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Salvatore Polito Architetto
Salvatore Polito è nato a S. Giorgio a Cremano (Napoli) nel 1941. Laureato in Architettura a Napoli, da Roma a
Pavia, da Napoli a Bari, la carriera universitaria lo ha portato infine a Aversa dove è stato Professore
Ordinario di Composizione architettonica e urbana fino al 2010. Ha svolto attività progettuale prima nella
provincia di Padova e Rovigo, poi a Bologna, a Napoli e a Aversa. (www.salvatorepolito.it).
Salvatore Polito
Antico e Nuovo tra metodo e progetto
Fu una stagione quella degli anni ’70 fervida di umori culturali, anche se passata per lo più alle cronache per
l’abbondanza dei propositi o dei progetti disegnati. Napoletano, lontano dalla sua città, di una generazione
concentrata intorno al 1940 – giunta dunque alla laurea alle soglie del ’68 – mi segnalo all’inizio del decennio,
in sodalizio con Roberto Fregna, bolognese, con una serie di studi sul tessuto residenziale storico di Roma,
comparsi a più riprese su Controspazio tra il ’71 e il ’73 (1); contemporaneamente lavoriamo al primo progetto,
un centro di servizi sociali, avvio di un lavoro comune che si prolungherà per molti anni (2). Se viene ancora
riconosciuto che quei saggi, in coda naturalmente al filone muratoriano, fuori dall’ideologia contribuirono a
irrobustire gli studi tipologici in Italia, senza tuttavia pagare pegno alla “Tendenza”, altrettanto si deve
riconoscere a quella prima piccola architettura – così impressa dal mito del razionalismo eroico – una capacità di
indagine plastica originale e estranea al “neo-razionalismo” imperante. Dunque un po’ di enfasi barocca mi
connota subito come napoletano anche nelle piatte distese della pianura emiliana, così la “microstoria” del
tridente romano documenta un atteggiamento misurato e realistico, attenzione e adesione alla natura e ai limiti
dell’indagine – e alla realtà delle cose – che si rivelano l’altro aspetto del mio lavoro.
Seguono anni d’attesa per chi come me non ha le risorse dell’architetto
“disegnatore” (ne prosperano invece in quegli anni grazie allo sviluppo
del sistema delle comunicazioni), fino allo scadere del decennio quando
maturano i frutti dell’azione urbanistica che ha visto spostare l’interesse
– appena si è aperta la stagione del “risparmio” – prima ai centri storici,
poi al recupero dell’esistente. Grazie all’attività di urbanista svolta da
Fregna nell’hinterland bolognese, anche io (intanto rientrato a Napoli
seguendo le tappe dell’inserimento nell’università) mi trovo coinvolto
nell’onda delle iniziative che vide pronte alla realizzazione soprattutto
le amministrazioni dei centri minori. E’ un’attività fitta di occasioni
limitate ma puntuali (la casa, la piccola scuola, il piccolo campione di
edilizia sociale ecc.) che creano la condizione favorevole all’intervento
necessariamente artigianale. D’altra parte l’interesse a limitare il nuovo
come “modificazione” all’interno dell’esistente, in realtà urbane ancora
individuali, trasforma realisticamente gli interventi da segni opposti al
contesto in elementi rielaborati al suo interno, questa volta
coerentemente con quanto il dibattito architettonico aveva rivalutato
(l’attenzione alla residenza, ai tessuti, alla struttura fisica della città).
Insieme a tutti i quarantenni, arricchiti di qualche studio, rispettosi delle eredità storiche e dei problemi dei
contesti, debitori delle impostazioni teoriche di Rossi e Aymonino, sensibili alla lezione portoghesiana del
“passato come amico”, anche noi collezioniamo una rapida serie di opere per le quali può valere il giudizio che
Fulvio Irace dette della produzione di quegli anni: “Piccoli lavori, temi precisi e circoscritti, omogenei, si
direbbe, alla realtà progettuale di questi architetti sempre più orientati a una nozione empirica e sensitiva del
progetto, radicato nelle ragioni contingenti del «qui e ora», inserito nelle connessioni con la specificità
esemplare di un contesto…A questo restringimento di campo corrisponde una sorta di rivalutazione del
«mestiere», dopo anni, magari, di negazione della «professione». E’ una riscoperta della progettualità quasi
autodidatta…Ciò che era costato alle precedenti generazioni il dolore dello «strappo» dall’ortodossia della
«tradizione del nuovo» assume il valore di una nuova, pacifica tradizione entro il cui generoso solco lavorare
con libertà espressiva” (3).
