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Verga e la mafia

Teoria e critica Verga e la mafia* Matteo Di Gesù Come si mostra che nella conoscenza non potrebbe darsi obbiettività, e neppure la pretesa ad essa, se essa consistesse in copie o riproduzioni del reale, così si può dimostrare che nessuna traduzione sarebbe possibile se la traduzione mirasse, nella sua ultima essenza, alla somiglianza con l’originale. Poiché nella sua sopravvivenza, che non potrebbe chiamarsi così se non fosse mutamento e rinnovamento del vivente, l’originale si trasforma, c’è una maturità postuma anche delle parole che si sono fissate. (Walter Benjamin) 1. Nel prezioso Dizionario dei temi letterari curato da Ceserani, Domenichelli e Fasano, è presente la voce “Mafia”.1 Ma se è plausibile considerare la mafia un tema letterario, anche sulla scorta del complesso tentativo di definire e circoscrivere la nozione di tema a suo tempo condotto da Segre2 (un vero e proprio «campo minato», avvertiva però Matteo Lefèvre),3 più problematico mi appare il processo necessario a determinarlo e isolarlo in un testo, anche nella sua bivalente accezione di «argomento» e di «idea ispiratrice» indicata a suo tempo dallo stesso Segre. In un intervento dedicato alla critica tematica, Romano Luperini segnalava la necessità di storicizzare il tema, oltre che di rapportarlo all’antropologia, implicando per la sua corretta definizione una adeguata analisi del momento della ricezione filtrato dall’immaginario. Tuttavia, il tema letterario “mafia” sembra più esposto di altri ai rischi che Luperini elencava a proposito della critica tematica: che essa tenda «a sottrarsi all’analisi del * Questo saggio riprende, ampliandolo e rielaborandolo, un articolo precedentemente pubblicato su www.arcojournal.unipa.it. 1 Cfr. G. M. Attardo, Mafia, in Dizionario dei temi letterari, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, Utet, Torino 2007, vol. II, pp. 1349-52. 2 Cfr. C. Segre, Tema/motivo, in Id., Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985, pp. 331-359. Sulla questione si veda anche D. Giglioli, Tema, La Nuova Italia, Milano 2001. 3 Cfr. M. Lefèvre, Tema e motivo nella critica letteraria, in «Allegoria», XV, 45, 2003, pp. 5-22. 56 allegoria59 momento creativo della singola opera e alla ricostruzione della sua genesi artistica e dunque psicologica, ideologica e specificamente letteraria»; «a ignorare o sottovalutare la questione del giudizio estetico e del valore storico letterario», considerando i testi quali meri documenti; «a trascurare gli aspetti formali o specificamente letterari delle opere»; e soprattutto, per il nostro caso, ad «assegnare poca importanza al momento storico ideologico per privilegiare il piano astorico dell’inconscio collettivo e degli archetipi».4 Inoltre, il tema “mafia”, per le complesse caratteristiche criminali e sociali, economiche e culturali del fenomeno, per le trasformazioni che esso ha conosciuto nel corso delle vicende storiche degli ultimi due secoli, nonché per l’altrettanto complessa e fortemente conflittuale elaborazione di una sua definizione storica, sociologica e politica, e, non ultimo, per la sua lenta e discontinua codificazione nell’immaginario e nel senso comune, richiede, per così dire, un surplus di storicizzazione e un vaglio assai scrupoloso della sua ricezione, tanto diacronica quanto sincronica, che mi pare ne compromettano l’adeguata efficacia ermeneutica in ambito critico letterario. Se, infatti, appare evidentemente meno complesso condurre una ricognizione del tema “mafia” nella narrativa dell’ultimo sessantennio, ovvero a partire dall’epoca in cui la presenza pervasiva di Cosa nostra in Sicilia cominciava a essere denunciata anche in contesti istituzionali nazionali e a imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica (venendo parallelamente indagata, nelle sue dinamiche, dalle prime inchieste e dai primi studi scientifici e raccontata da romanzi e racconti di grande valore letterario, oltre che civile – basti fare il nome di Sciascia), assai più incerto è il processo di identificazione e di analisi (ove il tema non sia manifesto, come peraltro in molta narrativa minore) per la produzione letteraria precedente e particolarmente per la narrativa del secondo Ottocento.5 Il caso della Chiave d’oro di Verga, forse la più significativa declinazione del tema nella letteratura italiana del XIX secolo, mi sembra in questo senso esemplare, proprio per il progressivo rivelarsi dell’argomento mafioso in alcuni momenti salienti della sua ricezione: occultato in un suo rifacimento, palesato in una sua traduzione dialettale, rilevato e quindi interpretato in alcune letture critiche. Ripercorrere e analizzare le tappe di questo percorso interpretativo può essere utile a considerare, su questo “campione” testuale, gli azzardi di letture troppo frettolose, nonché, contestualmente, a riponderare l’indubbio valore letterario della novella verghiana. 4 R. Luperini, Dalla critica tematica all’insegnamento tematico della letteratura: appunti per un bilancio, in «Allegoria», XV, 44, 2003, p. 118. 5 Sebbene gli studi più recenti, come si dirà, consentano di ricostruire con buona approssimazione il profilo dell’organizzazione mafiosa e delle sue ramificazioni socio-economiche anche nella sua fase aurorale. 