d'insegnare nelle scuole, l'imposizione di un'educazione cristiana agli ebrei,
l'eventuale privazione della nazionalità francese per gli ebrei più fanatici. Il tutto per lasciarsi alle spalle per
sempre la matrice ebraica. A tale scopo Simone auspica pure l'incentivazione dei matrimoni misti per
disperdere quell'origine. C'è però da dire che Simone Weil, morta nel '43, non seppe la verità atroce dei lager
né dei gulag” (Marcello Veneziani).
Sulle cause storiche delle persecuzioni subite dagli ebrei SW dice: “gli Ebrei sono stati perseguitati perché una
volta che il loro privilegio fu annesso dalla Chiesa erano troppo imbarazzanti, proprio essi che pretendevano
di averlo sempre conservato. La religione, nel senso proprio del termine, non aveva nulla a che vedere con ciò.
L’ostinazione, da ambedue le parti, aveva moventi puramente temporali. Hitler perseguita gli Ebrei per la
stessa ragione…ora Wotan tenta di soppiantare Jahwè”.
Risulta anche che SW giudicò severamente gli ebrei che accettavano la segregazione: “preferisco la prigione
al ghetto”. E sull’antisemitismo dell’epoca affermò: “gli antisemiti propagano, naturalmente, l’influenza
giudaica”.
Quando richiama le vicende della persecuzione subita personalmente o dalla sua famiglia si limita ad
affermare: “nella misura in cui nella mia vita personale ho sofferto a causa dei tedeschi, nella misura in cui
cose ed esseri ai quali sono personalmente attaccata sono stati distrutti o colpiti da loro, ho un particolare
obbligo ad amarli” (Londra 1943).
Alcuni suoi critici hanno parlato a questo proposito del noto complesso dell’odio di sé ebraico, che si ritrova
in alcune personalità intellettuali del Novecento (il più noto ed esemplare è il caso del viennese Otto
Weininger, che in “Sesso e carattere” identifica lo spirito ebraico con quello femminile, accomunandoli nella
categoria della passività e rifiutandoli). Ma la questione in SW appare più profonda e complicata.
Detto questo, bisogna precisare con chiarezza che la sua risoluta opposizione all’ebraismo è di natura
prettamente storico-religiosa, non personale (alcuni dei suoi migliori amici erano ebrei); deriva da una
interpretazione dell’Antico Testamento che vede il dio ebraico come un dio della forza, della potenza; un Dio
violento, tribale-nazionale, non universale: “il concetto stesso di popolo eletto è incompatibile con la nozione
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di vero Dio. Attiene all’idolatria sociale”. Sono molteplici le affermazioni di SW che denunciano il “patto di
sangue” stipulato fra Jahwè e il suo popolo eletto: “gli Ebrei hanno avuto come idolo una razza, una nazione”;
“gli Ebrei hanno chiamato la loro anima collettiva Dio”; “Dio può diventare un pezzo di pane, una pietra, un
albero, un agnello, un uomo. Ma non può diventare un popolo. Nessun popolo può essere un’incarnazione di
Dio”; “un pensiero religioso è autentico quando il suo orientamento lo rende universale. Tale non è l’ebraismo,
perché legato alla nozione di razza”.
SW del resto è convinta – come sappiamo - che “la nostra civiltà non deve niente a Israele, e ben poco al
Cristianesimo; essa deve quasi tutto all’antichità precristiana”. La sua critica al giudaismo si inquadra quindi
in una più ampia visione del destino storico dell’Occidente, che avrebbe le sue migliori radici spirituali non
tanto nell’ebraismo o nel cristianesimo costantiniano, bensì in una serie di tradizioni religioso-filosofiche
“pagane”, che partono dall’Egitto per confluire poi nella grande sintesi ellenica.
Gli dèi pagani – dice SW - avevano molti difetti, ma non generarono mai una identificazione così totale con
un popolo, e soprattutto non gli assegnarono mai una “missione” conquistatrice simile a quella di Israele:
“Anche gli dèi greci erano frammisti di bene e di male...nell’Iliade essi sono tutti demoniaci, salvo Zeus. Ma
poi i Greci non prendevano i loro dèi sul serio… laddove gli Ebrei prendevano Geova terribilmente sul serio”.
“Mosè concepiva la religione come un semplice strumento di grandezza patriottica… Mosè voleva apparire
come il rappresentante di un Dio onnipotente che fa promesse di natura temporale. Le promesse di Jahwè a
lsraele sono le stesse che il demonio ha fatto al Cristo: io ti darò tutti questi regni…”. SW si spinge dunque a
dire che Israele in realtà strinse un patto col diavolo: “Gli Ebrei, fino all’esilio, non avevano la nozione di una
differenza fra Dio e il Diavolo”.
SW rincara la dose nella sua veemente invettiva: “gli Ebrei, avendo rifiutato la rivelazione egiziana, hanno
avuto l’Iddio che meritavano: un Dio carnale e collettivo…Parlare di un Dio educatore a proposito di un tale
popolo è un’atroce burletta…La maledizione di Israele pesa sulla cristianità. Le atrocità, l’inquisizione, gli
stermini di eretici e di infedeli, erano Israele. Il capitalismo era Israele (lo è ancora, in una certa misura…). Il
totalitarismo è Israele, soprattutto nei suoi peggiori nemici”. “Alla rivelazione soprannaturale Israele oppose
un rifiuto… il suo desiderio era la potenza e la prosperità...Questo rifiuto rese possibile la condanna a morte
del Cristo. E si prolungò, successivamente alla sua morte, nella dispersione e sofferenza senza fine”. E arriva
la stoccata finale: “questo popolo è stato fabbricato come una statua di legno, a colpi d’ascia. Popolo
artificiale… Tenuti assieme da una terribile violenza. Non assimilabili. Non assimilatori…Popolo eletto per la
cecità, eletto per essere il carnefice del Cristo” [!]
L’Israele dell’Antico Testamento ha costituito il prototipo della nazione dominatrice ed imperialista, di ogni
politica di potenza: “Gli Ebrei sono il veleno dello sradicamento”; “gli Ebrei, questo manipolo di sradicati,
hanno causato lo sradicamento di tutto il globo terrestre”; “gli ebrei erano schiavi evasi e hanno sterminato
e ridotto in schiavitù tutti i popoli della Palestina”. I veri continuatori di questa politica imperialistica in nome
di un Dio furono i Romani, che SW assimila sistematicamente ad Israele: “Romani ed Ebrei si sono creduti
entrambi preservati dalla comune miseria umana…Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, citati ed imitati
negli atti e nelle parole ogni qualvolta era necessario giustificare un crimine, durante venti secoli di
cristianesimo”. Anche l’Islam, pur privo di una struttura istituzionale centralizzata come quella del
cattolicesimo romano, ha fatto della religione un veicolo di potenza mondana: “la missione di Israele è stata
continuata dai musulmani”.
C’è per SW un nesso stretto fra una concezione nazionalista-etnica della religione e le politiche aggressive ed
imperialistiche: “agli occhi degli ebrei peccato e sventura, virtù e prosperità sono inseparabili, il che rende
Jahwè un padre terrestre e non celeste…dunque, un falso Dio”. Gott mit uns, insomma…
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32. Il rapporto con la Chiesa Cattolica
“in realtà, era molto lontana dal Cristianesimo” padre Perrin
“il suo pensiero cosciente e dottrinale non era cattolico” Gustave Thibon
“Quando diciamo ‘noialtri cattolici’ già non siamo più cattolici” Gabriel Marcel
“Io sono un cattolico, sono all'interno della Chiesa, ci sono, ci rimango; ma questa dimensione dell'universalità
della cattolicità, che manca alla Chiesa cattolica così come è realmente costituita, è come una spina nel fianco
e devo dire che io interpreto il mio lavoro teologico proprio in questa direzione, come spinta, perché la Chiesa
cattolica sia cattolica veramente di fatto e non solo di nome. Questo è ciò che Simone Weil ha consegnato e
continua a consegnare alla mia vita” Vito Mancuso
Quella di SW è stata definita “una fede al limite”. E davvero il suo cristianesimo è “inattuale” ed ancora
spiazzante per molti cristiani di oggi (“Sono come la campana che invita a entrare nella chiesa restandone
fuori” disse di sé). Il cristianesimo della Weil è “tragico”, come tragica era la visione del mondo di quella
saggezza greca che tanto la ispirò.
“Tradirei la verità, cioè quell’aspetto della verità che io scorgo, se abbandonassi la posizione in cui mi trovo
sin dalla nascita, cioè il punto di intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è fuori di esso. C’è un ostacolo
assolutamente insormontabile per me, ed è l’uso di due brevi parole: anathema sit. Mi schiero al fianco di
tutte le persone che, a causa di quelle due brevi parole, non possono entrare nella Chiesa, che deve essere
invece accoglienza universale” Simone Weil, lettera a padre Perrin
“E’ stato scritto che, se fosse stata umile, avrebbe abbracciato la fede cattolica. Io non sono di questo parere.
SW non era bloccata dall’orgoglio dell’intellettuale. Si sottometteva docilmente alla verità quando la scopriva.
Doveva ancora scoprirla…” canonico Vidal 1941
Quello del rapporto con il Cristianesimo e con la Chiesa Cattolica – ed in particolare la questione del
battesimo, desiderato e respinto nello stesso tempo – costituisce uno dei nodi fondamentali e più
appassionanti della vicenda umana di SW. In realtà dovremmo parlare piuttosto del suo rapporto con Cristo,
perché ella fu prima di tutto colpita da una straordinaria fascinazione per la figura di Gesù, per il suo sacrificio
sulla croce, con il quale cercò di identificarsi totalmente per tutta la sua vita: “Improvvisamente, ebbi la
certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi,
ed io con loro”.
Il vero ed unico insegnamento del Vangelo è per SW la rinuncia a se stessi. Fu proprio la differenza e anzi la
contraddizione che percepiva fra l’esempio di Cristo e la pratica di potenza della Chiesa (“Lo spirito del
Vangelo non si è trasmesso puro alle successive generazioni di Cristiani”) a renderle impossibile il
superamento di quella soglia sulla quale rimase fino alla fine, senza varcarla: la porta di ingresso nella Chiesa
attraverso il battesimo.
Rifiutò sempre l’idea di un monopolio della rivelazione divina e della salvezza da parte della Chiesa Cattolica
(“la Chiesa riconosce che la diversità delle vocazioni è preziosa. Bisogna estendere questo pensiero alle
vocazioni che sono fuori della Chiesa. Perché ve ne sono”), convinta come era che Dio si fosse rivelato fin
dall’inizio della storia umana, in più tempi e luoghi e in innumerevoli forme [vedi il capitolo “La fede in Dio e
l’universalità della Rivelazione”]. La sua ferma volontà di condividere il destino – materiale e spirituale – di
tutti i suoi simili e di rifiutare ogni tipo di privilegio la portò ad affermare anche: “in nessun caso entrerei in
un ordine religioso, perché non voglio che un abito mi separi dal resto degli uomini”.
Soprattutto accusò la Chiesa cattolica di aver tradito il messaggio di Cristo, trasformandosi in una potenza
mondana. “Fra lo spirito di Roma e quello del Cristo non c’è mai stata fusione”; la Chiesa cattolica ha fatto
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
suo proprio lo spirito della Roma imperiale: “Non si può abbassare Dio fino a renderlo partigiano in una
guerra”; “la cristianità è diventata totalitaria, conquistatrice, sterminatrice perché non ha sviluppato la
nozione dell’assenza e della non-azione di Dio quaggiù in terra”.
Perciò affermava con decisione che “i missionari, anche se martiri, sono accompagnati troppo da vicino dai
cannoni e dalle navi da guerra per essere veri testimoni dell’agnello”. Più in generale “i martiri non dimostrano
nulla, salvo che per i preti”.
Più che a Cristo, la Chiesa appare essersi ispirata all’Antico Testamento: “tutto ciò che nel Cristianesimo è
ispirato all’Antico Testamento è malvagio, e in primo luogo la concezione della santità della Chiesa”. La Chiesa
infatti non è per nulla – ai suoi occhi – una “società perfetta”.
Questa vocazione “totalitaria” della Chiesa sarebbe già insita nella sua teologia ufficiale: “la concezione
tomistica della fede implica un totalitarismo soffocante”. Questa mentalità ha prodotto intolleranza e
persecuzioni, mortificando la libera intelligenza umana: “nel Cristianesimo fin dall’inizio c’è un disagio
dell’intelligenza”; “non riconosco alla chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le
illuminazioni dell’amore nell’ambito del pensiero”. Questo perché “i dogmi della fede non sono cose che si
possano affermare. Sono cose da guardare da una certa distanza, con attenzione, rispetto e amore… il loro
valore non appartiene all’ordine della verità, ma a un ordine superiore… che l’intelligenza non può cogliere se
non indirettamente, mediante gli effetti”.
La storia della Chiesa del resto mostra che “non sembra che la Chiesa sia infallibile, perché di fatto si evolve”.
SW conclude quindi che “bisogna ripensare daccapo la nozione di fede”. Negli ultimi mesi di vita arrivò a
scrivere: “occorre una nuova religione. Oppure un Cristianesimo modificato al punto da essere diventato
altro” (1943).
SW conduce un attacco a fondo anche contro la concezione messianico-provvidenzialistica della storia
umana, che il cristianesimo ha introdotto nella cultura occidentale: “l’assurda concezione della provvidenza
come intervento personale e particolare di Dio per fini particolari è incompatibile con la vera fede”; “il
Cristianesimo ha voluto cercare un’armonia nella storia. E’ il germe di Hegel e di Marx”; “il Cristianesimo ha
introdotto nel mondo questa nozione di progresso… diventata il veleno del mondo moderno, che lo ha
scristianizzato. Occorre abbandonarla”.
Il rifiuto di una concezione mondana della Chiesa le venne anche dall’ammirazione per il Catarismo, una
corrente religiosa di ispirazione dualistico-gnostica – condannata per eresia dall’autorità di Roma e
sterminata attraverso una crociata - che si diffuse nel sud della Francia tra l’XI e il XII secolo, e aveva al centro
della sua visione la grande questione del rapporto fra il Bene e il Male. Secondo SW “non c’è vera differenza
fra la concezione manichea e quella cristiana del rapporto tra il bene e il male”.
Al di là del sincero tormento interiore di SW nel suo avvicinarsi-allontanarsi dal Cristianesimo, o meglio dalla
Chiesa cattolica, emerge chiaramente dai suoi testi come ci sia una incompatibilità di fondo fra questa e la
sua concezione religiosa: “ho ben poca speranza…di poter mai partecipare ai sacramenti, a meno che la
Chiesa non modifichi le condizioni con le quali li concede”; “i legami che mi uniscono alla fede cattolica
diventano sempre più forti…ma nello stesso tempo anche i pensieri che mi allontanano dalla Chiesa
acquistano più forza e maggiore chiarezza” (1942). Per concludere con un perentorio: “la mia vocazione è di
essere cristiana fuori della Chiesa”.
In definitiva, se consideriamo con attenzione tutto quello che ha detto in merito alla chiesa cattolica, SW non
poteva che rimanere “pagana”, nel senso alto e nobile che lei avrebbe attribuito a questo termine. Come
disse di lei Emmanuel Lèvinas.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
33. Il corpo e l’anima, l’ascetismo, l’esperienza mistica
“Cristo stesso è sceso e mi ha presa”
“si possiedono solo le cose a cui si è rinunciato”
“agire, rinunciando ai frutti dell’azione”
“pregare Dio…pensando che Dio non esiste”
“tutti questi fenomeni mistici sono assolutamente fuori della mia competenza. Non ne so niente”
Simone Weil
“se mai diventerò una santa, sarò di sicuro una santa dell’oscurità. Sarò continuamente assente dal Paradiso
per accendere la luce a coloro che sulla terra vivono nell’oscurità” Madre Teresa di Calcutta
SW era “un essere assolutamente trasparente, pronto a riassorbirsi nella Luce originaria” Gustave Thibon
“Ci sono due specie di esseri elevati: quelli che aderiscono alla propria altitudine e vi si isolano, e quelli che,
saliti fino al cielo per amore, sanno ridiscendere sulla terra per misericordia. SW apparteneva alla seconda
categoria per il suo ideale, ma per sua natura propendeva verso la prima. La tensione di uno sforzo
sovrumano, l’aria tagliente e la vertigine delle cime si diffondevano intorno a lei …la sua stessa elevatezza
appariva come una sorta di sfida incosciente alla mediocrità…Si spiega così l’aspetto offensivo della sua
santità…” Gustave Thibon
L’itinerario interiore di SW sfocia ad un certo punto della sua vita in una radicale esperienza religiosa di tipo
mistico. Una “conversione” di natura affatto particolare, che non la porta ad aderire ad una chiesa, ma a
compiere una scelta di autonomia e di solitudine che è del tutto in armonia con il suo spirito indipendente e
radicale.
Non è però corretto scindere nella sua esistenza una fase “politica” da quella “religiosa”, come se questa
costituisse l’esito inevitabile di una crisi esistenziale definitiva e l’accettazione consapevole di un fallimento.
In realtà non esiste una vera e propria svolta mistica nel senso di un rinnegamento delle precedenti posizioni,
perché Simone Weil è persuasa fin dall’inizio che il mondo in sé sia misticamente pervaso di simboli. C’è
insomma – a ben vedere - una profonda coerenza fra le sue prime ricerche filosofiche e l’approdo mistico
finale.
SW ci dice che “il fine della vita umana è costruire un’architettura nell’anima”, cercando quella perfezione
che ci avvicina e in qualche modo ci rende simili a Dio: “la purezza totale o la morte”. “Noi siamo frammenti
staccati da Dio” e “Dio mi mantiene nell’esistenza perché io vi rinunci”.
L’uomo deve portarsi dietro tutto il suo pesante fardello di carne per arrivare a percepire la presenza
dell’assenza di Dio. Deve eliminare questa sua distanza da Dio, compiendo il cammino opposto a quella della
creazione: deve attuare una de-creazione, deve annullare il suo essere, deve “svuotarsi”, deve distruggere il
proprio io. Questa è la via per poter ricongiungersi con Dio, questo l’itinerario mistico.
