L A VOCE AFONA DEL PADRONE
FENOMENOLOGIA DELLE FIGURE DOMINANTI
NELLA NARRATIVA BREVE ITALIANA
DEL XXI SECOLO
CARLO BAGHETTI – École des Hautes Études Hispaniques et Ibériques
L’articolo si concentra su due raccolte
pubblicate da Ediesse, organo editoriale
della CGIL: Laboriosi oroscopi (2006) e Il
lavoro e i giorni (2008). Si analizza la rappresentazione letteraria delle figure socialmente “dominanti” nelle relazioni professionali. Sono state rilevate e studiate cinque
figure: il “padrone debole”, raccontato
all’interno di un rapporto basato sulla cura;
il “barone” universitario, il cui potere simbolico agisce dentro e fuori l’università; il
“padrone paternalista”, inserito nel contesto industriale e che riproduce un modello solo apparentemente passato; il
“padrone scempio”, considerato alla
stregua di un idiota; il “padrone archetipico”, una figura immateriale che però ha
un’influenza sulle azioni dei personaggi
subalterni.
1
The article focuses on two collections
edited by Ediesse, the publishing organ of
the CGIL: Laboriosi oroscopi (2006) and Il
lavoro e i giorni (2008). It analyzes the literary representation of socially "dominant"
figures in professional relationships. Five
figures were found and studied: the "weak
master", told within a relationship based
on care; the university "baron", whose
symbolic power acts inside and outside the
university; the "paternalistic master", inserted in the industrial context and who reproduces a model that only appears to be
past; the "foolish master", considered as an
idiot; the "archetypal master", an immaterial figure who, however, has an influence on
the actions of subordinate characters.
ALCUNE CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Forma breve e racconto del lavoro è un connubio che potremmo definire
quasi classico. Anche i romanzi industriali ancora ottocenteschi, come potrebbe essere Portafogli di un operaio di Cesare Cantù1 (1871), oppure le rare
rappresentazioni della fabbrica che vengono pubblicate durante gli anni del
fascismo, come Tre operai di Carlo Bernari2 (1934) o Il capofabbrica di Romano Bilenchi3 (19354), hanno un impianto che ha poco in comune con il modello di romanzo tradizionalmente inteso. Certo, si potrebbe dire, insieme a
Guido Guglielmi, che lo scrittore novecentesco «si trova davanti ad una realtà complessa per cui parte da un progetto (tradizionale) di narrazione, ma
non è in grado di realizzarlo»5 e che la frantumazione degli impianti narrativi
1 CESARE CANTÙ, Portafoglio
2 CARLO BERNARI, Tre
3
d’un operaio (1871), Milano, Bompiani 1997.
operai, Milano, Rizzoli 1934.
ROMANO BILENCHI, Il capofabbrica (1935), Milano, Rizzoli 1997.
Storia editoriale complessa quella del Capofabbrica, composto attualmente (Milano, Rizzoli 1997) da
otto racconti, sette dei quali (non quello eponimo) furono pubblicati separatamente da Bilenchi su
varie riviste, tra il 1933 e il 1934. Per vedere la prima edizione con gli otto racconti bisognerà aspettare il
1935, quando vedono la luce 500 copie numerate, ma in tale occasione il testo subì delle modifiche importanti a causa della censura. Per una ricostruzione più accurata della storia editoriale cfr. CRISTINA
NESI, Breve storia delle edizioni de Il capofabbrica, in R. BILENCHI, Il capofabbrica, cit., p. XIV-XVI.
4
5 GUIDO GUGLIELMI, Un’idea di racconto, in «Bollettino ‘900», 1-2 (2005), I-II semestre, online,
https://boll900.it/numeri/2005-i/Guglielmi.html (ultima consultazione 14-12-2020).
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non sia altro che la conseguenza formale di un assunto ontologico, ma crediamo altresì che vi sia una specificità del tema letterario del lavoro, che porti
gli autori a tendere costantemente al frammento, alla narrazione disorganica,
fatta per capitoli autonomi e indipendenti. Del resto, è quanto accade anche
nei famosi numeri del «menabò» curati da Elio Vittorini e Italo Calvino,
atto per molti versi fondativo del dibattito sulla cultura industriale italiana:6 i
narratori pubblicano tutti brevi testi e questa sembra essere la natura propria
del racconto che porta il lettore a calarsi nel mondo delle fabbriche. Difficile
non pensare a un’opera come Gymkhana cross di Luigi Davì,7 uno dei primi
testi scritti da un operaio, pubblicato la prima volta nel 1957: una raccolta di
racconti di varia estensione, di cui alcuni brevissimi.
