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Q i quaderni del CASVA 18 a cura di Pierfrancesco Sacerdoti a cura di Pierfrancesco Sacerdoti Milano città immaginata 10 progetti dagli archivi CASVA 4 5 Prefazione Filippo Del Corno* Dedico questo libro alla memoria di Matilde Baffa, Piero De Amicis, Enza Pisano e Silvano Tintori. P.S. pp. 4-5 Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 1936-1937, prospettiva di studio (Archivio Luciano Baldessari, CASVA, Milano). 6 Milano e l’incontro con alcuni progetti di architettura che l’hanno vista protagonista, ma solo nella dimensione del progetto: è il tema che questa pubblicazione dedica a una “Milano immaginata”, grazie alle preziose testimonianze di archivio dei materiali provenienti dal Centro di Alti Studi sulle Arti Visive (CASVA) di Milano. Progetti architettonici e urbanistici che non hanno trovato sviluppo concreto in un effettivo compimento, permettono di farci entrare in contatto con le visioni di una città diversa, da esperire tramite i documenti che mostrano e raccontano ipotesi alternative di scenari urbani possibili ma non reali. Diversi sono stati i mezzi per divulgare e far conoscere questa narrazione di visioni alternative della nostra città. Grazie alla collaborazione tra Politecnico di Milano e CASVA è stata infatti realizzata la mostra “Milano città immaginata”, in cui è stata presentata una selezione di dieci progetti provenienti dagli archivi CASVA: visioni urbane, incompiute ma ideate, in differenti tempi e per differenti spazi di Milano, dal centro fino a zone più periferiche, dagli anni Trenta fino agli anni Ottanta del Novecento. L’esposizione dei progetti è stata accompagnata da alcuni incontri di approfondimento – riportati in questa pubblicazione – che hanno sviluppato e affrontato un ideale itinerario attraverso la città, i suoi luoghi – il centro, le piazze, le vie, i quartieri – e le sue possibilità di cambiamento e trasformazione. Il percorso espositivo si è esteso inoltre nella rete, con una mostra multimediale, e si è diffuso nella città con affissioni e cartoline realizzate da illustratori che hanno rivisitato i progetti, offrendo una rappresentazione di luoghi e spazi cittadini differente da quella con cui normalmente abbiamo modo di confrontarci nella nostra quotidianità. Il Centro di Alti Studi sulle Arti Visive attesta l’importanza del patrimonio documentario dei materiali d’archivio per lo studio e l’analisi nell’ambito delle discipline dell’architettura, della grafica, del design, portando alla luce visioni della città, che pur rimaste incompiute, irradiano ancora oggi tracce e suggestioni significative. *Assessore alla Cultura, Comune di Milano 7 Francesco Gnecchi Ruscone, progetto per piazza Fontana, 19671968, vista del modello (Archivio Francesco Gnecchi Ruscone, CASVA, Milano). Ciclo di seminari al Politecnico di Milano LA PIAZZA martedì 20 ottobre 2015 moderano: Lukas Janisch ed Elisabetta Martelli intervengono: Mariella Brenna, Anna Chiara Cimoli, Francesco Gnecchi Ruscone, Pierfrancesco Sacerdoti Elisabetta Martelli Buonasera a tutti. Vi ringrazio di essere qui a questa seconda conferenza che tratterà di due progetti milanesi: uno in piazza Fontana di Francesco Gnecchi Ruscone e l’altro in piazza San Babila di Luciano Baldessari. Due progetti che saranno trattati nello specifico dai miei colleghi. Ne approfitto per presentarvi l’architetto Francesco Gnecchi Ruscone, Anna Chiara Cimoli e l’architetto Lukas Janisch, al quale comincio a cedere la parola. Lukas Janisch Diciamo che questa mostra che abbiamo organizzato si muove tutta sul confine liminale tra storia e memoria. Provo a spiegare la differenza tra questi due modi di relazionarsi al passato: la memoria ha sempre una dimensione soggettiva, mentre la storia tende a fattualizzare, a convenzionalizzare il rapporto con il passato. In questo senso abbiamo voluto parlare dei progetti, più che sviluppare grandi apparati didascalici, più che scrivere molti pezzi sui lavori che abbiamo fatto. Perché ogni storia sviluppa la sua rilevanza nell’attualizzazione, cioè nell’attrito che fa con il qui ed ora, o piuttosto nella sua divergenza da quello che noi viviamo. Perciò la storia diventa memoria nel momento in cui diciamo che è esperibile. Ho avuto l’opportunità di conoscere Francesco Gnecchi Ruscone solo nella fase di preparazione della mostra “Milano città immaginata”. Era molto divertente il nostro modo di parlare, di discutere dell’architettura, l’abbiamo continuato adesso appena prima della conferenza, e so che lui aveva una piccola preoccupazione, cioè quella di renderci più chiaramente il valore di provocazione del suo progetto. E io, che prendo sotto braccio le cose, non prendendole mai subito sul serio finché non riconosco il problema, ho detto: “Ma l’ironia in architettura la conosciamo benissimo, non è niente di strampalato”. E mi sono venuti in mente altri progetti ironici, ho pensato a un progetto degli anni ’70, “The Archigram delle città camminanti”, e ho provato a sovrapporre queste due cose, e non ci riuscivo, erano completamente diverse. Gli Archigram erano fuggiti dal confronto con la città, erano evasi, erano ormai finiti negli spazi interspaziali, erano finiti sulla Luna con queste grandissime città e si erano sottratti al compito di risolvere qualcosa, erano decollati per una fuga. Quando ero studente il postmoderno spopolava nelle università e questa idea che l’architettura possa essere un gioco, cioè che possa essere divertimento, è strettamente legata a un’ironia, a un’ironizzazione, tuttavia anche questo modello di ironia non era assolutamente adatto per comprendere quel tipo di provocazione che intendeva Gnecchi Ruscone. Allora ho dovuto fare quello che non faccio molto volentieri: ho dovuto studiare, ho dovuto prendere un attimo la biografia di questo architetto e guardarla. E solo in quel momento ho capito che i suoi progetti sono legati da un filo rosso, che è quello dell’impegno; cioè la sua architettura è intesa realmente come strumento di cambiamento, di trasformazione delle condizioni materiali, e questo a qualsiasi scala, cioè dalla scala urbanistica alla scala dell’oggetto. Se ci rendiamo conto di questo, allora capiamo che quella provocazione che lui lancia è di altra natura, è cioè una provocazione che non si sottrae al confronto e non si ritira nell’ambito del caricaturale, ma cerca di aprire un dialogo che si affida al progetto. 82 Il progetto non è l’articolazione dell’oggetto finito, ma è una processualità nella quale intervengono i diversi attori dello spazio, e questo mi ha quasi convinto che sia sensato delle volte studiare. Però credo che questo si capisca ancora meglio direttamente dalle parole di Gnecchi sulla sua architettura, e gli cedo volentieri il microfono. Francesco Gnecchi Ruscone Grazie. Sono un po’ imbarazzato a venire a raccontare di questo progetto, ho tentato invano di convincere il CASVA a non metterlo nella mostra. Non ci sono riuscito, e come vedrete è un progetto difficile da spiegare, da giustificare. Come mi vedete adesso sono un ragazzo gentile e benevolo, ma molti anni fa andavo soggetto a furori polemici e questo progetto è un momento di una battaglia, uno strumento di una battaglia per la salvaguardia del centro storico di Milano, atteggiamento che faceva parte di un mio modo generale di pensare alla innovazione architettonica. I centri storici sono non solo una parte fondamentale del nostro modo di vivere, del nostro modo di essere, ma sono e possono essere mantenuti e migliorati come strumenti per un modo di vivere più giusto, più proprio. Ora, una decina d’anni prima, con altri tre colleghi, avevo fatto quel progetto per il quartiere delle Cinque Vie di cui parleremo domani, ma il vero obiettivo di quel progetto era bloccare la realizzazione del piano regolatore del 1934 che ne prevedeva lo sfondamento e quindi anch’esso è un progetto polemico, ma era un progetto come devono essere tutti i progetti, era propositivo, cioè era un’indicazione di quello che avrebbe potuto diventare. Il progetto per piazza Fontana faceva parte forse della stessa battaglia, di una continuazione di quella battaglia, ma per un aspetto particolare. Era il periodo in cui andava dilagando l’abitudine di costruire parcheggi multipiano in centro, perché il centro era invaso da parcheggi in superficie che ne alteravano completamente l’aspetto. Se ricordo bene, nella relazione che ho