57 Verga e la mafia Teoria e critica Matteo Di Gesù 2. Sono passati più di trent’anni dalla rilettura proustiana che Sciascia offrì della Chiave d’oro, «tra le novelle di Verga […] una delle più belle e delle meno conosciute».6 Da allora la bibliografia critica su questo breve, densissimo testo negletto si è arricchita grazie ad alcuni contributi fondamentali, elaborati soprattutto in sede di edizione critica7 o in occasione di nuovi commenti del corpus novellistico verghiano,8 ovvero di rinnovate edizioni di quei Drammi intimi nei quali lo scrittore di Vizzini volle comprenderlo dopo la prima pubblicazione su rivista.9 Se Alfieri offre, tra le altre cose, una doviziosa documentazione sulle coordinate spaziali e temporali relative alla prima stesura del testo, Pieri nella sua analisi muove proprio dalla lettura sciasciana per confutarne in parte l’interpretazione, a suo dire forzosa quando allegorizza La chiave d’oro in un teatro della memoria (a partire dal titolo stesso, inteso da Sciascia in senso memorialistico – la “chiave d’oro” della memoria, appunto – piuttosto che come mera ripresa di un detto, «chiavi d’oru apri ad ogni parti», a suo tempo segnalato da Tellini).10 Tuttavia proprio da quel saggio del maestro di Racalmuto si deve ripartire, se si vuole provare a intraprendere qualche altra indagine sulla novella verghiana: non tanto per le pur suggestive considerazioni sul «contesto di memoria» nel quale Verga avrebbe articolato la sua “storia morale” (e che ci consentirebbe addirittura di rileggere sotto specie nuova gli altri capolavori verghiani); quanto per la precisa disamina di un motivo, quello della giustizia (anzi della giustizia negata alla «gentuzza» in nome della “giustizia” esercitata per conto dei «galantuomini»), che nell’interpretazione sciasciana risulta cruciale nell’economia del bozzetto 6 La novella fu pubblicata per la prima volta sul n. 8, del 10 agosto 1883, del quindicinale palermitano «Il Momento», diretto da Giuseppe Pipitone Federico, quindi sul numero dell’11 novembre dello stesso anno del settimanale «La domenica letteraria»; l’anno successivo venne compresa nella raccolta Drammi intimi, pubblicata dall’editore Sommaruga. Il saggio di Leonardo Sciascia, Verga e la memoria, apparve su un numero monografico dedicato a Verga della rivista «Sigma» (X, 1-2, 1977) e confluì poi nella raccolta Cruciverba (Einaudi, Torino 1983); ora si legge in L. Sciascia, Opere. 1971-1983, Bompiani, Milano 1989, pp. 1115-25. 7 Cfr. G. Verga, Drammi intimi, edizione critica a cura di G. Alfieri, Le Monnier, Catania-Firenze 1987. Assai preziose le informazioni offerte da Alfieri su una serie di dettagli tutt’altro che irrilevanti: la curatrice segnala che La chiave d’oro venne composta durante le vacanze estive, in Sicilia, nel 1883; Capuana aveva invitato l’amico Verga a trascorrere un periodo nella sua casa di Santa Margherita, auspicando che quel soggiorno fosse propizio alla composizione «di un piccolo capolavoro verghiano». «L’invito cadde nel vuoto, ma si direbbe che il Verga abbia idealmente contentato l’amico nell’ambientare la novella in una casina rurale chiamata proprio Santa Margherita, e forse pure coll’indurvi come “comparsa” il piccolo Luigino, in omaggio a “don Lisi”». Si potrebbe aggiungere che a questo gioco di rimandi latenti con Capuana sembra riconducibile anche il riferimento a Vizzini, dove il personaggio di Surfareddu avrebbe dovuto prendere servizio dopo aver lasciato Santa Margherita e il feudo del canonico. 8 Cfr. G. Verga, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Mondadori, Milano 1983 e soprattutto, per l’accurato commento, G. Verga, Novelle e teatro, a cura di M. Pieri, Utet, Torino 2002. 9 Cfr. G. Verga, Drammi intimi, a cura di C. A. Madrignani, Sellerio, Palermo 1979 (si veda in particolare l’introduzione L’altro Verga). 10 Cfr. G. Verga, Novelle, a cura di G. Tellini, Salerno, Roma 1980. 58 allegoria59 verghiano, e più precisamente della sua amministrazione in un contesto in cui a regolare i rapporti sociali intervengono dinamiche che oggi non esiteremmo a definire mafiose. Ha ben presente il saggio di Sciascia Massimo Onofri quando, nel suo Tutti a cena da don Mariano, ricostruendo una genealogia del tema mafia nella letteratura siciliana post-unitaria, individua in questo racconto il testo, tra i non molti del corpus verghiano, nel quale più che in ogni altro è possibile rinvenire più di un cenno al mondo e alla mentalità mafiosa. Lo studioso, affrontando «l’eloquente silenzio di Verga» sulla questione, riprende le valutazioni dell’unico studio sistematico precedente al suo, quello di Pietro Mazzamuto,11 il quale ravvisava in alcuni luoghi di Libertà, di Cavalleria rusticana e di Mastro-don Gesualdo accenni al mondo o alla mentalità mafiosi: Onofri ritiene pertinenti i primi due riferimenti ma, come si diceva, indica piuttosto in La chiave d’oro il testo esemplare nel quale è possibile riscontrare più di un riferimento a quella cultura e a quel sentire. In Tutti a cena da don Mariano si legge che le ragioni per le quali Verga di fatto abbandonò questa novella, non curandosi di recuperarla per ripubblicarla nelle raccolte successive,12 discenderebbero, per così dire, proprio da questo assunto. Scrive Onofri: «nel 1893 c’era stato il terribile delitto Notarbartolo, a cui sarebbero seguiti più di dieci anni di polemiche continentali contro la Sicilia “mafiosa”. Non ci pare peregrino supporre che Verga e Capuana, dal loro particolare osservatorio, potessero considerare più pericoloso, per l’isola, l’attacco della stampa continentale piuttosto che l’attività criminosa della mafia; di qui questa inspiegabile reticenza».13 Mi sembra tuttavia che questa ipotesi, che verrebbe comprovata proprio dalla lettura di Sciascia (il quale, a detta di Onofri, farebbe intravedere un limite di classe, ideologico, alla non ripubblicazione della novella), pur senza voler mettere in dubbio le conclamate posizioni conservatrici, se non reazionarie del Verga maturo (lo scrittore siciliano, in una lettera a Colajanni del 1891 non esiterà a definirsi «inesorabilmente codino in politica»), andrebbe quantomeno controbilanciata da altre considerazioni. Pieri, ad esempio, presume che il rifiuto verghiano per la novella (e di fatto per l’intera raccolta) sia dovuto al desiderio di lasciarsi alle spalle «quell’episodio sommarughiano, dopo lo scandalo, con processo, condanna e bancarotta, dell’ardito editore, nel 1895», senza dimenticare che «la caduta del Sommaruga era sta- 11 Cfr. P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, Andò, Palermo 1970, p. 29. 