LO SPECCHIO DELLE SPIE
di Giovanni Nacci
Da più di qualche anno ormai esperti, addetti ai lavori e semplici
osservatori vanno interrogandosi su quale sarà il futuro dei nostri servizi di informazione e sicurezza e su come la comunità
dell'intelligence vivrà tutte quelle trasformazioni che si renderanno necessarie per far fronte alle "nuove" minacce, prime fra
tutte quelle connesse al terrorismo internazionale.
Nel 2007 la “vecchia” Legge 801/77 compirà trent'anni, una
buona parte dei quali – almeno venti – passati a discutere su che
piega avrebbero dovuto prendere gli enti istituzionalmente preposti alla "difesa preventiva della sicurezza interna ed esterna
dello Stato". Tra le priorità dichiarate, vere o presunte, di molti
dei governi che si sono succeduti, c'è sempre stata la questione
della riforma dei "servizi" (intesi così come oggi li conosciamo a
seguito della riforma, appunto, dell'ottobre 1977). Infatti nel periodo che va dal 1980 - quando, a soli tre anni dopo l'entrata in
Ufficiale in congedo della Marina Militare è consulente direzionale di attività di
programmazione e impiego strategico delle risorse informative e per la sicurezza.
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vigore della L.801 (166), fu presentata la prima proposta di revisione - al 2001, si contano una cinquantina tra progetti e disegni
di legge: in media circa due proposte di legge ogni anno e poco
più di sette per singola legislatura (167).
Sappiamo bene come questo trentennio sia stato foriero di profondi cambiamenti. Sono mutati i teatri strategici, si sono diversificate le minacce, sono incrementati i rischi e come conseguenza è aumentata a tutti i livelli la domanda di protezione di
beni e persone. Come risposta fisiologica a questo stato di cose,
si è fatta sempre più pressante l'esigenza di dotarsi di strumenti
operativi adeguati alla tutela dei legittimi interessi degli Stati.
Per contro l'architettura istituzionale del nostro apparato di
intelligence è rimasta pressoché immutata, a parte forse l'accorpamento dei "secondi reparti" degli Stati Maggiori di Forza Armata sotto l'ala dello Stato Maggiore Difesa. E' stato un bene o
un male? Siamo stati sempre ben tutelati oppure abbiamo subito
- magari inconsapevolmente - dei "buchi" di protezione a causa
di inadeguatezza o inefficienza dei nostri apparati? Difficile a
dirsi e probabilmente - trattandosi di servizi segreti – anche a
sapersi.
166 www.servizinformazionesicurezza.gov.it
167 Per la precisione dalla VIII alla XIV (www.servizinformazionesicurezza.gov.it)
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Quel che si può dire è che - eccezion fatta per certi pur deprecabili "incidenti" istituzionali, forse più legati ad una cattiva gestione politica che a quella operativa - i nostri Servizi hanno dimostrato di sapersi ben muovere soprattutto al di fuori dei confini nazionali, in tutti i teatri operativi ai quali si estende oggi
l'interesse strategico del nostro paese. Evidentemente lo "spirito"
della Legge 801 deve aver servito la causa per un intero trentennio quantomeno “senza demerito”, se non addirittura con “disciplina e onore”.
Da tutti i governi che a partire dal 1977 hanno affrontato la questione sarebbe stato lecito aspettarsi azioni concrete, che però
non ci sono mai state. E' vero che riformare un settore complesso e difficile come quello dei "Servizi" è cosa abbastanza scomoda e delicata per qualsiasi tipo di maggioranza (e di Parlamento) ma è pur vero che forse nessun settore dello Stato ha mai
goduto di quasi 30 anni di ininterrotti lavori parlamentari senza
peraltro giungere ad un risultato condiviso. Il problema sta forse
nel fatto che se da un lato è palesemente “dominante la sottovalutazione della sicurezza e dell'intelligence” (168), dall'altro all'attonito osservatore non è mai stato fatto mancare (giorno dopo
giorno, mese dopo mese, anno dopo anno) il balletto delle pole168 Francesco Sidoti, Sicurezza e Intelligence, Edizioni Libreria Colacchi, L'Aquila,
2006
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miche, delle presunte rivelazioni, degli scoop giornalistici, dei
personaggi folcloristici (più o meno trasversali) che vengono a
galla immediatamente prima o immediatamente dopo uno scandalo.
Non si può non osservare infatti come certe vicissitudini dell'intelligence di casa nostra vadano sempre più pericolosamente (e
tristemente) assomigliando alla trama di una spy story. Vero è
che la realtà spesso riesce a superare la fantasia, ma è anche vero
che qualche volta è proprio quest'ultima ad anticipare circostanze ed eventi reali. Ne è chiara dimostrazione il famoso romanzo
“Lo specchio delle spie” (“The looking glass war”) di John Le
Carrè.