presentato per questo progetto ho messo una fotografia di piazza della Scala che allora era un tappeto di automobili parcheggiate. La soluzione che veniva in quel periodo più largamente proposta era quella di costruire strutture per ospitare le automobili togliendole dai marciapiedi. Il mio sospetto era che questa soluzione forse peggiore del guaio, ma parlarne e scrivere articoli, darsi da fare in quel modo si è rivelato poco efficace, e allora ho colto l’occasione di un concorso che ha indetto in quel periodo il Comune di Milano per una sistemazione di piazza Fontana, anche quella allora parcheggio a tappeto, ma nelle intenzioni nobili e benevole del Comune di Milano c’era l’immagine di una piazza Fontana con la fontana, le aiuolette, 83 Francesco Gnecchi Ruscone, progetto per piazza Fontana, 19671968, prospetti e sezione (Archivio Francesco Gnecchi Ruscone, CASVA, Milano). Francesco Gnecchi Ruscone, progetto per piazza Fontana, 1967-1968, planimetria con schema del traffico (Archivio Francesco Gnecchi Ruscone, CASVA, Milano). gli alberelli, che evidentemente ignorava il problema della pressione delle automobili sul centro di Milano. E quindi c’era il pericolo che sorgessero altri edifici destinati unicamente a parcheggio, magari non in piazza Fontana ma nelle immediate vicinanze. E allora ho pensato di usare la presentazione di un mio progetto al concorso come provocazione. È forse l’unico progetto di tutta la mia vita che ho progettato sperando che non venisse mai costruito. Di solito uno progetta sperando poi di vedere la sua carta trasformata in pietra, ma questa volta era il contrario. E quindi ho fatto questo progetto che riempiva piazza Fontana un ecomostro. Qui sono nati allora due problemi. Il primo era: è possibile usare la progettazione in modo polemico, come una provocazione? Io non lo sapevo e non ero a conoscenza di progetti che non fossero propositivi e che fossero contro sé stessi, però ho deciso di provare. Questo comportava una serie di altri problemi: il primo era che anche per essere una provocazione un progetto deve essere convincente, quindi dovevo fare un progetto che avesse delle serie radici di tecnica urbanistica, di sistemazione della circolazione, che non fosse un puro gesto che poteva essere rifiutato come una leggerezza. E allora, approfittando del fatto che in quegli anni mi occupavo anche dell’urbanistica di Milano, e quindi sulla base di conoscenze che avevo e dello studio che ho fatto per quell’occasione, ho verificato la necessità di parcheggiare macchine in quell’area attraverso uno studio sulla circolazione. Nella relazione per il concorso è inserito uno schema per la riorganizzazione gerarchizzata della circolazione, che era in parte allora allo studio per la città di Milano da parte di sorgenti diverse, ma che io ho in qualche modo fissato in un’ipotesi. Da questa sono passato alla scala successiva, cioè il particolare dell’area di piazza del Duomo e dei suoi dintorni, facendo anche tutta un’analisi degli insediamenti che generavano la necessità di accesso in automobile, che erano oramai, o anzi da sempre, in fondo, insediamenti di carattere terziario, ma che si differenziavano in fonti amministrative, pubbliche e private, in fonti commerciali e in fonti, che adesso sono certamente attenuate, destinate al tempo libero. La maggior parte dei teatri e dei cinematografi di Milano erano allora in quell’area. In un certo senso questo era un vantaggio rispetto alla situazione attuale, perché diluivano l’afflusso di automobili su un arco di tempo molto più lungo e non solo su quello dell’orario di apertura di uffici e negozi. Con tutto questo rimaneva il problema di come sistemare i parcheggi e se in quest’area fosse tollerabile la sostituzione di edifici esistenti con dei garage multipiano, e allora è nato il progetto. Molto verosimilmente l’intenzione del Comune nel bandire il concorso era la sistemazione del lato nord della piazza, oltre all’arredo urbano. Allora io su questo lato ho piazzato il corpo del parcheggio che arrivava fino al piano terreno, i due tondi sono le rampe di accesso e di uscita per i piani di parcheggio superiori, e tra l’Arcivescovado e il palazzo ex dei Tribunali, Comando dei Vigili per intenderci, c’era un portico aperto che conservava all’uso pedonale tutta l’estensione della piazza. Quindi il progetto, pur essendo provocatorio, sosteneva delle tesi che potevano essere razionali e accettabili. Ugualmente al primo piano del parcheggio c’era, se ricordo bene, un bar ristorante, cioè non era solo parcheggio. Anche il linguaggio architettonico, l’aspetto del progetto edilizio, doveva da un lato avere un carattere provocatorio, cioè l’intenzione era di indurre il pubblico a rifiutare un intervento simile, dall’altro doveva anche essere un’architettura che non potesse essere scartata come insignificante o squallida. E lì è stato veramente il mio problema di progettista: dovevo progettare un edificio che non volevo, ma farlo bello al punto da poter essere accettato e discusso. E allora – quindi confesso che mi sono tolto un sassolino da una scarpa – ho deciso che avrei progettato questo edificio con un’architettura brutalista, che è un’architettura che non ho mai praticato altrove nella mia vita: ho sempre cercato di essere gentile con i dintorni dei miei edifici. Ma era anche il periodo in cui l’architettura brutalista, quella che io chiamo l’architettura “da dito nell’occhio”, stava dilagando in Europa. Volevo combattere la spregiudicatezza di edifici come quello tutto sbilenco in piazza Santo Stefano a Vienna [Haas Haus di Hans Hollein, 1985-1990], progettato evidentemente per una provocazione da frivolezze futuriste, ma collocato in questo modo offensivo in quello che è il cuore della città di Vienna: la cattedrale di Santo Stefano, la piazza del Graben lì vicino, che se volete è per i viennesi come piazza del Duomo a Milano. Ma Milano ha poi anche delle altre piazze del cuore, per i viennesi questo era veramente un simbolo della città. Ho scelto di fare dei grossi cilindri di calcestruzzo a vista con dentro le rampe di accesso ai piani di parcheggio e con tutta la parte metallica in COR-TEN. Questo materiale allora in Italia non si conosceva ancora, ma io l’avevo scoperto un paio d’anni prima durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, è una lega di ferro e non so più cos’altro che si ricopre di una pellicola di ruggine che impedisce ulteriori corrosioni, e quindi ho cercato di fare una bella architettura e francamente è un bel progetto, ma è un progetto offensivo con questo cemento a vista e questo ferro rugginoso. Ecco, adesso vi ho raccontato perché speravo che il CASVA non lo esponesse. Grazie. 84 85 Anna Chiara Cimoli Ho avuto la fortuna di inventariare per il CASVA sia l’archivio di Francesco Gnecchi Hans Poelzig, Großes Schauspielhaus, Berlino, 1918-1919, vista della sala, foto d’epoca (Architekturmuseum, Technische Universität Berlin). Hans Poelzig, Großes Schauspielhaus, Berlino, 1918-1919, vista del foyer, foto d’epoca (Architekturmuseum, Technische Universität Berlin). Ruscone che l’archivio di Luciano Baldessari, dedicandovi, devo ammettere, parecchi anni della mia vita, perché l’uno e l’altro architetto sono stati molto prolifici per nostra fortuna, e ho passato molto tempo con l’architetto Gnecchi Ruscone, momenti per me molto belli perché il tema dell’architettura che continua a parlare attraverso la riflessione è quello di cui stiamo parlando questa sera attraverso questa mostra che secondo me è bellissima, con i manifesti in giro per la città e la didascalia che dice qualcosa ma non dice tutto, un’intuizione molto bella. Faccio i complimenti a chi l’ha avuta e al CASVA. È un modo per continuare a riflettere sulla città di Milano nelle sue pieghe, su quello che noi attraversiamo ogni giorno con una consapevolezza a volte un po’ attutita da tutta una serie di fattori, ma è interessante proprio andare dentro alle pieghe storiche, provare ad aprirle, a squadernarle, per vedere quanta ricchezza ci poteva essere e quali intuizioni, quali gesti provocatori. Uno Gnecchi provocatore. Mi ha molto divertito questo racconto: non che non lo conoscessi, però così attualizzato mi interessa ancora di più. Vorrei raccontarvi in particolare qualcosa – Francesco vi ha raccontato in prima persona, quindi semmai ho qualche domanda da fargli dopo – sul lavoro di Luciano Baldessari e provare a mettere in