In realtà il ricorso al “mattone” fu, sull’orma di Viollet-le-Duc, un modo, rapido e economico, per scoprirsi
architetti costruttori, e il “regionalismo” si rivelava una convenzione con cui in provincia il limite delle occasioni
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professionali diventava consapevole aderenza al contesto e scoperta della potenzialità espressiva della piccola
scala.
Dopo il progetto d’esordio (replicato in due piccoli centri contigui), i lavori più importanti con cui ci
presentiamo all’inizio degli anni ’80 sono due progetti di recupero, dove sperimentiamo l’approccio per parti
attraverso i metodi complementari del restauro, della ristrutturazione, della sostituzione “moderna”. La
programmatica semplicità dell’impianto del primo progetto veniva esaltata nella rottura degli spigoli
contrapposti sugli angoli, anche adesso, nonostante la complessità del procedimento, non si attutisce
l’inclinazione alla ricerca plastica. A S. Giovanni in Persiceto l’edificio per handicappati (4) è un’attenta
ricucitura, in un organico insieme microurbanistico, di fabbricati esistenti recuperati e di un corpo di nuova
edificazione; l’impegno a ricostituire un’immagine integrata del comparto edilizio si traduce allora in una
minuziosa rilettura dei rapporti spaziali tra i vari elementi in gioco, ordinando la gerarchia di corti e cortili in
funzione dell’uso e della relazione con l’esterno. Elementi costruttivi e architettonici particolari segnano, caso
per caso, la topografia del complesso, ma questa attenta strategia non smorza l’invenzione plastica, ora
compressa ora dilatata secondo il carattere del recinto, completamente esplosa nello spazio interno.
Un discorso analogo a S. Agata Bolognese (5), dove la scuola va a occupare un edificio di particolare interesse
storico-ambientale del centro cittadino, un intervento che, pur nella rispettosa aderenza all’impianto
originario, esalta l’enfasi e la dissonanza del nuovo corpo di fabbrica. Vale la pena descrivere da vicino il
carattere dell’inserto, un parallelepipedo di appena due piani con sei aule, per valutarne la complessità che mira
a esprimere. Contro la presenza serrata e compatta del cortile del palazzo, una doppia concavità è il diaframma
del nuovo edificio; questa volta, com’è nella natura di
un’architettura moderna, l’ambito è stabilito non più da un muro ma da
un limite di luce - la natura del Moderno è dunque drammaticamente
fissata in questa condizione limite, utopica e incontaminabile. La sua
ampiezza contrasta dinamicamente con lo sviluppo della sezione,
completamente libera sui tre piani – ai due piani di aule si è aggiunto
un seminterrato destinato ai servizi – e percorsa dalle scale.
Dall’interno la relazione che si stabilisce con l’altra parte è la mutevole
sagoma d’ombra che il muro di cinta e l’apertura ad arco proiettano.
Uscendo dal seminterrato, l’unica uscita sul cortile, si scopre l’edificio
antico come appoggiato su uno zoccolo (lo stilobate), accorgimento
efficace a ribadirne il distanziamento. Viceversa, uscendo al piano terra per la galleria vetrata di collegamento
col palazzetto che scorre tra il muro del cortile e il muro di confine del giardino, si scopre il contatto tra le due
strutture attraverso una sequenza a dettagli marcati e molto ravvicinati. Infine, uscendo dal primo piano, varcato
il portale contro cui si blocca l’aggetto neoplastico del nodo d’angolo, e percorrendo la rampa superiore, vera
promenade al di sopra dei muri, tra cortile e giardino, tra antico e nuovo, spaziando fino all’abside del duomo, si
coglie compiutamente la relazione e l’autonomia dei due edifici.
La metodologia dei progetti è comunque chiara: accanto all’evidenza degli elementi stabili
le controforme (invasi, involucri) acquistano senso e funzione via via che il progetto le indaga; rispetto alla
relazione principale – è l’azione che regola l’insieme -, gli elementi vengono riconosciuti già dotati di un proprio
linguaggio. A questo punto anch’io potrei inserirmi nel folto gruppo che pratica il “collage” come la tecnica più
adatta a rispondere ogni volta al problema del progetto (una riedizione empirica della indicazione data a suo
tempo da Aymonino del progetto come tecnica di intervento). Nel “collage”, infatti, gli elementi dell’edificio
sono definibili separatamente; a una relazione chiusa è sostituita quella aperta che si stabilisce alla fine tra le
parti. E’ un procedimento ineccepibile, a posto con la condizione critica in cui lavora l’architetto oggi; ma quel
che più conta è che il “collage” sia costruito, strutturato da parti che corrispondono a contesti – per cui ogni
parte è la soluzione di quel singolo problema contestuale – e l’edificio nasca dall’integrazione delle parti. Per chi
non si aggrappa ad apriorismi formali forse è diventata questa l’unica possibile “costruzione logica” del progetto
quando il contesto urbano ha perso i connotati di stabilità e di chiarezza indispensabili.