Scorrendo la cronologia della letteratura del lavoro fino ad anni più vicini a
noi, in cui il tema del lavoro si è arricchito del motivo della precarietà e dell’incertezza,8 vediamo che questa tendenza non solo rimane presente, ma che
addirittura sembra rafforzarsi. Paolo Chirumbolo lo esprime chiaramente nel
saggio introduttivo a Letteratura e lavoro,9 quando afferma:
Non sorprende constatare come la maggior parte delle opere di questa
ondata narrativa abbia assunto la forma del racconto, dell’episodio, del
frammento. […] La forma prediletta dai narratori della economia
flessibile è quella della narrazione breve che possa cioè esaurirsi – proprio
come ogni esperienza lavorativa a progetto – nel volgere di alcune
pagine. […] Un’esistenza destrutturata (e destrutturante) produce una
narrativa, e una lingua, altrettanto priva di centro.10
Il contenuto influenza la forma e i racconti del lavoro precario, saltuario,
intermittente sembrano essere attraversati da una generale propensione alla
durata breve, a capitoli che intrattengono relazioni labili con il resto della
narrazione. Anche in opere letterarie di ampio respiro, che si concentrano sul
racconto della vita di un unico personaggio, come nel caso di Works scritto da
Cfr. almeno: SILVIA CAVALLI, «Potrò anche fare l’indiano». La genesi del «Menabò» (1959), in «Il
Giannone», XI, 22 (2013), pp. 157-178; EAD., Progetto «menabò» (1959-1967), Venezia, Marsilio 2017;
EMANUELE ZINATO, L’esperienza del “Menabò”, in ID., Letteratura come storiografia, Macerata, Quodlibet 2015, pp. 41-53.
6
7 LUIGI DAVÌ, Gymkhana-Cross (1957),
Matelica, Hacca 2011.
Per non cadere in rischiose quanto inutili semplificazioni bisogna specificare che il motivo letterario
della precarietà e dell’incertezza lavorativa non è una novità assoluta degli ultimi decenni. Tale motivo,
così come quello della ricerca costante del lavoro, si ritrova anche in opere ben più datate che potremmo riunire sotto la porosa etichetta di “letteratura del lavoro”. Ciò che è cambiato è il dato extra-letterario, ovvero l’acceso dibattito intorno alle conseguenze dell’approvazione di leggi che introducevano
deroghe al contratto nazionale e rendevano di fatto il lavoro più flessibile e precario.
8
PAOLO CHIRUMBOLO, Letteratura e lavoro. Conversazioni critiche, Soveria Mannelli, Rubbettino
2013.
9
10
P. CHIRUMBOLO, Letteratura e lavoro, cit., pp. 24-25, corsivo mio. Riflessioni simili si trovano anche
in CLAUDIA BOSCOLO e FRANCA ROVERSELLI (a cura di), Scritture precarie attraverso i media: un
bilancio provvisorio, in «Bollettino ‘900», 1-2 (2009).
Ticontre. Teoria Testo Traduzione – 15 (2021)
LA VOCE AFONA DEL PADRONE
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Vitaliano Trevisan,11 sorta di autofiction lavorativa di oltre seicento pagine, si
vede come i singoli capitoli relativi a professioni o mansioni svolte per un determinato periodo, prima degli inevitabili licenziamenti o dimissioni, abbiano una forte autonomia e indipendenza12 rispetto al resto della trama.
A differenza della Francia o della Spagna, paesi in cui il racconto del lavoro
ha in anni recenti occupato un posto di rilievo nel panorama letterario nazionale, in Italia si è registrata una tendenza editoriale particolare: la pubblicazione di numerose raccolte miscellanee di brevi, talvolta brevissimi, racconti
sul lavoro. La genesi di questi testi è varia, ma fondamentalmente riconducibile a due modalità strettamente intrecciate e talvolta compresenti: la prima, è
il racconto su commissione pensato direttamente per la pubblicazione in volume; la seconda, è la raccolta a posteriori di una serie di materiali già pubblicati su riviste, giornali, stampa periodica inevitabilmente destinata all’oblio.
Altro aspetto rilevante è la prossimità cronologica delle pubblicazioni: le
sillogi più importanti vengono pubblicate nell’arco del decennio che va all’incirca dal 2004 al 2014.13 Questa alta concentrazione svela per lo meno tre
aspetti: anzitutto, e non era scontato, che la trasformazione del lavoro, ovvero
un elemento della realtà e non dei più avvincenti, ha un appeal letterario; in
secondo luogo, che tale tema è percepito come urgente ed è in grado di mobilitare le coscienze (e le penne) di alcuni degli scrittori italiani più noti, da Saviano a Camilleri, da Maraini a Murgia; infine, ci mostra un funzionamento
particolare dell’editoria italiana all’alba del nuovo millennio: la presenza in
simultanea di prodotti culturali molto simili tra loro che avvalora le tesi di
coloro i quali sostenevano che il tema del lavoro fosse solo o soprattutto una
moda passeggiera,14 e mostra – una volta di più – come il mercato editoriale
sia pronto a trasformare in prodotto commerciale anche un tema socialmente
e politicamente rilevante.