relazione questi due progetti, entrambi per delle piazze centralissime della città di Milano, progetti ideati a trent’anni anni di distanza. Pierfrancesco Sacerdoti parlerà più nello specifico della storia del progetto di Baldessari, per cui non mi soffermo sulla storia dell’edificio ma sul suo “sapore”, sull’intuizione che ci sta dietro e su come secondo me quell’edificio in particolare sia stato un punto di cerniera importantissimo fra il passato berlinese di Luciano Baldessari e il suo futuro newyorkese. I temi sono tantissimi, in particolar modo importante è quello di un internazionalismo dell’architettura milanese degli anni Trenta forse più accentuato di quello che la storiografia ci ha tramandato; forse abbiamo un’idea un po’ stereotipata. In realtà, molti architetti italiani hanno viaggiato tanto: Luciano Baldessari, che era un vero outsider, ha deciso di andare a Berlino negli anni Venti, spinto da un insieme di fattori, uno dei quali era sicuramente la povertà, ma anche la curiosità, ma anche la voglia di vedere cosa c’era al di là. Baldessari negli anni Venti a Berlino frequenta soprattutto il mondo degli attori, del teatro, del circo, del musical, del cabaret: quello di Piscator, di Reinhardt, di Brecht. È un mondo per cui lui lavora giovanissimo, infatti ha la fortuna e la capacità di lavorare come scenografo per Reinhardt e per Piscator, per i quali realizza delle bellissime scenografie che sono veramente dei capolavori, i cui bozzetti sono conservati al CASVA. Venendo Baldessari da una storia di grande povertà, da una famiglia molto semplice, non certo da una tradizione colta, questo amore folle per il mondo del teatro si ripercuote poi su tutta la sua produzione fino alle ultime opere, sicuramente fino a tutti gli anni Sessanta, e viene poi declinato negli allestimenti di mostre, nei progetti per i musei, è un continuo ritornare sul tema della rappresentazione, del mettere in scena, in fondo del raccontare una storia. Certo, c’è il teatro come spettacolo e c’è il teatro come luogo fisico, e alcuni grandi teatri berlinesi di quella stagione scendono in profondità nell’immaginario di Luciano Baldessari: la Großes Schauspielhaus di Poelzig del ’19, purtroppo distrutta, il cinema Capitol sempre di Poelzig, del ’25, dove c’è l’idea che il cinema è anche vita, non è un luogo che vive solo intorno alla proiezione del film ma c’è di fianco il ristorante, c’è il bar, c’è il negozio, c’è una socialità che gira intorno, e andare al cinema non è un’azione che si esaurisce nel momento in cui si va a vedere lo spettacolo, ma vuol dire anche una ritualità che si va configurando proprio in quegli anni. È un tema profondamente notturno, si vede già dal manifesto, forse l’avete visto in mostra: la visione di Baldessari è quella di una piazza illuminata da luci artificiali. Il cinema Capitol e l’UFA Palast ci raccontano questa storia come una storia profondamente notturna, un po’ invernale. Vorrei farvi vedere un breve video, Berlino - Sinfonia di una grande città di Ruttmann. Baldessari lascia Berlino nel ‘26, ritorna a vivere a Milano. Questo film, realizzato l’anno dopo la sua partenza, racconta la Berlino che Baldessari descrive in tante lettere, quella che ha tramandato poi raccontandola alla sua collaborarice e coprogettista, l’architetto Zita Mosca che stasera purtroppo non può essere qui ma che a sua volta ha passato a tanti di noi quest’idea di una Berlino scintillante, elettrica, di una città in movimento, dove il giorno e la notte si danno la mano e vanno avanti in continuità; il mondo dei cinema, dei teatri e anche della moda (la moda è importante, Baldessari lavora tantissimo sul tema della moda; tornerò su questo punto un po’ più avanti). Ecco il mettersi in mostra, l’andare al cinema e anche il mostrare sé stessi (si va al cinema per vedere ma forse anche in parte per farsi vedere), le insegne, la pubblicità – altro tema su cui Baldessari riflette molto: ci tenevo a farvi vedere queste immagini perché raccontano proprio un’idea di città che Baldessari assimila profondamente, è questa la sua idea di città. Quando torna a vivere a Milano, dove si era laureato al Politecnico, in qualche modo porta con sé questa tradizione berlinese. È rappresentativo il cinema Universum di Mendelsohn, con l’idea di un corpo che si estende nella piazza, di un corpo molto sicuro di sé, aggettante, in una sorta di compenetrazione fra il cinema e la piazza, la città e il cinema. Del grande magazzino Karstadt parlerà sicuramente Pierfrancesco: della tipologia del grande magazzino, del cinema, del grande edificio con una personalità molto 86 87 Hans Poelzig, cinema Capitol am Zoo, Berlino, 1924-1925, vista della sala, foto d’epoca (Architekturmuseum, Technische Universität Berlin). Hans Poelzig, cinema Capitol am Zoo, Berlino, 1924-1925, vista notturna dell’esterno, foto d’epoca (Architekturmuseum, Technische Universität Berlin). forte e spiccata e anche di questa sorta di coraggiosa assimilazione fra l’immagine della cattedrale gotica e quella del grande magazzino o, nel caso di Baldessari appunto, del cinema e del teatro. Diverse sono state le fasi di progetto. Senza soffermarmi sulla storia, mi interessava farvi vedere la mano di Baldessari in questa fase della sua vita. È stato, io credo, uno dei più grandi disegnatori del Novecento, con una mano molto sicura che veniva dal suo essere anche pittore e scenografo, e infatti questo edificio ha una fortissima personalità, senza nessuna timidezza, senza nessuna ritrosia. Di fianco c’è la piccola chiesina di San Babila, di fronte c’è la chiesa di San Carlo, questi sono i punti di riferimento: il grande blocco avrebbe respirato dentro la piazza e avrebbe lasciato un’impronta molto profonda sull’intorno. La prospettiva con il cielo blu è profondamente notturna, sembra quel momento in cui cala il buio e le luci si accendono, esattamente quel tipo di atmosfera in cui tutto vibra. È un pezzo di città, non è solo un edificio, ci sono i portici, quindi c’è la relazione fra dentro e fuori, poi ci sarebbero stati uffici e nei piani superiori ci sarebbero stati appartamenti. Perché dicevo un punto di contatto con New York? Perché il committente di questo progetto è un’impresa newyorkese, la Hegeman-Harris. In che modo arrivano a Baldessari, perché scelgono Baldessari? Attraverso Carlo De Angeli Frua, l’industriale e collezionista che aveva individuato in Luciano Baldessari la persona che sarebbe stata suo consulente per la collezione di arte contemporanea. E Baldessari diventa il protetto di De Angeli Frua, realizza per lui delle architetture importantissime negli anni Trenta, ma oltre a questo rapporto professionale c’è un rapporto di stima personale, c’è una consultazione costante su che cosa comprare, che cosa andare a vedere, come affinare il gusto, in un dialogo molto bello, molto prezioso. Negli stessi anni Luciano Baldessari realizza un progetto per John W. Harris. La Hegeman-Harris era stata l’impresa che aveva costruito il Rockefeller Center di New York, che quindi portava con sé tutto un savoir-faire newyorkese. Baldessari ha dalla sua un savoir-faire che è berlinese ma che poi riassume tutta la storia del Futurismo, dell’amicizia con Depero, della formazione al Politecnico, quindi un incontro di culture importanti. Sembra che ci siano tutte le premesse perché sia una storia d’amore; invece, come succede a volte, purtroppo così non è perché siamo alla fine degli anni Trenta, il fascismo impone alcune scelte, e perché fra l’altro negli stessi anni viene progettato un altro cinema molto grande in piazza Diaz, quindi proprio lì vicino. Per tutto questo insieme di fattori, di cui alcuni anche economici, il progetto non verrà realizzato. Luciano Baldessari, deluso e profondamente ferito, decide di partire: va proprio a New York e inizia un’altra pagina quasi decennale, molto ricca e fruttuosa. Decide di usare i soldi guadagnati con questo progetto per mantenersi a New York, dove rinuncia a chiedere il riconoscimento della laurea e lavora soprattutto come pittore, realizzando una serie di scenografie anch’esse veramente importanti e belle. È interessante confrontare l’interno del progetto di San Babila con il teatro della moda che Luciano Baldessari progetta per Elizabeth Arden. Innanzitutto il tema, che veniva dagli anni Trenta, ed è centrale questa idea che la moda abbia bisogno di un teatro, che la sfilata non sia solo un banale andare su e giù su