Che cos’è l’esperienza mistica per SW? Vediamo alcune sue affermazioni: “la verità mistica è una come la
verità aritmetica o geometrica”; “la mistica di tutti i paesi è identica. Credo che anche Platone debba essere
considerato un mistico e che egli concepisse le matematiche come materia di contemplazione mistica”; “la
mistica è il passaggio al di là della sfera dove il bene e il male si oppongono, e questo tramite l’unione
dell’anima con il bene assoluto”; “ogni sforzo dei mistici ha sempre mirato ad ottenere che nella loro anima
non ci sia più nessuna parte che dica: Io”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Da queste frasi ricaviamo che nella dimensione mistica non valgono più le classiche opposizionicontraddizioni di tipo intellettuale (vero-falso) od etico (bene-male); che le esperienze mistiche sono fra loro
del tutto simili, qualunque sia l’atmosfera-cultura religiosa all’interno della quale nascono; che esiste una
profonda, misteriosa affinità fra le matematiche e le verità colte dai mistici; che per entrare nell’universo
della mistica, dell’unione amorosa con Dio, occorre preliminarmente cancellare l’io, con tutti i suoi legami di
tipo intellettivo o sensibile: “Il possibile è il luogo dell’immaginazione, e quindi della degradazione. Bisogna
volere o ciò che precisamente esiste, o ciò che non può affatto essere; meglio ancora ambedue. Ciò che è e
ciò che non può essere sono ambedue fuori del divenire”.
L’esperienza mistica non è definibile, perché ci manca il linguaggio adatto per poterlo fare; infatti
“l’Inesprimibile, a forza di volerlo esprimere, si degrada”. D’altronde Dio non si dimostra, si sente. “Il bene
incomincia al di là della volontà, come la verità comincia al di là dell’intelligenza”: come dire che i valori
supremi si trovano al di là della sfera di competenza delle ordinarie facoltà umane.
SW indica anche le condizioni necessarie e gli ostacoli presenti sulla strada della mistica: “la grande difficoltà
nella ricerca di Dio è che noi lo portiamo nel centro di noi stessi…non si può uscire da sé con la volontà. Più si
vuole, più si è in se stessi”; “se ti metti all’ultimo posto e prendi come misura l’infimo, il piccolo, allora puoi
capire tutto il resto”. Bisogna anzitutto “formare l’attenzione, uccidendo la riflessione”. La precondizione
fondamentale è l’uscita dal proprio io, per dare spazio a Dio, alla sua Grazia: “contemplare a lungo il vuoto
con accettazione significa aprire il passaggio alla grazia”; quella grazia che - come dice con una mirabile
espressione - “è la nostra clorofilla”, cioè quella linfa che penetrando in noi ci fornisce l’energia necessaria
per elevarci verso Dio. Per SW “non è l’io che prega. Se in me si prega, io debbo appena saperlo”. In definitiva,
l’esperienza mistica non va cercata; bisogna piuttosto creare in sé quello spazio vuoto che consente di
accoglierla quando arriverà: “l’errore consiste precisamente nel ricercare uno stato speciale. Anche la falsa
mistica rientra in questo genere di errore”.
La concezione religiosa di SW è stata accostata allo Gnosticismo, corrente religiosa di ispirazione dualistica
dei primi secoli cristiani che presenta delle affinità con il Manicheismo, una religione condannata duramente
dalla chiesa cattolica. Quello che è comunque certo è una forte, decisiva influenza del platonismo e del
neoplatonismo nel pensiero di SW, che ha al suo centro una opposizione fra il corpo e l’anima. Sono
numerose le sue affermazioni che definiscono il corpo come una prigione (“il corpo è una prigione…il corpo
è una tomba”); e certo l’esperienza vissuta di un corpo che lei percepiva come inadeguato, che era fonte di
una continua sofferenza, e che volontariamente sottoponeva a sforzi eccessivi ed a privazioni sistematiche
(“possa il mio corpo essere uno strumento di supplizio e di morte per tutto ciò che è mediocre nella mia
anima”) dovette rafforzare in lei tale convinzione.
D’altra parte però dice ripetutamente che corpo ed anima sono strettamente uniti, che il corpo è il tramite
necessario del nostro contatto con il mondo, e la via per accedere ai più alti livelli di conoscenza, e perfino a
Dio: “dobbiamo servire il nostro corpo, non dargli ordini; la formula di Bacone [alla natura si comanda soltanto
obbedendole] è una condanna dell’ascetismo”. Nello stesso tempo ribadisce la distinzione fra il piano
naturale e quello soprannaturale: “l’oggetto della mia ricerca non è il soprannaturale, ma questo mondo. Il
soprannaturale è la luce. Non si deve osare farne un oggetto, altrimenti lo si abbassa”. Afferma che “la vita
non ha bisogno di mutilarsi per essere pura” e riprende da Pascal la famosa sentenza “Chi fa l’angelo fa la
bestia”. Ci sono insomma evidenti contraddizioni, indice di una lacerazione nello spirito di SW. D’altra parte
lei ha sempre detto che bisogna “guardare in faccia la contraddizione”.
A conferma del nesso fra dimensione corporea e ed esperienze spirituali, per tentare di definire l’esperienza
mistica SW arriva ad usare un’espressione molto forte, attinta al linguaggio della sessualità: “il matrimonio è
una violenza carnale alla quale si acconsente. Così pure l’unione dell’anima con Dio”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Al centro di ogni mistica cristiana c’è la croce di Cristo: da Teresa d’Avila a S.Giovanni della Croce, tutti hanno
affermato che “la croce è la nostra patria”; essa è il vero ponte che unisce l’uomo a Dio. Il sacrificio di Cristo
è il modello supremo a cui si richiamano, e che vogliono riprodurre in sé. Di conseguenza la preghiera di un
mistico non sarà mai la richiesta di qualcosa, ma l’offerta di sé e la lode di Dio attraverso Cristo: “la preghiera
è rivolta a Dio solo se è incondizionata”. La fede in Dio non è una assicurazione né un tranquillante; al
contrario: “L’amore divino non è una consolazione. Lascia il dolore perfettamente intatto”.
E come San Giovanni della Croce e Teresa d’Avila anche SW sperimenta la “notte oscura dell’anima”. Ecco
come descrive il rapporto mistico fra l’anima e Dio: “Iddio pena, attraverso lo spessore infinito del tempo e
della specie, per raggiungere l'anima e sedurla. Se essa si lascia strappare, anche solo per un attimo, un
consenso puro e intero, allora Iddio la conquista. E quando sia divenuta cosa interamente sua, l'abbandona.
La lascia totalmente sola. Ed essa a sua volta, ma a tentoni, deve attraversare lo spessore infinito del tempo
e dello spazio alla ricerca di colui ch'essa ama. Così l'anima rifà in senso inverso il viaggio che Iddio ha fatto
verso di lei. E ciò è la croce”.
Una esperienza simile fece anche Madre Teresa di Calcutta, una santa in cui un intenso misticismo si
accompagnò sempre alla sua sconfinata carità; essa lasciò nelle sue lettere chiara testimonianza di questa
“notte oscura dello spirito” che dovette attraversare per molti anni: “Padre, da anni avverto questo terribile
senso di perdita, questa solitudine, questo continuo ardente desiderio di Dio che mi dà quella sofferenza nel
più profondo recesso del mio cuore…il posto di Dio nella mia anima è vuoto; non c’è Dio in me…è questo che
io sento: Lui non mi vuole, Lui non è qui. Dio non mi vuole” (lettera del 1961).
Secondo il medico e psichiatra Roberto Assagioli “quando il processo di trasformazione psico-spirituale
raggiunge il suo stadio finale e decisivo, esso produce talvolta un’intensa sofferenza e un’oscurità interiore
che è stata chiamata dai mistici cristiani “notte oscura dell’anima”. I suoi caratteri la fanno assomigliare
molto alla malattia chiamata psicosi depressiva o melanconia. Tali caratteri sono: uno stato emotivo di
intensa depressione, che può giungere fino alla disperazione; un senso acuto della propria indegnità; una
forte tendenza all’auto-critica e all’auto-condanna, che in alcuni casi giunge fino alla convinzione di essere
perduti o dannati; un senso penoso di impotenza mentale; l’indebolimento della volontà e dell’auto-dominio;
un disgusto e una grande difficoltà ad agire”.
Ecco un esempio sconvolgente del tipo di preghiera che SW rivolgeva a Dio: “Padre, in nome del Cristo,
concedimi questo. Che io sia impossibilitata a far corrispondere ad alcuna delle mie volontà un qualsiasi
movimento del corpo… che io sia incapace di ricevere qualsiasi sensazione…che io non sia in grado di collegare
col più piccolo legame due pensieri …che tutto ciò sia strappato da me, divorato da Dio, trasformato nella
sostanza del Cristo e dato per nutrire quegli sventurati il cui corpo e la cui anima sono privi di qualsiasi specie
di nutrimento. E che io sia un paralitico, cieco, sordo, idiota ed ebete” (1942).
Si è parlato della “santità” di SW, ad onta della sua ostinazione nel voler restare fuori della comunità della
Chiesa cattolica: “un essere in cui elementi autentici di santità si uniscono al genio dell’espressione”; “tutto
ciò che sappiamo di SW… ci fa intuire che appartiene a quella chiesa dei santi la cui vita è nascosta in Dio”
(Thibon). Lo stesso Thibon ci invita a considerare che “quando si parla della ‘santità’ di SW non bisogna
dimenticare che un essere ispirato dà sempre di più di quanto possiede”. Lei del resto ebbe sempre la
tormentosa coscienza di essere solo un messaggero, indegno del tesoro che era stata chiamata a trasmettere,
senza possederlo in sé. Di qui l’umiltà estrema, spinta fino al disprezzo di se stessa in quanto persona
empirica; e dall’altra parte quella “certezza intransigente, quell’ostinazione feroce, che l’hanno spesso fatta
spesso tacciare di orgoglio, per tutto quanto si riferiva alla sua ispirazione” (Thibon). Comunque la si voglia
giudicare, la sua fu una santità “disincarnata”, nel senso che in lei le virtù soprannaturali parevano non
accompagnarsi a quelle naturali, fino ad apparire in singolare contrasto con queste.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Inseriamo qui come conclusione di questo capitolo un testo, che è una impressionante documento
dell’esperienza mistica di SW. E’ passato a noi con il titolo di “Prologo ai Quaderni “.
Scritto pochi mesi prima della sua morte, è una allegoria della sua stessa esistenza, del suo rapporto
controverso, di amore/odio, con la Chiesa. La mansarda infatti, di cui leggiamo nella narrazione, potrebbe
rappresentare proprio la Chiesa. Da essa, la mansarda-chiesa, Simone è gettata fuori dall’uomo che l’ama
(figura di Cristo). Gesù e Simone vivono un contrasto drammatico: l’attrazione si trasforma improvvisamente
in brusca rottura, e lei viene cacciata dalla mansarda proprio dal suo amato. Non sa come ritrovarlo. Anzi si
rende conto che non deve nemmeno cercarlo e che non deve rientrare in quella mansarda. Il suo posto è con
gli esclusi, magari in una cella di prigione. La narrazione sembra terminare male: Simone non si sente amata
e neanche degna di essere amata. Ma l’ultima parola, nonostante tutto, è l’affermazione dell’angosciosa
speranza, dell’insopprimibile desiderio di essere comunque amata.
“Entrò nella mia camera e disse: “Miserabile, che non comprendi nulla, che non sai nulla. Vieni con me e
t’insegnerò cose che neppure sospetti”. Lo seguii. Mi portò in una chiesa. Era nuova e brutta. Mi condusse di
fronte all’altare e mi disse: “Inginocchiati”. Io gli dissi: “Non sono stato battezzato”. Disse: “Cadi in ginocchio
davanti a questo luogo con amore, come davanti al luogo in cui esiste la verità”. Obbedii. Mi fece uscire e
salire fino a una mansarda da dove si vedeva attraverso la finestra aperta tutta la città, qualche impalcatura
in legno, il fiume dove alcune imbarcazioni venivano scaricate. Nella stanza c’erano solo un tavolo e due sedie.
Mi fece sedere. Eravamo soli. Parlò. Talvolta qualcuno entrava, si univa alla conversazione, poi se ne andava.
Non era più inverno. Non era ancora primavera. I rami degli alberi erano nudi, senza gemme, in un’aria fredda
e piena di sole. La luce sorgeva, splendeva, diminuiva, poi le stelle e la luna entravano dalla finestra. Poi di
nuovo sorgeva l’aurora. Talvolta taceva, prendeva da un armadio un pane e lo dividevamo. Quel pane aveva
davvero il gusto del pane. Non ho mai ritrovato quel gusto. Mi versava e si versava del vino che aveva il gusto
del sole e della terra dove era costruita quella città. Talvolta ci stendevamo sul pavimento della mansarda, e
la dolcezza del sonno scendeva su di me. Poi mi svegliavo e bevevo la luce del sole. Mi aveva promesso un
insegnamento, ma non m’insegnò nulla. Discutevamo di tutto, senza ordine alcuno, come vecchi amici.
Un giorno mi disse: “Ora vattene”. Caddi in ginocchio, abbracciai le sue gambe, lo supplicai di non scacciarmi.
Ma lui mi gettò per le scale. Le discesi senza rendermi conto di nulla, il cuore come in pezzi. Camminai per le
strade. Poi mi accorsi che non avevo affatto idea di dove si trovasse quella casa. Non ho mai tentato di
ritrovarla. Capii che era venuto a cercarmi per errore. Il mio posto non è in quella mansarda. Esso è dovunque,
nella segreta di una prigione, in uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa
della stazione. Ovunque, ma non in quella mansarda. Qualche volta non posso impedirmi, con timore e
rimorso, di ripetermi un po’ di ciò che egli mi ha detto. Come sapere se mi ricordo esattamente? Egli non è qui
per dirmelo. So bene che non mi ama. Come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto
di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che forse, malgrado tutto, mi ama”.
Per concludere, ci sembra illuminante riportare le parole con cui il grande amico e confidente spirituale
Gustave Thibon chiude il suo libro di testimonianza e memorie dedicato a SW:
“SW ci invita a superare il mondo, ma per meglio abbracciarlo nello stesso sguardo e nella stessa carità. E il
suo appello all’assoluto risuona come un grido d’aiuto e di raccolta nel momento in cui l’umanità, sprofondata
fino alla demenza nell’adorazione del relativo, sente salire alle labbra la nausea della disperazione… Bisogna
aver a lungo contemplato – con l’amara impotenza del desiderio - le cime scalate da SW per aver diritto di
notare i pochi passi falsi che le sono potuti sfuggire nella sua marcia circondata da abissi” (1952).
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
SCHEDA RACHEL BESPALOFF (1895 Nova Zagora, Bulgaria - 1949 South Hadley, USA)
Riportiamo un ritratto di un’altra filosofa francese, anch’essa di origine ebraica, Rachel Bespaloff, che
presenta alcuni curiosi elementi di affinità con Simone Weil. Il punto di contatto più interessante è che anche
lei scrisse (nel 1943, l’anno in cui Simone morì) un saggio sull’Iliade che la leggeva alla luce degli avvenimenti
drammatici del secondo conflitto mondiale.
Appartiene a una famiglia ebraica originaria dell'Ucraina: il padre, Daniel Pasmanik, è un medico con profondi
interessi culturali, sostenitore del sionismo; la madre, Debora Perlmutter, ha una formazione filosofica. In
cerca di un ambiente più tollerante, la famiglia si trasferisce presto dalla Bulgaria in Svizzera. A Ginevra Rachel
cresce, compiendo fin da bambina studi musicali, diplomandosi in pianoforte e composizione al
Conservatorio della città nel 1914; l'anno successivo insegna letteratura francese in un liceo.
Nel 1919 si trasferisce a Parigi per occupare la cattedra di musica ed euritmica all'Opéra. Qui incontra nel
1922 Shraga Nissim Bespaloff, uomo d'affari socio del padre, che sposa e da cui ha la figlia Naomi. Nel 1925,
dopo aver incontrato nella capitale francese il filosofo di ispirazione esistenzialista Lev Šestov, Rachel inizia
a interessarsi di filosofia, frequentando e diventando amica di pensatori liberali del calibro di Daniel Halévy,
Gabriel Marcel, Jacques Schiffrin, Jean Wahl. Scriverà saggi e articoli, sempre pubblicati su riviste filosofiche,
confrontandosi sul pensiero di Heidegger, Kierkegaard, Sestov, Malraux e Camus.
Nel 1930 i coniugi Bespaloff si trasferiscono in provincia a Saint-Raphaël, un ambiente dove Rachel non si
trova a proprio agio, rimpiangendo le frequentazioni e la vivacità culturale di Parigi, a quel tempo rifugio
prediletto per l'èlite di esuli fuggiti dall'ex Impero russo. Rachel vive come una condanna l'allontanamento
dallo stimolante milieu parigino, e ciò è per lei causa di sconforto e solitudine.
Iniziano a manifestarsi i sintomi del suo "male di vivere": durante il 1938 trascorre un periodo in una clinica
svizzera, a Montana, per ristabilirsi dai propri disturbi. Poi, altri due traslochi: prima in una località presso
Tolone e successivamente a Hyères. Per sfuggire ai pericoli presenti per gli ebrei nella Francia di Pétain, dove
vigono le leggi razziali, nell'estate del 1941 lei e la famiglia abbandonano il paese trasferendosi negli USA. Qui
lavora inizialmente alla trasmissione radiofonica La Voix de l'Amerique.
Ma negli Stati Uniti Rachel non riesce a radicarsi; porta però a termine un importante saggio sull'Iliade,
interpretando il poema omerico alla luce dei drammatici avvenimenti contemporanei. Nel 1943, su
raccomandazione dell'amico Jean Wahl, Rachel insegna letteratura francese al College universitario di Mount
Holyoke; ma la rendono infelice la "superficialità" della società americana e penosi dissapori all'interno della
sua famiglia. Le difficoltà economiche persistenti, e le preoccupazioni per le tensioni col marito, gravemente
malato di cuore, e per la madre, anziana e invalida, la logorano. Stimata da colleghi e allievi, Bespaloff si sente
comunque un'esiliata. Muore suicida nel 1949, lasciandosi morire soffocata dal gas in casa sua. Lascia un
messaggio: «Non cercate altre ragioni per il mio suicidio che la mia estrema stanchezza».
Le opere. Edizioni italiane:
Dell'Iliade Città Aperta, 2004
Su Heidegger
Bollati Boringhieri 2010
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
EDITH STEIN
DALLA FENOMENOLOGIA ALLA MISTICA: LA VITA COME RICERCA DELLA VERITÀ
Dopo aver presentato la figura di Simone Weil proponiamo un’altra straordinaria donna del Novecento.
Perché accostarle? Quali sono gli elementi che le accomunano?
Osserviamo: sia l’una che l’altra erano di origine ebraica (sostanzialmente rifiutata dalla prima, e invece
assunta pienamente e fino in fondo dalla seconda). A questo proposito riportiamo una curiosa notizia, non
verificata, presente in un libro su Edith Stein di Waltraud Herbstrith: questa studiosa afferma che tra le due
ci fossero vincoli di parentela…
Entrambe furono filosofe di grande spessore (anche qui però con notevoli differenze nella loro formazione:
Simone fu una pensatrice fuori da qualsiasi appartenenza, per così dire autodidatta, totalmente estranea al
mondo accademico; invece Edith fu inserita nel grande movimento fenomenologico tedesco, e dedita a studi
rigorosi e sistematici).