Tenendo in mente queste considerazioni preliminari ci siamo avvicinati ai
due volumi Laboriosi oroscopi e Il lavoro e i giorni. Entrambi sono stati pubblicati dalla casa editrice Ediesse, organo editoriale della CGIL e fin dalla fon11
VITALIANO TREVISAN, Works, Torino, Einaudi 2016.
Cfr. CARLO BAGHETTI, Works by Vitaliano Trevisan and the representation of work in the neo-liberal
age, in ANGELA CONDELLO e TIZIANO TORACCA (a cura di), Law, Labour and the Humanities: contemporary European perspectives, Abingdon, Oxon, New York, Routledge 2020, pp. 183-186.
12
In ordine cronologico: NICOLA LAGIOIA e CHRISTIAN RAIMO (a cura di). La qualità dell’aria,
Roma, minimum fax 2004; Tu quando scadi?, Lecce, Manni 2005; MARIO DESIATI e TARCISIO
TARQUINI (a cura di), Laboriosi oroscopi. Diciotto racconti sul lavoro, la precarietà e la disoccupazione,
Roma, Ediesse 2006; CHRISTIAN RAIMO (a cura di), Il corpo e il sangue d’Italia. Otto inchieste da un
paese sconosciuto, Roma, minimum fax 2007; MARIO DESIATI e STEFANO IUCCI (a cura di), Il lavoro e i
giorni, Roma, Ediesse 2008; CAROLA SUSANI et al., Sono come tu mi vuoi. Storie di lavori, Roma-Bari,
Laterza 2009; TULLIO AVOLEDO et al., Lavoro da morire. Racconti da un’Italia sfruttata, Torino, Einaudi 2009; ANDREA CAMILLERI et al., Articolo 1. Racconti sul lavoro, Palermo, Sellerio 2009; DANIELE BIACCHESSI et al., Maledetta fabbrica, Viterbo, Stampa alternativa 2010; JONATHAN ARPETTI e
PAOLO NANNI (a cura di), Lavoricidi italiani, Torino, Miraggi 2012; Lavoro vivo, Roma, Alegre 2012;
CHRISTIAN RAIMO e ALESSANDRO GAZOIA (a cura di), L’età della febbre. Storie di questo tempo,
Roma, minimum fax 2015.
13
CHRISTIAN RAIMO, Perché́ non c’è ancora una grande romanzo sulla crisi?, «Minima & Moralia»,
22 aprile 2014, url https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/perche-non-ce-ancora-un-granderomanzo-italiano-sulla-crisi/ (ultima consultazione 08-01-2021). Dello stesso avviso RAFFAELE DONNARUMMA, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino 2014, p. 108.
Prendendo una direzione meno critica, si potrebbe affermare che il tema è sentito come urgente nelle
sfere dell’editoria maggiore e minore.
14
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dazione interessata a scandagliare i cambiamenti sociali ed economici con gli
strumenti delle scienze sociali, ma affidandosi talvolta anche al preciso sismografo dell’arte.15 Come viene dichiarato nella “Nota dei curatori”, entrambi i
volumi accolgono testi che hanno già avuto una certa circolazione: i diciotto
racconti di Laboriosi oroscopi erano stati pubblicati sul «supplemento mensile del settimanale della Cgil “Rassegna Sindacale” (“Il Mese di Rassegna”) e
riproposti, i primi dodici, sul numero 34 del 2006 di “Nuovi Argomenti” in
una sezione della rivista intitolata “Articolo 1”»;16 e una nota molto simile17
accompagna i venti racconti contenuti ne Il lavoro e i giorni, i quali sono stati
pubblicati unicamente sulla “Rassegna Sindacale”. Nella nostra analisi ci
siamo concentrati nel rilevamento e nello studio dei segni del rapporto di subordinazione tra i protagonisti dei racconti, tra coloro che esercitano il potere
e coloro che invece lo subiscono, consapevoli che le trasformazioni avvenute
tra gli anni Ottanta e oggi hanno modificato il rapporto rigidamente binario
tra il superiore, il capo, il “padrone”, come l’avrebbe ancora chiamato – ironicamente – Goffredo Parise nel 1965,18 e gli impiegati, i pochi operai, i dipendenti, coloro che potremmo più generalmente definire “subalterni”, ovvero
quei personaggi che ritratti durante lo svolgimento della propria professione
(quando va bene) o durante il corso di attività lavorative casuali, di fortuna
(più di frequente) sono soggetti al potere della gerarchia.