una passerella ma che sia una storia da raccontare, che ci voglia una narrazione, un luogo capace di accogliere e valorizzare. Non sappiamo purtroppo in che modo Luciano Baldessari arrivi a Elizabeth Arden e perché lei scelga proprio Baldessari, in realtà il progetto non viene realizzato e sarà Frank Lloyd Wright a realizzare altre opere per la Arden, ma è per noi interessante questa visione, coerente con quello che abbiamo visto fino ad ora: un’idea vibrante, scintillante, partecipata, poiché non esiste il teatro senza le persone dentro, senza quelli che vanno a vedere ma si stanno anche facendo vedere, che si stanno mettendo in mostra. Per Luciano Baldessari nulla va perduto dei numerosi progetti che non riesce a realizzare, dei concorsi che non vince, di tutta una storia anche personale abbastanza complessa, all’insegna della coerenza e del non piegare mai la testa. Per riallacciarmi al discorso che faceva adesso Gnecchi sul tema dell’ecomostro, dello sgarro, dello sfregio, della provocazione: in fondo ci sono alcuni punti di contatto in due progetti così diversi e che hanno trent’anni di distanza fra di loro. Uno è il tema della partecipazione, e Francesco ne parla in Storie di architettura, un’intervista che gli ha fatto Adine Gavazzi, in cui uno dei primi capitoli si chiama proprio Partecipazione. È un tema molto sessantottino, se vogliamo, ma non solo, è profondamente contemporaneo. La partecipazione vuol dire stare attivamente dentro una città e muovere quel dibattito, ciascuno con gli strumenti del proprio mestiere, quindi con la progettazione, con il disegno, con la riflessione, ed è quanto fa anche Luciano Baldessari con questo suo edificio che partecipa attivamente alla vita della città. C’è poi l’aspetto della rabbia, che è un altro punto centrale. Per Gnecchi è un punto di partenza, il fatto di rispondere a una rabbia, a un disagio, a qualcosa che non piace. Per Baldessari c’è la partenza dall’Italia, quindi una rabbia che scatena una sorta di svolta nella vita professionale e che porta a delle conseguenze importanti. C’è Milano e ci sono le piazze del centro come luogo di una socialità che oggi non esiste più, sicuramente non più in quei termini, per cui l’andare al cinema in centro, l’andare a 88 89 A sinistra: Erich Mendelsohn, cinema Universum, Berlino, 1926-1928, vista dell’esterno, foto d’epoca (SLUB Dresden / Deutsche Fotothek). A destra: Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 1936-1937, prospettiva di studio a volo d’uccello (Archivio Luciano Baldessari, CASVA, Milano). Pierfrancesco Sacerdoti Cercherò di entrare nel merito dell’evoluzione di questo progetto, che ha avuto molte fasi, anche un po’ difficili talvolta da districare, perché procede per ipotesi spesso parallele, alternative tra loro. Iniziamo con lo stato di fatto della zona all’epoca del progetto. Milano, come sapete, è una città che è stata massacrata a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dall’Unità d’Italia. Ieri si parlava di due progetti per piazza del Duomo, che affrontavano entrambi il problema di risolvere un luogo che è stato violentemente trasformato dopo l’Unità d’Italia anche per motivi di rappresentazione del ruolo della città di Milano, che allora si avviava a diventare capitale economica e finanziaria d’Italia. Questo processo economico è stato fondamentale perché Milano è sicuramente la città italiana in cui la modernità si è sviluppata di più, è la città che possiamo paragonare più facilmente con le metropoli europee. Quindi anche il caso di Baldessari che va a Berlino e a New York – in mezzo c’è Milano – mi sembra abbastanza significativo. Una cosa analoga non sarebbe forse avvenuta per un architetto di Roma o di Firenze. Però in tutto questo c’è anche un aspetto negativo di cui bisogna tener conto. Non possiamo dimenticare che Milano è una delle poche città d’Italia che non hanno quasi più un centro storico. In una pianta catastale degli anni Trenta si vede l’estremo frazionamento del tessuto storico della città, con delle presenze che sono state quasi totalmente dimenticate, ad esempio si vede come ci fosse una piazza Durini, di cui si è totalmente persa la memoria, che corrispondeva ad uno dei palazzi della famiglia Durini. La densità storica e artistica di questi luoghi è stata spazzata via in nome di interessi soprattutto economici, e questo è il Leitmotiv delle trasformazioni di Milano dall’Ottocento a oggi. Un esempio paradigmatico è quello della Galleria Vittorio Emanuele, che celebra il commercio. La borghesia che non è più quella un po’ ritrosa della città neoclassica, ma diventa più sicura di sé, ha ormai in mano il potere e monumentalizza i suoi edifici. La Galleria possiamo intenderla come una cattedrale del commercio. Mi è capitato di portare dei visitatori stranieri in Galleria e hanno chiesto: “È questo il Duomo di Milano?”. Sono rimasto allibito, però è vero che la Galleria ha una pianta a croce e una cupola in mezzo, in fondo la sua forma non è così distante da quella di una chiesa cinque o seicentesca. Piazza San Babila è uno dei grandi progetti milanesi degli anni Trenta, è parente di altri luoghi, come piazza degli Affari e piazza Diaz: hanno tutti questa architettura ufficiale “di regime”, caratterizzata da portici e da edifici monumentali e massicci. In una planimetria si vede un perimetro della piazza leggermente diverso da quello realizzato, perché il progetto di piazza San Babila appartiene al piano Albertini, ufficialmente del 1934 anche se in realtà ha un iter lungo e complesso dalla fine degli anni Venti fino alla fine degli anni Trenta, quindi circa una decina d’anni in cui piazza San Babila diventa luogo emblematico di queste continue incertezze. L’isolato progettato da Baldessari, secondo le previsioni iniziali del piano, si allinea quasi alla facciata della chiesa di San Babila, cosa molto diversa da come è oggi, dove la chiesa rimane un po’ arretrata e quindi sostanzialmente invisibile, una presenza che non ha nessun peso nella conformazione dello spazio. Questa proposta avrebbe permesso di avere un raccordo più fluido con via Durini. Dagli studi volumetrici emerge il peso che avevano i regolamenti edilizi: a Milano dall’Ottocento c’erano regolamenti d’igiene che tentavano di frenare la spinta speculativa con un minimo di salvaguardia della luce e dell’aria, sulla scorta delle idee igieniste ottocentesche che saranno poi i presupposti del razionalismo. Non dobbiamo dimenticare 90 91 teatro in centro, è una cosa che in questi anni è cambiata profondamente, i cinema vengono chiusi e c’è tutta una serie di altri fatti che conosciamo bene. C’è l’insegnamento che è anche importante, cioè per Francesco la fine degli anni Sessanta coincide con un momento importante e forse ci potrà raccontare cosa voleva dire per lui essere autore di quel tipo di progetti e al tempo stesso essere insegnante in questa facoltà, quindi come tradurre quella rabbia, quel tipo di rabbia in un contesto anche politico che aveva una connotazione molto forte. L’ultimo elemento è forse il più banale, ma bisogna dirlo: è l’amore per questa città specifica, è la conoscenza profonda di questa città che Francesco ha innegabilmente non solo per storia personale ma anche per scelta che si rinnova. Anche per Luciano Baldessari questo è un dato fortissimo. La maggior parte dei suoi progetti sono realizzati a Milano ma soprattutto per la città di Milano, e leggendo le sue carte, le sue lettere troviamo un inno d’amore, un canto di amore costante per una città che gli ha dato delle grandi possibilità, che gli ha permesso di incontrare dei grandi artisti, tutti gli artisti con cui ha collaborato in modo molto stretto. Quindi ecco una piazza simbolica, la piazza degli incontri, del confronto, della collaborazione, una parola un po’ fuori moda forse ma che sicuramente è stata praticata molto e molto bene sia dall’uno che dall’altro architetto. A sinistra: Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 1936-1937, schizzo prospettico dell’atrio del cinema e del teatro (Fondo Luciano Baldessari, Archivio del ’900, MART, Rovereto). A destra: Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 1936-1937, planimetria catastale della situazione preesistente e assonometria di studio (Archivio Luciano Baldessari, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano). che questo progetto, pur assolutamente visionario, è fortissimamente condizionato da questi