Entrambe ebbero una significativa evoluzione spirituale dall’ateismo giovanile fino all’approdo alla fede
cristiana, con esiti di tipo mistico – la Stein si spinse più in là, con la conversione formale dall’ebraismo al
cattolicesimo e l’ingresso nell’ordine religioso delle carmelitane. Va anche detto che questo percorso fu per
l’una come per l’altra molto difficile e contrastato.
Entrambe manifestarono una fortissima sensibilità sociale e politica, accompagnata ad un grande spirito di
dedizione al prossimo; in ambedue la riflessione filosofica e poi il misticismo si unirono sempre all’impegno
concreto fra gli uomini.
Infine, le unisce un radicalismo ed una fermezza assoluta nel realizzare quella che sentivano come la loro
vocazione. Furono due personalità molto forti ed indipendenti, ben determinate a seguire la loro strada e ad
affermare le loro posizioni, a qualsiasi costo.
In loro risplende infine “la straordinaria vocazione femminile a resistere, a non perdere la speranza” (Eugenio
Borgna), e soprattutto (è ancora Borgna a sottolinearlo) troviamo due esistenze che “sentono di potersi
realizzare solo nel sacrificio estremo”. Due caratteristiche che si ritrovano in un’altra grande donna,
testimone dell’eroismo femminile di fronte all’orrore: Etty Hillesum.
Ma le differenze fra le due sono altrettanto importanti.
Oltre a quelle già accennate, si deve osservare che Edith seguì un percorso più lineare, mantenendo come
filo conduttore della sua vita una grande passione pedagogica. Simone Weil ebbe un cammino più irregolare:
nonostante avesse anch’essa una forte inclinazione per l’insegnamento, lo abbandonò più volte, per poi
lasciarlo del tutto, tesa come era alla ricerca continua di esperienze di vita sulle quali verificare le proprie
intuizioni.
Gli stili di pensiero e di scrittura non potrebbero essere più differenti: più rigorosamente razionale e
sistematico, di tono accademico quello di ES; più intuitivo, frammentario e quasi oracolare quello di SW, che
spesso poco si preoccupa di fondare o giustificare le proprie asserzioni o di evitare le contraddizioni in cui la
sua esplorazione viene ad imbattersi.
Ancora: ES presenta una identità molto forte, contemporaneamente tedesca ed ebraica – senza che le due
appartenenze appaiano in conflitto; SW invece rigetta la sua identità ebraica, anzi non la riconosce neppure;
si sente erede piuttosto di una tradizione universale, che attinge alle più disparate fonti filosofiche e religiose,
sintetizzate per lei dal mondo greco classico; più in generale sente che la sua patria è il mondo intero, senza
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
privilegiare nessuna identità parziale. Nella sua inesausta ricerca della verità volle provare tutto, senza
risparmiarsi e senza fare progetti di vita a medio o lungo termine, sollecitata dagli eventi e dalla spinta che la
muoveva.
Inoltre appare evidente come ES si mantenga, pur con accenti personali ed originali, nell’ambito di una
ortodossia di pensiero cattolica, nel solco della tradizione tomista; mentre SW è sostanzialmente “eretica”,
nel suo estremo slancio mistico, rispetto alla filosofia/teologia ufficiale della Chiesa.
Ci sono insomma sufficienti elementi per rendere interessante un confronto fra queste due grandi figure di
donna. Si tratta di due personalità molto diverse fra loro, eccezionali ed esemplari. Due autentiche icone di
una femminilità fuori dagli schemi e da qualsiasi stereotipo.
LA VITA DI EDITH STEIN
“Spiritualità personale significa vigilanza e apertura” Edith Stein
“La vocazione non la si trova semplicemente dopo aver riflettuto ed esaminato le varie strade: è una risposta
che si ottiene con la preghiera” Edith Stein
“Quanto più si è sprofondati in Dio, tanto più si deve uscire da sé ed entrare nel mondo per portarvi la vita
divina” Edith Stein
“Negli ebrei il radicalismo e l’amore per il martirio è sempre stato molto forte” Edmund Husserl
L’infanzia e la giovinezza
Edith nasce a Breslavia il 12 ottobre 1891; è ultima di 11 fratelli - di cui 4 morti in tenerissima età - in una
famiglia ebrea osservante, proprio nel giorno della più importante festività religiosa ebraica, lo Yom Kippur.
Il padre si chiama Siegfried e la madre Augusta Courant.
Nel luglio 1893 papà Siegfried, partito per un viaggio di lavoro, muore per una insolazione. La mamma, donna
forte ed energica, prende le redini della famiglia e della ditta di legname. Il rapporto con la madre,
caratterizzato da un amore reciproco intenso e profondo, segnerà tutta la sua vita. Edith la ammirò sempre
moltissimo; ma le diede un grandissimo dolore quando decise di battezzarsi, e ancor più quando entrò in
convento. La madre comunque accettò queste sue scelte, pur con il cuore spezzato da una decisione che non
comprendeva – come del resto già in precedenza aveva rispettato altre “bizzarre” scelte della figlia (ad
esempio quella di interrompere all’improvviso gli studi ginnasiali).
Nel 1897 Edith inizia a frequentare la “Viktoria schule” nella sua città natale; da subito si distingue per la sua
intelligenza vivace e precoce (“la mia vivacità era irrefrenabile, non stavo mai ferma e la mia mente
traboccava di idee bizzarre; ero impertinente e presuntuosa, quando qualcosa non procedeva secondo i miei
desideri, dimostravo una caparbietà e una collera indomabili”). Terminate le elementari, si iscrive, sempre a
Breslavia, al ginnasio.
Nel 1904 decide di non voler più continuare gli studi e si trasferisce ad Amburgo presso la sorella Elsa. E’
sempre in questi tempi che matura la decisione di allontanarsi dalla fede ricevuta in famiglia. Rivela in queste
sue scelte un carattere forte e indipendente (“ciò che non posso tollerare è l’idea di essere a disposizione di
un altro… sottostare ad altri, in poche parole ubbidire, non mi è possibile” scriverà poi di sé; come pure:
“Venivo rimproverata – a buon diritto – per la mia ambizione e chiamata, non senza una punta di malizia,
Edith l’intelligente”). Secondo la sua grande amica Hedwig Conrad Martius aveva una “natura semplice,
innocente, quasi sempre lieta e gentile”, ma anche “un carattere straordinariamente chiuso”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Fu una donna dalla vita piena, dotatissima per gli studi, amante delle gite in montagna ma anche del ballo e
dello sport. Fin da piccola sentiva dentro di sé di “essere destinata a grandi imprese e di non appartenere
intimamente all’ambiente borghese e ristretto in cui ero nata… continuavo a vivere nella convinzione che mi
fosse riservato qualcosa di grande”. Era anche ipercritica ed intransigente nei rapporti interpersonali: “Avevo
sempre creduto che fosse mio buon diritto puntare il dito senza troppi riguardi contro le debolezze, gli errori,
i difetti e tutti gli aspetti negativi che attiravano la mia attenzione negli altri, usando spesso un tono
canzonatorio ed ironico. C’era chi mi trovava ‘squisitamente maligna’…” In compenso numerose
testimonianze la ritraggono come una persona capace di profonda amicizia, fedele, altruista e generosa, e
anche “di una simpatia fuori del comune…un senso dello humour fine e sommesso” (Anton Uebleis).
Gli studi vengono però ripresi e nel 1911 sostiene gli esami scritti di maturità scientifica; l’esito è così
eccellente che viene dispensata dal sostenere le prove orali; integra poi l’esame di greco e ottiene anche la
maturità classica.
L’università, l’incontro con Husserl
Si iscrive dunque all’Università, sempre a Breslavia, alla facoltà di Germanistica, storia, filosofia e psicologia
del pensiero. Su quest’ultima materia investe notevoli attese, ma ne rimane delusa al punto tale da decidere
di cambiare ateneo. Passa all’Università di Gottinga dove il filosofo Husserl, fondatore della fenomenologia,
la ammette - prima donna - a frequentare il suo primo corso. E’ per Edith lo spalancarsi di un orizzonte nuovo,
ciò a cui anelava.
“Fin dai primi anni di vita sapevo che è molto più importante essere buoni che intelligenti” scrive nella sua
autobiografia. E in effetti Edith rivela subito una grande sensibilità verso la sofferenza umana. “Si rafforzò in
lei l’avversione contro tutto ciò che poteva mortificare la dignità o la libertà di pensiero dell’uomo”. Intanto
impara a moderare le intemperanze del suo carattere e ad acquisire una grande capacità di autocontrollo.
Nel 1914 presta per qualche tempo servizio come crocerossina presso l’ospedale per malattie infettive di
Mährisch-Weisskirchen (“Se la gente era costretta a soffrire giù nelle trincee, perché io dovevo stare meglio
di loro?"). Fiaccata però da una terribile influenza, deve rimanere chiusa in casa; riveduti i propri appunti
universitari, riesce a sostenere l'ultimo esame in presenza di Husserl nel gennaio 1915 dopo la riapertura
delle università: il risultato è maxima cum laude. Tornata nuovamente al volontariato, raggiunge nell'aprile
del 1915 Mahrisch-Weisskirchen nella zona dei Carpazi, dove la guerra imperversava con violenza, per
occuparsi dei malati di tifo.
Nel 1916 Husserl lascia Gottinga per trasferirsi a Friburgo. Edith segue il suo maestro; presso questo ateneo
discute, unica donna in quell’anno, la sua tesi di laurea sul problema dell’empatia, ottenendo la votazione
“summa cum laude”. Diventa assistente di Husserl, ma dopo due anni lascia l’incarico, perché da tempo
avverte che tale ruolo è troppo ristretto per lei, che ha bisogni di spazi e modalità di ricerca assolutamente
personali (“L'attività di assistente – scrisse – peraltro mi occupa tanto che non mi è possibile dedicarmi a un
lavoro personale intenso e indisturbato”). Ma anche perché ha maturato da tempo un dissenso su alcuni
aspetti delle dottrine del maestro, dissenso che esprime senza alcuna remora o soggezione. Resterà però in
ottimi rapporti con il Husserl, il quale pubblicherà sulla sua rivista i primi importanti saggi della sua allieva.
In questi anni si dedica anche all'attività politico-sociale, impegnandosi nel Partito Democratico Tedesco
(DDP) a favore del diritto di voto delle donne e del ruolo nella società della donna che lavora.
Nel 1917 va a fare visita alla vedova Reinach: Adolf Reinach, compagno di studi di Edith, anch’egli filosofo e
fenomenologo, è infatti morto in guerra. La vista del dolore composto della donna, della sua forza interiore
che affonda le sue radici in un cristianesimo convinto, costituisce per Edith il primo incontro con la fede
cristiana - come più tardi Edith stessa racconterà.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Nonostante avesse già avuto contatti con il cattolicesimo, rimane poi sconvolta osservando una donna
"qualsiasi” che con i sacchetti della spesa era entrata in una chiesa per pregare; questo avvenimento segna
l'inizio del suo cammino di avvicinamento alla fede cattolica.
E’ questo per lei un periodo di profonda crisi esistenziale, causata sia dalla situazione professionale
insoddisfacente, sia dalle inquietudini religiose, sia infine da relazioni affettive contrastate con due colleghi
fenomenologi.
Negli anni di università ha infatti due relazioni sentimentali importanti: una con il filosofo e medico tedesco
Hans Lipps, e l’altra con il filosofo polacco Roman Ingarden, con il quale mantenne una corrispondenza
trentennale. Nel 1918, con un pizzico di impertinenza, gli scrive: «Qualche volta penso che io le debba
sembrare una persona molto stravagante e lunatica, e non senza ragione. Per mitigare questa impressione
posso soltanto dire che Lei è l'unica vittima dell'irrazionalità che è in me e che io al contrario nei confronti di
tutto il mondo mi comporto in modo terribilmente razionale. Tanto razionale che considererebbero forse le
mie lettere come una falsificazione, se Lei un giorno avesse intenzione di pubblicarle. Quindi non lo faccia!».
Di Hans Lipps – di cui Edith si era fortemente innamorata, ma che poi sposerà un’altra - Edith conserverà
sempre una fotografia, che tiene sulla sua scrivania fino alla sua entrata in convento. Dopo essere stato
lasciato dalla moglie Hans cerca di riallacciare il rapporto con Edith; ma lei ormai aveva fatto un’altra scelta…
La crisi religiosa
Già a partire dai primi anni di Gottinga (1911-1914) Edith annota: "Avevo un profondo rispetto per le questioni
di fede e avevo conosciuto persone credenti; a volte andavo addirittura in una chiesa - protestante - con le
mie amiche... ma non avevo ancora ritrovato la via verso Dio”. A questo proposito si nota un fatto storico
significativo: nel gruppo di allievi e collaboratori di Husserl ci furono parecchie conversioni religiose. Lo stesso
Husserl e la moglie erano passati dal giudaismo al protestantesimo, alla Chiesa Riformata Luterana di Vienna,
dove ricevettero il battesimo (Husserl aveva 27 anni). I loro figli erano stati istruiti nella religione protestante.
Husserl, sebbene nel suo lavoro filosofico non si ponga esplicitamente il problema religioso e affermi di non
essere un filosofo cristiano, pure, in una conversazione privata con l'allieva e amica di Edith, Aldegonda,
esclama: "Ve l'ho detto tante volte: la mia filosofia, la fenomenologia, non vuole essere altro che una via, un
metodo che permetta a coloro che si sono allontanati dal cristianesimo e dalla Chiesa di ritornare verso Dio".
Nel gruppo husserliano spicca il prof. Adolf Reinach che, insieme alla moglie Anna si converte dal giudaismo
alla fede evangelica. E questa, dopo la morte in guerra del marito, passa alla Chiesa cattolica. Lo stesso
avverrà della moglie del prof. Husserl e del prof. Alexandre Koyré. Anche la prof.ssa Hedwig Conrad-Martius
si convertì alla fede evangelica come il marito; saranno entrambi grandi amici di Edith, ed è nella loro casa
che Edith avrà la grande folgorazione, dopo la lettura - tutta d'un fiato - dell'Autobiografia di S.Teresa d'Avila:
"Questa è la verità!" E sarà proprio l'amica Hedwig, protestante, a fare da madrina al battesimo cattolico di
Edith.
Ma fu soprattutto Max Scheler, aggiuntosi più tardi al gruppo e spesso in polemica con Husserl, a esercitare
una forte influenza su Edith, anche in materia di spiritualità: "la maniera che aveva... di diffondere
sollecitazioni geniali, senza approfondirle sistematicamente, aveva qualcosa di brillante e seducente". I suoi
scritti riguardanti i valori e l'empatia ebbero per Edith un'importanza particolare. Proprio allora ella cominciò
ad occuparsi dei problemi della Einfuhlung (empatia), che fu l'argomento della sua tesi di laurea.
Nell’estate del 1921 si reca dagli amici fenomenologi i coniugi Conrad Martius. Nella loro residenza estiva
legge, in una notte, la “Vita” di S. Teresa d’Avila, trovando tra quelle righe la pienezza di Verità che da lungo
tempo la sua coscienza si era preparata ad accogliere. E’ in quell’estate che matura così la sua decisione di
aderire alla fede cristiana e alla confessione cattolica (sia i Reinach che i Conrad Martius erano infatti cristiani,
di confessione protestante). Edith si sentì subito più attratta dal cattolicesimo che dal protestantesimo;
sentiva infatti che “per i protestanti il cielo è chiuso, per i cattolici invece è aperto".
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Un presentimento dell’imminenza della svolta decisiva della sua vita si ha in queste sue confessioni di quel
periodo: "Faccio progetti per l'avvenire e organizzo di conseguenza la mia vita presente. Ma nel profondo
sono convinta che si produrrà un qualche avvenimento che butterà a mare tutti i miei progetti. E' la fede viva,
la fede autentica alla quale ancora rifiuto di consentire, è a questa fede che io impedisco di divenire attiva
dentro di me".
La conversione
L’1 gennaio 1922 riceve il Battesimo e la Prima Comunione nella Parrocchia di San Martino a Bergzabern,
mentre il 2 febbraio del medesimo anno riceve il sacramento della Cresima nella cappella privata del Vescovo
di Spira. La conversione segna per Edith la conclusione del travaglio interiore che l’aveva tormentata negli
ultimi anni. Essa non solo non segnò il distacco e tanto meno il tradimento del suo essere ebrea, ma,
paradossalmente, segnò una nuova riscoperta della propria ebraicità: “Quando ero una ragazza di quattordici
anni smisi di praticare la religione ebraica; e per prima cosa, dopo il mio ritorno a Dio, mi sono sentita ebrea".
Dal 1922 al 1932 insegna lingua e letteratura tedesca presso l’Istituto Magistrale “S. Maria Maddalena” di
Spira, una scuola privata tenuta dalle Suore Domenicane; contemporaneamente si dedica allo studio di S.
Tommaso d’Aquino e traduce in tedesco le “Questiones disputatae de veritate”. Traduce anche le lettere e i
diari di John Henry Newman da lui scritti prima della conversione. Negli ultimi tempi del suo soggiorno a Spira
abbozza la stesura del suo grande studio “Atto e potenza”.
Nel 1928 sceglie come suo direttore spirituale il benedettino padre Raphael Walzer, abate di Beuron, luogo
ove Edith trascorre tempi di preghiera e di meditazione, soprattutto attorno alla Settimana Santa.
Nel 1929 inizia un ciclo di conferenze per la promozione della donna a Praga, a Vienna, a Salisburgo, a Basilea,
a Parigi, a Monaco e a Bendorf.
Il 27 marzo 1932 lascia Spira per dedicarsi più liberamente agli studi filosofici; insegna all’Istituto di
Pedagogia Scientifica di Monaco. Entra inoltre in contatto con numerose personalità, tra cui Erich Przywara,
Jacques Maritain, Martin Heidegger, che aveva conosciuto già a Friburgo e le era subentrato come assistente
di Husserl; rimane sempre in buoni rapporti anche con l'originario ambiente fenomenologico.
A seguito dell’ascesa al potere di Hitler e delle conseguenti leggi razziali, nel 1933 è costretta a lasciare
l’insegnamento. Il 12 aprile 1933, alcune settimane dopo l'insediamento di Hitler al cancellierato, Edith Stein
scrive a Roma per chiedere a papa Pio XI e al suo segretario di stato - il cardinale Pacelli, già nunzio apostolico
in Germania e futuro papa Pio XII - di non tacere più e di denunciare le prime persecuzioni contro gli ebrei.
Ottiene finalmente il permesso dal suo direttore spirituale di varcare la soglia del Carmelo, come era suo
desiderio fin dal giorno del suo Battesimo.