Gli organismi aziendali e industriali hanno via via modificato la propria
conformazione e mutato i principi che li governavano, operando anzitutto
sull’idea di gerarchia, di responsabilità e interdipendenza dei lavoratori. La
sociologia ha spiegato bene queste trasformazioni19 e una buona sintesi è
offerta da Richard Sennett ne L’uomo flessibile,20 dove viene illustrata a più
riprese tale evoluzione e spiegato che la metafora oggi più corretta per
spiegare il funzionamento dell’azienda non sia più la piramide fordista, bensì
la rete: «Le grandi aziende hanno cercato di rimuovere le eccessive
stratificazioni burocratiche, trasformandosi in organizzazioni più “piatte” e
flessibili. I manager adesso pensano a organizzazioni simili a reti, piuttosto
che a piramidi».21 La duttilità e modularità della rete sono più indicate per
fronteggiare le rapide mutazioni che avvengono nella contemporaneità e
portano gli attori economici a dotarsi di una struttura flessibile, in grado di
adattarsi ai cambiamenti in maniera rapida, ma determinano anche – almeno
in teoria – rapporti interpersonali diversi. Sennett offre un chiarimento
anche su questo punto, quando afferma, non senza scetticismo, che «uno
degli argomenti che vengono portati a sostegno della nuova organizzazione
del lavoro afferma che essa decentralizza il potere, cioè fornisce a chi si trova
15 Assolve
16 M.
17
questo compito in maniera particolare la collana “Arte & lavoro”.
DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi oroscopi, cit., p. 7.
M. DESIATI e S. IUCCI (a cura di), Il lavoro e i giorni, cit., p. 7.
18 GOFFREDO PARISE, Il
padrone (1965), Torino, Einaudi 1971.
ANDRÉ GORZ, La metamorfosi del lavoro (1988), Milano, Bollati Boringhieri 2012; LUC BOLTANSKI,
EVE CHIAPELLO, Il nuovo spirito del capitalismo (2009), Milano, Mimesis 2014, pp. 147-163.
19
RICHARD SENNETT, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale
(1988), Milano, Feltrinelli 2001.
20
21
Ivi, p. 21.
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nei ranghi più bassi delle organizzazioni un maggior controllo sulle proprie
attività».22 A modificarsi è dunque il ruolo del capo, di colui che rappresenta,
per maggiore prossimità gerarchica, il proprietario dell’impresa o
l’amministrazione che la controlla. Scrive sempre Sennett:
Nel moderno lavoro di squadra si ricorre a una finzione: all’idea che i
dipendenti in realtà non stiano lottando gli uni contro gli altri. Cosa
ancora più importante, ci si inventa l’idea che i capi e i dipendenti non
siano antagonisti, ma che i capi si limitino a gestire il lavoro collettivo. Il
capo diventa un “leader”, che è la parola più accattivante nel moderno
lessico manageriale: un leader è un collega, piuttosto che un padrone. Il
gioco del potere viene quindi giocato dalla squadra contro le squadre di
altre aziende.23
Richard Sennett impiega il termine “finzione” (fiction nella versione originale) per descrivere il nuovo tipo di rapporto che il management degli anni
Novanta ha tentato di imporre alla versione aggiornata dell’antitetica coppia
servo-padrone ed è sintomatico che sia un’operazione linguistica (l’impiego
del termine “leader”) a tracciare la via per un cambio nella strategia di gestione del personale dell’impresa contemporanea. I brevi racconti contenuti nei
due volumi Ediesse sembrano porsi in linea di continuità con le analisi del
sociologo britannico, ma ne arricchiscono la proposta: non esiste solo il leader che abbatte le frontiere gerarchiche con i suoi sottoposti, si incontrano
differenti tipologie di figure dominanti che intrattengono molteplici relazioni
con i protagonisti delle vicende, personaggi per la maggior parte24 subalterni
e precari, che rivestono il ruolo di vittime del capitalismo contemporaneo.25
Obiettivo del presente articolo è quello di stilare una tassonomia26 di tali figure dominanti, di osservare e interpretare la relazione che intrattengono con
22
Ivi, p. 54.
23 Ivi, p. 112.
Raramente a prendere la parola sono personaggi che godono di una buona posizione sociale. Questo
accade, per esempio, nel racconto di ALESSANDRO PIPERNO, Lettera aperta ai miei inquilini, in M.
DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi oroscopi, cit., pp. 79-84, dove il narratore è un ricco rampollo di famiglia la cui occupazione è gestire un piccolo impero immobiliare.