12 Tre delle novelle dei Drammi intimi confluiranno nel 1891 nei Ricordi del capitano d’Arce: rimasero fuori Tentazione!, La Barberina di Marcantonio e, appunto, La chiave d’oro. Come hanno rilevato sia Sciascia che Riccardi, quest’ultima, per tenore e ambientazione, avrebbe potuto rientrare senz’altro tra le Rusticane. 13 M. Onofri, Tutti a cena da don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia, Bompiani, Milano 19962, p. 95. 59 Verga e la mafia Teoria e critica Matteo Di Gesù ta provocata dal suo appoggio all’estremismo ideologico dell’anarcoide Pietro Sbarbaro, certo estraneo al conservatorismo politico del Verga». Ma l’avversione per quel testo dell’83 sarebbe altresì «schiettamente radicata in ragioni economiche»: l’editore non lo aveva mai pagato e assai poco aveva fatto per la diffusione dei Drammi intimi.14 Di contro mi pare che nessuno abbia dato sufficiente rilievo al fatto che la prima destinazione della novella, e dunque, se vogliamo, l’orizzonte d’attesa dei suoi primi lettori reali, abbiano potuto indurre Verga a optare per un tema così delicato e politicamente spinoso. Il direttore del «Momento» aveva chiesto allo scrittore un testo per il suo quindicinale nelle prime settimane di giugno del 1883, come testimonia una sua missiva: poco prima del periodo durante il quale, stando alle indicazioni di Alfieri, Verga mise mano alla Chiave d’oro: l’autore, insomma, non la tirò fuori dal cassetto ma la compose espressamente per il periodico. L’intraprendenza, la vivacità intellettuale del giovane Pipitone Federico e la linea editoriale della sua battagliera rivista possono dunque averlo convinto ad abbandonare qualche eccessiva prudenza, non essendo certo egli abitualmente propenso a praticare una letteratura di aperta denuncia civile.15 Ad ogni modo, al di là delle congetture, resta il fatto che l’intuizione di Onofri pare ben avvalorata dalla sua analisi del testo, e comunque acquisita dalla critica verghiana e non. «Una rappresentazione della mafia vista in termini di pura permanenza di residui feudali si palesa nell’unica novella che il Verga dedica espressamente a questo tema, La chiave d’oro» può infatti scrivere, ormai con sicurezza, Gianna Maria Attardo, proprio sulla scorta dello studio di Onofri (anzi riprendendo proprio le sue stesse parole), nella voce Mafia da lei curata per il Dizionario dei temi letterari.16 Nondimeno, qualche altra notazione a suffragare (e magari problematizzare) questa interpretazione potrebbe non essere inutile. Ma a questo punto, prima di procedere innanzi, sarà il caso di rammentare la trama della novella, e per farlo non sembri improvvido servirsi proprio del riassunto che ne ha fatto l’autore del Giorno della civetta: Un povero ladro di olive viene ammazzato da un campiere, nella proprietà di un canonico; il campiere, una specie di mafioso, scappa: e il canonico resta a far fronte alla “giustizia”, cioè a un giudice che arriva minaccioso, accompagnato da medico, cancelliere e sbirri. Fatto il sopralluogo, il giu- 14 Cfr. G. Verga, La chiave d’oro, in Id., Novelle e teatro, cit., p. 134. 15 Per un esauriente ragguaglio della storia e della politica culturale del periodico palermitano si veda l’ottimo studio di G. Saja, «Il Momento». Identità di una rivista di fine Ottocento con gli indici del periodico (1883-1885), Sciascia, Caltanissetta-Roma 2004, il quale a sua volta rimanda all’edizione di Alfieri per la pubblicazione della lettera di Pipitone Federico a Verga. 16 Attardo, Mafia cit., p. 1350. 60 allegoria59 dice accetta «un boccone»: vale a dire un pranzo abbondante e accurato, che finisce col caffè «fatto con la macchina» e un moscadello vecchio «che avrebbe resuscitato un morto» (ma non quel povero rimasto sotto l’olivo). Il giorno dopo, un messo viene a dire al canonico che il signor giudice aveva perso nel frutteto la chiave dell’orologio: «e che la cercassero bene che doveva esserci di certo». Il canonico capisce, compra una bella chiave d’oro da due onze, la manda al giudice: «e il processo andò liscio per la sua strada», il canonico indenne, il campiere indultato poi da Garibaldi. E il canonico usava poi dire del giudice: «Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l’orologio e la catena».17 Così commenta Onofri: «La novella non solo palesa un’idea di mafia come permanenza di residui feudali, ma ci dà una straordinaria testimonianza della collusione tra amministratori della giustizia e possidenti, non senza indicarci il fenomeno dell’istituzionalizzazione della violenza privata, quella praticata quotidianamente da un ecclesiastico possidente, “una specie di barone antico”, per difendere le sue proprietà, e l’altra dovuta a un tipico rappresentante dei facinorosi ceti medi che impiegano la violenza come un lavoro, prima causa del loro innalzamento sociale».18 Un documento, dunque, questa novella, che registra in maniera esemplare quelle dinamiche di mediazione sociale violenta, di «industria della protezione privata» in un contesto contadino retto sulla proprietà fondiaria, che sono state individuate quale origine e fondamento socio-economico del fenomeno mafioso, quantomeno nel suo primo radicamento rurale.19 Qualcosa di più, pertanto, di una «pura permanenza di residui feudali», come indicano, forse troppo frettolosamente, Onofri e Attardo.20 Elementi e circostanze che Verga doveva ben conoscere, sia per esperienza diretta, in quanto proprietario terriero, “galantuomo”, che come lettore – non certo distaccato – dell’inchiesta Franchetti-Sonnino, 17 Sciascia, Opere cit. pp. 1117-18. 