aspetti delle altezze, da cui il fatto che il corpo su piazza San Babila sia più alto, abbia la torre, mentre le parti dietro invece sono più basse. Tutto era calcolato quasi al millimetro. In un’ipotesi iniziale il progetto si normalizza dentro uno schema tipico dell’epoca, simile all’intervento di Emilio Lancia all’inizio di corso Matteotti, che ha una struttura per certi versi analoga a questa, cioè un grande intervento progettato da un unico architetto che va però a frazionarsi, quasi a riproporre quelle che erano le lottizzazioni della città ottocentesca. Quindi c’è anche questa difficoltà nella cultura architettonica dell’epoca di accettare una dimensione nuova, che è quella dell’intero isolato, dell’intera piazza, si rimane comunque ancorati a un’idea tradizionale di piccoli lotti, che nella storia appartenevano a proprietari diversi. Poi le cose cambiano, la misura diventa quella dell’isolato intero e compare il grande volume del teatro e del cinema, che sarà un po’ il cuore dell’intervento, anche se sulla piazza in realtà non si sarebbe visto perché coperto dal corpo degli uffici e dalla torre. Nella fase iniziale Baldessari cerca di evitare il fronte continuo su piazza San Babila e di articolare maggiormente i volumi. In una proposta che possiamo intendere come alternativa, perché la modalità grafica è analoga, il cinema sembra scomparire, quindi può essere che in quella fase ci fosse l’idea di avere solo uffici, negozi e una quota di appartamenti. Qui si inizia a precisare la sagoma a gradoni che caratterizzerà il progetto definitivo. C’è una tipologia a pettine, dove il corpo di fabbrica principale si arretra e si creano piccole corti, si sente l’influsso dell’architettura moderna europea. Baldessari era stato a Berlino tra il 1923 e il 1926, c’erano i primi progetti di quartieri, di Siedlung, per cui sono cose che si respiravano e che venivano adottate in particolare dai razionalisti. Queste cose arrivavano sulle riviste, quindi anche architetti più tradizionali come Muzio, Ponti o Piacentini in alcune loro proposte adottano schemi di questo tipo, per cui bisogna anche smitizzare questa divisione così rigida tra architetti moderni da una parte e architetti conservatori o “di regime” dall’altro. Spesso l’adozione di un linguaggio o di una tipologia dipende dalle occasioni di progetto. Trovo piuttosto curioso il fatto che Baldessari nella maggioranza di questi disegni indichi sempre la chiesa di San Babila. Perché Baldessari è tutto fuorché un architetto romantico, almeno dal punto di vista stilistico. È un architetto profondamente futurista, giovanissimo riceve già lezioni di disegno da Depero, è quindi decisamente proiettato verso la modernità. Però la chiesa di San Babila rimane quasi come un termine di paragone, anche la presenza della torre nel progetto definitivo echeggia il campanile della chiesa storica. In un’altra proposta si vede togliere il tema dei gradoni, con riferimenti non solo a Berlino, ma con reminiscenze di progetti francesi, come quelli di Henri Sauvage: nelle grandi metropoli europee sono allo studio delle soluzioni alternative a quelle dell’edilizia tradizionale. A un certo punto compare una torre a gradoni un po’ newyorkese, che nella proposta definitiva verrà portata sulla piazza e diventerà l’elemento distintivo del progetto. In un disegno compare un fronte dalle forme quasi anonime, che può stupire. Però non dimentichiamo – questa è una cosa molto interessante che mi è stata ricordata da Zita Mosca – che Baldessari nella sua formazione era stato anche a Vienna, dove era entrato in contatto con Adolf Loos, per il quale aveva una grandissima ammirazione, al punto da considerarlo uno dei più grandi architetti del Novecento. Quindi questo aspetto quasi anonimo dell’architettura, con la ripetizione di finestre tutte uguali, potrebbe rimandare all’idea dell’architettura urbana come era intesa da Adolf Loos. E qui mi viene in mente anche l’edificio che Baldessari realizza a Milano in via Pancaldo, che ha qualche attinenza con questa idea. Poi a un certo punto fa quasi un passo indietro: conserva una parte dell’isolato verso corso Monforte, forse a causa di difficoltà di esproprio. E qui compare in modo più preciso il tema del teatro e del cinema. Si tratta di due sale sovrapposte: un teatro sotterraneo a un piano e un cinema molto più grande. Questo della sovrapposizione è un tema tipico dell’architettura dell’epoca, che troviamo a Milano in alcuni esempi molto interessanti. Uno precedente a questo, alla fine degli anni Venti, è quello dell’Odeon, che seguiva una tipologia pressoché identica. Potrebbe stupirci il fatto che il teatro fosse più piccolo del cinema, però non dimentichiamo che quelli sono gli anni dell’avvento del cinema sonoro, c’è un boom incredibile dei cinema in tutto il mondo e il cinema è un’attività che attira molto più pubblico dei teatri. Poi a Milano c’erano già molti teatri, tra cui la Scala e il Lirico. Invece il cinema era una cosa nuova e richiedeva una progettazione diversa. Curioso che venga proposta una pianta a ferro di cavallo, che tuttavia si trova nel cinema Universum di Erich Mendelsohn a Berlino, pietra miliare della storia dell’architettura dei cinema in Europa. Però è anche la forma del teatro all’italiana, quindi c’è questa ambiguità interessante in Baldessari, il cui approccio futurista e radicale apparentemente non tiene conto del contesto storico della città. Tuttavia ci sono altri elementi che radicano profondamente questo progetto nel contesto milanese, secondo una via al rapporto col contesto che è alternativa a quella mimetica, e a quella propagandata da Rogers negli anni Cinquanta, cioè l’idea delle “preesistenze ambientali”, secondo cui 92 93 Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 19361937, pianta di studio del pianterreno (Archivio Luciano Baldessari, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano). Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 19361937, pianta di studio del pianterreno (Archivio Luciano Baldessari, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano). occorreva evocare l’atmosfera di Milano attraverso colori, ritmi, materiali. L’approccio di Baldessari è più strutturale, o legato a certe tipologie architettoniche, o a certe figure. Poi trovo molto interessante l’estrema sintesi di questi disegni, che è la stessa che si trova negli schizzi, secondo un approccio tipico di Baldessari. Nello schema volumetrico si vede quasi un’incertezza tra uno schema simmetrico verso la piazza e uno schema decisamente asimmetrico per quanto riguarda l’occupazione dell’isolato, rivelando forse la frustrazione di non poter realizzare la prima ipotesi. Uno schema urbanistico mostra qual era lo “stato dell’arte” di quegli anni, non tanto diverso da come è oggi la città, perché c’era già la previsione della “Racchetta”, che avrebbe dovuto sgravare il centro di Milano, piazza del Duomo in particolare, dal passaggio già allora delle prime automobili, e che è stata poi in parte realizzata. Inizia in piazza San Babila, scende in corso Europa, procede in via Larga, continua in via Albricci e poi oggi si interrompe in piazza Missori, però dovete considerare che in tutte le ipotesi di realizzazione questa via avrebbe dovuto proseguire in un caso fino a largo Cairoli, e nell’altro, secondo la variante degli anni Cinquanta, fino a via Vincenzo Monti. Quindi una strada alternativa, una sorta di circonvallazione interna molto vicina al Duomo in un momento in cui si credeva che fosse inevitabile l’ingresso delle automobili in centro: non si vedevano alternative, la metropolitana non c’era ancora. Si vede come gli schizzi, molto belli, si traducano in un’architettura precisa e con un rigore inaspettato, come nella maglia modulare di campate perfettamente quadrate. È una cosa inconsueta per l’edilizia dell’epoca: di solito le maglie erano rettangolari e dettate da elementi funzionali, dalla presenza dei vani scala, dai tagli degli alloggi. Poi si precisano le funzioni: un coacervo estremamente variegato che riflette quello che Baldessari aveva visto a Berlino, un po’ forse anche delle cose americane che gli erano arrivate attraverso le riviste, e quindi c’è un tema dello spazio sotterraneo che è destinato anche a ristorante. Adesso andiamo al progetto definitivo. In un primo disegno molto bello c’è una specie di anello di Moebius, che è la scala del cinema e anticipa i padiglioni