24
Nella letteratura del lavoro vi sono anche rappresentazione che danno voce a personaggi posizionati
in alto nella scala gerarchica. È il caso, per esempio, di GIUSEPPE GENNA, L’anno luce (2005), Milano, Il
Saggiatore 2007; CLAUDIO PIERSANTI, Il ritorno a casa di Enrico Metz, Milano, Feltrinelli 2006; va
segnalata anche l’opera narrativa di Sebastiano Nata in cui a prendere la parola sono spesso manager di
alto livello.
25
Altre figure dominanti avrebbero meritato di essere analizzate, ma è stato necessario operare una
scelta. Sarebbe tuttavia auspicabile uno studio sulla figura del “padrone-padrino”, che emerge dal racconto di ROBERTO SAVIANO, Il mestiere dei soldi, in M. DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi
oroscopi, cit., pp. 85-91, utile a comprendere il ruolo della violenza come paradigma del mondo del lavoro contemporaneo, non solamente criminale; così come uno studio dei “dirigenti arbitri”, ovvero figure
di alti funzionario aziendali, i quali si limitano ad arbitrare i conflitti che sorgono tra i lavoratori dimentichi dei valori di solidarietà di classe. Il racconto più rappresentativo per questa tipologia di manager è ANDREA CARRARO, Il Mobbing del Sorcio, in M. DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi
oroscopi, cit., pp. 121-129.
26
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le figure subalterne,27 chiarire in che modo la loro presenza e il loro agire determinano o influiscono sui sentimenti, i comportamenti, lo stare al mondo
dei personaggi più deboli.
2
LA
DIPENDENZA RECIPROCA: IL PADRONE DEBOLE E
L’AMBIGUITÀ DEL RAPPORTO DI CURA
Andrea Bajani, in All inclusive,28 elabora una narrazione in cui la figura
dominante possiede i tratti di fragilità e dipendenza, ma nonostante la debolezza della sua posizione, la vulnerabilità fisica, egli non rinuncia a utilizzare la
violenza e l’arroganza, ad adottare nei confronti della sua controparte, l’ingegnere rumeno che si è trovato a svolgere il lavoro di badante,29 un atteggiamento altero e liquidatorio. La narrazione, attraverso il ricorso originale30 alla
seconda persona del singolare, mette in scena una relazione di reciproca dipendenza, tipica delle relazioni basate sulla cura alla persona:31 se l’assistito
necessita delle attenzioni e della presenza del badante, allo stesso tempo la
figura dominata ha «tutto quello di cui ha bisogno: un letto per dormire, del
cibo da mangiare e una paghetta con cui comprarsi le sigarette».32 Il datore di
lavoro è caratterizzato da un atteggiamento irrazionale (in parte dovuto all’età) a cui il protagonista della vicenda non oppone alcuna resistenza; al contrario, egli esegue e accontenta tutti i ghiribizzi con un sentimento che potremmo definire di affettuosità o, addirittura, di amorevolezza paterna. Per citare
un solo esempio, riportiamo una scena in cui l’assistente, dopo che l’anziano
gli ha negato il diritto di sedere alla stessa tavola dell’assistito poiché «non è
suo amico, non è suo figlio, non è suo nipote, quindi con lui non ci
mangia»,33 prende cura di lui addormentatosi sul divano:
Inevitabile pensare alla coppia servo-padrone a cui la critica letteraria ha dedicato spesso attenzione.
Tra l’ampia bibliografia tenuta in conto segnaliamo unicamente: STEFANO LAZZARIN (a cura di), Il
padrone nella letteratura italiana del Novecento, «La critica sociologica» L, 199 (2016); GIUSEPPE VARONE, La silhouette del padrone nella favola ironica e ribelle di un uomo d’azienda: «Il senatore» di
Giancarlo Buzzi, in «Otto/Novecento», XXX, 3 (2006), pp. 161-172; e il meno recente GRAZIELLA
PAGLIANO, Servo e padrone. L'orizzonte dei testi, Bologna, Il Mulino 1983.
27
ANDREA BAJANI, All inclusive, in M. DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi oroscopi, cit., pp.
65-70.
28
Anche tale scelta è abbastanza singolare, poiché molto più spesso i narratori preferiscono affidare a
personaggi femminili questo tipo di lavori. Una panoramica di questa figura nella narrativa italiana è
stata offerta da GLORIA PAGANINI, Migrazione femminile e domesticità in Italia: il caso delle badanti,
in CARLO BAGHETTI et al. (a cura di), Il lavoro raccontato. Studi su letteratura e cinema italiani dal
postmodernismo all’ipermodernismo, Firenze, Franco Cesati 2020, pp. 83-92.