18 Onofri, Tutti a cena da don Mariano cit., pp. 93-94. 19 Per una esauriente storiografia del fenomeno mafioso cfr. F. Renda, Storia della mafia, Sigma, Palermo 1998; S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma 19962; J. Dickie, Cosa nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza, Roma-Bari 2005; G. C. Marino, Storia della mafia, Newton & Compton, Roma 2007. Per una disamina socio-economica si vedano, nell’ormai copiosa bibliografia: R. Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia [1988], Rizzoli, Milano 1991; D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1992; U. Santino, La mafia interpretata, Rubettino, Soveria Mannelli 1995. 20 Sarebbe anzi plausibile una lettura inversa del fenomeno mafioso: come rileva Lupo, già Emilio Sereni invitava a non interpretare la mafia come un residuo feudale, quanto come nuovo strumento di una borghesia «abortita», quella dei gabelloti, che si inserisce nel processo di disgregazione dell’economia feudale (cfr. E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne [1946], Einaudi, Torino 1960). Lo stesso Lupo propone di far risalire le origini storiche della mafia proprio al trapasso dal sistema feudale, la cui abolizione fu decretata nell’isola nel 1812, al pieno esercizio di un’economia fondiaria fondata sulla proprietà privata (cfr. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 49-61). 61 Verga e la mafia Teoria e critica che già individuava con precisione tali relazioni criminali.21 Nel racconto verghiano esse sono manifeste nel rapporto tra il canonico, compiuta figura di latifondista che prescinde dalla legalità e ha un concetto affatto privatistico e prevaricante dell’amministrazione della “giustizia”, e il suo campiere, il sorvegliante armato a guardia dei feudi: al cui modello, come sappiamo da buona parte della bibliografia scientifica, deve farsi risalire una delle prime attestazioni di quel fenomeno di network violento della protezione privata che contraddistingue la mafia rurale delle origini.22 Matteo Di Gesù 3. Ma per comprendere fino in fondo quanto incisiva sia l’analisi sociologica e, per così dire, “politica” operata da Verga nelle poche pagine di questo suo piccolo capolavoro, occorre tornare a Sciascia e alle due diverse “riscritture” della Chiave d’oro che egli invita a collazionare con la novella dei Drammi intimi, quasi fossero due reagenti chimici capaci di inverare, una volta applicati al modello originario, i nessi cruciali del testo verghiano. La prima rielaborazione (ché di questo si tratta, piuttosto che di una vera e propria riscrittura) è L’anello smarrito, una novella di Capuana, pubblicata per la prima volta nel 1902 sul «Fanfulla della domenica» e quindi raccolta nel volume Coscienze, del 1905.23 Questo, in estrema sintesi, il riassunto della novella: un futile contenzioso tra due possidenti, Liscari e don Tano il Sordo, per la proprietà di un rigoglioso albero di pere cresciuto al confine tra i loro poderi, si protrae da anni, per la gioia del pretore che, chiamato con cadenza stagionale a dirimere la questione, consuma egli stesso, insieme alla propria famiglia, i frutti fatti sequestrare ai contendenti. I due litiganti, su suggerimento del pretore, incaricano un giudice del tribunale di comporre la controversia. Il magistrato, nel corso della prima udienza, respinge un malaccorto tentativo di corruzione da parte del Liscari. L’indomani, durante il suo sopralluogo, dopo aver degustato un sontuoso banchetto presso don Tano, il giudice si lamenterà di aver perduto un anello proprio sotto al pero: il monile verrà cercato invano dai due proprietari e dal suo assistente. La tempestiva sentenza arbitrale sarà favorevole a Don Tano. Il quale, incontrando poco tempo dopo il pretore, si asterrà dal rivelargli la ragione del suo successo giudiziario: la stessa sera del giorno del sopralluogo, 21 L’Inchiesta in Sicilia dei due deputati del Regno, come è noto, uscì nel 1876. Sulle lunghe e risentite polemiche suscitate dalla pubblicazione dei due volumi e sulla posizione apologetica assunta da gran parte dell’intellighenzia siciliana anche nei decenni successivi mi permetto di rimandare, oltre che al solito Onofri, a un mio lavoro: M. Di Gesù, Il documento letterario di un delitto inaugurale, in P. Valera, L’assassinio Notarbartolo o le gesta della mafia, a cura di M. Sacco Messineo, Manni, Lecce 2006, pp. 21-35. 22 Cfr., tra l’altro, Lupo, Storia della mafia, cit., p. 54. 23 La novella si legge ora in L. Capuana, Racconti, a cura di E. Ghidetti, Salerno, Roma 1974, tomo III, pp. 70-76. 