della Breda degli anni Cinquanta, altro momento importante dell’architettura di Baldessari. Questo mi dà modo di parlare di un aspetto compositivo che trovo molto interessante, ossia la dialettica tra una struttura modulare, che detta gli elementi esterni – i corpi per uffici, appartamenti e negozi – e la fluidità organica degli spazi interni per lo spettacolo. Mi sembra una grande lezione di architettura, in sintonia con le ricerche in quegli stessi anni di grandi architetti stranieri come Le Corbusier. Delle sezioni ci sono diverse versioni, all’inizio la torre ancora non c’è e si vede un corpo più basso. Il cinema è veramente gigantesco, vedendo uno schema del genere penseremmo a un teatro, addirittura c’è un palcoscenico con tanto di camerini, ma il teatro è sotto. Nella versione finale c’è un grande portico verso la piazza, dettato dal regolamento stabilito da Albertini nel suo piano per dare unità a tutti gli edifici della piazza. L’estremo dinamismo del sistema delle scale è uno degli aspetti più interessanti e qui mi ricollego a quanto diceva Anna Chiara Cimoli, all’idea del pubblico che si mette in mostra. Il pubblico è lì per vedere lo spettacolo, però ci sono i momenti intermedi dell’ingresso, dell’uscita, dell’intervallo, in cui il luogo dello spettacolo non è più la sala ma la grande scalinata, come nell’Opéra di Parigi. Ai livelli interrati c’è una grande complessità funzionale. Era previsto un ristorante sotterraneo, che ricorda quello della Borsa di Milano: ancora oggi, accanto agli scavi del Teatro Romano, si vede ciò che resta di un ristorante con le pareti rivestite con piastrelle disegnate da Gio Ponti, dove era fondamentale l’uso della luce artificiale. Nel progetto di Baldessari erano previsti anche un dancing e un rifugio antiaereo: nel 1936 la minaccia della Seconda guerra mondiale era già nell’aria. Il prospetto ha, come le piante, un carattere di grande secchezza. I disegni a mano libera tolgono un po’ questa impressione perché nella fluidità del tratto, nella matita grassa, nei tratti di penna molto fluidi, il progetto si stempera e si ammorbidisce. Nei disegni tecnici emerge invece questa durezza, che si lega al progetto di cui vi mostrerò le immagini dopo, un grande magazzino di Berlino. È un tipo di architettura un po’ gotica, in cui c’è sicuramente anche il riferimento al Duomo di Milano, secondo quanto mi ha riferito Zita Mosca: Baldessari le ripeteva spesso questa idea di un dialogo a distanza con il Duomo, che trovo di grande fascino, perché i due edifici sono collegati da corso Vittorio Emanuele, quindi ci sarebbe stata una sorta di “effetto specchio”, con due fondali quasi simmetrici tra loro. Questo goticismo, nell’architettura della fine degli anni Trenta, è qualcosa di molto inconsueto. Nei grattacieli newyorkesi c’era ancora questa componente, ma in Europa prevaleva invece l’idea di un’architettura “aerodinamica”, dettata da elementi orizzontali, come troviamo nel fronte laterale. Quindi Baldessari ha la capacità di superare certi codici del linguaggio dell’epoca e riesce a far dialogare questa architettura filante, orizzontale, legata alla velocità dei nuovi mezzi di trasporto, con un sistema compositivo agli antipodi, basato sulla verticalità. Nel prospetto laterale si coglie qualche analogia con l’edificio in Piazza Diaz di Portaluppi, 94 95 Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 19361937, pianta del secondo piano (Archivio Luciano Baldessari, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano). Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 19361937, pianta del pianterreno, (Archivio Luciano Baldessari, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano). provvisto anch’esso di una torre. Non dimentichiamo che Portaluppi è stato professore di Baldessari ed era figura importante sia nell’università sia nella professione. Nella sezione compare già la torre, che nei piani alti era destinata ad appartamenti. Tutta la parte bassa, invece, era destinata interamente ad uffici. Nella parte alta la distribuzione interna degli appartamenti non è precisata, sono indicati solo le scale, gli ascensori e i pilastri. Questa idea della pianta libera è un aspetto che a Milano era assolutamente inedito. Gli schizzi sono straordinari perché hanno una qualità artistica altissima. Baldessari è figura trasversale che spazia dalla pittura, alla scultura, alla scenografia, e se non sbaglio amava definirsi pittore, quindi era questa la qualifica che preferiva. Questo tema della verticalità e dell’orizzontalità ridotto a due linee mi sembra una lezione molto bella anche per gli studenti di architettura che fanno i loro primi progetti. Pierfrancesco Sacerdoti Ricordiamo che Gnecchi Ruscone è l’autore dell’allestimento della Mostra sulla Proporzione alla Triennale del 1951, che è stato una pietra miliare nella storia della museografia italiana del dopoguerra. Nel disegno citato da Gnecchi si coglie anche il rapporto con il Duomo di Milano, con il tema del triangolo che richiama la sezione della chiesa. Risalta con prepotenza l’elemento della grande torre, che nelle prime ipotesi è un parallelepipedo, molto più imponente della versione definitiva. È anzi un corpo in linea, ortogonale alla piazza, in cui si coglie di nuovo il riferimento a Mendelsohn e al cinema Universum, e che evoca ancora la navata del Duomo. Torna il tema dell’equilibrio molto dinamico tra elementi orizzontali e verticali. Il disegno prospettico del progetto nel contesto, dall’alto, è straordinario sia negli aspetti grafici sia nel significato, perché riesce a sintetizzare in pochissimi elementi la struttura di questa zona di Milano e propone un dialogo con piazza San Carlo, che è uno dei luoghi importanti della città neoclassica. Guardando gli schizzi prospettici mi viene in mente uno schizzo di Piero Bottoni per il suo edificio in corso Buenos Aires, che assomiglia molto a questi. Chissà che non ci siano rapporti, in fondo erano entrambi architetti legati al razionalismo, senz’altro si conoscevano. Uno dei disegni più belli, che abbiamo scelto per il manifesto, se non sbaglio è l’unico disegno colorato. I disegni di Baldessari hanno in genere una presenza del colore molto intensa e il progetto di San Babila è uno dei pochissimi in cui anche gli schizzi sono in bianco e nero. Qualcuno ha dato un’interpretazione di questo, sostenendo che il tema della grande scala urbana prescindesse dall’uso del colore: in fondo anche questo è un disegno quasi monocromo, il colore è dato dal cielo e dai rossi, che sono quasi più i colori della sera. In un altro disegno prospettico, con vista diurna e notturna, si crea un rapporto negativo-positivo tra le due viste. Si coglie il rapporto con l’espressionismo tedesco e anche un’anticipazione di certi temi del dopoguerra: pensate a Gio Ponti, in Amate l’architettura c’è un capitolo intero dedicato a questo tema dell’architettura di notte, a come la luce artificiale trasfigura e trasforma l’architettura. Gli schizzi hanno dimensioni minuscole, che contrastano con la forza dell’idea e la sicurezza del segno. Vi è poi una serie di disegni più rifiniti e realistici, che evocano quella che sarebbe stata la vita negli spazi del progetto. Nel grande portico verso piazza San Babila compare il tema della colonna binata, introducendo quindi un basamento “classico” per un edificio “gotico”: quasi un’eresia rispetto all’architettura dell’epoca. I disegni dell’interno sono una traduzione tridimensionale delle piante dell’atrio che vedevamo prima: uno spazio che, più che un’architettura, sembra una scenografia teatrale; non c’è veramente un soffitto, è una visione fantastica. Nei disegni dell’atrio tornano degli elementi classici, come i grandi pannelli. Potrebbe esserci un riferimento a Gio Ponti, con cui Baldessari ha collaborato nel progetto per lo stabilimento Italcima, una fabbrica di cioccolata che esiste tuttora. Nella casa del proprietario della fabbrica ci sono decorazioni simili. Da questi aspetti emerge l’antidogmatismo di Baldessari, che mi sembra veramente una grande lezione. 