29
Per quanto rara, questa scelta narrativa è abituale in Bajani, il quale l’ha adottata anche nel racconto
pubblicato in Lavorare uccide, cit., pp. 19-25.
30
31 A questo proposito mi permetto di rimandare a CARLO BAGHETTI, Il racconto come cura e rivendicazione politica: la malattia nella letteratura del lavoro, in MARIKA DI MARO (a cura di), Il racconto
della malattia, Napoli, Loffredo, in corso di stampa.
32
A. BAJANI, All inclusive, cit., p. 69. Corsivo mio.
33
Ibid. Corsivo mio.
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Dopo mezz’ora ogni sera si addormenta puntuale, qualsiasi sia il
programma in tv. Quindi abbassi il volume, lo prendi in braccio e lo
porti nella sua camera in fondo alla casa. Lì lo spogli e gli metti il
pigiama. Poi lo metti a letto con la sicurezza di un ingegnere rumeno che
prima di partire per atterrare in Italia aveva un figlio da mettere a letto la
sera.34
La costruzione antitetica del racconto, per cui a ogni gesto di brutalità dell’anziano corrisponde un gesto di docilità e benevolenza da parte del suo alter
ego, ha come effetto di rendere evidente al lettore l’asimmetria della relazione
e di creare empatia con il personaggio minore, il quale però non ha alcuna
possibilità e – si direbbe – desiderio di sovvertire l’ordine gerarchico. La scelta
di Bajani di costruire il racconto anche su un’opposizione generazionale tra i
due personaggi fa riflettere sulla visione che si ha della senescenza nella società
contemporanea. L’anziano, per antonomasia un individuo improduttivo, è
ritratto come collerico e ostile, pronto a sfogare senza scrupoli sul subalterno
il proprio senso di frustrazione nei confronti di una società incapace di offrirgli ascolto o un’opportunità d’integrazione. Nonostante l’ambivalenza della
relazione, All inclusive è uno dei pochi racconti in cui la figura dominante ha
un comportamento apertamente denigratorio e la ridondanza della prosa,
tratto tipico della scrittura di Bajani, ne risalta la violenza.
2
IL
POTERE SIMBOLICO: I PERSONAGGI DOMINANTI NEL
MONDO UNIVERSITARIO
Una delle specificità delle raccolte di narrativa breve (non solo quelle prese
in considerazione in questa sede) è la presenza, ben più nutrita rispetto alle
narrazioni romanzesche,35 del motivo letterario del lavoro scolastico o accademico. I due motivi non sono perfettamente sovrapponibili: vi è uno iato
tra l’ambientazione scolastica e quella accademica; la prima, oggetto di recenti
e importanti studi,36 sembra quasi costituire un genere a sé – il “racconto di
scuola” – mentre il secondo ha difficoltà a emergere in maniera autonoma.
Eppure, in una letteratura che sembra voler recuperare una funzione di critica sociale e un valore politico non sono le ragioni a mancare: in un recente
articolo apparso su «Il Tascabile» Franco Palazzi ha fatto luce sulla presenza
massiccia della depressione in ambito universitario:
34 Ivi, p. 70.
Esistono eccezioni, come ad esempio: NICOLA GARDINI, I baroni. Come e perché sono fuggito dall'università italiana, Milano, Feltrinelli 2009; CECILIA GHIDOTTI, Il pieno di felicità, Roma, minimum
fax 2019.
35
Vanno ricordati almeno BARBARA PERONI (a cura di), Leggere la scuola, Milano, Unicopli 2012;
CRISTINA NOACCO, Figures du maître. De l’autorité à l’autonomie, Rennes, Presse Universitaires de
Rennes 2013; CINZIA RUOZZI, Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento, Torino, Loescher 2014; ANNAMARIA PALMIERI, Maestri di scuola, maestri di pensiero. La scuola tra letteratura e vita nella seconda metà del Novecento: Pasolini, Sciascia, Mastronardi, Ariccia, Aracne 2015;
STEFANO LAZZARIN e AGNÈS MORINI (a cura di), Maîtres, précepteurs et pédagogues. Figures de l’enseignant dans la littérature italienne, Bern, Peter Lang 2017; BARBARA DISTEFANO, Sciascia maestro di
scuola. Lo scrittore insegnante, i registri di classe e l'impegno pedagogico, Roma, Carocci 2019.