62 allegoria59 avendo còlto l’allusivo invito del giudice a lasciarsi corrompere, gli aveva sollecitamente recapitato un anello con diamante da lui posseduto: «– Grazie! – aveva risposto il giudice mettendoselo al dito. – Non mi dispiaceva tanto pel valore, quanto perché l’anello era un carissimo ricordo». Sciascia presume, adducendo argomenti assai convincenti, che Capuana non potesse non conoscere il precedente lavoro dell’amico e collega (e le indicazioni offerte in questo senso da Alfieri mi pare che fughino ogni dubbio residuo). Lo scrittore di Mineo muta però «l’avvenimento tragico in avvenimento faceto: facendone cioè una parodia». Mettendo a confronto i due testi «le differenze sono evidenti: Capuana ha alleggerito la parabola, Verga l’ha aggravata. Nella novella del primo, la “giustizia” è chiamata a decidere su un caso futile e folle, un puntiglio, un ghiribizzo; nella novella di Verga su un tragico caso tipicamente classista, di cui il giudice vede nettamente le responsabilità morali e legali».24 Le conseguenze, a proposito del tema mafia, le trae efficacemente Onofri: «Questo rifacimento ben si presta a sintetizzare l’atteggiamento di Capuana nei confronti della mafia, la sua ostinata volontà, testimoniata anche da La Sicilia e il brigantaggio, di minimizzare, se non cancellare il fenomeno. L’anello smarrito, infatti, che ripete la struttura della novella verghiana, non conserva più alcuna traccia del sentire mafioso, cancellando persino l’omicidio».25 Potremmo aggiungere tutt’al più che proprio questa reticenza capuaniana – evidentemente tutt’altro che innocente – ratificherebbe di fatto, per contrasto, la portata della denuncia di Verga e, dunque, ci persuaderebbe a dissentire dalle conclusioni alle quali perviene Onofri, che invece accomuna la volontà di Verga di non ripubblicare la novella alla trasposizione anodina e “leggera” di Capuana, interpretandole ambedue come «due diverse negazioni dello scottante problema ‘mafia’».26 4. La seconda “riscrittura” sulla quale si sofferma Sciascia è una vera e propria traduzione in siciliano del bozzetto verghiano: quella pubblicata nel 1923 da Alessio Di Giovanni,27 a ulteriore riprova del suo assunto, secondo il quale Verga avrebbe fatto meglio a scrivere in dialetto I Malavoglia.28 24 25 26 27 28 Sciascia, Opere cit., p. 1116. Onofri, Tutti a cena da don Mariano cit., p. 94. Ibidem. A. Di Giovanni, La chiavi d’oru, in «Siciliana», I, 1, 1923, pp. 34-37. Cfr. A. Di Giovanni, L’arte di Giovanni Verga, Sandron, Palermo 1920. Nato a Cianciana, terra di feudi e di zolfare nell’agrigentino, nel 1872, da una famiglia agiata (il padre, storico e folklorista, fu amico e collaboratore di Giuseppe Pitrè), autore di romanzi, novelle e drammi in lingua siciliana, nonché di numerosi saggi letterari, Di Giovanni deve la sua fama soprattutto alla sua produzione poetica dialettale. Fu un convinto assertore di un’idea di poesia siciliana che «superando definitivamente le “arcadicherie” degli imitatori del Meli, si aprisse alla realtà umana e sociale della Si- 63 Verga e la mafia Teoria e critica Matteo Di Gesù Sciascia, interpretando la trasposizione di Di Giovanni come uno di quei «“gesti critici” di un artista, di un poeta» che si rivelano «più indicativi e significanti della critica dei critici»,29 coglie proprio nella traduzione una sorta di suggestiva e recondita cifra ermeneutica, che egli scioglierà tuttavia solo nelle ultime pagine del suo saggio. In esse, a ulteriore sostegno della sua ipotesi di un Verga da rileggere con la “chiave” della memoria, Sciascia porta come prova testimoniale la sua esperienza di lettore (anzi di rilettore) dei Malavoglia: quando un passo oscuro, a pagina 95 della prima edizione, si rivela finalmente chiaro solo dopo una traduzione mentale in siciliano. A lui la parola: «L’ho riletta. L’ho tradotta in dialetto. L’ho pronunciata. E allora come riflessa, come restituita da un’eco lontana, l’ho sentita e capita. Ma difficilmente un lettore non siciliano, o comunque non in grado di fare la mia piccola operazione di ritraduzione e di riascolto, riuscirebbe a capirla senza tornare a scorrere le novantaquattro pagine che la precedono. Perché questa battuta, per essere subito colta, presuppone una descrizione topografica, di tipo manzoniano del paese; e Verga non l’ha data; o ha bisogno di una traduzione-esplicazione».30 Sciascia, insomma, invita indirettamente, per comprendere appieno il testo verghiano, a rileggerlo attraverso il filtro della traduzione dialettale di Di Giovanni: cosa che lui non fa perché, come detto, orientato piuttosto a ricavare dalla Chiave d’oro più un inveramento della sua interpretazione memoriale, che non un preciso apologo a tema mafioso. Lo faremo noi adesso, allora, non prima di aver svolto alcune rapide ma indispensabili considerazioni preliminari. Si deve tenere presente che il poeta di Cianciana, a differenza del venerato Verga, che, come dire, la prende alla lontana, non si pèrita di voler fornire egli stesso, in Come andò che divenni drammaturgo, la premessa all’edizione del suo Teatro siciliano, nonché nel dramma Scunciuru, alcune personali interpretazioni del fenomeno mafioso, a dir poco ambigue. In almeno due passi di questa prefazione Di Giovanni si premura di definire il fenomeno mafioso quasi storicizzandolo, collocandolo cioè nel periodo compreso tra l’unificazione italiana e gli anni Trenta e considerandolo ormai tramontato, grazie all’efficace azione repressiva del prefetto Mori (e dunque, si deve dedurre, del regime fascista). Facendo risalire l’ispirazione originaria dei cilia e a un dialetto non più artificioso, ma recuperato nei suoi sapori popolari» (S. Di Marco, Alessio Di Giovanni, il poeta del feudo e delle zolfare, in Storia della Sicilia, vol. VIII, Pensiero e cultura letteraria dell’Ottocento e del Novecento, a cura di N. Tedesco, Editalia-Sanfilippo editore, Roma 2000, p. 184) e seppe esprimere una sensibilità lirica che in seguito sarebbe stata apprezzata da Pier Paolo Pasolini, il quale, ne La poesia dialettale del Novecento, a proposito di Lu fattu di Bbissana parlava di «uno fra i pochi capolavori del gusto realistico» (P. P. Pasolini, La poesia dialettale del Novecento, in Id., Passione e ideologia [1960], Garzanti, Milano 1994, p. 30). 