Intanto da Napoli ho allargato il mio impegno a temi di ricerca che investono la grande scala urbana (il primo
studio sul centro antico di Napoli è pubblicato nell’83): si sviluppa d’ora in poi un’utile sinergia tra attività
professionale e ricerca progettuale. Quanto è già intuito e sperimentato nei progetti che si vanno realizzando
riappare ampliato e sistematico nell’interpretazione e nelle proposte per il centro antico napoletano.
A questo punto dovrei iniziare un percorso a ritroso attraverso tutti i temi da esporre in chiave autobiografica e
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analizzare come sono stati vissuti gli studi urbani su Roma, Napoli e Bari, quale è stato il rapporto con
l’architettura moderna olandese, come ho seguito il dibattito teorico di critica e superamento del Movimento
Moderno. Valgono come cenni per aprire un piccolo squarcio sulla sempre tormentata vicenda che si nasconde
anche dietro poche e piccole architetture.
Operando dunque all’interno delle strutture urbane, nelle parti non compiute o irrisolte, il progetto tende a
diventare uno strumento duttile, non predeterminato da opzioni linguistiche, trasformato quindi in una
necessaria tecnica di intervento. Tra un architettura come modello e un’architettura come progetto specifico –
soluzione di un problema – la scelta è dunque per quest’ultima, purché la “soluzione” sappia esprimere i
caratteri dimostrativi e generalizzabili che solo la presenza di un metodo consente.
Ritornando sulla scuola di S. Agata Bolognese, dopo l’esperienza sul centro antico di Napoli, ne ho riproposto
una lettura sistematica, utile a delineare la metodologia dell’approccio progettuale (6). Quel palazzetto
cinquecentesco da restaurare e ampliare con un nuovo corpo di aule, viene prima identificato in modo da far
corrispondere rigorosamente il tipo al lotto, poi isolato incidendo il corpo edilizio aggregato, come una premessa
necessaria a marcare l’autonomia, funzionale e figurativa dei due interventi. La separazione tra le parti, intese
come sistemi figurativi diversi e autonomi (e qui non a caso ricalco la traccia dei progetti urbani), manifesta
quindi l’intenzione metodologica del progetto: “Separare per dare finitezza alle singole parti ed esprimerne la
specificità, marcare la soluzione di continuità lungo un limite, una linea di soglia, dove Antico e Nuovo si
separano”. Evidentemente il metodo – a qualsiasi scala, dunque, dalla città all’edificio – sottintende un giudizio
secondo cui antico e nuovo sono strutture incompatibili in un sistema chiuso, nature che per fondamento della
loro configurazione fisica impongono una diversità di ordine logico estetico morale. Allora nella scuola il cortile
sarà l’ambito esclusivo del palazzo, negato al nuovo edificio: antico e nuovo non si fronteggiano, si eludono, ma
il distanziamento varcato il recinto, diventa avvicinamento, contatto, colti tuttavia solo attraverso punti di vista
molto parziali e discontinui che non restituiscono mai una relazione di insieme. Così nel “corpo di Napoli” è il
recinto a garantire la continuità urbana componendo la cortina sul vicolo, contiene il cilindro vetrato – dunque
calato e inserito nella cavità della massa costruita -, scoperto solo negli squarci e negli interstizi, in modo che il
conflitto tra le due forme – la relazione e l’opposizione -, spinto certo fino al limite del contatto, è colto solo in
una sequenza di colpi d’occhio, di dettagli marcati che consentono di intuire la presenza dell’inserto ma non
fanno esplodere il contrasto (7).
Come dire che nella disputa tra Roberto Pane che indicava la necessità dell’intervento per conservare, e Cesare
Brandi che postulava la rottura insanabile tra le concezioni dell’architettura storica e moderna – che per tanto
andavano tenute separate-, mi schiero decisamente col secondo. La scelta non significa ostracismo per gli
interventi – sempre necessari purtroppo per riparare i guasti o colmare le “lacune” - ma si rivela vantaggiosa per
illuminare la condizione in cui l’architetto moderno è costretto a operare. Il risultato è esaltare quei vincoli che il
progetto moderno cerca come la salvezza per sviluppare quella complessità di cui ha drammaticamente bisogno.