36
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Se gli accademici sono diventati essi stessi soggetti neoliberali –
lavorando potenzialmente 24/7 tramite contratti spesso precari e con
l’imperativo costante di dover essere più produttivi ed efficienti (non
senza la paradossale richiesta aggiuntiva di apparire al contempo
felici della propria condizione) – le conseguenze negative che
scaturiscono dal loro ambiente di lavoro, le “ferite” che esso comporta,
tendono a rimanere nascoste, per una serie di ragioni. Anzitutto, le
caratteristiche delle attività svolte in università e centri di ricerca sono
particolarmente esposte a rappresentazioni distorcenti, che trasfigurano
quello che è a tutti gli effetti un lavoro in una missione (gratuita o sottoretribuita). In tal modo l’insegnamento e la ricerca vengono descritti
come attività svolte per passione, soddisfacenti in se stesse e perciò –
secondo una logica perversa che concepisce il lavoro salariato come mera
sofferenza – non degne di essere regolarmente pagate.37
Nel suo lucido argomentare Palazzi non sembra prendere in considerazione la narrativa breve, la quale agendo proprio sul piano delle rappresentazioni, che egli indica come distorcenti fonti di disagio, da circa un ventennio addita le ingiustizie e i soprusi che avvengono nell’ambito universitario. Nelle
due raccolte analizzate la categoria professionale del docente universitario è
ampiamente rappresentata ed è solitamente caratterizzata, secondo un diffuso stereotipo, come arcigna, altezzosa, arrogante, spesso accondiscendente nei
confronti dei ricercatori più in basso nella gerarchia. A prendere la parola
sono le loro “vittime”, dottorandi, dottori, ricercatori a tempo determinato,
precari cognitivi in cerca di un approdo accademico stabile,38 un’ipertrofia
che probabilmente è specchio delle carriere sfumate di alcuni scrittori. La
condizione naturale e comune di tali personaggi è l’attesa: essi aspettano che
si apra un’opportunità di carriera e sovente è il professore a permettere che
ciò avvenga. Tali figure egemoniche posseggono dunque il potere di sbloccare
esistenze inibite.
Le figure dominanti dell’ambito accademico presentano varie sfumature e
vari gradi di umanità. Il primo, e probabilmente il più benevolo, s’incontra
nel racconto di Carola Susani, Una bustina di lime tra i libri. La scrittrice,
ricalcando tutti gli stereotipi più risaputi e prevedibili della letteratura del
precariato, dà voce a Camilla,39 personaggio-summa dei mali della contemporaneità: ad appena quarant’anni è già carica di debiti e vedova di un ricercato37
FRANCO PALAZZI, Accademia e depressione. Un bilancio sul rapporto tra disagio mentale e gestione
neoliberale dell’università, «Il Tascabile», online, https://www.iltascabile.com/societa/accademia-edepressione/, ultima consultazione: 30 dicembre 2020.
Da notare che, mentre nelle raccolte vi sono rari personaggi dominanti che prendono la parola, nel
caso di racconti ad ambientazione universitaria ai personaggi dotati di potere non viene data voce.
38
La protagonista è omonima, nonché impiegata nello stesso settore, della narratrice che prende la
parola in MICHELA MURGIA, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria,
Milano, Isbn 2006, un romanzo dalla genesi singolare, poiché nato originariamente come un blog, che
incontrerà un importante successo di pubblico e darà avvio alla pubblicazione di una serie di romanzi
sui call center, non-luogo di sfruttamento e alienazione contemporanea per antonomasia (appartenenti
alla stessa categoria vanno segnalati almeno: ASCANIO CELESTINI, Parole sante, Roma, Fandango 2007;
MARIO DESIATI, Vita precaria e amore eterno, Milano, Mondadori 2006; EDOARDO NESI, Per sempre,
Milano, Bompiani 2007; ALDO NOVE, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese…,
Torino, Einaudi 2006; CAMILLA SERNAGIOTTO, Circuito chiuso, Roma, Fandango 2012; ZELDA ZETA,
Voice center, Milano, Cairo 2007).
39
Ticontre. Teoria Testo Traduzione – 15 (2021)
LA VOCE AFONA DEL PADRONE
9
re che non è mai riuscito ad ottenere la cattedra per la quale ha speso le sue
energie migliori; il marito, dopo anni d’ingiustizie subite e alle soglie del
“suo” concorso, subisce un ictus e muore. Le ragioni della morte sono fisiologiche, ma non è da escludere un’origine professionale: «L’idoneità era sicura – dice la protagonista – e aveva già pronta la chiamata. Non so di cosa ha
avuto paura, forse ha temuto di crollare o anche che ogni cosa andasse a posto. Ma forse erano davvero soltanto le sue vene rigide, il dna della sua
razza».40 La descrizione del funerale è un esplicito atto d’accusa che la narratrice muove indirettamente all’università:
Il funerale è stato un bel momento. Laico, per la strada, davanti alla
cassa posata per terra, con gli ometti delle pompe funebri che ci
guardavano come se fossimo di un’altra razza.