29 Sciascia, Opere cit., p. 1115. 30 Ivi, p. 1124. 64 allegoria59 contenuti dei suoi drammi ad esperienze dirette della propria fanciullezza, scrive: «S’era verso il 1878. A quei tempi la màfia che, ai nostri giorni, è stata così energicamente repressa dal Prefetto Mori, imperava in Sicilia, anche e soprattutto per la supina debolezza del Governo, che non solo non osava sfidarla, ma se ne valeva perfino in date occasioni, incoraggiandola e rendendola, senza neanco accorgersene, più forte e più baldanzosa».31 E poco più avanti: «Ho spiegato la ragione di codesto morboso fenomeno collettivo, che ora è interamente scomparso, appunto perché ognuno sa che esiste una giustizia severa e inflessibile, che c’è un governo che non solo la sa far valere, ma che non abbandona alle vili e facili rappresaglie di pochi delinquenti la gente onesta, la quale può adesso aiutare senza paura, le indagini della giustizia».32 Una lettura sicuramente inadeguata e senza dubbio deferente verso l’efficacia della «giustizia severa e inflessibile» esercitata dal fascismo, ma comunque non del tutto reticente, quantomeno relativamente alla gravità del fenomeno criminale. Tuttavia, in Scunciuru troviamo un personaggio che Di Giovanni stesso definisce, sempre nella sua premessa, «l’immagine precisa della mafia classica, vuol dire un uomo generoso, forte, giusto, che s’è macchiate le mani di sangue, senza sua propria volontà, e che, fuggito dal carcere nel trambusto d’una rivoluzione, sente il bisogno di vivere appartato, nell’aspra solitudine di un latifondo recondito».33 Quasi contraddicendo se stesso, dunque, l’autore offre nel suo dramma l’esposizione di una mafia “classica” che mostrerebbe un volto evidentemente più mite e benevolo di quello feroce del manipolo di «ribaldi» e «miserabili» che aveva descritto poche pagine prima, capace di «terribili vendette», di fare «terrore a intere popolazioni oneste, laboriose e pacifiche» e di compiere «truci misfatti». Non a caso, a proposito di tale opera, Mazzamuto parlava di mafiosi «mitizzati e addirittura concepiti come sorretti da una strana primitiva religiosità».34 Se, insomma, in altri luoghi di Di Giovanni sono rintracciabili non del tutto incongrue descrizioni di una arcaica ma nondimeno feroce criminalità mafiosa, seppur timide e comunque consegnate alla storia, con Scunciuru siamo in presenza del tipico «retaggio di un sicilianismo che mira a tradurre il comportamento criminale di una mafia qui supposta classica, di arcaica discendenza, in una sacrosanta azione di autogiustizia, laddove lo stato latita», come osserva puntualmente ancora Onofri.35 31 A. Di Giovanni, Come andò che divenni drammaturgo, in Id., Teatro siciliano, Studio Editoriale Moderno, Catania 1932, p. IX. 32 Ivi, p. X. 33 Ivi, p. XLVI. 34 Mazzamuto, La mafia nella letteratura cit., p. 35. 35 Onofri, Tutti a cena da don Mariano cit., p. 105. 65 Verga e la mafia Teoria e critica Matteo Di Gesù Sulla scorta di questi presupposti, indispensabili – seppure forse non ancora sufficienti – al fine di ponderare le opinioni e le considerazioni attestabili che Di Giovanni esprimeva a proposito della mafia, è possibile analizzare la sua versione della novella verghiana, per verificarne l’efficacia ermeneutica segnalata da Sciascia. Pur trattandosi di una traduzione assai rispettosa e pressoché letterale, fedele anche nella costruzione sintattica e nell’alternarsi del discorso indiretto con la mimesi del dialogo, nel «puro siciliano» nel quale Di Giovanni volge il testo verghiano36 (dove «puro siciliano» dovrebbe leggersi siciliano letterale, ma, come si vedrà, le cose non sono così semplici) compaiono alcune spie linguistiche davvero rivelatrici. La prima battuta di Surfareddu, il campiere, che bussa alla porta della casina dopo che le sue schioppettate notturne37 hanno colpito a morte il povero ladro di olive, in Verga suona in questo modo: – Aprite, signor Canonico; sono io Surfareddu!38 In Di Giovanni quel «signor Canonico» diventa «Voscenza», il lemma che in siciliano traduce il pronome ‘voi’ con un preciso connotato di deferenza e di rispetto delle gerarchie sociali (più ancora di quanto non facciano le varianti “vossia”, “vossignoria”): – Ora voscenza apri, cà iu sugnu, Surfareddu.39 Ecco, di nuovo in Verga, una prima, rapida quanto icastica, descrizione dell’indole del campiere: – Una voce, Dio liberi! – diceva il canonico – che faceva accapponar la pelle quando si udiva da Surfareddu, un uomo che nella sua professione di camparo aveva fatto più di un omicidio. (pp. 138-39) Ed ecco la non ingenua versione siciliana di questo passo: ’Na vuci, Diu nni scanza! Ca veru veru li facìa arrizzari li carni, pirchì Surfareddu, facennu lu camperi, peddi si nn’avia fattu cchiù d’una, si nn’avia fattu! E lu sapianu tutti, lu sapianu! (p. 35) 36 «Non la tradurremo, però, né in catanese né in agrigentino né in messinese, ma in puro siciliano» scrive l’autore nella premessa alla sua versione. Cfr. Di Giovanni, La chiavi d’oru, cit., p. 34. 37 Forse non è trascurabile rilevare che in Come andò che divenni drammaturgo, Di Giovanni evochi, a proposito della propria infanzia, il suono sinistro di «schioppettate notturne», quasi rinviando a quelle che esplodono nell’incipit della Chiave d’oro (e della sua Chiavi d’oru): «Ricordo che spesso, nella notte, mentre dormivo nel mio lettuccio, ero svegliato di soprassalto da continue schioppettate che riecheggiavano lugubremente, qua e là, per il paese, nella campagna» (Di Giovanni, Come andò che divenni drammaturgo, cit., p. X). 38 Verga, La chiave d’oro, cit., p. 137. Si continuerà a citare da questa edizione. 