L’ingresso al Carmelo
Il 14 ottobre 1933 entra così tra le Carmelitane Scalze di Colonia; veste l’abito carmelitano il 15 aprile 1934
ricevendo il nuovo nome di Teresa Benedetta della Croce. In sua madre e tra i suoi familiari il suo ingresso in
convento suscita un grande disappunto, e alcuni lo considerano come una fuga e una sorta di “tradimento”
nei confronti del suo popolo, che si trovava in un momento difficilissimo. “Ho dovuto compiere il passo da
sola e totalmente immersa nella notte della fede. Spesso, nel corso di quelle settimane così dure, mi sono
chiesta quale di noi due, mamma o io, ci avrebbe rimesso la salute. Ma siamo rimaste ferme sulle nostre
posizioni fino all'ultimo giorno"
Il 21 aprile 1935 emette i voti temporanei e nel 1938 quelli solenni. Pochi giorni dopo la sua Professione
muore il suo amato maestro Husserl, col quale mai aveva interrotto i rapporti di amicizia.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Nel 1935 riceve l’ordine, dal Padre Provinciale del Carmelo, di preparare la stesura per la pubblicazione della
sua opera “Essere finito, essere eterno”, iniziata già a Spira col titolo di “Atto e potenza”.
Verso il 1936 era pronta per le stampe. Non riuscì però a pubblicarla, perché anche le case editrici più
coraggiose non osavano ospitare l’opera di un’ebrea; e pubblicare sotto falso nome un’opera così personale
le parve una soluzione inaccettabile.
9 novembre 1938, “notte dei cristalli”: 7500 negozi di ebrei vengono distrutti in Germania, Austria e
Cecoslovacchia per ordine di Hitler; centinaia gli uccisi, migliaia i deportati a Dachau, Buchenwald e
Sachsenhausen. Edith decide di chiedere rifugio a un qualche Carmelo fuori dalla Germania per non mettere
in pericolo, con la sua presenza, la vita delle sue Consorelle.
Il 31 dicembre 1938 insieme alla sorella Rosa, anch’ella passata al cattolicesimo e divenuta Terziaria
Carmelitana, lascia Colonia il e viene mandata dai suoi superiori nel convento di Echt, in Olanda.
Il 23 marzo 1939 si offre a Dio quale vittima di espiazione e il 9 giugno dello stesso anno redige il suo
testamento spirituale: “Fin da adesso accetto la morte che Dio mi ha destinato, con una totale sottomissione
alla sua santissima volontà. Prego il Signore di voler accettare la mia vita e la mia morte per la sua gloria, per
le intenzioni dei SS.Cuori di Gesù e di Maria, per quelle della Chiesa. In particolare... in espiazione per il rifiuto
della fede da parte del popolo ebreo, affinché il Signore sia accolto dai suoi e venga il suo regno nella gloria;
per la salvezza della Germania e per la pace nel mondo".
Nel 1941, in occasione del IV centenario della nascita di S. Giovanni della Croce, riceve dai Superiori l’ordine
di scrivere un libro sulla vita e le opere del Santo: nasce così la “Scientia Crucis”, opera rimasta interrotta per
la sua deportazione. In essa si trovano queste parole, che sembrano anticipare il suo martirio finale: “Come
Gesù, nell’abbandono prima della morte, si consegnò nelle mani dell’invisibile e incomprensibile Iddio, così
dovrà fare anche l’anima, gettandosi a capofitto nel buio pesto della fede, che è l’unica via verso
l’incomprensibile Iddio”.
Il 26 luglio 1942 dai pulpiti di tutte le chiese cattoliche d’Olanda viene letta la “Lettera Pastorale”
dell’Episcopato che condanna la deportazione degli ebrei.
La morte, la canonizzazione
Il 2 agosto 1942 si abbatte la rappresaglia nazista contro tutti i cattolici di ascendenza ebraica. Edith, insieme
alla sorella Rosa, viene prelevata dal Monastero di Echt e deportata prima nel campo di concentramento di
Amersfort, poi in quello di Westerbork e infine in quello di Auschwitz-Birkenau. Muore in una camera a gas
presumibilmente il 9 agosto 1942 e il suo corpo viene cremato.
Anche il fratello Paul e la sorella Frieda muoiono in campo di concentramento, a Theresienstadt, come pure
Eva, figlia del fratello Arno.
Gli altri suoi familiari riescono a emigrare negli USA.
Il 4 gennaio 1962 il Cardinale Frings, arcivescovo di Colonia, indice l’apertura del processo di beatificazione.
Il 4 settembre 1972 la pratica passa a Roma. Il 15 febbraio 1986 la commissione cardinalizia presenta al Santo
Padre Giovanni Paolo II la richiesta di procedere alla beatificazione della Serva di Dio come martire per la
fede. L’1 maggio 1987 viene beatificata a Colonia da Giovanni Paolo II. Lo stesso papa la proclama santa l’11
ottobre 1998 e compatrona d’Europa l’1 ottobre 1999. La sua festa liturgica, nel calendario della Chiesa
cattolica, è il 9 agosto col nome di S. Teresa Benedetta della Croce.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Lettera di Edith Stein a papa Pio XI sulla situazione degli ebrei (12 aprile 1933)
“Padre Santo! Come figlia del popolo ebraico, che per grazia di Dio è da 11 anni figlia della Chiesa cattolica,
ardisco esprimere al padre della cristianità ciò che preoccupa milioni di tedeschi. Da settimane siamo
spettatori, in Germania, di avvenimenti che comportano un totale disprezzo della giustizia e dell’umanità, per
non parlare dell’amore del prossimo. Per anni i capi del nazionalsocialismo hanno predicato l’odio contro gli
ebrei. Ora che hanno ottenuto il potere e hanno armato i loro seguaci - tra i quali ci sono dei noti elementi
criminali - raccolgono il frutto dell’odio seminato.
Le defezioni dal partito che detiene il governo fino a poco tempo fa venivano ammesse, ma è impossibile farsi
un’idea sul numero in quanto l’opinione pubblica è imbavagliata. Da ciò che posso giudicare io, in base a miei
rapporti personali, non si tratta affatto di casi isolati. Sotto la pressione di voci provenienti dall’estero sono
passati a metodi più "miti" e hanno dato l’ordine "che a nessun ebreo venga torto un capello".
Questo boicottaggio - che nega alle persone la possibilità di svolgere attività economiche, la dignità di
cittadini e la patria ha indotto molti al suicidio: solo nel mio privato sono venuta a conoscenza di ben 5 casi.
Sono convinta che si tratta di un fenomeno generale che provocherà molte altre vittime. Si può ritenere che
gli infelici non avessero abbastanza forza morale per sopportare il loro destino. Ma se la responsabilità in
gran parte ricade su coloro che li hanno spinti a tale gesto, essa ricade anche su coloro che tacciono.
Tutto ciò che è accaduto e ciò che accade quotidianamente viene da un governo che si definisce "cristiano".
Non solo gli ebrei ma anche migliaia di fedeli cattolici della Germania e, ritengo, di tutto il mondo da settimane
aspettano e sperano che la Chiesa di Cristo faccia udire la sua voce contro tale abuso del nome di Cristo.
L’idolatria della razza e del potere dello Stato, con la quale la radio martella quotidianamente le masse, non
è un’aperta eresia? Questa guerra di sterminio contro il sangue ebraico non è un oltraggio alla santissima
umanità del nostro Salvatore, della beatissima Vergine e degli Apostoli? Non è in assoluto contrasto con il
comportamento del nostro Signore e Redentore, che anche sulla croce pregava per i suoi persecutori? E non
è una macchia nera nella cronaca di questo Anno Santo, che sarebbe dovuto diventare l’anno della pace e
della riconciliazione?
Noi tutti, che guardiamo all’attuale situazione tedesca come figli fedeli della Chiesa, temiamo il peggio per
l’immagine mondiale della Chiesa stessa, se il silenzio si prolunga ulteriormente. Siamo anche convinti che
questo silenzio non può alla lunga ottenere la pace dall’attuale governo tedesco. La guerra contro il
Cattolicesimo si svolge in sordina e con sistemi meno brutali che contro il Giudaismo, ma non meno
sistematicamente. Non passerà molto tempo perché nessun cattolico possa più avere un impiego a meno che
non si sottometta senza condizioni al nuovo corso. Ai piedi di Vostra Santità, chiedendo la benedizione
apostolica”.
Dott.ssa Edith Stein
docente all’Istituto tedesco di Pedagogia scientifica presso il Collegium Marianum di Münster
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DALL’AUTOBIOGRAFIA DI EDITH STEIN
Edith Stein ha lasciato una interessantissima autobiografia (“Storia di una famiglia ebraica” nell’edizione
italiana) - scritta in gran parte nel 1933, e ripresa senza concluderla nel 1939 - che è anche uno spaccato di
vita di una famiglia ebraica osservante degli inizi del Novecento in Germania.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
A proposito di questa autobiografia, Edith nella prefazione indica il motivo esatto per cui ha avvertito nella
sua anima il bisogno di redigerla. Ella così scrive:
“Negli ultimi mesi gli ebrei tedeschi sono stati strappati alla tranquilla ovvietà dell'esistenza e costretti a
riflettere su se stessi, sulla loro natura e sul loro destino. […] Ma l'umanità ebraica è il prodotto necessario del
'sangue ebraico' tout court? I grandi capitalisti, la letteratura saccente, le menti irrequiete che hanno
ricoperto ruoli di primo piano nei movimenti rivoluzionari degli ultimi decenni sono gli unici o anche soltanto
i più autentici rappresentanti dell'ebraismo? In tutti gli strati del popolo tedesco si trovano persone che lo
negano: essi sono entrati in contatto con le famiglie ebree come impiegati, vicini di casa, compagni di scuola
e di università, e vi hanno trovato bontà d'animo, comprensione, calorosa partecipazione e solidarietà […] Ma
molti altri non hanno fatto queste esperienze. Tale opportunità è negata soprattutto ai giovani, che oggi
vengono educati all'odio razziale fin dalla primissima infanzia. Nei loro confronti, noi, che siamo cresciuti
nell'ebraismo, abbiamo il dovere di rendere testimonianza”.
Fin dai tempi della scuola superiore Edith affronta con molta serietà il percorso di studi; dalla sua
autobiografia sappiamo che sostiene la maturità scientifica riportando ottimi voti. Si iscrive poi all’Università
della sua città natale, immergendosi a capofitto nei corsi e nelle lezioni, con una modalità che dimostra con
evidenza come ella fosse mossa da una autentica passione per la conoscenza, da una urgenza di trovare
risposte alle domande interiori, da un forte senso di responsabilità storica e civile.
Lo racconta Edith stessa:
"Il giorno dopo mi trovavo dinanzi al famoso quadro per gli avvisi. In uno stretto corridoio della nostra cara,
vecchia università di Breslavia, c'era una fila intera di lavagne a muro, completamente ricoperte di piccoli
foglietti bianchi sui quali i docenti comunicavano il tema, l'ora, il luogo e l'inizio delle loro lezioni. Bisognava
studiare tutto quanto con molta attenzione, poiché vi erano delle divergenze rispetto all'elenco delle lezioni
in stampa. Fu qui che composi il mio orario: fu un bene che l'orario di alcuni seminari da me presi in
considerazione coincidesse, in modo che fui costretta a una selezione. Altrimenti sarei certo arrivata a 40 o
50 ore settimanali. Ma anche così ce n'erano abbastanza: l'indogermanico, il protogermanico e la
grammatica tedesca moderna, la storia del dramma tedesco, la storia della Prussia nell'età di Federico il
Grande e la storia costituzionale inglese, un corso di greco per principianti (ero sempre stata molto
insoddisfatta che non ci fossero licei classici femminili ed ora volevo recuperare in parte le cose perdute;
inoltre le disposizioni per gli esami di storia richiedevano qualche nozione di greco). A ciò si aggiunse la cosa
che aspettavo con maggiore impazienza: quattro ore di introduzione alla psicologia [...] Mi trovavo bene con
l'ordine del giorno completamente occupato e vi sguazzavo allegramente come un pesce nell'acqua limpida
e al sole caldo".
E ancora: “Ero indignata dall’indifferenza con la quale la maggior parte dei miei compagni di studio si
ponevano nei confronti delle questioni di carattere generale: una parte di essi, durante i primi semestri,
inseguiva soltanto il divertimento, altri si preoccupavano soltanto di riuscire a mettere insieme le nozioni
necessarie al superamento dell’esame, e assicurarsi poi il cibo”.
Con l’onestà interiore e il rigore intellettuale che la contraddistinguono, quando si rende conto che
l’Università di Breslavia non ha più nulla da offrirle in quanto a nuovi stimoli, a seguito anche della lettura
delle “Ricerche logiche” di Husserl, lascia Breslavia per Gottinga. Lì trova il suo habitat, al punto tale non solo
da lasciarsi formare come fenomenologa, ma anche da dare poi il suo personalissimo contributo con la sua
ricerca sull’empatia.
Dalla sua autobiografia emerge anche l’influenza che esercitò su di lei lo stimolante ambiente del Circolo
filosofico di Gottinga, riunito attorno ad Husserl. In particolare, oltre al maestro, fu la figura Max Scheler ad
avere per lei molta importanza, anche al di là dell'ambito filosofico. Egli infatti era passato dal giudaismo alla
Chiesa cattolica, ma poi, per motivi di vita privata, se n'era allontanato, e infine vi era rientrato. Scheler
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
"aveva molte idee cattoliche e sapeva divulgarle facendo uso della sua brillante intelligenza e abilità
linguistica. Fu così che venni per la prima volta in contatto con un mondo che fino ad allora mi era stato
completamente sconosciuto. Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia mi dischiuse un campo di
"fenomeni" dinanzi ai quali non potevo più essere cieca... I limiti dei pregiudizi razionalistici nei quali ero
cresciuta senza saperlo, caddero, e il mondo della fede comparve improvvisamente dinanzi a me. Persone con
le quali avevo rapporti quotidiani e alle quali guardavo con ammirazione vivevano in quel mondo. Doveva
perciò valere la pena almeno di riflettervi seriamente. Per il momento non mi occupai metodicamente di
questioni religiose; ero troppo occupata in molte altre cose. Mi accontentai di accogliere in me, senza opporre
resistenza, gli stimoli che mi venivano dall'ambiente che frequentavo, e quasi senza accorgermene ne fui pian
piano trasformata".
La storia è sempre stata una delle grandi passioni di Edith. Lo racconta anche nella sua autobiografia, a
proposito dei corsi seguiti all’università di Breslavia:
“L’esposizione [dei docenti], condotta con larghezze di vedute, delle connessioni della storia universale
risvegliò in me un tale amore per la storia che durante i primi semestri ero ancora indecisa se farne o meno il
mio principale ambito di studio. Questo amore per la storia non significava per me una pura e semplice
immersione romantica nel passato; ad esso era strettamente collegata un’appassionata partecipazione agli
avvenimenti politici presenti come divenire storico ed entrambe le cose scaturivano da un senso di
responsabilità sociale insolitamente forte, da un sentimento di solidarietà con tutta l’umanità, ma anche con
la comunità più prossima”.
Queste sue parole rivelano un forte senso di responsabilità verso il presente. Lo si è visto proprio nella sua
immediata percezione della pericolosità di Hitler e dell’ideologia nazionalsocialista, quando ancora i più non
ne avevano il benché minimo sentore (“Nella grande battaglia che, più che mai, è in corso tra Cristo e Lucifero,
vi sono quelle che sono chiamate per vocazione a formare gli uomini che devono andare al fronte. Armarci
per la lotta e rimanere armate in permanenza: questo è il nostro dovere più pressante").
Edith è di stirpe ebraica e per questo morirà ad Auschwitz-Birkenau. Noi però sappiamo che, come pure tutta
la sua famiglia, si sentiva assolutamente prussiana. E’ un esempio di quella doppia identità che si ritrova in
molti ebrei della Germania del primo Novecento, e che costituisce uno degli aspetti più impressionanti della
loro tragedia esistenziale. Edith è e si vive come assolutamente tedesca. Lo studio della storia e la
partecipazione alla vita politica del suo tempo stimolano in lei profonde riflessioni che la portano a maturare
delle posizioni personali molto chiare e ferme.
Sempre nella sua autobiografia scrive:
“Tanto mi ripugnava un nazionalismo di tipo darwinismo, quanto fermamente ero convinta dell’idea e della
necessità naturale e storica di Stati singoli e di popoli e nazioni di indole diversa. Perciò, concezioni socialiste
e altre aspirazioni internazionali non fecero mai presa su di me. Sempre più mi liberavo anche delle idee
liberali nelle quali ero cresciuta, per arrivare a una positiva concezione dello Stato, vicina a quella
conservatrice, pur rimanendo sempre estranea all’impronta particolare del conservatorismo prussiano”.
Non si può dunque comprendere Edith fuori dalla sua “germanicità”.
Come non si può comprenderla senza tener conto del suo profondissimo rapporto con l’ebraismo. Va
precisato che la sua identificazione con esso era sempre stata di tipo culturale e morale piuttosto che religiosa
(infatti non fu mai un’ebrea osservante, anzi nella giovinezza si dichiarò e si sentì sempre atea). La sua
conversione fu quindi un passaggio non tanto dall’ebraismo al cristianesimo, quanto dall’irreligione alla fede
cristiana. L’educazione ricevuta dalla madre, caratterizzata da un grande rigore morale, lasciò in lei
un’impronta profondissima: “La mamma ci insegnava l'orrore del male. Quando diceva: "è peccato", quel
termine esprimeva il colmo della bruttezza e della cattiveria, e ci lasciava sconvolti".
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Fu sempre orgogliosa di appartenere al popolo da cui erano nati Cristo e Maria sua madre; sostenne con
ardore i movimenti sionistici in Palestina e desiderava per questo trasferirsi nel Carmelo di Betlemme. Anche
dopo il battesimo continuò a sentirsi ebrea e ad identificarsi fino in fondo con le sofferenze del suo popolo,
fino ad impegnarsi per fare qualcosa in suo favore (intervenendo addirittura con un appello al papa per una
enciclica sulla questione ebraica). Amava sempre più il suo Popolo, ma lo percepiva ora con gli occhi e il cuore
di Cristo. Si rivolgeva a Lui e vedeva che la Sua Croce era stata messa ora sulle spalle del popolo giudeo.
