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1984, Liuteria
Il Liuto. Rivista della Società del Liuto, XV, 2017
in "Il Liuto. Rivista della Società del Liuto", 9, 2014, pp. 62-66
From the quarterly Rivista della Società del Liuto, "Il Liuto", Novembre 2016, n° 13, pp. 27 - 49.
This paper aims to give a short view of the sources about the gardens of the literati during Bei Song dynasty.
Nel Doppio ritratto di Filippino Lippi conservato al City Art Museum di Denver (Colorado), l'artista è raffigurato in compagnia del committente e amico Piero Del Pugliese. Alle spalle dei due personaggi, nell’angolo di una fila di scaffali, un manoscritto aperto reca un’iscrizione, il cui testo, a giudizio della letteratura storico-artistica sull'argomento, è oggi illeggibile, sicché il messaggio o l'opera allusa risultano irriconoscibili. In questo testo presunto illeggibile vengono identificati i vv. 93-105 della terza canzone del Convivio dantesco, Le dolci rime d’amor ch’io solea [Rime, 4 (LXXXII)], e in particolare, centrale dal punto di vista visuale e dunque semantico, il v. 101: «È gentilezza dovunqu'è vertute». Il contributo si sofferma sul significato di tale scelta iconografica e la contestualizza nell’ambito della cultura letteraria d’età laurenziana, mettendo in luce i rapporti fra il dipinto di Filippino e il trattato De vera nobilitate di Cristoforo Landino. In Filippino Lippi’s Double portrait, nowadays at the Denver Art Museum, the artist is portrayed together with his patron and friend Piero Del Pugliese. Behind them, on the corner of a row of bookshelves, an open manuscript shows an inscription, whose text has been considered unreadable by art historians, so that it is impossible to decipher its message or the work being referred to. Lines 93-105 of the third canzone of Dante’s Convivio, Le dolci rime d’amor ch’io solea solea [Rime, 4 (LXXXII)], and especially line 101, «È gentilezza dovunqu'è vertute», central from the visual and semantic point of view, are identified in this allegedly unreadable piece of text. The paper focuses on the meaning of such an iconographic choice, putting it in the context of the literary environment of the Laurentian age, showing the connections between Filippino’s painting and Cristoforo Landino’s treatise De Vera Nobilitate.
Il mulino di Amleto è uno di quei rari libri che mutano una volta per tutte il nostro sguardo su qualcosa: in questo caso sul mito e sull’intera compagine di ciò che si usa chiamare «il pensiero arcaico». Cresciuti nella convinzione che la civiltà abbia progredito «dal mythos al logos», «dal mondo del pressappoco all’universo della precisione», in breve dalle favole alla scienza, ci troviamo qui di fronte a uno spostamento della prospettiva tanto più sconcertante in quanto è condotto da uno dei più eminenti illustratori del «razionalismo scientifico»: Giorgio de Santillana. Proprio lui, che aveva dedicato studi memorabili a Galileo e alla storia della scienza greca e rinascimentale, si trovò un giorno a riflettere su ciò che il mito veramente raccontava – e capì di non aver capito, sino allora, un punto essenziale: che anche il mito è una «scienza esatta», dietro la quale si stende l’ombra maestosa di Ananke, la Necessità.
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