Oltre la meccanica e ingenua derivazione del progetto dall’analisi, a che punto il dato morfologico sia inteso e
esaltato come il vincolo necessario a sostanziare l’ideazione del progetto, lo dimostra l’approccio al centro
antico napoletano, sentito e drammatizzato come una realtà senza uscite. “Come in un processo di
agglutinamento ogni scansione, ogni gerarchia appare riassorbita dalla continuità della massa edificata…
L’alta densità resta un dato fisico immodificabile…Muro contro muro, la struttura dell’insula disegna un a
corpo a corpo che ne esalta la compattezza…Quella continuità dal sottosuolo al lastrico è la conferma della
inamovibilità e intrasformabilità della struttura…La massa edificata è sempre avvertita come eccezione,
singolarità, anomalia, ma anche esclusione, restrizione, opposizione…” (8). Solo alla fine di questa autentica
immersione è dato di intravedere il carattere che il progetto dovrebbe cogliere, precisare e esaltare.
Se la pratica dell’analisi morfologica (l’analisi critica della morfologia urbana, secondo l’indicazione di
Samonà) serve a far scattare l’invenzione da uno stato di necessità, si ribadisce dunque il problema della
centralità dell’architettura: tra metodo e progetto, come avvertiva Bonfanti, ogni intervento sull’antico pone
“questioni irriducibili al metro della «certezza» e della «scientificità» ”.
Dal ’90 in poi, mentre i temi di ricerca seguono l’iter dell’impegno universitario (Napoli, Bari, infine Aversa), si
chiude la stagione dei progetti realizzati con il rammarico per non aver visto completata la ristrutturazione della
sede comunale di S. Agata Bolognese (pezzo forte l’inserzione dei servizi annessi al teatrino del palazzo, uno
spazio a tutta altezza concentrato e affollato, piranesiano, in realtà un congegno voyeristico che attraversa la
scena). D’ora in poi l’ impegno progettuale viene condensato nella partecipazione ai concorsi, occasioni dove
l’attenzione è volta a costruire l’ordine urbano, risolvendo dunque preliminarmente conflitti e contraddizioni,
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per ritrovare la naturalità della trasformazione. Decidendo di intervenire anche in autonomia dai termini del
bando, ogni proposta discende dal giudizio che dovrebbe individuare esattamente il problema del progetto –
dunque il progetto implicito, “l’intervento come atto implicito all’organismo urbano”, ancora secondo
l’indicazione di Samonà. Non è un caso, quindi, se quelli che hanno spunto come temi di “arredo urbano”,
diventano approfondite indagini che ripropongono il problema della città e della sua forma.
La stessa attività didattica, che ha acquistato per me un peso prevalente in questi ultimi anni, produce risultati
che corrispondono con l’attività del progettista e del ricercatore (9). Sempre la stessa attenzione al vincolo
morfologico come condizionamento reale (“perché non si può inventare la complessità, e perché la complessità
non diventi una poetica”); l’indagine sulle strutture (i tessuti, le maglie) per conoscerle e prevederne il
comportamento; l’adozione del linguaggio come la forma con cui la struttura si manifesta; l’indicazione
esplicita, infine, a un’architettura che non si esprime più attraverso la costruzione – l’autorappresentazione – ma
piuttosto per nessi logico-critici complessi, e che in questo senso è moderna (10).
(1) Cfr. “Fonti di archivio per una storia edilizia di Roma”, in Controspazio 9 (1971), 7 (1972), 5 (1973).
(2) Cfr. Domus 605, 1980 e L’Industria delle Costruzioni 110, 1980.
(3) Cfr. Fulvio Irace, “Una generazione eclettica”, in Ottagono 82, 1986.
(4) Cfr. Domus 665, 1985 e L’Industria delle Costruzioni 167, 1985.
(5) Cfr. Domus 665, 1985 e L’Industria delle Costruzioni 201/2, 1988.
(6) Cfr. L’Industria delle Costruzioni cit.
(7) Cfr. “Tre progetti nel corpo di Napoli”, ed. Clean, Napoli 1993.
(8) Cfr. Op. cit., pp. 45-47.
(9) Cfr. "Il complesso moderno, esercizi di progettazione", ed Cuen, Napoli 1997 e "Progettare la morfologia",
ed. Safra, Bari 1999.
(10) Cfr. Salvatore Polito, “Progetti e ricerche”, in ArQ 17, Electa Napoli 2000.
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