Non approfittò della sua condizione di convertita (avrebbe potuto salvarsi all’estero) per avere dei privilegi
rispetto agli altri ebrei tedeschi; anzi si offrì in sacrificio supremo per il suo popolo - come disse alla sorella
Rosa quando furono prelevate dal convento di Echt per essere poi deportate ad Auschwitz: “Andiamo ad
immolarci per il nostro popolo”. E già in precedenza, nel 1933, aveva detto: “Mi rivolgevo interiormente al
Signore, dicendogli che sapevo che era proprio la sua Croce che veniva imposta al nostro popolo. La maggior
parte degli ebrei non riconosceva il Signore, ma quelli che capivano non avrebbero potuto fare a meno di
portare la Croce. E’ ciò che desideravo fare. Gli chiesi soltanto di mostrarmi come".
IL PENSIERO DI EDITH STEIN
“E’ stato sempre lontano da me il pensare che la misericordia di Dio si permetta di essere circoscritta ai limiti
visibili della Chiesa. Dio è la verità. Chi cerca la verità, cerca Dio, che ne sia cosciente o no" Edith Stein
In ambito filosofico Edith Stein ha lasciato segni indiscutibili di originalità: allieva e assistente prediletta di
Husserl, a Friburgo, avrebbe meritato di succedergli nella cattedra (la prese invece Heidegger, che si mostrò
poi acquiescente col nazismo); tentò di gettare un ponte tra la filosofia contemporanea, sintetizzata nella
fenomenologia husserliana, e la tradizione medievale, espressa dalla filosofia di S.Tommaso, scavalcando
così la dottrina neo-scolastica dominante allora nel mondo cattolico.
Nella vita come nell’opera di Edith Stein il filo rosso della continuità è stato la "intersoggettività", la
"comunione" (einfulung, "empatia").
Una caratteristica del pensiero della Stein che si coglie al primo sguardo è l’evoluzione che lo caratterizza. Si
tratta infatti di una riflessione che si sviluppa dalla fenomenologia alla filosofia cristiana. Non bisogna tuttavia
ritenere che in questo passaggio l'impostazione fenomenologica venga abbandonata, una volta raggiunta la
filosofia cristiana. Siamo invece di fronte ad un approfondimento critico della fenomenologia a partire dalla
filosofia di S. Tommaso, e ad una rilettura del tomismo in chiave fenomenologica.
Lo sviluppo della sua ricerca risulta strettamente legato a quello che è il suo percorso esistenziale. Questo
può essere vero per ogni autore, in quanto il pensiero non è mai separabile dall'esperienza vissuta. Tuttavia
si può dire che in alcuni casi ciò risulta più evidente, in quanto la biografia diventa una chiave di lettura
dell'intero pensiero. Il filo conduttore di tutta la sua vita è stata in effetti un'autentica e radicale ricerca della
verità.
La Stein è stata capace in ogni circostanza di andare fino in fondo alla sua ricerca, dimostrando di amare la
verità più di se stessa. Significativo della sua totale apertura e della sua piena dedizione alla verità è ciò che
ella stessa afferma: "La mia ricerca della verità è stata una vera e propria preghiera".
Possiamo dire che, per via di quello stretto e vitale legame tra sviluppo del pensiero e percorso esistenziale,
l'attività strettamente speculativa risulti allo stesso tempo causa ed effetto di importanti tappe della vita
della Stein. E' l'interesse per la fenomenologia che la porta a trasferirsi a Gottinga, dove vive esperienze e
incontri decisivi per la sua vita; è sempre lo studio della fenomenologia che le permette di approfondire il
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
suo desiderio di verità attraverso un lavoro di chiarificazione e attraverso il recupero del valore oggettivo
della conoscenza. Mentre è il fatto della conversione, del suo essere conquistata dalla verità del
Cristianesimo, a determinare successivamente lo studio sistematico del pensiero di S. Tommaso ed una sua
rielaborazione a partire dalla propria impostazione fenomenologica.
Ricostruiamo qui le tappe fondamentali del suo percorso filosofico-teologico.
1. Dallo studio della psicologia alla fenomenologia
La Stein all'università di Breslavia si era occupata per lo più di psicologia, come lei stessa racconta nella sua
autobiografia. Rimase tuttavia insoddisfatta da quanto aveva appreso a lezione dal professor Stern: "le lezioni
di Stern avevano un carattere molto semplice ed erano facilmente comprensibili; le consideravo come ore
liete di intrattenimento e ne ero un poco delusa". Solo successivamente riconobbe come una delle lacune
principali di questo periodo proprio la mancanza di una guida competente: "il filosofo che nasce con tale
vocazione porta con sé al mondo questo spirito di ricerca in potenza, per usare un termine tomista. La potenza
si realizza nell'atto quando egli si imbatte in un filosofo maturo, un maestro".
Di fronte a questa insoddisfazione la lettura, quasi casuale, delle “Ricerche logiche” di E. Husserl, le aprì una
strada completamente nuova da percorrere, in cui vide la possibilità di incontrare quello che lei considerava
essere il filosofo del suo tempo, e soprattutto la possibilità di un lavoro di chiarificazione rispetto a quanto
aveva fino allora studiato.
A questo proposito la Stein scrive nella sua autobiografia: "I miei studi in questa materia (psicologia) avevano
prodotto in me l'opinione che questa scienza si trovasse ancora agli inizi, che le mancasse la base necessaria
di chiari concetti fondamentali e che essa non fosse in grado di elaborarli. Al contrario, ciò che sapevo riguardo
alla fenomenologia mi entusiasmava tanto, proprio perché consisteva in questo lavoro di chiarificazione". Fu
proprio questo suo non accontentarsi dei risultati della psicologia di allora, caratterizzata da un certo
soggettivismo, e il desiderio di andare a fondo a ciò di cui si era occupata fino allora, che la spinsero a
trasferirsi a studiare a Gottinga, dove insegnava E. Husserl.
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SCHEDA LA FENOMENOLOGIA DI HUSSERL
L’idea husserliana del metodo fenomenologico nasce sul finire del secolo scorso in relazione alla polemica
tra logicisti (Gottlieb Frege) e psicologisti (Franz Brentano) circa l’origine e la natura dei concetti logicomatematici. Brentano riconduce ogni concetto all’attività «intenzionale» della psiche: ogni atto psichico è
sempre coscienza di qualche cosa; pertanto il modo in cui la coscienza si rivolge agli oggetti, ossia li
«intenziona», determina nel contempo il carattere degli oggetti intenzionati. Frege respinse però questa
riduzione della logica alla psicologia, in quanto essa confondeva la genesi psichica di un concetto con la sua
natura universale e formale, essenzialmente non psichica (alla logica e alla matematica non interessa come
sorga psicologicamente la nozione del numero 3, ma il significato ideale di tale nozione, che è per sé
indifferente all’essere concepito o meno da questa o quella coscienza empirica).
Husserl respinse a sua volta lo psicologismo, ma pose al tempo stesso il problema di «portare le idee logiche,
i concetti e le leggi, alla chiarezza e distinzione dal punto di vista gnoseologico». I concetti logici «debbono
aver origine da intuizioni», cioè dalla concreta «esperienza vissuta» (Erlebnis) della coscienza, senza che ciò
implichi negare la loro natura ideale e universale. A questo fine è necessario istituire una «fenomenologia dei
vissuti logici» che, invece di «porre in modo ingenuo come esistenti gli oggetti intenzionali nel loro senso
(come procedono gli psicologisti), invece di determinarli o assumerli come ipotesi, di trarre di qui conseguenze
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
ecc. (come procedono i logici puri)», si proponga di «riflettere, cioè rendere oggetti gli stessi atti intenzionali
e il loro contenuto di senso immanente» (“Ricerche logiche”, 1901).
Sin d’ora Husserl definisce la fenomenologia un «ritorno alle cose stesse»; queste ultime sono i «fenomeni»,
intesi non come «apparenze» contrapposte a ipotetiche «cose in sé», ma come manifestarsi originario della
realtà nella coscienza. La fenomenologia si propone dunque di descrivere il fenomeno «così come esso si dà»,
per coglierne la pura forma o essenza, o idea (eidos). Il procedimento fenomenologico esige quindi una
preliminare «riduzione eidetica»: ogni giudizio comune viene «sospeso» (epoché), ogni teoria viene posta tra
parentesi, affinché il fenomeno emerga nella sua genuina datità essenziale. In tal modo la fenomenologia si
propone come «scienza rigorosa» e come «scienza prima», in opposizione sia al naturalismo ingenuo delle
scienze naturali e positivistiche (a cominciare dalla stessa psicologia), sia al formalismo astratto della logica,
sia al relativismo storicistico e alle filosofie della «visione del mondo» (Weltanschauung).
Questi assunti fenomenologici trovarono subito applicazione in vari campi (nell’etica con Max Scheler,
nell’ontologia con Nicolai Hartmann ecc.), ma Husserl ritenne in seguito necessario sviluppare la
fenomenologia eidetica in senso trascendentale. Non soltanto la fenomenologia non è una «scienza di dati
di fatto», ma è una «scienza di essenze»; per di più essa trova il suo fondamento ultimo e «cartesiano»
nell’originaria attività della coscienza. Quest’ultima (attinta nella sua purezza con un’ulteriore «riduzione
trascendentale» che mette tra parentesi la tesi dell’esistenza del mondo naturale, incluso l’uomo come
«realtà psicofisica») è il «residuo fenomenologico» che non può essere revocato in dubbio, il luogo d’origine
di tutti i possibili sensi del mondo, al quale la fenomenologia deve guardare come terreno privilegiato delle
proprie descrizioni. Questa «conversione idealistica» venne però rifiutata dalla maggior parte dei discepoli di
Husserl.
La “scuola fenomenologica” è la corrente di pensiero che si formò intorno a Husserl a partire dai primi anni
del Novecento, con il diffondersi della fenomenologia, e che trovò la sua prima espressione nello «Jahrbuch
fur Philosophic und phaenomenologische Forschung». Non si tratta di una linea omogenea di pensiero, ma di
una serie di sviluppi, a volte divergenti, dei problemi connessi all’indagine fenomenologica. Husserl stesso
non esitò a prendere le distanze dai propri allievi e, in ultimo, a perseguire i propri obiettivi in totale solitudine
teorica. Nuclei originari della «scuola fenomenologica» furono i gruppi di studenti che si riunirono nelle due
principali sedi universitarie in cui insegnò Husserl: Gottinga e Friburgo; ma solamente a Gottinga si formò
propriamente un “circolo” fenomenologico. Tra i suoi aderenti, alcuni provenivano dall’università di Monaco,
dove insegnava lo psicologo Theodor Lipps. I suoi esponenti più significativi furono Adolf Reinach, Roman
Ingarden, Dietrich von Hildebrand, Alexandre Koyrè, Theodor Conrad e Hedwig Martius, Edith Stein.
Tra Husserl e i suoi discepoli cominciarono però a sorgere dei contrasti quando questi avviò la svolta
trascendentale della sua filosofia, orientandola in senso soggettivistico. Lo scoppio della prima guerra
mondiale ed il trasferimento di Husserl a Friburgo (dove lo seguì solo Edith Stein, sua assistente) segnò lo
scioglimento del gruppo. A Friburgo si impose poi la personalità di Martin Heidegger - nuovo assistente di
Husserl dopo le dimissioni della Stein - il quale impresse un indirizzo nuovo, di tipo ontologico, alla
fenomenologia.
Dopo le conferenze tenute da Husserl a Parigi nel 1929 la F. cominciò a diffondersi in Europa, dando origine
ad indirizzi di pensiero sempre più originali e anche distanti dal pensiero del fondatore. In Francia si
affermarono autori come Jean Paul Sartre, Maurice Merleau-Ponty, Paul Ricoeur, Emmanuel Lévinas, in
Italia Antonio Banfi ed Enzo Paci, negli USA Georges Gurvitch e Marvin Farber. La F. influenzò notevolmente
anche la psicologia e la psichiatria (Buytendijk, Binswanger), la sociologia e le arti.
(Carlo Sini - da: Enciclopedia Garzanti di filosofia)
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
2. L'importanza della fenomenologia
“Edith Stein era una fenomenologa nata: la predestinavano a questo il suo spirito semplice, chiaro, oggettivo,
il suo sguardo non artefatto, la sua assoluta oggettività” Hedwig Conrad Martius
“Fin dal principio nell’intenzione di quella nuova corrente filosofica deve esserci stato nascosto qualcosa di
completamente misterioso, una nostalgia dell’oggettivo, della santità dell’essere, della chiarezza e della
purezza dell’oggetto, della cosa stessa” Peter Wust
Ciò che maggiormente colpisce la Stein nella fenomenologia è il fatto che essa si presenti non tanto come un
particolare tipo di filosofia quanto piuttosto come un nuovo atteggiamento di fronte alle cose. Così descrive
il metodo fenomenologico: "Si parte dal senso delle parole, si separano scrupolosamente i diversi significati…
e si penetra gradualmente verso le cose stesse mediante la messa in evidenza di un preciso significato delle
parole stesse… ora le cose stesse, che debbono essere colte attraverso il significato delle parole, non sono fatti
empirici singoli, ma qualcosa di generale, cioè l'idea o l'essenza delle cose…".
Dopo anni di esperienza, così descrive il metodo di Husserl: "Il suo modo di guidare lo sguardo sulle cose
stesse e di educare a coglierle intellettualmente con assoluto rigore, a descriverle in maniera sobria, fedele e
coscienziosa, ha liberato i suoi allievi da ogni arbitrio e da ogni fatuità nella conoscenza, portandoli a un
atteggiamento cognitivo semplice, sottomesso all'oggetto e perciò umile. Nello stesso tempo ha insegnato a
liberarsi dai pregiudizi e a togliere tutti gli ostacoli che potrebbero distruggere la sensibilità verso intuizioni
nuove. Questo atteggiamento, a cui ci ha responsabilmente educati, ha liberato molti di noi, rendendoci
disponibili nei confronti della verità cattolica".
Il merito principale che la Stein riconosce ad Husserl, ed in particolar modo alle “Ricerche Logiche”, è quello
di "avere regolato fino in fondo i conti con tutti i relativismi della filosofia moderna, con il naturalismo, con lo
psicologismo e con lo storicismo". E ciò è stato possibile proprio perché egli "ha liberato la conoscenza
dall'arbitrio e dalla superbia, e ha condotto ad un atteggiamento conoscitivo semplice ed ubbidiente alle cose
e perciò umile".
E' necessario aggiungere che l'analisi fenomenologica, pur riaffermando l'oggettività della conoscenza, di per
sé non è conoscenza nel senso naturale del termine, cioè non è rivolta alle cose. Essa è innanzitutto un lavoro
di riflessione sulla coscienza, il quale permette appunto di distinguere con chiarezza, senza possibilità di
confusione, l'atto di conoscenza, e più in generale il proprio vissuto, dall'oggetto correlato che si manifesta
come fenomeno, permettendo così lo studio oggettivo di qualsiasi fenomeno.
3. Il superamento della fenomenologia trascendentale
L'impostazione, sempre più caratterizzata dall'idealismo trascendentale, che Husserl assume, soprattutto
dopo la pubblicazione delle “Idee per una fenomenologia pura”, non convince più la Stein. Il contrasto tra i
due ha inizio quando lei ancora era studente a Gottinga. Nell'autobiografia racconta di essere stata una delle
prime persone tra i suoi assistenti a mostrare le proprie perplessità rispetto alla svolta idealistica del maestro:
"Tuttavia dalle Idee, sembrava che per certi versi il maestro volesse tornare all'idealismo. La spiegazione che
ci diede a voce non bastò a cancellare i dubbi. Era l'inizio di quell'evoluzione verso l'idealismo trascendentale".
Con la pubblicazione delle “Idee per una fenomenologia pura” infatti Husserl accentuava l'aspetto secondo il
quale la costituzione del mondo avviene in rapporto all'io, alla coscienza: "l'intero mondo oggettivo si
costituisce per l'Io puro nei suoi atti, solo l'analisi di questi atti costituenti può infine chiarire la formazione di
questo mondo… ciò significa che l'essere oggettivo, per esempio l'esistenza del mondo esterno percepibile
sensibilmente, non è niente altro che un essere dato per una siffatta coscienza e più precisamente per una
pluralità di soggetti".
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Queste tendenze idealistiche, prima ancora che lei abbia fatto proprio il realismo ontologico di S. Tommaso,
sono sentite dalla Stein, così come dalla maggior parte degli assistenti di Husserl, in contrasto con
l'impostazione delle “Ricerche logiche”, che avevano avuto il merito di eliminare ogni sorta di soggettivismo.
Infatti, se la domanda fondamentale dell'impostazione trascendentale risulta essere "come si costituisce il
mondo per una coscienza, che io posso indagare nell'immanenza", allora Husserl "non può uscire fuori dalla
sfera dell'immanenza per riconquistare quell'oggettività dalla quale egli aveva pur preso le mosse e che era
necessario salvaguardare: una verità ed una realtà libera da ogni relativismo soggettivo".
Quindi ciò che la Stein rifiuta dell'idealismo trascendentale, in modo particolare dopo l'incontro con la
filosofia di S.Tommaso d’Aquino, è il considerare la coscienza l'assoluto entro cui ci si deve muovere; anche
la stessa costituzione del mondo da parte della coscienza, se analizzata fino in fondo, non può non aprire ad
altro, cioè ad una dimensione che è totalmente altra, trascendente. La coscienza, in quanto realtà temporale
e finita, rimanda all'essere eterno che è Dio.
Tutto ciò risulta molto chiaro da come viene presentata la differenza tra l'impostazione di Husserl e quella di
S.Tommaso dalla Stein: "il punto di partenza unitario dal quale deriva l'intera problematica filosofica e al
quale sempre rimanda, è per Husserl la coscienza trascendentalmente purificata, per Tommaso Dio e il suo
rapporto con le creature".
La Stein attraverso il superamento dell'idealismo trascendentale compie quel passaggio "tanto necessario,
quanto urgente, dal fenomeno al fondamento in quanto non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche
quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la
riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge".
4. La questione dell'origine in Heidegger
Un altro esempio della radicalità della sua ricerca è fornito dalla lettura critica di “Essere e tempo” di
Heidegger. Anche la filosofia esistenziale di Heidegger ha infatti il grande limite di arrestarsi ad un piano
immanente; la Stein afferma: "l'uomo è considerato come un piccolo Dio, (…) l'essere dal quale si può sperare
l'unico chiarimento (che sarebbe l'essere-per-la-morte, l'oscurità) sul senso dell'essere. Di Dio si parla solo
occasionalmente in note marginali e in modo da escluderlo: l'essere divino, che potrebbe chiarire il senso
dell'essere, rimane totalmente fuori discussione”.
Così se, indicando l'essere umano come “gettato”, Heidegger "esprime in modo eccellente che l'uomo si trova
nell'Esserci senza sapere come vi è arrivato, che egli non è da sé né per sé e non può aspettare dal proprio
essere alcun chiarimento sulla sua origine", tuttavia la sua analisi risulta incompiuta. Infatti "la questione
dell'origine, che si può tentare ancora di mettere a tacere violentemente o di considerare senza senso, emerge
sempre inevitabilmente, e con modalità sempre nuove, dalle caratteristiche presenti nell'essere umano; anzi
richiede un essere in sé fondato, che sia essere di questo essere umano, in sé senza fondamento: qualcuno
che getti il gettato. Allora la gettatezza si rivela come creaturalità".