Chi ha letto il libro, pensando alla attuale condizione dell'intelligence italiana non faticherà a trovare più di qualche analogia.
Agli altri basterà sapere che il romanzo narra delle vicende “esistenziali” di una piccola sezione (un "ramo secco") dello spionaggio militare inglese, ormai in fase di lento ed inesorabile declino, impegnata - dopo la fine della guerra - in una "eroica" lotta per la sopravvivenza. Si intrecciano qui le avventure personali
e professionali di un gruppetto di agenti che devono vedersela
con gli attriti, le rivalità (quelle vere e quelle presunte), i vecchi
rancori e le mal celate gelosie tra i “palazzi” ed i “poteri” (più o
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meno forti, più o meno occulti) della politica. Che Le Carrè fosse un gran conoscitore degli ambienti dell'intelligence era fuori
di ogni dubbio, ma l'attinenza di questo romanzo - ricordiamo
scritto nella seconda metà degli anni '60 - alla situazione attuale
ha del sorprendente.
Ma cosa c'entra un vecchio romanzo giallo con la realtà istituzionale ed operativa di un moderno servizio di intelligence europeo? Ebbene, allo stesso tempo c'entra poco e molto. Poco, se
si considera che il mondo raccontato da Le Carrè non esiste più,
così come (forse) non esistono più i teatri strategici e le minacce
che hanno segnato la storia operativa dell'intelligence occidentale fino a qualche decennio fa, epoca nella quale il romanzo è
ambientato. C'entra invece, e molto, se riflettiamo sul fatto che
l'animo umano assai difficilmente muta, in particolar modo
quando si trova ad aver a che fare con la gestione del “potere”.
Se è vero infatti che la riforma dei servizi di intelligence è un
tema che da sempre è considerato di un certo rilievo, se è vero
che tutti siamo concordi nella necessità di scongiurare ogni tipo
di deviazione (nelle finalità e nei metodi) dell'attività dei servizi
di informazione e sicurezza, se condividiamo tutti la necessità di
dotarci di strumenti adeguati a fronteggiare le minacce dei nuovi
contesti strategici post 11 settembre (che solo fino a qualche an188
no si sarebbero detti post guerra fredda), come mai non si è ancora arrivati almeno all'idea di un nuovo assetto condiviso?
Non è propriamente tranquillizzante che la classe politica si mostri insensibile a questo interrogativo, specie se consideriamo il
fatto che la sicurezza dello Stato e la protezione di coloro cui la
sovranità appartiene, dovrebbe essere argomento che prescinde
dalle ideologie e dagli schieramenti politici. Ma la cosa veramente preoccupante è che in 30 anni non è cambiato in alcun
modo l'assetto strutturale (linguistico, semantico ed ideologico)
del dibattito politico sulla questione. Stesse parole, stessi luoghi
comuni, stesse polemiche, stesse rivalità e vecchie gelosie. In
altre parole, lo stesso “specchio delle spie”.
Uno specchio nel quale di volta in volta si affacciano sempre
nuovi personaggi, ma che - nostro malgrado - riflette sempre le
stesse immagini. Chi ricorda ancora le clamorose polemiche
(che facevano chiaro riferimento a quella categoria di militari
che in estate “vestono di bianco”) su certi presunti "centri di potere" che sarebbero stati “dietro molte delle polemiche che gravano sul Sismi”? Ancora, chi ricorda le altrettanto clamorose rivelazioni (che aspiravano a diventare scoop, ma che per molti
motivi non hanno raggiunto tale scopo) di certi personaggi impegnati a ritagliarsi a tutti i costi un ruolo all'interno di vicende
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particolarmente complesse e dolorose, come le trattative per la
liberazione degli ostaggi in Iraq o il tragico incidente sulla strada dell'aeroporto di Bagdad nel quale ha perso la vita Nicola Calipari? E l'elenco potrebbe continuare a lungo.
Da osservatori esterni - per scelta e convinzione tendenzialmente neutrali, forse solo un poco rassegnati nel sorbire tutto quanto
ci viene propinato dai media (qualche volta clementi, spesso impietosi) - è forte la preoccupazione che questa sorta di “sovrastruttura dietrologica” (169) serva a nascondere gli stessi giochi
di forza, gli stessi equilibri (ed equilibrismi), le stesse valutazioni d'opportunità di natura prettamente politica che Le Carrè descrive così bene nei sui romanzi.
Ma da dove trae origine questo "gioco di specchi"? Una delle
ipotesi è forse quella della eccessiva autoreferenzialità della politica (tutto si fa, in politica, con la politica e per la politica). Un'altra ipotesi può essere quella della difficoltà di inculcare, in
certe istituzioni piuttosto che in altre, un senso etico più profondo e consapevole. Una terza ipotesi può essere quella della ben
nota riottosità nel riconoscere il fatto che l'unico soggetto a cui
la politica deve render conto delle scelte (soprattutto quelle strategiche) resta pur sempre l'individuo, il cittadino - in quanto
169 la locuzione non sarà elegante ma rende bene l'idea.