96 97 Francesco Gnecchi Ruscone Avevo notato questo schizzo prima quando lo ha mostrato Anna Cimoli, e ho notato un aspetto che non conoscevo dell’architettura di Baldessari, ma che mi ha immediatamente fatto pensare a un discorso che facevo con Lukas Janisch prima che cominciasse questo seminario. Avevamo entrambi riconosciuto che nel razionalismo italiano, contrariamente al rimanente del razionalismo europeo, non c’è il rifiuto delle radici classiche, o rinascimentali, o vitruviane, o palladiane, ma c’è una quasi inconscia continuità. Nello schizzo della facciata su piazza San Babila con schemi proporzionali noi vediamo queste linee, queste diagonali che sono legate a delle proporzioni auree. È un aspetto che non avevo mai notato o sospettato nell’architettura di Baldessari. Grazie. Philipp Schaefer, grande magazzino Karstadt, Berlino, 1927-1929, vista notturna, cartolina d’epoca (collezione Axel Mauruszat, Berlino). Philipp Schaefer, grande magazzino Karstadt, Berlino, 19271929, vista diurna, cartolina d’epoca (collezione Axel Mauruszat, Berlino). In altre viste si evoca il dinamismo della vita urbana, con la presenza delle automobili, mentre l’aspetto di grande lanterna che l’edifici assume nelle viste notturne fa pensare a quello che diceva Scandurra ieri sull’Expo Gate. Negli stessi anni c’erano altri progetti molto interessanti per piazza San Babila, anche questi purtroppo non realizzati, come quelli di Aldo Andreani, di cui ho voluto inserire una prospettiva come termine di paragone. Andreani progetta il Palazzo del Toro, dirimpetto all’edificio di Baldessari. Pensate cosa sarebbe stata piazza San Babila con un dialogo tra Baldessari e Andreani: qualcosa di veramente straordinario. Anche qui emergono suggestioni futuriste, anche se Andreani appartiene a una generazione precedente, ancora legata all’eclettismo e al liberty. Al posto del progetto di Baldessari sorge poi il Palazzo Donini, progettato da un gruppo di architetti sotto la regia di Gio Ponti, che appare piuttosto debole. Si tentò di articolare il volume attraverso il gioco delle finestrature, e piccoli arretramenti, che però si colgono appena. C’è il tema delle grandi finestre, quasi a ricreare un piano nobile al centro della facciata, però tutto sommato sono tentativi che non vanno a segno e che ci fanno rimpiangere la proposta di Baldessari. Zita Mosca ricorda che Baldessari criticava l’assenza di un elemento verticale a segnare la fine della prospettiva di corso Vittorio Emanuele, mentre il risultato è una sorta di grande muraglione abbastanza indifferente al contesto. Il fuori scala c’era anche in Baldessari, però nell’edificio realizzato la pesantezza dell’architettura non aiuta. Tornando al Palazzo del Toro c’è una vicenda di cui mi permetto di dire due parole perché non la conosce quasi nessuno. Il progetto del Palazzo del Toro è sostanzialmente ancora quello di Aldo Andreani. A un certo punto, dopo la consegna del progetto, gli viene tolto l’incarico e tutti i disegni vengono passati a Emilio Lancia. In tutti i libri sulla storia dell’architettura di Milano l’edificio viene presentato come progetto di Lancia con la collaborazione di Raffaele Merendi, però il vero autore del progetto, non dal punto di vista del linguaggio delle facciate, che viene rivisto e modificato da Lancia, ma per quanto riguarda l’organismo sia dal punto di vista volumetrico sia tipologico, è Andreani, che dopo questo scacco andrà via anch’egli da Milano. Torna a Mantova, la sua città natale, mentre Baldessari si rilancia andando in America. Parliamo ora del magazzino Karstadt di Berlino, costruito alla fine degli anni Venti, uno dei rari grandi magazzini costruiti in quel periodo in Germania che non seguivano il linguaggio di Mendelsohn, basato sul contrasto tra fasce orizzontali ed elementi verticali. Questa invece è un’architettura che potremmo definire newyorkese, respira sicuramente l’aria dei grandi grattacieli americani degli anni Venti. Ha un goticismo assolutamente evidente nelle grandi costolature e mi ha colpito l’analogia col progetto di Baldessari, non solo nel tema della torre a gradoni, ma anche nella partitura della facciata. È un progetto realizzato tra il 1927 e il 1929, mentre Baldessari lascia Berlino nel 1926 per tornare a Milano. Però i suoi rapporti con Berlino proseguiranno anche dopo la guerra, ad esempio negli anni Cinquanta realizza una torre per appartamenti nel Hansaviertel, quindi questo progetto lo conosceva senz’altro. L’architetto del grande magazzino è Philipp Schaefer, un architetto che lavora soprattutto per i grandi magazzini Karstadt, che erano una sorta di Rinascente di Berlino. Credo fosse il più grande magazzino dell’epoca in Europa, edificio assolutamente spropositato, poi distrutto quasi totalmente durante la guerra dai tedeschi per non lasciarlo in mano ai russi, e sostituito in seguito da un edificio molto più basso, tuttora esistente. Le foto notturne dell’epoca ricordano i disegni di Baldessari per piazza San Babila. Molto interessante anche uno spaccato prospettico che mostra come il grande magazzino sia una sorta di punta di un iceberg, perché sotto c’è un intricatissimo sistema di spazi sotterranei su vari livelli che comprende delle linee ferroviarie metropolitane. Tema tipico dell’architettura del tempo in Europa e negli Stati Uniti, sono molte anche le coeve utopie urbane sul tema della città su più livelli, dalle proposte di Hilberseimer al film Metropolis di Fritz Lang. Nel progetto di Baldessari la metropolitana è assente, ma c’è il tema degli spazi sotterranei abitabili, quindi di una vita urbana che s’inabissa nel sottosuolo. 98 99 Lukas Janisch Iniziamo anche un sogno lontano dalla mediterraneità, dove noi siamo abituati che grattando il suolo salta fuori un’altra storia, si guarda indietro nel passato, mentre in Hilberseimer e negli altri sogni coevi il sottosuolo è invece quella parte dalla quale scaturisce qualcosa, c’è uno spirito che da lì sotto sale e lì si vede come questa fantasia che nel sottosuolo alberga una cosa che anima il tutto, il motore che spinge, si ripercuote anche in un certo modo sulla libertà di facciata. La maglia regolare non è la maglia regolare della storia, ma è una maglia della tecnica di costruzione, cioè le campate uguali in tutte le direzioni sono le campate più efficienti semplicemente sotto un punto di vista statico e per evitare spreco di materiali, perciò tante cose in questo tragitto dal nord all’Italia e dall’Italia verso gli Stati Uniti, vivono come dire una riconnotazione significativa, cioè non sono Aldo Andreani, Raffaele Merendi, Emilio Lancia, Palazzo del Toro in piazza San Babila, 1935-1939, vista da corso Venezia, cartolina d’epoca. Aldo Andreani, Raffaele Merendi, progetto per il Palazzo del Toro in piazza San Babila, 1935-1936, foto del modello (Aldo Andreani architetto scultore, Pizzi e Pizio, Milano, 1937). metodi liberamente trasferibili ma si portano dietro una storia. alla scala urbana, alla scala dell’intervento suo, alla dimensione del suo lavoro. Pierfrancesco Sacerdoti Il lavoro degli studiosi, degli storici semplifica talvolta i fenomeni, però è evidente che dietro questi progetti c’è sempre una complessità enorme di intrecci di rapporti, di cose viste, di cose visitate, come ci insegna l’esperienza di ognuno di noi. Perché nel lavoro dei futuri architetti non conterà solo l’insegnamento che ricevono qui tra le mura del Politecnico, ma conteranno anche le esperienze vissute, il contesto familiare, gli amici, i viaggi, le letture… È sempre difficile trovare le radici di queste cose. Una vista aerea d’epoca del magazzino Karstadt assomiglia al disegno a volo d’uccello di Baldessari e mostra il rapporto con il contesto, che è un po’ diverso da quello di piazza San Babila. Siamo a Neukölln, una zona di espansione ottocentesca a sud del centro storico di Berlino. Il magazzino assume il ruolo di monumento in un contesto abbastanza anonimo, definito da case d’affitto dei primi del Novecento. Però anche qui abbiamo la presenza di una piazza, quindi l’edificio agisce come fondale scenico dello spazio pubblico. Francesco Gnecchi Ruscone Erano anche tempi diversi. Quando Baldessari faceva il progetto di San Babila io imparavo la grammatica latina al ginnasio e in mezzo c’è stata la Seconda guerra mondiale. Mariella Brenna Sono molto attratta comunque, nel progetto per piazza Fontana, dal rapporto col contesto. È stato un progetto provocatore, però strettamente legato agli elementi con cui si confrontava, le permeabilità che c’erano verso l’Arcivescovado. Pur essendo una cosa così d’impatto, renderla abitabile, renderla domestica come impatto, come fruizione della scala piccola, della scala urbana mi sembra comunque un atteggiamento che fa parte del suo progetto, del suo