Inoltre per Heidegger, che non ammette ciò e si ferma al rilevare la gettatezza, "l'essere umano ha la sua
possibilità estrema nella morte, e il suo essere aperto, cioè la sua comprensione dell'essere proprio,
comprende questa possibilità estrema fin dal principio. Perciò l'angoscia è compresa come la sua situazione
emotiva fondamentale". La Stein perciò afferma che "l'Esserci è ridotto da lui a una corsa dal nulla verso il
nulla". Tuttavia così facendo egli non coglie che "ciò per cui ci si angoscia e, contemporaneamente, ciò per
cui ne va all'uomo del suo essere è l'essere come una pienezza, che si desidera conservare e non si vuole
lasciare". Ciò che non coglie Heidegger, secondo la Stein, è che l'uomo non progetta la sua esistenza e non si
muove per la paura della morte, ma per il desiderio di una pienezza, per realizzarsi compiutamente.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Il suo giudizio, molto chiaro rispetto agli sviluppi successivi della filosofia heideggeriana, è espresso così: "il
modo in cui Heidegger ha proseguito finora, insistendo sulla caducità dell'esserci, sull'oscurità da cui viene e
verso cui si dirige e sulla Cura, favorirà un'interpretazione pessimistica se non nichilistica e seppellirà
l'orientamento verso l'essere assoluto, decisivo per la sopravvivenza o meno della nostra fede cattolica".
5. Il problema dell'empatia
Chiedendo al maestro Husserl di poter sostenere con lui la tesi di laurea la Stein ne individua con
immediatezza l’argomento: l’empatia. Questo termine, già utilizzato da Theodor Lipps, mancava ancora di
una adeguata spiegazione contenutistica e, soprattutto, di una analisi che dimostrasse se era o meno il
termine più appropriato per definire quella particolare modalità di conoscenza del vissuto altrui, nel contesto
fenomenologico che ella ha ormai fatto proprio.
Per una adeguata presentazione dell’argomentare della Stein è indispensabile rifarsi alla lingua tedesca. Il
termine in questione è Einfühlung. Il verbo fülhen ha il duplice significato di “andare a tentoni” e di “avvertire
delle impressioni nell’animo”. Theodor Lipps lo utilizza abbinandolo all’aggettivo indefinito ein, per indicare
lo sforzo di una persona per percepire l’esperienza soggettiva interiore, propria o altrui che sia.
Anche Husserl, nelle sue “Ricerche logiche”, utilizza il termine Einfülhung, ma senza darne spiegazione.
Muovendosi all’interno della scuola fenomenologica, la Stein afferma che è necessario comprendere e
conoscere la realtà che ci circonda in tutti i suoi “fenomeni”, cioè in tutte le forme in cui essa appare alla
coscienza: tra questi fenomeni ci sono anche i soggetti estranei a noi, con le loro esperienze. Questo loro
apparire necessita di un duplice atto conoscitivo, che ella individua nei due termini Ein-sicht e Ein-fülhung. Il
primo appartiene alla sfera del giudizio ed indica l’atto di comprendere argomenti, idee e concetti mentali di
un altro soggetto, oppure i fatti della natura e/o della storia secondo i nessi causali. Coinvolge prettamente
la sfera intellettiva e razionale della persona. Il secondo termine invece indica quell’atto conoscitivo che è
dato da una serie di percezioni soggettive dell’altro ed è volto a conoscere la sua esperienza interiore e, in
ultima analisi, la sua stessa personalità.
Per accorgersi dell'errore è necessaria l'apertura empatica all'altro: attraverso un più profondo atto di
empatia è possibile comprendere qualcosa che prima era sfuggito a causa delle nostre attese o preconcetti.
La Stein divide il processo empatico in tre fasi:
-
emersione del vissuto: lettura di un'espressione emotiva sul volto di qualcuno
esplicitazione riempiente: l'oggetto del vissuto è lo stato d'animo dell'altro con il quale ci si
immedesima, accogliendolo dentro di sé
oggettivazione comprensiva del vissuto esplicitato: l'attenzione è rivolta allo stato d'animo dell'altro,
colto come un vissuto altrui tramite la creazione di una “distanza”. Perché ci sia davvero uno stato empatico
si deve "far posto": dopo essersi immedesimati è necessario compiere un passo indietro e guardare quello
stato d'animo come un oggetto.
Un atto conoscitivo può avvenire mediante una percezione esterna, il che significa che l’essere o
l’accadimento, nello spazio e nel tempo, raggiunge il soggetto conoscente come una “datità” corporale. Se
l’oggetto è una persona, allora il suo vissuto può essere conosciuto mediante la comunicazione che esso fa
di se stesso all’altro. Da parte del soggetto che riceve la comunicazione potrebbe esserci una duplice modalità
di sentire, che la Stein individua nei due termini Mitfülhen e Einsfülhen. Il primo, letteralmente, significa “cosentire”, “sentire con”: è la partecipazione al vissuto altrui che però rimane esclusivo dell’oggetto, non
coinvolge in alcun modo il soggetto. Il focus è dato dall’oggetto, cioè dall’altra persona, non da ciò che viene
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
sentito. Il secondo invece potrebbe essere tradotto come “uni-sentire”: il soggetto e l’oggetto vengono a
trovarsi in una sorta di stato fusionale in cui l’io e il tu generano una sorta di noi; il focus qui è dato dal
contenuto del sentire. In riferimento al soggetto, è come se il suo interesse non fosse la conoscenza
dell’oggetto in quanto tale, ma il sentire dell’oggetto, che diventa il suo stesso sentire.
Secondo la Stein invece l’atto empatico è un movimento molto complesso del soggetto verso l’oggetto, che
prevede però anche un movimento indispensabile di ritorno del soggetto verso se stesso. A essere coinvolto
nella conoscenza empatica è tutto l’essere della persona, nei suoi tre livelli di corpo, di anima e di spirito.
La persona viene percepita dal soggetto innanzitutto al livello della corporeità; è una esperienza vitale che
coinvolge quello che in tedesco viene indicato con il termine Körper, cioè il corpo biologico; la sola presenza
fisica di un’altra persona provoca una emozione, un vissuto, e dunque è chiesto al soggetto di interiorizzare
il sentimento percepito, perché il Körper contribuisca a una autentica conoscenza empatica.
Venendo all’anima, il discorso si fa più articolato. Nel pensiero steiniano l’anima è ciò che distingue il vivente
dagli altri esseri materiali; essa è personale e si manifesta solo all’interno della totalità umana formata nell’Io
(che è il punto ove tutte le impressioni esterne convergono e donde tutto poi riparte); è la sede della
esperienza vissuta (erleben) che può essere vissuta sia a livello di corpo, sia di anima, sia di spirito.
L’anima è creatrice, ma non auto-creatrice, avendo il suo archetipo in Dio. E’ il centro vitale, rivolto non solo
verso l’esterno, ma anche verso l’interno: ogni anima cioè è in realtà un “mondo interiore”, chiuso in sé,
anche se non separato dal corpo e dal mondo esterno. L’anima è infine il centro di comunicazione tra il corpo
e lo spirito della persona.
La Stein per definire l’anima usa tre termini. Viene indicata anzitutto con il termine Seele: con esso si intende
proprio il centro dell’anima, il mondo interiore. Altre volte invece usa il termine composto Sinnenseele, che
in italiano potrebbe essere tradotto con il termine “anima sensibile”, cioè quella parte del mondo interiore
più a contatto con la dimensione corporea, da cui riceve le impressioni. Altre volte ancora invece usa il
termine Geistseele, “anima spirituale”, cioè quella parte dell’anima orientata allo spirito, capace di elevarsi
al di sopra di se stessa, del proprio Io.
Lo spirito-Geist è la terza dimensione della persona. E’ creato, limitato nella sua libertà perché non ha in sé
la vita, ma la riceve come un dono. E’ radicato nella struttura umana, con cui comunica e a cui infonde la vita.
Lo spirito è capace di accogliere lo Spirito, cioè Dio. Il contributo all’atto empatico fornito dallo spirito è
indicato dalla Stein con due espressioni: la possibilità di comprendere a posteriori il vissuto di un altro quando
il soggetto ne fa a sua volta l’esperienza, e l’arricchimento che il soggetto riceve dopo aver vissuto un
autentico atto empatico.
Per una adeguata descrizione dell’atto empatico la premessa fondamentale è la necessità di una certa
corrispondenza a livello di essenza tra l’essere del soggetto e l’essere dell’oggetto; la Stein chiama questa
corrispondenza typos. La pienezza di tale corrispondenza può avvenire solo tra due esseri umani, proprio
perché essi hanno in comune l’essenza. Essendo però l’uomo costituito di una parte corporale ed essendo
questa parte in comune con gli altri esseri appartenenti al regno animale, a livello di Körper è possibile solo
una parziale realizzazione dell’atto empatico.
L’essere umano è però, a motivo dell’anima e ancor più dello spirito, assolutamente unico e irripetibile.
Questo lo consegna alla sua libertà di scelta: o si chiude nella prigione della propria unicità, comunque
limitata, oppure si apre alla relazione con ogni altro essere umano, vivendo atti empatici sempre più
modulati, che gli permettono di diventare veramente persona.
Dice la Stein:
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
“Il mondo percepito e quello dato in maniera empatica sono il medesimo mondo visto in modo diverso. Ma
qui non si tratta soltanto del medesimo mondo visto da lati diversi, come quando, percependo in modo
originario, mi sposto da un punto a un altro di modo che passo attraverso una molteplicità ininterrotta di
apparizioni, di cui l’apparizione che precede motiva quella che segue, mentre l’apparizione che segue cede il
passo a quella che precede. Qui è vero che il passaggio dalla mia posizione ad un’altra si attua allo stesso
modo, ma è pure vero che la nuova posizione non prende il posto della vecchia, ed io simultaneamente le
tengo ferme entrambe. Il medesimo mondo non si presenta ora soltanto così e poi in un altro modo, ma allo
stesso tempo in ambedue i modi... Con ciò l’apparizione del mondo si dimostra come dipendente dalla
coscienza individuale, mentre il mondo che appare - mondo che resta, comunque e a chiunque appaia - si
dimostra come indipendente dalla coscienza. Imprigionato nelle barriere della mia individualità, non potrei
andare al di là del «mondo come mi appare», e in ogni modo si potrebbe pensare che la possibilità della sua
esistenza indipendente resti sempre indimostrata. Non appena, però, con il sussidio dell’empatia, oltrepasso
quella barriera e giungo a una seconda e terza apparizione dello stesso mondo, che è indipendente dalla mia
percezione, una tale possibilità viene dimostrata. In tal modo l’empatia, come fondamento dell’esperienza
intersoggettiva, diviene la condizione di possibilità di una conoscenza del mondo esterno esistente”.
Per vivere un maturo atto empatico, è necessario che la persona abbia una adeguata consapevolezza della
propria identità e del proprio vissuto, sia a livello di corpo, sia a livello di anima, sia a livello di spirito. Quando
si accosta all’altro, nel vissuto altrui essa riconosce qualcosa che già conosce per esperienza personale.
Contemporaneamente però anche l’altro ha una assoluta unicità, quindi anche i suoi vissuti sono peculiari.
Ciò che è simile permette il riconoscimento e una certa comprensione; ciò che nell’altro è unico è una
ricchezza offerta in dono.
Scrive la Stein: “Da quanto abbiamo detto risulta anche quale significato rivesta la conoscenza della
personalità estranea ai fini della nostra «autoconoscenza». Essa non solo c’insegna, come abbiamo in
precedenza visto, a porci come oggetto di noi stessi, ma porta a sviluppo, in quanto empatia di «nature affini»
ossia di persone del nostro tipo, quel che in noi «sonnecchia» e perciò ci rende chiaro, in quanto empatia di
strutture personali diversamente formate, quel che non siamo e quel che siamo in più o in meno rispetto agli
altri. Con ciò è dato al tempo stesso, oltre all’autoconoscenza, un importante aiuto per l’autovalutazione. Il
fatto di vivere un valore è fondante rispetto al proprio valore. In tal modo, con i nuovi valori acquisiti per
mezzo dell’empatia, lo sguardo si dischiude simultaneamente sui valori sconosciuti della propria persona.
Mentre, empatizzando, c’imbattiamo invece in sfere di valore a noi precluse, ci rendiamo coscienti di un nostro
difetto o disvalore”.
E’ fondamentale a questo punto l’ultimo movimento, che chiude l’atto empatico: è la persona infatti a
ritornare a se stessa, ma arricchita dell’esperienza altrui, che permette la costruzione di un nuovo Io. Questo
ultimo movimento è indispensabile perché è quello che salvaguarda l’identità personale, l’unicità della
persona; è esattamente questo il motivo per cui la Stein si dissocia dalle posizioni degli altri pensatori - e di
Scheler in modo particolare - i quali parlano di simpatia, prospettando una sorta di “stato fusionale” in cui i
due esseri umani si fondono, quasi a formare una cosa sola, perdendo così la specificità di ciascuno.
“L’originarietà dell’atto empatico consisteva nel coglimento del vissuto altrui nel proprio vissuto - e non in
quello altrui, che apparterrà sempre soltanto a lui. Quanto vive l’altro posso intuirlo, ma non viverlo così come
viene esperito da lui. Su questo aspetto la Stein non cambierà mai opinione: l’altro è altro da me, con lui non
ci potrà mai essere una fusione, una immedesimazione; e ciò neppure nell’esperienza mistica” (Pezzella).
La Stein, allora ancora lontana dalla fede, chiude però la sua dissertazione con una provocazione interessante,
e rivelatrice della direzione in cui stava evolvendo la sua personale ricerca spirituale: essendo la persona
anche spirito, a questo livello con chi può empatizzare? solo con altre persone? E così conclude: “In ogni
modo mi pare che lo studio della coscienza religiosa sia il miglior mezzo per la risposta a questo problema,
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
come d’altra parte che tale risposta sia del più grande interesse per il campo della religione. Nel frattempo
lascio ad ulteriori ricerche la risposta al quesito posto”.
6. la questione femminile
“nessuna donna è solo donna”
“Essere madre è nutrire e proteggere la vera umanità e farla sviluppare”
“L’anima della donna è modellata come un rifugio in cui altre anime possono dispiegarsi”
“La donna cerca naturalmente di abbracciare ciò che è vivente, personale, integro. Curare, custodire,
proteggere, nutrire e favorire la crescita è il suo anelito naturale, materno”
“trasformare in modalità femminili la professione di per sé maschile”
“un poco di mascolinità è il contravveleno del troppo femminile”
Edith Stein
Uno sviluppo significativo dell’interesse profondo di ES per l’intersoggettività e per il sociale è la sua ricerca
sui fondamenti e la struttura dello stato, svolta in “Una ricerca sullo stato” del 1925. Questo lavoro è
un'applicazione del metodo fenomenologico a una materia di complessa trattazione interdisciplinare;
l’autrice si propone di indagare l’essenza pura, a priori, dello Stato, seguendo l’indirizzo già tracciato dagli
studi dell’amico Adolf Reinach.
Allontanandosi dalle idee liberali della sua prima formazione, la Stein scopre le ambiguità e le polivalenze
strutturali che rapportano lo Stato al popolo, alla comunità, alla società stessa; e il sempre precario equilibrio
della sua sfera con quella etico-religiosa. Lo stato vi è visto come una entità autonoma, caratterizzata dalla
libertà e dalla sovranità; esso è un tipo particolare di personalità, di cui fanno parte altre persone. Ciò che
accade fra queste, nella società, non è senza rapporto con la sua sopravvivenza, ma non ne intacca la natura.
Lo stato ha sue caratteristiche precise, ma non è un’entità onninglobante assoluta, che divori i suoi membri
o ne determini la vita etica e religiosa. L’analisi della struttura dello stato e l’affermazione dell’autonomia
della sfera giuridica che gli appartiene porta la Stein a contestare le teorie contrattualistiche, così come quelle
del diritto naturale; nello stesso tempo ella respinge la visione dello “stato etico” e la filosofia della storia di
stampo idealistico ad esso connessa.
Ancor più rilevante è la sua costante riflessione sulla donna. Questo tema è profondamente connesso sia con
la sua ricerca filosofica sia con quella teologica. Riguardo alla prima infatti l’intenzione di Edith è quella di
delineare in maniera sempre più chiara, dettagliata e precisa una “filosofia della persona”; e dunque la
specificità dell’essere femminile si colloca all’interno di questo quadro più generale. Riguardo alla seconda,
Edith sostiene che la sola filosofia o le sole scienze umane non sono in grado di fornire una visione completa
dell’uomo: il ricorso alla fede e alla teologia è per lei indispensabile.
Questo lo possiamo comprendere meglio se facciamo memoria del quadro antropologico di riferimento di
Edith. La persona – come abbiamo visto - è composta da: il Körper-Leib, cioè il corpo biologico e il corrispettivo
vissuto psicologico di esso; la Seele, cioè l’anima, quella che noi attualmente definiamo dimensione
psicologica della persona; e il Geist, lo spirito, capace di accogliere lo Spirito. Proprio a motivo di quest’ultima
componente della persona, per comprendere l’uomo intero non si può prescindere appunto dalla teologia,
come d’altra parte non si può assolutamente prescindere dalla filosofia e dal contributo delle scienze umane
per quanto riguarda il Körper e la Seele.
Edith si interessa intensamente della questione femminile dopo essere entrata nella Chiesa cattolica. In realtà
la tematica era già stata al centro dei suoi interessi durante gli studi liceali quando, abbandonata la fede
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
ebraica e ancora lontana da qualunque interesse per la dimensione religiosa dell’esistenza, ispirava la sua
vita ad alti ideali etici e sociali, che la motivavano a impegnarsi anche a livello sociale. Quando Edith torna a
occuparsi della questione femminile, lo fa non di sua spontanea volontà, ma perché invitata a tenere una
serie di conferenze sul tema, in giro per l’Europa, negli anni compresi tra il 1928 e il 1933. In quei tempi è
insegnante alla Scuola Superiore femminile delle domenicane di Spira e, dal 1932 al 1933, all’Istituto
Superiore di Pedagogia Scientifica di Monaco (cattedra che dovrà poi lasciare a motivo delle leggi razziali
emanate da Hitler).