39 Di Giovanni, La chiavi d’oru, cit., p. 35. Si continuerà a citare da questa edizione. 66 allegoria59 È ben evidente come l’intervento del traduttore, altrove assai rispettoso del dettato dell’originale, enfatizzi il neutro «fare un omicidio» sostituendolo con l’assai più crudo e pregnante «fari (si) na peddi», per di più caricandone pesantemente gli effetti di senso con l’arbitraria interpolazione di quel «lu sapianu tutti, lu sapianu!» (a rimarcare la conclamata fama di malavitoso del campiere). Poco più avanti si presenta un’altro rifacimento che va ancora in questa direzione: quando Surfareddu, per nominare la sua vittima, nel testo di Di Giovanni usa il sarcastico e malandrinesco «l’amicu», dove in Verga si trova l’assai meno caratterizzante «il mio uomo». Ancora, nella pagina successiva, si noti come sia più sfacciata e impettita, a contrassegnarne l’atteggiamento, pur formalmente da sottoposto ma tutt’altro che sottomesso o deferente, di campiere senz’altro mafioso, la risposta piccata che Di Giovanni fa dare da Surfareddu al canonico, per controbattere al suo rimprovero (il proprietario si lamenta del fatto che, con quella reazione sproporzionata, il campiere avrebbe immediatamente fatto sopraggiungere «il giudice e gli sbirri», lasciandolo «nell’imbroglio»): – E pròsita40 veru! – cci rispusi allura Surfareddu, ’ntunatu, – Prosita veru! (p. 36) Dove in Verga si legge, più misuratamente: – Questo è il ringraziamento che mi fate, vossignoria? – rispose brusco Surfareddu. (p. 139) Subito dopo, nel testo originale, la frase di Surfareddu, a proposito dei poveri ladruncoli del frutteto, è ellittica del soggetto: Se aspettavano a rubarvi sinché io me ne fossi andato dal vostro servizio, era meglio anche per me. (p. 139) Ma ecco in che modo quel soggetto torna in Di Giovanni e si carica di senso: Era megghiu allura ca ssi ’nfamunazza cci pinzavanu dumani ad arrubari. (p. 36) «’Nfamunazza», cioè ‘infami’, ‘infamacci’, sono dunque coloro che si arrischiano a violare una proprietà sorvegliata dal campiere (da un campiere come Surfareddu, il quale dirà di se stesso che non è tipo da buttare via la propria polvere da sparo: ovvero che se spara, spara per colpire). 40 Dall’evidente etimologia latina: ‘buon pro vi faccia’, ma anche ‘evviva’. 67 Verga e la mafia Teoria e critica Matteo Di Gesù Infine, nel tradurre lo sfogo del giudice contro il canonico, il quale «teneva al suo servizio degli uomini come Surfareddu per campari, e faceva ammazzar la gente per quattro ulive» (p. 141), Di Giovanni ritiene opportuno convertire ancora una volta il non marcato «uomini» con un sostantivo assai più espressivo, «’nfanfari»: «Tinia, nni li so’ terri, pi camperi, ’nfanfari comu a Surfareddu e facia ammazzari li gintuzzi p’un pugnu d’olivi» (p. 36). «’Nfanfaru», è colui «che soprastà agli altri nel suo genere di merito superiore, o di possa eminente», secondo il Mortillaro;41 ovvero, senza indugi, ‘mafioso’. Proprio in questo modo, del resto, lo stesso Di Giovanni traduce il termine nove anni dopo, nella prefazione al suo Teatro siciliano di cui abbiamo già detto, in una delle tante digressioni autobiografiche nella quale passa in rassegna «le figure più strane e più originali» che vedeva passare durante l’infanzia dalla casa paterna: «vecchiarelle patriarcali», «vecchi agricoltori», «poeti di popolo» e, appunto, «capi ’nanfari (capimàfia)».42 Come spero risulti evidente, la collazione della Chiave d’oro con la sua volgarizzazione siciliana ha offerto indicazioni preziose: il traduttore ha di fatto campionato sull’originale una serie di lemmi e di luoghi notevoli, indizi utili a riconoscere e ricostruire l’ambientazione mafiosa della novella; è quindi intervenuto, forzandone la trasposizione (per il resto, come ho detto, piuttosto fedele) come per chiarificarne e rimarcarne il senso e per ancorarlo al contesto mafioso al quale quei lemmi e quei luoghi rimandano, palesandolo e rendendolo ancora più manifesto di quanto non fosse in Verga. Volendo, non senza malizia, riprendere proprio le parole che Di Giovanni postponeva a commento della sua traduzione, potremmo dire, con lui, che i lettori possono ben vedere «se [il testo verghiano] nella sua nuova veste paesana ci abbia o no guadagnato, se non ha un più intimo sapore di domesticità, un colore più intenso e più caldo, un’aria campagnola più spiccata e più sua».43 Proprio così: il personaggio di un campiere sicuramente mafioso è assai più “domestico” di uno che ha solo l’aria di essere tale! Ma messe da parte le malignità, si tratterebbe semmai di interpretare i passi verghiani qui esaminati come reticenze che Di Giovanni, da mafiologo autoproclamatosi, scioglie con sorprendente quanto inquietante disinvoltura; o piuttosto, come credo si debba fare, considerare la loro traduzione dialettale (sulla scorta delle suggestioni di Sciascia) quale prova aggiuntiva a suffragio della deliberata intenzione dello scrittore di Vizzini di offrire, nella Chiave d’oro, un quadro drammaticamente verosimile dei rap41 V. Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Stabilimento tipografico Lao, Palermo 1876, s.v. 42 Di Giovanni, Come andò che divenni drammaturgo, cit., p. XIII. 43 Di Giovanni, La chiavi d’oru, cit. p. 37. 