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"popolo" e dunque in quanto Stato - e non l'ideologia, il partito,
la coalizione o l'elettorato cosiddetto "di area”. In tutte e tre le
ipotesi sullo sfondo si delineano i contorni di un ormai diffuso
deficit culturale.
Certo in Italia (ma anche negli altri paesi) il politico sembra essere pervaso da un'aureola di onniscienza: si esprime ed argomenta pubblicamente, con apparente agilità e sicurezza, praticamente su ogni campo dello scibile umano: dalla fecondazione
assistita all'impiego dei trucioli di rovere nell'invecchiamento
dei vini, dalla protezione dell'ecosistema alpino alla politica monetaria, dalle azioni per la sicurezza sociale all'intelligence. Ma
il politico, oltre ad essere politico, spesso è anche decisore. E'
perciò lecito domandarsi in che misura le scelte operate saranno
poi effettivamente funzionali alle esigenze reali. Nel campo della sicurezza e dell'intelligence di aberrazioni derivanti dalla
mancanza di una più profonda cultura se ne contano molte.
Un esempio è la falsa ingenuità con la quale ogni volta ci si continua a stupire della tradizionale concorrenza (censurabile o meno non tocca a noi dirlo) tra le tre Forze Armate, allorquando
con i loro Ufficiali Generali (ed Ammiragli) si "contendono" il
comando dell'intelligence militare (170). O ancora il fatto di
170 Certo la politica non fa di meglio quando si tratta di distribuire cariche.
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continuare a passare il problema delle "responsabilità di vertice"
(anche in riferimento alle operazioni extra legem) come un problema di organizzazione strutturale dei servizi (modello binario,
modello unitario, eccetera) anziché come un problema di natura
eminentemente politica (171) e di sensibilità istituzionale. Nell'attuale contesto strategico, non ci sembra affatto conveniente
perseverare ancora per molto in questo tipo di atteggiamenti.
Il problema quindi è altrove, "deve" essere altrove. Se è vero –
come è vero – che in regime democratico il primato resta sempre
e comunque al potere politico legittimamente espresso (al quale
devono giustamente sottostare quello militare e di polizia) dove
e quali sarebbero i vincoli ed i limiti che la politica avrebbe nel
partorire una riforma che sia effettivamente tale, che sia frutto di
una valutazione libera da eventuali “campi di forza” che agiscano anche dall'interno della struttura riformata? Ancora, cosa impedisce alla classe politica di prendere quelle famose “decisioni
impopolari” che essa stessa sempre più spesso ritiene indispensabili, senza temere la retroazione di una classe dirigente che
prima o poi - per naturale avvicendamento - lascerà il posto a
soggetti auspicabilmente meno legati ai pesanti retaggi del passato ? Può la politica, o la politica non vuole ?
171 La questione rimarrebbe in ogni caso aperta in tutta la sua vasta complessità.
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Uno, due, tre o quattro “servizi”: il numero non ha alcuna importanza (172), così come non ce l'ha il colore e la foggia dell'uniforme di chi sarà chiamato a comandarli. Se davvero si vuol
dare un senso a concetti come meritocrazia, efficienza, legalità,
sicurezza ed infine etica, ci sembra che la cosa più importante da
fare sia non indugiare un minuto di più in questo vortice da
“specchio delle spie”, in quella inutile “mischia fratricida” per la
sopravvivenza, che alla fine si rivela essere nient'altro che un alibi, sia per chi soccombe che per chi rimane. Oltre che per chi,
poi, dovrà riformare.
Una riforma dopo venti anni è una riforma. Una riforma che dura 20 anni non lo è più. Se la longevità della prossima legge sui
Servizi sarà paragonabile a quella della Legge 801, se ne riparlerà intorno al 2035... tanto vale fare le cose per bene adesso. Meglio sarebbe allora prendere coraggio e optare per una autentica
“revolution in intelligence affairs”. Si cancellino le strutture organizzative esistenti e se ne costituiscano di nuove sulla base idee largamente innovative. Si reinventi allora dal principio l'assetto e la collocazione istituzionale dei servizi di informazione:
scopi, finalità, vincoli di necessità, garanzie. Si riconsideri il lo-
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Sebbene la pluralità sia garanzia di vicendevole controllo, considerato il fatto che è tra i maggiori paesi civilizzati si sia preferito non accentrare – almeno ufficialmente - tutte le attività di intelligence in una unica entità..
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ro inquadramento giuridico e funzionale, la loro immagine pubblica, la loro collocazione all'interno del tessuto sociale e – di
conseguenza - il loro imprinting culturale. Una “nuova-nuovaintelligence” al posto di una “nuova-vecchia-intelligence”. La
proposta è volutamente provocatoria.
Il vantaggio è che, nel peggiore dei casi, potremmo almeno dire
di averci provato.
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