Nella “Storia di una famiglia ebrea” così leggiamo: “A partire da questo forte sentimento di responsabilità
sociale, difesi anche decisamente la causa del diritto di voto alle donne; questa, all’epoca, non era
assolutamente una cosa ovvia all’interno del movimento femminista borghese. La Lega Prussiana per il diritto
di voto alle donne, alla quale aderii con le mie amiche perché perseguiva la completa equiparazione politica
delle donne, era composta per la maggior parte da socialiste”.
La seconda metà dell’Ottocento aveva visto nascere, in tutta Europa, il movimento femminista, mirante
all’emancipazione femminile nel campo dell’educazione, della politica e del lavoro. Era questa una vera e
propria rivoluzione. Nei secoli precedenti infatti la dignità della donna come essere umano era stata
affermata soltanto all’interno del mondo cristiano; ma in realtà era una proclamazione puramente verbale e
teorica, perché poi, concretamente, per le donne non c’era alcuno spazio all’interno della vita ecclesiale,
nessuna formazione, nessun diritto di parola (un esempio tra molti possibili: la vicenda di Teresa d’Avila e dei
suoi scritti). Solo nel secolo XIX si intraprese una lotta per l’emancipazione femminile, dai connotati
assolutamente laici.
In Germania nel movimento femminista c’erano correnti diverse che si ispiravano a ideologie differenti. Si
può perciò parlare di un movimento borghese, di uno proletario, di uno evangelico, di uno cattolico... Alcuni
pretendevano il “tutto e subito”, senza attenzione alle circostanze e al contesto; altri erano più propensi a
una maggiore riflessione su come raggiungere il fine, evitando lacerazioni e contrapposizioni, giudicate
pericolose per la coesione del tessuto sociale.
In realtà nella corrente più radicale c’era un certo timore che il sostenere una differenza tra uomo e donna
potesse essere un’arma impugnabile dal sesso maschile per tenere quello femminile in uno spazio e in un
ruolo separato, riproponendo così la discriminazione. Questo spingeva perciò alcune donne a chiedere in
maniera spesso veemente l’uguaglianza e la parità. Una diversa corrente, a cui appartiene anche Edith,
propendeva a tenere conto della oggettiva diversità tra l’essere femminile e quello maschile, dunque dei loro
peculiari valori e, conseguentemente, del diverso ma complementare apporto che i due sono chiamati a dare
nella vita familiare, sociale, politica, lavorativa.
Il suo pensiero si è fatto più profondo e articolato - visto che ormai può armonizzare gli apporti derivanti dalla
filosofia, dalle scienze umane, ma anche dalla teologia. Così scrive a un’amica, suor Callista Kopf: “Al ginnasio
e nei primi anni di università sono stata una sostenitrice radicale dei diritti della donna. Poi, persi ogni
interesse alla questione. Adesso cerco […] soluzioni che siano puramente oggettive”.
Obiettivo di Edith è quello di proporre una visione della donna che tenga conto di tutta la complessità e la
peculiarità del suo essere, in modo da non appiattirla a una semplice “copia” speculare all’uomo, né relegarla
a un ruolo puramente privato, chiuso entro le mura domestiche.
Nelle conferenze tenute tra il 1928 e il 1933 c’è una chiara presa di posizione rispetto ai movimenti femminili
del tempo, che ha conosciuto da vicino: indubbiamente li apprezza, soprattutto per la funzione da essi svolta
circa l’urgenza della questione femminile, nonché per la sollecitazione a rompere con un passato intriso di
discriminazione. Edith si rivolge ai movimenti femminili cattolici, i cui membri sono dediti soprattutto
all’insegnamento, e che non sembrano essere particolarmente sensibili alla questione.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Parla modulando e calibrando i suoi interventi in considerazione del suo particolare uditorio. Molteplici sono
gli apporti, che emergono con evidenza. Innanzitutto il suo bagaglio di formazione fenomenologica; poi la
lettura dei classici cattolici, in modo particolare di S. Tommaso; e ancora vi si possono rintracciare dei
riferimenti alla psicologia del profondo, alle correnti dell’idealismo tedesco e ad altre a lei contemporanee.
E’ presente anche una riflessione di antropologia teologica: Edith infatti, nel 1933, avrebbe dovuto tenere un
corso accademico a Monaco intitolato “Cos’è l’uomo?”; ma l’entrata in vigore delle leggi razziali glielo
impedirono.
La sua tesi fondamentale è quella di una unità specifica dell’essere umano, che si manifesta però nell’uomo
e nella donna in maniera differente, secondo una specificità tipicamente femminile e maschile. Edith è
sempre molto attenta a non restare nell’astratto: l’obiettivo dell’educazione infatti è quello di accompagnare
ogni singola persona a scoprire la sua propria vocazione, che è prima di tutto una realtà che Dio Creatore ha
inscritto nell’essere femminile o maschile di ciascuno.
E’ evidente la sua costante attenzione alla singola persona. Non si appartiene al genere umano
semplicemente come donne o come uomini: ciascuno è un essere a sé, unico e irripetibile, portatore di
peculiarità, valori, doti, e chiamato per vocazione a un compito che è solo suo. Edith nel delineare la sua
concezione della donna fa costante riferimento alla Sacra Scrittura, in particolare ai primi tre capitoli del libro
della Genesi, nonché alle Lettere di S. Paolo agli Efesini, ai Corinzi e a Timoteo. Da ultimo, è fondamentale il
riferimento alla Vergine Maria che, se da un lato è per i cristiani il modello di ogni essere umano, è certamente
in maniera speciale il prototipo e il riferimento di ogni donna.
7. La filosofia cristiana: il rapporto tra ragione e fede
Il concetto di ragione viene approfondito nello sviluppo del pensiero di Edith, ed è solo cogliendo il significato
del rapporto tra ragione e fede che secondo lei si può comprendere il valore della filosofia cristiana.
Il culmine di questa sua riflessione è rappresentato dalla sua opera fondamentale, rimasta incompiuta,
“Essere finito ed essere eterno”, che lei stessa così presenta: “La questione dell'essere forma il centro
dell'opera, e la contrapposizione del pensiero tomistico con quello fenomenologico si svolge nella trattazione
oggettiva di tale questione. Poiché tanto la ricerca del significato dell'essere, quanto il tentativo di fusione tra
il pensiero medioevale e l’attuale pensiero del nostro tempo non sono soltanto una preoccupazione personale,
ma un problema che predomina nella vita filosofica e da molti viene sentito con l'urgenza di un'intima
necessità l’autrice crede che questo tentativo, anche se tanto deficiente, possa tuttavia essere di aiuto ad
altri”.
Il titolo del libro indica chiaramente che il punto centrale della questione è rappresentato dall'essere. Tale
termine non era ignorato nella analisi fenomenologica husserliana, che anzi lo accoglie per indicare la totalità
dell'esistenza e della realtà; si cita frequentemente, ad esempio, l’espressione essere del mondo; ma tale
essere viene studiato nel suo rapporto trascendentale con il soggetto, per cui il vocabolo "ontologia" è
utilizzato non come trattazione del tema dell’essere, ma per indicare la connotazione essenziale degli ambiti
della realtà e della conoscenza umana che hanno una unità intrinseca; si parla pertanto di ontologie regionali.
Quindi si tratta di un uso diverso del termine rispetto a quello della tradizione metafisica, in particolare
medioevale, che lo riprende dalla filosofia greca ma lo attribuisce in primo luogo all'Assoluto e
secondariamente all'esistenza delle cose, in quanto create da Dio, cioè aventi l'essere in modo derivato.
All'uso metafisico proprio della filosofia cristiana si riferisce E. Stein, restituendo al vocabolo "ontologia" il
suo significato tradizionale.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
La struttura ontologica del reale risulta individuata da una successione di momenti discendenti da Dio alle
creature e ascendenti dal creato a Dio. I primi tre capitoli dell’opera sono dedicati alla distinzione fra atto e
potenza, essere reale ed essere essenziale; il quarto all'esame dell’essenza e del rapporto fra materia e forma;
il quinto ai modi in cui si predica l'essere e quindi al tema della verità; per questa via si giunge ad affrontare
il problema di Dio nel capitolo sesto; nel settimo si sviluppa la questione trinitaria rispetto a Dio e alle
creature; con l'indagine su queste ultime e perciò sul significato dell'individuazione, affrontata nel capitolo
settimo, si chiude il libro.
Particolare interesse riveste l'insistenza sul tema della soggettività; tale aspetto ricorda non solo la posizione
agostiniana — alla quale E. Stein si avvicina molto nonostante il suo insistente richiamo al tomismo — ma
anche le indagini husserliane, dalle quali sembra ripresa la ripartizione fra corpo, psiche e spirito. Certamente
tale ripartizione non è nuova nella speculazione filosofica, ma Husserl aveva a lungo meditato su di essa,
dimostrando di voler cogliere tutti gli aspetti della soggettività e della persona, non solo quelli cognitivi, ma
anche quelli etici, affettivi e in generale tutte quelle attività che rientrano nella sfera definita
tradizionalmente come spirituale.
Si è sottolineato, d'altra parte, come - sollecitata proprio dalle analisi del maestro nella dissertazione di laurea
- E.Stein avesse affrontato il tema dell'empatia, quindi un argomento che le permetteva di indagare sui
processi interiori che si verificano nella psiche umana nel rapporto con gli altri. Ad un ulteriore
approfondimento dell'interiorità è dedicata un'ampia parte del suo libro sull'essere; ella afferma, infatti, che
la verità di cui l'essere umano parla e che non dipende dal lui originariamente, è, però, conosciuta all'interno
dell'anima. E’ qui che l'incontro fra l'agostinismo e la fenomenologia si fa evidente.
Se in un primo momento nel pensiero di Edith Stein è ancora un'idea di ragione di tipo razionalista - condivisa
dallo stesso Husserl - a prevalere, successivamente, seguendo S.Tommaso, la Stein fa suo un concetto di
ragione che riconosce la ragionevolezza della fede, considerandola a tutti gli effetti come una forma di
sapere. Infatti "la ragione diverrebbe irragionevolezza se volesse ostinarsi a fermarsi a ciò che può scoprire
con il suo lume e a chiudere gli occhi dinanzi a ciò che le è reso visibile da una luce superiore. Infatti si deve
sottolineare questo: ciò che la Rivelazione ci partecipa non è qualcosa di semplicemente inintelligibile, ma ha
un significato intelligibile; non è da concepirsi e dimostrarsi sulla base di realtà naturali, e soprattutto non da
comprendersi (cioè esaurirsi concettualmente), ma in sé è intelligibile, e per noi intelligibile nella misura in cui
c'è data la luce, ed è fondamento per una nuova intellezione dei dati di fatto naturali, che si palesano appunto
con ciò come dati di fatto non soltanto naturali".
Significativa risulta a questo riguardo la differenza nel concepire il rapporto ragione-fede da parte di Husserl
e da parte di S.Tommaso d’Aquino. Innanzitutto la Stein individua come punto in comune tra Husserl e
S.Tommaso il fatto che per entrambi la filosofia deve essere una scienza rigorosa; dove questa definizione,
ripresa da Husserl, "indica che la filosofia non riguarda il sentimento e la fantasia; non si tratta di un sogno
ambizioso oppure di una veduta personale, di un fatto di gusto, per così dire; al contrario essa è un fatto della
ragione che cerca seriamente e spassionatamente".
Tuttavia se "nessuno dei due ha mai dubitato del vigore della ragione, però la rispettiva concezione della
ragione nei due pensatori non è la medesima". Per Husserl la "ratio" non significa altro che la ragione
naturale, mentre per S.Tommaso la "ratio" si distingue in ragione naturale e soprannaturale: "La conoscenza
naturale è solo una via. La fede è accanto alla conoscenza naturale una seconda via per ottenere il sapere".
In sostanza secondo Husserl "la fede rappresenta l'autorità competente per la religione, non per la filosofia".
Ora "l'esclusione della fede da quel processo è del tutto comprensibile, se con essa s'intende un sentimento
oppure qualcosa di irrazionale". S.Tommaso invece "non riteneva assolutamente la fede come qualcosa di
irrazionale, cioè qualcosa che non avrebbe nulla a che fare con la verità e la falsità. Al contrario essa è una
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
via verso la verità e precisamente in primo luogo una via per la verità che altrimenti ci sarebbe preclusa; è in
secondo luogo la via più sicura, poiché non c'è una certezza maggiore di quella della fede".
Comunque la Stein affermando ciò non tralascia il fatto che "la certezza specifica della fede è un dono della
grazia…Credere equivale ad afferrare Dio; ma l'afferrare presuppone un venire afferrati: non potremmo
credere senza la grazia".
8. L’esperienza mistica
“Voglio che il segreto di Dio a me svelato rimanga nostro” madre Teresa di Calcutta 1956
“Secretum meum mihi” (il mio segreto è per me) Edith Stein
“La via della sofferenza è la più sicura per giungere all'unione con Dio”
“L'essenziale è solo che ogni giorno si trovi anzitutto un angolo tranquillo in cui avere un contatto con Dio,
come se non ci fosse nient'altro al mondo”
“una Forza che non è mia e che senza fare violenza alcuna alla mia attività, diventa attiva in me"
“Bisogna considerarsi davvero uno strumento e soprattutto ritenere le forze con cui si lavora (nel nostro caso
l'intelletto) qualcosa che usiamo non noi, ma Dio in noi”
"Come Gesù, nell'abbandono prima della morte, si consegnò nelle mani dell'invisibile e incomprensibile Iddio,
così dovrà fare anche l'anima, gettandosi a capofitto nel buio pesto della fede, che è l'unica via verso
l'incomprensibile Iddio"
Edith Stein
Edith scrive queste parole nel suo ultimo grande saggio, intitolato “Scientia crucis”. Intraprese il lavoro dietro
l'invito dei superiori in occasione del 400° anniversario della nascita di san Giovanni della Croce. Si è voluto
chiamare l'opera, rimasta incompiuta, un modello di studio fenomenologico-teologico della mistica, nato in
una situazione interiore, spirituale e umana di sofferenza, che esprime “la sua più alta dedizione spirituale
all'ideale dell'Ordine" e appare insieme "come il distacco definitivo dalla vita e l'elevazione sopra il finito, nella
sublimazione di ogni sofferenza umana".
Secondo Edith si ha "una teologia della croce che scaturisce dall'intima esperienza di San Paolo" e si tratta in
essa di "una verità viva, reale e attiva", nella quale intravvede "la norma di vita dei Carmelitani Scalzi". Scopre
in Giovanni della Croce un autentico messaggio concentrato nel "Verbo della Croce. . . che investe tutti coloro
che si aprono alla sua azione". Eppure "la croce non è fine a se stessa. Essa si staglia in alto e fa da richiamo
verso l'alto...simbolo trionfale con cui Cristo batte alla porta del cielo e la spalanca. Allora ne erompono i fiotti
della luce divina, sommergendo tutti quelli che marciano al seguito del Crocifisso".
Ma per arrivarci bisogna "passare con Lui attraverso la morte in croce, come Lui crocifiggendo la propria
natura con una vita di mortificazione e di rinunzia, abbandonandosi ad una crocifissione piena di dolore e
foriera di morte, come Dio disporrà o permetterà. Quanto più perfetta sarà tale crocifissione attiva e passiva,
tanto più intensa ne risulterà l'unione col Crocifisso e tanto più ricca la sua partecipazione alla vita divina".
Su questa base si costruisce il cammino verso l'esperienza mistica, studiato da Edith ricorrendo a concetti
moderni della filosofia della persona, ma elaborati alla luce della metafisica cristiana. Il Dio trascendente può
rivelarsi all'anima come Persona che con infinito amore si comunica, toccandola nel suo più intimo. Ma Dio
si rivela anche con la sua azione potente di “inserirsi nel destino delle anime", operando "la rinascita
dell'uomo sotto l'azione della sua grazia santificante". Come? Nella “notte della fede come Divina Tenebra”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Le vie della conoscenza di Dio, cui dedica un breve studio sulla teologia simbolica dello Pseudo-Dionigi,
percorrono la strada della theologia negationis e della mistica esperienza dell'oscurità. Anche a Edith Dio non
si è svelato se non "nell'impenetrabilità dei suoi misteri", accolta nell'atteggiamento di fede, di speranza e di
amore. "Ciò che noi crediamo di vedere è solo un fugace riflesso di ciò che il mistero divino nasconde sino al
giorno della futura chiarezza. Questa fede nella storia segreta ci deve confortare, deve darci la pace"" scrive
nel 1941 in una lettera.
Suor Teresa Benedetta visse gli ultimi suoi mesi di vita nella “notte della fede”, guidata da San Giovanni della
Croce. Secondo l’insegnamento mistico del santo spagnolo il percorso ideale dell'anima è composto da sette
dimore o sette stanze. La prima stanza racchiude un'anima incapace di sentire e parlare, prigioniera del
mondo esterno; allora inizia a interrogarsi, a conoscersi interiormente giungendo nella seconda dimora, dove
l'anima lotta contro le tentazioni. Nella terza stanza l'anima si purifica tramite la meditazione, nella quarta
l'immaginazione affolla la mente e la conoscenza e la memoria sono un peso di difficile sopportazione. Nella
quinta dimora il mondo profano svanisce e l'anima rimane libera da ogni costrizione. La sesta dimora è dove
l'anima lascia tutte le tentazioni e aspetta di accedere alla settima stanza, che però ancora non conosce. Nel
contemplare la vita del Dottore mistico del Carmelo, immergendosi nell'ultima tappa, ella scopre nella sua
morte la sublime conformità a Cristo "raggiunta sulla vetta del Golgota".
Pochi mesi dopo aver scritto queste righe anche lei raggiunse l'ultima stazione della sua via crucis. Venne
strappata al suo monastero per camminare incontro alla Croce del Golgota di Auschwitz.
La grandezza e l’eccezionalità della figura di Edith Stein (che la Chiesa Cattolica farà Dottore della Chiesa)
stanno proprio nell’aver effettivamente praticato e portato a pieno compimento quanto teorizzato nei suoi
scritti, a conferma della sincerità delle domande da cui essi erano nati.
LE OPERE DI EDITH STEIN
Queste sono i principali scritti della Stein: si tratta di una produzione ricchissima, che testimonia della vastità
e della profondità dei suoi interessi
A. Scritti biografici
Vita di una famiglia ebraica (1933)
Lettere I (1916-1933)
Lettere II (1933-1942)
Lettere III. Lettere a Roman Ingarden (1917-1938)
B. Scritti filosofici
Introduzione alla filosofia (testo rielaborato in vari anni dal 1917 al 1938)
Il problema dell'empatia (1916)
Contributi alla fondazione filosofica della psicologia e delle scienze dello spirito) (1922)
Una ricerca sullo Stato (1925)
Potenza e atto (1931)
Essere finito ed Essere eterno, vol. I e II (1936)
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C. Scritti sull'antropologia e la pedagogia
La donna (1928-1933)
La costituzione della persona umana (1932/33)
Antropologia teologica (1933)
D. Scritti di spiritualità
Vie della conoscenza di Dio (1941)
Scienza della Croce (1942)
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SCHEDA GERDA WALTHER (Nordrach 1897 - Monaco 1977)
Riportiamo una scheda su Gerda Walther, una filosofa e parapsicologa tedesca, di formazione
fenomenologica, che applicò la fenomenologia allo studio dei fenomeni mistici. La sua storia ha diversi punti
di contatto – sia pur indiretti – con quella di Edith Stein: l’ateismo della giovinezza e la successiva conversione
al cristianesimo, l’incontro decisivo con il pensiero di Husserl, l’interesse per la mistica, l’impegno sociale e
politico, l’opposizione coerente e strenua al nazismo. Di Edith Stein la Walther tratta ampiamente nel suo
lavoro fondamentale “Fenomenologia della mistica”, apparso nel 1923.