68 allegoria59 porti oggettivamente di stampo mafioso che intercorrono tra latifondisti, campieri malavitosi e amministratori della giustizia concussi, a tutto danno e disdoro della «gentuzza», già nella Sicilia preunitaria (e che si perpetueranno dopo l’unificazione).44 5. Ancora un’ultima osservazione. A ben vedere ci sarebbe ancora un’altra “riscrittura” della novella verghiana da prendere in considerazione (ma in questo caso si dovrebbe, a rigore, parlare semmai di una citazione latente, indiretta), come ha rilevato Pieri45 e come del resto potevano già evincere i lettori più avvertiti: si tratta delle prime pagine del Gattopardo, nelle quali tornano tutti gli elementi della Chiave d’oro: la recita del rosario nell’incipit, di lì a poche pagine il rinvenimento del cadavere nel giardino (sebbene, nella novella di Verga, l’uomo ferito a morte non sia ancora cadavere al momento del ritrovamento), la cui fosca descrizione rimanda ancora alle pagine della novella.46 Ma c’è forse qualcosa da aggiungere a quanto ha già evidenziato Pieri: nel romanzo di Tomasi il corpo senza vita ritrovato «sotto un albero di limone» è quello di un soldato borbonico, rimasto ucciso nei disordini fomentati dalle «squadre dei ribelli» che fanno da prologo, come si ricorderà, all’imminente sbarco dei garibaldini e alla presa di Palermo. Se sul potente (e prolettico, rispetto alla vicenda narrata e al senso complessivo del romanzo) allegorismo di questo funesto presagio non è necessario soffermarsi in questa sede, non si può comunque non mettere in relazione il luogo tomasiano con un fugace quanto fondamentale passaggio del testo di Verga, affatto decisivo per coglierne appieno il portato ideologico: una volta corrotto il giudice concussore con la bella chiave d’oro da due onze, «il processo andò liscio per la sua strada, tantoché sopravvenne il 60, e Surfareddu tornò a fare il camparo dopo l’indulto di Garibaldi».47 In una frase è condensata la filosofia della storia del Verga maturo; o, meno genericamente, quell’interpretazione di uno svolgimento storico privo di qualsivoglia prospettiva progressiva (o anche semplicemente dinamica) che l’autore andava elaborando e precisando in quegli anni (si 44 Dato, questo, tutt’altro che irrilevante, se è vero che studiosi del rango di Salvatore Lupo fondano una possibile storiografia della mafia solo a partire dall’Unità d’Italia, dal momento che solo dopo quella data il termine “mafia” viene utilizzato per definire «seppur confusamente un rapporto patologico tra politica, società e criminalità» e che «l’idea stessa di mafia rimanda per contrasto all’esistenza di uno Stato che promette libertà di opinioni e di commerci, eguaglianza giuridica tra i cittadini, governo del popolo e della legge, trasparenza e formalizzazione delle procedure». Sebbene, come si è detto, lo stesso Lupo individui nell’Ottocento preunitario, a partire dall’abolizione del sistema feudale, «il contesto utile da richiamare per chi vuol ricercare il brodo di coltura della mafia, ovvero una “protomafia”» (Lupo, Storia della Mafia, cit., pp. 49-51). 45 Cfr. Verga, La chiave d’oro, cit., p. 140n. 46 Cfr. ibidem. 47 Ivi, p. 142. 69 Verga e la mafia Teoria e critica Matteo Di Gesù ricordi che una novella come Libertà era stata licenziata poco più di un anno prima)48 e che si dispiegherà sei anni dopo, in tutta la sua potenza drammatica, nella costruzione allegorica del Mastro-don Gesualdo.49 Il riferimento al 1860 è, in questo senso, emblematico: i dispositivi di oppressione e prevaricazione che operano nella società siciliana in epoca preunitaria si perpetreranno senza soluzione di continuità nella Sicilia italiana. Non è data, nella storia, opportunità di riscatto. E beffardamente spietato è il richiamo a Garibaldi:50 anche la sua amnistia è un atto di “giustizia” esercitato, di fatto, per conto dei «galantuomini» e a danno della «gentuzza» – per riprendere le parole di Sciascia – se consentirà a Surfareddu di continuare «a fare il camparo», cioè a esercitare le sue prerogative di mafioso. Un amarissimo, quasi cinicamente sarcastico richiamo all’unica legge capace di prospettare una trasformazione, all’unica forma di evoluzione possibile, quella dei cicli biologici, chiude la novella: «nel frutteto, sotto l’albero vecchio dove è sepolto il ladro delle ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini».51 Impietoso suggello per questo straordinario racconto, per il quale, stavolta, mi sembra si debba dissentire da Sciascia, secondo il quale per una volta, con La chiave d’oro in Verga «non c’è il destino, non c’è la fatalità: ci sono gli uomini, la società»:52 sulla società, sugli uomini, incombe piuttosto la visione materialistica e pessimistica che l’autore ha della storia e della condizione umana, e che il contesto mafioso nel quale è ambientata la novella disvela emblematicamente quanto inesorabilmente. 48 Libertà appare per la prima volta in «La domenica letteraria» il 12 marzo 1882. 49 Cfr. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, in Id., Verga moderno [1989], Laterza, RomaBari 2005. Il capolavoro verghiano, come è stato osservato, ha uno straordinario valore documentale anche per la descrizione che offre delle trasformazioni dei rapporti economici nella Sicilia moderna (quelli che consentiranno lo sviluppo della mafia come organizzazione di mediazione economica e insieme l’avvio del suo processo di “accumulazione originaria”, oltretutto): non è un caso che Paolo Viola abbia esemplificato proprio su Mastro-don Gesualdo la sua tesi dell’uso del romanzo come fonte storica (cfr. P. Viola, Il romanzo come fonte storica, in Il romanzo e la storia. Percorsi critici, a cura di M. Sacco Messineo, Duepunti, Palermo 2007, pp. 11-30). 50 Che, come si ricorderà, trionfatore, viene evocato dal Principe di Salina nelle ore dell’agonia: «Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto» (G. Tomasi di Lampedusa, Opere, Mondadori, Milano 1995, p. 230). 51 Verga, La chiave d’oro cit., p. 142. 52 Sciascia, Opere cit., p. 1118. 70