lavoro. Francesco Gnecchi Ruscone Non so, forse è semplicemente nel mio DNA, anche facendo un’architettura per dispetto come questa non riesco a dimenticare l’inserimento in un ambiente preesistente e forse non potevo neanche permettermelo, dato che la stessa provocazione era per arrivare in definitiva al salvataggio di quell’ambiente. Pierfrancesco Sacerdoti L’inserimento nel contesto è un tema affascinante che ha avuto molte declinazioni. È chiaro che nel momento in cui lavora Baldessari il valore che si attribuisce al tessuto urbano antico è ai minimi storici, forse le cose iniziavano a cambiare in altre città, ad esempio a Roma con l’idea del diradamento, introdotta da Gustavo Giovannoni. Emerge progressivamente una nuova sensibilità, quindi l’idea che non per forza bisognasse fare tabula rasa e sventrare, fare grandi viali, ma che si poteva trovare una via intermedia di maggiore armonizzazione. Infatti paradossalmente il progetto della “Racchetta” non è un rettifilo, ma una strada che segue la fibra del tessuto, e in questo è coerente con le teorie di Giovannoni, anche se a noi sconvolge perché comunque è una strada sovradimensionata rispetto a quella che era la misura del tessuto. Per quanto riguarda la fisicità del tessuto credo che la Seconda guerra mondiale abbia segnato uno spartiacque, soprattutto nel contesto italiano. Quindi un progetto fatto nel dopoguerra ha un approccio diverso al contesto storico rispetto a un progetto gli anni Trenta. Il progetto di Baldessari dialoga con le preesistenze monumentali, guarda al Duomo, a piazza San Carlo, e anche a San Babila, che nel suo piccolo è anch’essa un monumento, non è una casa, non appartiene al tessuto residenziale. Mentre un progetto del dopoguerra come quello per la Torre Velasca, pur nella sua dimensione enorme, vuole evocare la misura dell’edilizia minore attraverso la frammentazione dei prospetti e gli sfalsamenti delle finestre, che producono un effetto quasi pittoresco. Cittadino nel pubblico Il progetto per il parcheggio in piazza Fontana come è stato accolto dalla giuria? Mariella Brenna Baldessari comunque citava sempre la piccola chiesa di San Babila proprio per riportarlo Francesco Gnecchi Ruscone Non mi ricordo chi fosse in giuria. Ma indipendentemente da quello, era chiaro che non sarebbe stato accettato, non ho corso rischi. Come ho detto in principio è l’unico progetto 100 101 Gio Ponti, Antonio Fornaroli, Eugenio Soncini, Giuseppe De Min, Alessandro Rimini, complesso per negozi, uffici e abitazioni, piazza San Babila, 1939-1952, vista da corso Vittorio Emanuele II, cartolina d’epoca. Luciano Baldessari, progetto per piazza San Babila, 1936-1937, prospettiva da corso Vittorio Emanuele II (Fondo Luciano Baldessari, Archivio del ’900, MART, Rovereto). della mia vita che ho progettato sperando che non venisse costruito. Pierfrancesco Sacerdoti Nella giuria c’erano tante persone, tra cui alcune figure importanti della cultura architettonica milanese: Vito Latis e il fratello Gustavo, che sono stati architetti di rilievo negli anni Cinquanta e Sessanta e hanno collaborato con Gnecchi Ruscone; Michele Achilli, collaboratore di Guido Canella; Vico Magistretti, che tutti conoscono come grande designer ma che è stato anche un architetto importante; poi c’è una figura dell’ufficio tecnico del Comune, Arrigo Arrighetti, che ora si sta un riscoprendo e che ha progettato edifici interessanti come la Piscina Solari e varie scuole. Francesco Gnecchi Ruscone Non sapevo, forse semplicemente non ricordavo quei nomi. In realtà erano tutti amici. Quindi io l’ho fatto senza sapere chi sarebbe stato in giuria ma certamente con questi nomi era chiaro che sarebbe stato rifiutato. Quanto a un differente attaccamento o rispetto per gli ambienti urbani preesistenti bisogna ricordare che questo intervallo che si chiama Seconda guerra mondiale è stato importantissimo non solo perché ha messo fine ai facili entusiasmi futuristi degli anni Venti e Trenta, ma anche perché ci ha lasciato il lutto di tanti ambienti urbani spariti che erano cari ai nostri cuori. Pierfrancesco Sacerdoti Per chiudere, una nota sul progetto vincitore del concorso per piazza Fontana, di Marco Bacigalupo, Guido Maffezzoli e Ugo Ratti. Stupisce che abbia vinto perché prevedeva la demolizione degli isolati degli anni Trenta di via Larga, quindi ha un approccio simmetrico a quello che si aveva negli anni Trenta verso il tessuto antico: cancellare ciò che aveva cancellato la città storica. Si proponeva di sostituire l’isolato della Banca dell’Agricoltura, quello degli uffici comunali e quelli intermedi, con dei giardini, con delle specie di colline verdi. Stupisce che potesse vincere una proposta del genere, perché tranne quello degli uffici comunali erano isolati di proprietà privata, molto densi e contenenti uffici e appartamenti signorili. Espropriare gli edifici sarebbe stato difficile, non si potevano certo addurre ragioni di degrado, di igiene, come si faceva nelle epoche precedenti. Al di là della fattibilità o meno, il progetto vincitore esprime un punto di vista culturale, ideologico, contrario agli interventi di sventramento degli anni Trenta. Eppure la situazione è paradossale, perché negli stessi anni Sessanta si stava facendo corso Europa, con edifici anche di qualità progettati 102 da Magistretti e Caccia Dominioni, ma facendo fuori gli ultimi lacerti di tessuto storico che ancora circondavano la chiesa di San Vito al Pasquirolo. Quindi c’era una sorta di schizofrenia, perché da una parte si continuava a procedere in quel modo e dall’altra si condannava l’architettura novecentista, in nome della democrazia e della cancellazione del Fascismo. Lukas Janisch Propongo di fermarci a questo punto, reputo che la scommessa lanciata all’inizio ha pienamente funzionato: ci eravamo prefissi in qualche modo di attualizzare la storia, cioè di vivere la storia nella sua dimensione di memoria, e tantissimi termini che abbiamo usato oggi hanno dimostrato come il dibattito sull’architettura non è vincolato a un’epoca, come tutti i termini sono riattualizzabili e riguardano anche il nostro lavoro quotidiano. Abbiamo fatto degli slalom tra innovazione e storia, incappando in termini come “tradizione”, dall’altra parte questo tema è apparso come una questione locale proprio di Milano, possiamo parlare di una tradizione milanese, abbiamo anche citato degli aspetti che hanno una nuova attualità come la fuga per lavoro, andare via per lavorare, e poi abbiamo fatto anche uno slalom tra vibrante e scintillante partecipazione, proprio come quel termine che cambia nel tempo e ogni volta assume un altro significato finché l’abbiamo individuato anche in una forma di partecipazione alla città in questo progetto del parcheggio che si pone come alternativa ma che per dimostrare la sua alternatività fa parte della città, partecipa alla città in tutti questi aspetti. Abbiamo anche parlato di similitudine, non abbiamo parlato di simulacro finora, però a tratti, quando guardavamo la facciata del Duomo in questa reinterpretazione baldessariana, veniva in mente anche questo termine, abbiamo parlato di mimesi. Tutte terminologie che sono invariate, sono presenti nel nostro lavoro giorno per giorno e perciò ringrazio tutti quelli che stasera hanno partecipato a questo sforzo, spero che vi siate divertiti e rinnovo il nostro invito per domani sera, quando parleremo delle Cinque Vie e di corso Garibaldi. Francesco Gnecchi Ruscone Penso che molti di voi siano studenti di architettura, futuri architetti. Vi auguro di trovare nel più bel mestiere del mondo la felicità e la gioia di fare che ci ho trovato io, e quando scrivete il testamento non dimenticate di lasciare i vostri archivi al CASVA. 103 Sindaco Giuseppe Sala Assessore alla Cultura Filippo Del Corno Direttore Cultura Marco Minoja Direttore Unità Case Museo e Progetti Speciali Maria Fratelli Ufficio Stampa Elena Maria Conenna casva gli archivi del progetto a Milano Direttore Maria Fratelli Staff Anna De Benedetto, Maria Caterina Donato, Adriana Ferrante, Elisabetta Pernich Progetto grafico copertina Enrico Delitala Progetto grafico interno Emiliano Biondelli Stampa Pressup s.r.l. © 2020 Comune di Milano – CASVA. Tutti i diritti riservati. ISBN 9788899669218 Si ringrazia È vietata la riproduzione non autorizzata anche parziale, con qualsiasi mezzo. L’editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto fino ad ora non rintracciati.