Gerda Walther è stata un’esponente di primo piano della fenomenologica tedesca. Nonostante l’originalità
del suo pensiero e dei suoi scritti, in Italia è poco conosciuta, e in larga parte ancora da tradurre. Era nipote
di Federik Bajer, pacifista danese, premio Nobel per la pace.
Atea e marxista, Gerda in Baviera intraprende la militanza nel Partito Socialdemocratico e, mentre è già in
corso il primo conflitto mondiale, frequenta l’Università di Monaco. È introdotta allo studio della psicologia
da Alexander Pfänder, un evento che la stessa definisce determinante nella sua vita. Un’ulteriore svolta è
segnata dall’incontro con gli scritti di Husserl di cui segue il corso a Friburgo e approfondisce, poi, il metodo
fenomenologico. Lo studio della fenomenologia si arricchisce anche del contributo di Edith Stein e di Hedwig
Conrad-Martius; ma le sue inquietudini la conducono anche alla psichiatria e alle religioni orientali; nel più
intimo spazio della sua esperienza interiore, inoltre, si snodano gli interessi per la parapsicologia e per la
mistica.
Queste discipline l’avrebbero condotta al punto più affascinante della sua ricerca, l’analisi fenomenologica
dei vissuti mistici ma, contestualmente, l’avrebbero allontanata dai circoli accademici in cui si guardava con
sospetto alla supposta deriva extrarazionale della sua indagine filosofica e fenomenologica. Terminati gli
studi nel 1921 con la dissertazione “Sull’ontologia delle comunità sociali”, svolta sotto l’egida di Pfänder e
pubblicata come articolo nello “Jahrbuch” di Husserl, Gerda si dedica alla ricerca, potendo contare sul
patrimonio ereditato dal padre, e nel 1923 completa la prima edizione della “Fenomenologia della Mistica”.
Presto, però, durante la terribile inflazione che prostra la Germania, attraversa un momento economico
difficilissimo; dopo un breve tentativo di ritorno in famiglia in Danimarca, è costretta ad accettare una serie
di lavori occasionali: si improvvisa assistente infermiera, traduttrice, impiegata e redattrice a cottimo per
magri compensi. Lavora anche presso l’ospedale psichiatrico di Emmendingen, poi per un breve periodo
come assistente del dottor Hans Prinzhorn e, ancora, per il parapsicologo e psichiatra dottor Freiherr von
Schrenk-Notzing, acquisendo notevoli conoscenze in tali discipline. Tutto ciò le consente di sopravvivere per
anni, senza interrompere la sua attività di studiosa del mondo dello spirito e dell’occulto.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Nella Germania nazista, però, la vita di una donna dal passato di attivista socialista e dagli interessi per la
mistica, la parapsicologia, l’astrologia e l’occulto, non poteva non destare sospetti. Nel 1941, infatti, Gerda
Walther viene arrestata dalla Gestapo. Dopo numerosi interrogatori e settimane di prigionia è rimessa in
libertà e reintegrata nel suo ultimo lavoro presso gli uffici della censura, dove conduce un’intensa attività
antinazista. Approfitta del lavoro di scandaglio della corrispondenza privata per diffondere messaggi
sovversivi, facilitare comunicazioni contro il regime e copiare documenti di propaganda antinazista, come i
sermoni dei vescovi di Münster.
Nel 1944 viene licenziata, ma non è questo l’evento che segna l’importanza di tale data nella biografia di
Gerda Walther. Quell’anno, infatti, il lungo cammino iniziato con l’ateismo della giovinezza attraverso le
esperienze religiose e l’attività umanitaria la conduce alla conversione al Cristianesimo cattolico e al
battesimo. Queste le parole con le quali ha inizio la Prefazione al suo scritto più celebre, la “Fenomenologia
della Mistica”: «Questo libro è nato dalla ricerca della verità e della realtà del divino. Avevo ricevuto
un’educazione assolutamente atea, nel senso del materialismo scientifico e storico-marxista; nonostante ciò
– o forse proprio per questo – già nella mia giovinezza la vita, quanto più era lunga, tanto più mi appariva
priva di senso, non degna di essere vissuta, se non fosse esistito almeno qualcosa di ciò che allora mi era stato
presentato come “autoinganno di gente in fuga dal mondo”. Dunque, partii alla ricerca di questo mondo
religioso». Nel 1960 pubblica la sua autobiografia dal titolo “Sull’altra sponda: dal marxismo e ateismo al
cristianesimo”, un’opera alla quale aveva lavorato fin dal 1931.
Tra gli anni ’60 e ‘70 è forte il suo impegno nella politica di orientamento pacifista, fino alla morte
sopraggiunta a Monaco nel 1977. Il suo capolavoro, la Fenomenologia della Mistica, è l’opera nella quale
apre l’indagine fenomenologica ai vissuti mistici, muovendosi in un ambito in cui - come lei stessa racconta
nella Prefazione alla seconda edizione del 1955 - il maestro Husserl vedeva solo «possibilità ideali». Invece,
è proprio l’interesse per l’esperienza mistica il punto di convergenza con la più nota fenomenologa Edith
Stein, la cui “Scientia crucis” è richiamata in più parti della sua “Fenomenologia”.
L’obiettivo di Gerda è mostrare che nell’esperienza mistica, esperienza originaria del divino, avviene la
comunicazione con Dio e, come ella stessa esplicita nell’Introduzione, «fare luce sulla questione se i vissuti
mistici siano … un reale fare esperienza di Dio “in carne e ossa”». A tal fine, l’autrice conduce una rigorosa
indagine dei vissuti mistici, vale a dire dei fenomeni nei quali «si dà una manifestazione, rivelazione o
apparizione diretta di Dio», e di quelli parapsichici (dalla telepatia alla comunicazione con i defunti),
contestando l’obiezione dell’appartenenza di tali fenomeni alle malattie mentali e mostrando come essi si
manifestano nell’io. Le “esperienze” in oggetto non sono limitate a quelle dei grandi mistici – tra questi
particolare attenzione è dedicata a santa Teresa d’Avila - ma ricomprendono anche alcuni vissuti
soprasensibili esperiti dalla stessa autrice in prima persona.
Particolarmente significativa nella vita della giovane Gerda Walther fu l’esperienza vissuta il 10 novembre del
1918 durante un viaggio di ritorno a Friburgo: «in treno, al buio [si era ancora in tempo di guerra]… avevo la
sensazione di essere estranea a tutto ciò che mi circondava… Mi sembrava di avere ancora solo un legame
molto esile con il mio corpo e con il profondo grembo del mio essere… Io percepivo e vivevo me stessa soltanto
come un punto psichico, senza estensione, che – chiuso in sé – non può ricevere e dispensare alcuna forza…e
vaga intorno smarrito come in uno spazio vuoto. L’io precipita in un abisso senza fine, dove non c’è grembo
dell’essere, né alcun oggetto; non ha mondo, non ha psiche… Ora è veramente solo un semplice io vuoto…
Sente ancora, ma solo se stesso e la sua solitudine». Questa esperienza personale dell’autrice descrive la
condizione di «profondissima solitudine dell’io», che gli apre due vie: o tornare «a un qualsiasi essere
esteriore nel mondo» o «voltare decisamente le spalle a tutto ciò, lasciarsi sprofondare sempre più in
quell’oscuro abisso interiore… che si trova… dal lato esattamente opposto rispetto al mondo… L’io è in cerca
di un Qualcosa di definitivo… E così lo chiama dall’abisso della sua solitudine, con tutta la forza che ancora
possiede”.
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Indicazioni bibliografiche:
Gerda Walther, Fenomenologia della mistica, Milano 2008
A. Ales Bello, Fenomenologia dell’essere umano. Lineamenti di una filosofia al femminile, Roma 1992
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SCHEDA “LA SETTIMA STANZA” film di Márta Mészáros (1995)
Paese di produzione
Soggetto
Italia, Francia, Polonia, Ungheria
Márta Mészáros, Eva Pataki, Roberta Mazzoni
Sceneggiatura Márta Mészáros, Eva Pataki, Roberta Mazzoni
Produttore
Francesco Pamphili per Morgan Film
Fotografia
Piotr Sobocinski
Montaggio
Ugo De Rossi
Musiche
Moni Ovadia
Interpreti e personaggi:
Maia Morgenstern: Edith Stein
Adriana Asti: Augusta
Jan Nowicki: Franz Heller
Elide Melli: Rosa
Giovanni Cabalbo: Paul
Jerzy Radziwilowicz: Hans
Il film racconta la vita di Edith Stein. A Breslavia nel 1922, la brillante allieva del filosofo Husserl, la docente
di filosofia Edith Stein, appena battezzata con il nome di Theresia Hedwig, deve affrontare le rimostranze
della madre Auguste, che l'accusa di aver tradito la religione ebraica. Agli inizi degli anni '30, durante una
conferenza a Munster, viene attaccata dal professore Franz Heller, ex collega di studi e innamorato respinto,
che l'accusa di opportunismo. Intanto il nazismo dilaga ed Edith viene sospesa dall'insegnamento. Heller,
entrato nelle file naziste, la consiglia di espatriare. Le sorelle Elsa ed Erna con le famiglie sono in procinto di
emigrare negli Stati Uniti: a sorpresa, Edith annuncia la decisione di farsi carmelitana. La famiglia è
costernata: la madre la scaccia. Dopo un duro noviziato, durante il quale consiglia alla compagna Greta di
seguire la sua vocazione alla maternità, Edith prende i voti ai quali assiste anche Hans, suo vecchio
innamorato. Poi la sorella Rosa porta brutte notizie della madre, che muore senza vederla. Le elezioni sono
un pretesto per Franz per rivedere Edith, millantare i successi del nazismo e rinnovarle l'invito ad espatriare.
Dopo la tragica "Notte dei cristalli", nel 1938 Edith e Rosa si trasferiscono in Olanda, ma l'espansione nazista
fa sì che le due donne vengano arrestate e caricate su un vagone, dove si prodigano per consolare i bambini
deportati. Poi un ultimo incontro con Franz che l'accusa di superbia ed a cui Edith chiede perdono, sentendosi
vicina alla morte (che la coglierà nel campo di concentramento di Auschwitz, dove si offre al posto di una
bambina evitandole la camera a gas).
Nel film vengono rappresentati gli anni più difficili della Edith Stein che evidenziano la sua capacità di lottare
contro il potere nazista e di ricercare dentro di sé il senso e il fine ultimo della vita. La regista sottolinea il
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
conflitto interiore di Edith e quello con la vita all'interno del convento. Come anche la complessa relazione
con la madre, un rapporto pieno di amore ma minato da continue incomprensioni. Si ritrovano però sempre
insieme nel momento del dolore, così come nella scena finale in cui Edith è unita a lei da un abbraccio,
all'interno della camera a gas.
Nel film Edith spiega che il percorso ideale dell'anima è composto da sette dimore o sette stanze, come aveva
insegnato il suo modello, il grande mistico san Giovanni della Croce. I passaggi sono simboleggiati da soglie
che si chiudono continuamente dietro le spalle, attraverso abbandoni, rotture con il passato che determinano
sofferenza: la cinepresa spesso indugia, difatti, su porte, cancelli, finestre e ostacoli che si mettono tra il
mondo interiore e quello esteriore.
Márta Mészáros nacque a Budapest nel 1928, visse in URSS dove il padre si rifugiò per sfuggire al regime
fascista di Horty. Tornata in Ungheria, entrò in contatto con la realtà politica del Paese e la repressione
sovietica durante la rivolta del 1956. Tali esperienze hanno legato la regista al personaggio di Edith Stein, in
cui vede un modello femminile di perfezione: è affascinata dalla sua forza di volontà nel combattere i mali
della società e per raggiungere la verità. La realizzazione del film fu difficile, tanto che la Meszaros attese
sette anni prima di trovare un produttore, Francesco Pamphili, e una casa di produzione, la Morgan film, che
accettarono la sua impostazione. “La Settima stanza” venne presentato a Venezia nel 1995, tra le varie
iniziative organizzate in occasione della Giornata Mondiale della Donna. (da: Wikipedia, l'enciclopedia libera;
e da: Comingsoon)
BIBLIOGRAFIA
Indichiamo qui di seguito tutti i testi effettivamente utilizzati per la preparazione di questo corso. Ricordiamo
che tutti i suoi scritti, ad eccezione dei numerosi articoli pubblicati su diverse riviste durante la sua vita, sono
stati pubblicati postumi ad opera di amici a cui aveva lasciato i manoscritti, dei suoi familiari, o di intellettuali
suoi ammiratori come Albert Camus. Diverse edizioni italiane – tra cui alcune indicate in questo elenco – sono
il frutto di raccolte tematiche organizzate da studiosi riunendo articoli e saggi già pubblicati in altre antologie
precedenti.
1.Opere di Simone Weil
Quaderni
Adelphi (4 volumi) 2005-2008
Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale Adelphi 1997
La condizione operaia
Mondadori 1990
L’Iliade o il poema della forza
Asterios 2012
Sulla Germania totalitaria
Adelphi 1990
L’ombra e la grazia
Bompiani 2002
Attesa di Dio
Rusconi 1988
La prima radice
Leonardo 1996
Lettera a un religioso
Adelphi 2008
La rivelazione greca
Adelphi 2016
Sulla guerra
Pratiche 1999
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
Lezioni di filosofia
Adelphi 2012
Una costituente per l’Europa
Castelvecchi 2013
Viaggio in Italia
Castelvecchi 2015
Il fardello dell’identità
Medusa 2014
Piccola cara. Lettere alle allieve
Marietti 2010
L’amicizia pura
Castelvecchi 2016
Incontri libertari
Eléuthera 2001
Biografie e saggi su Simone Weil
Gabriella Fiori Simone Weil
Garzanti 2006
Simone Pètrement La vita di Simone Weil
Adelphi 2010
Nadia Fusini Hannah e le altre
Einaudi 2013
Eugenio Borgna L’indicibile tenerezza
Feltrinelli 2016
J.M.Perrin, G.Thibon Simone Weil come l’abbiamo conosciuta Ancora 2000
Opere di filosofiche di carattere generale
Carla Poncina Filosofia di genere
Diogene 2017
2. Opere di Edith Stein
Il problema dell’empatia
Studium 2016
La donna
Città Nuova 2015
Una ricerca sullo stato
Città Nuova 1999
Studi su Edith Stein
Waltraud Herbstrith Edith Stein. Vita e testimonianze
Città Nuova 1987
Altre fonti:
sito www.edithstein
Luporini Giulio CulturaCattolica.it
www.ocd.pcn.net
filosofico.net
Wikipedia
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Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
INDICE GENERALE
Le donne e la filosofia nella storia
Scheda. La “Sophia”
p.3
p.3
Simone Weil
p.7
La vita di Simone Weil (schede: Alain p.13 - la “santa anoressia” p.17)
p.8
La “fortuna” di Simone Weil in Italia
p.19
L’opera di Simone Weil
p.20
Il suo “stile di pensiero”
p.22
I grandi temi della sua riflessione
p.24
1.
La filosofia e la vita
p.24
2.
La necessità, il bene e il male (scheda: la Gnosi. Il Catarismo p.27)
p.25
3.
La forza e l’amore, l’equilibrio
p.28
4.
Il potere, il prestigio
p.30
5.
Il lavoro, la tecnica
p.30
6.
L’individuale ed il collettivo
p.33
7.
La libertà e l’oppressione
p.34
8.
La sacralità della parola, il linguaggio, la propaganda
p.35
9.
La libertà d’opinione
p.36
10.
La giustizia
p.36
11.
Bisogni, diritti e obblighi
p.37
12.
Il confronto con il marxismo
p.38
13.
La rivoluzione
p.38
14.
La guerra
p.40
15.
Lo stato, la politica, i partiti
p.41
16.
Il futuro dell’Europa e del mondo
p.42
17.
La scienza, la conoscenza, la verità
p.43
18.
La Bellezza, il Bene, la Verità
p.44
19.
L’intelligenza, il pensiero
p.46
20.
La persona, l’impersonale, l’umiltà
p.47
21.
Il limite, l’eccesso, la perfezione
p.48
22.
La donna, la questione femminile
p.49
98
[Digitare qui]
Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
23.
L’amore e l’amicizia, i rapporti umani, l’educazione
p.50
24.
Il radicamento, lo sradicamento
p.52
25.
La sventura, il dolore, la gioia
p.53
26.
Il tempo, la vita, la morte
p.55
27.
L’attenzione, l’attesa, l’obbedienza, la Grazia
p.56
28.
Dio
p.57
29.
Amore di Dio, amore del prossimo
p.58
30.
La fede in Dio e l’universalità della rivelazione divina
p.59
31.
Il rapporto con l’ebraismo
p.60
32.
Il rapporto con la Chiesa Cattolica
p.63
33.
Il corpo e l’anima, l’ascetismo, l’esperienza mistica
p.65
Scheda. Rachel Bespaloff
p.69
Edith Stein: dalla fenomenologia alla mistica
p.70
La vita di Edith Stein
p.71
Lettera di Edith Stein a Pio XI sulla situazione degli Ebrei
p.76
Dall’autobiografia di Edith Stein
p.76
Il pensiero di Edith Stein
p.79
1.
Dallo studio della psicologia alla fenomenologia
p.80
Scheda. La Fenomenologia di Husserl
p.80
2.
L’importanza della fenomenologia
p.82
3.
Il superamento della fenomenologia trascendentale
p.82
4.
La questione dell’origine in Heidegger
p.83
5.
Il problema dell’empatia
p.84
6.
La questione femminile
p.87
7.
La filosofia cristiana: il rapporto tra ragione e fede
p.89
8.
L’esperienza mistica
p.91
Le opere di Edith Stein
p.92
Scheda. Gerda Walther
p.93
Scheda. “La settima stanza” (film su Edith Stein)
p.95
Bibliografia
p.96
Indice generale
p.98
99
[Digitare qui]
Il pensiero al femminile. Simone Weil - Edith Stein
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