Chi ne aveva voglia, diceva qualcosa. Hanno parlato in tanti, studenti,
professori, amici spariti e ricomparsi. Dicevano solo cose giuste. Peccato
non aver registrato, sarebbe stata una bella testimonianza, ma piangevo
come una vigna tagliata, mentre Linda mi stringeva al petto. “Puoi fare
causa all’università”, mi ha sussurrato. Abbiamo riso.41
Lo scoppio d’ilarità che chiude lo scambio di battute è il segno che la giustizia non solo è assente, ma che i personaggi femminili hanno persino smesso
di crederci: il disincanto è generalizzato anche per coloro che lavorano (o cercano di farlo) nel settore pubblico. Per nettare la propria coscienza, in un’indiretta ammissione di responsabilità, il professore del defunto marito cerca di
aiutare la donna chiedendole d’organizzare una giornata di studi, ovvero perpetrando quel medesimo sistema clientelare e di cooptazione che la narratrice
aveva indicato come l’origine della sofferenza dello sposo. La coppia antinomica, sfruttato e sfruttatore, si giustifica e legittima mutualmente, infatti la
protagonista accetta di buon grado l’incarico affidatogli e solerte si mette all’opera, prima di rendersi conto che il compenso promesso non le sarebbe
bastato a coprire neanche una rata del mutuo e a frenare il drastico abbassamento della propria qualità di vita. Assediata dai debiti e falliti tutti i tentativi di rientrare nel mondo accademico, si aprono a lei le porte della precarietà:
diventerà una venditrice porta a porta di aspirapolveri. Il legame con l’università non viene però reciso, il professore sarà infatti il primo cliente dell’ex ricercatrice, portando la loro relazione a una nuova e definitiva evoluzione: la
narratrice assume a tutti gli effetti i tratti della figura servile («Gli pulivo e
lucidavo una porzione del salotto. […] Attraversavo la casa con il battitappeto e con un gesto netto spostavo lenzuola e coperte dal materasso»42) ed è,
per di più, traversata da sensi di colpa nei confronti delle figure dominanti
(«[La scarsa igiene domestica] non era colpa loro […]. Avrei voluto confortarli»43). Tra le figure opposte il rapporto è simmetrico: più si abbassa una,
più s’innalza l’altra, ma la vittima non riesce formulare una critica severa della
CAROLA SUSANI, Una bustina di Lime tra i libri, in M. DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi oroscopi, cit., p. 26.
40
41
Ibid.
42 Ivi,
43
p. 28.
Ibid.
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BAGHETTI
figura dominante. In un impianto oltremodo didascalico, a stento riscattato
dai rari passaggi ironici, il professore è infine presentato come novello deus ex
machina, anche fuori dal proprio contesto naturale, quando, acquistando
l’apparecchio, battezzerà la seconda vita della protagonista, stavolta finalmente coronata di successi.44
Mario Desiati, nel racconto Le ciliegie della ferrovia, mette al centro della
narrazione il complicato passaggio tra università di giurisprudenza e avvocatura, attraverso la vita e il lavoro di Luca, «28 anni, dottorando di ricerca senza borsa, praticante legale nel noto studio legale di G.».45 L’asimmetria del
rapporto tra docente e praticante è presentata come costitutiva dell’avvocatura e viene accettata di buon grado dai colleghi del protagonista: «Siamo noi
che dovremmo pagare per stare qui»,46 dirà uno dei praticanti. Le ulteriori
caratteristiche della figura del professore emergeranno in maniera indiretta
attraverso la descrizione delle figure subalterne: la prima che viene descritta è
quella del «plebeo»47 a cui si oppone il «dominus» e che illustra bene il
rapporto di possessione del secondo sul primo; la seconda figura che viene
presentata è quella del «posteggiatore», ovvero un praticante utilizzato dal
dominus per evitare multe alla propria automobile; il terzo è lo «sciarpista»,
ovvero colui che è incaricato prendere un posto all’avvocato nell’aula del dibattimento poggiando una sciarpa; infine vi è l’«appostato», ovvero colui
che fa la fila al posto dell’avvocato per parlare con il giudice. Il narratore, che
incornicia il dialogo tra i due personaggi inserendo due citazioni, una di
Gramsci all’inizio e l’altra di Ottieri alla fine, sembra essere più lucido di Luca
nella disanima dei rapporti che s’instaurano nel mondo del lavoro, definendo
gli aspiranti avvocati «sfruttati, o […] schiavi, che con la scusa dell’apprendistato vengono sottopagati o addirittura non vengono pagati»,48 un giudizio
non condiviso dal soggetto sfruttato stesso, il quale respinge al mittente le
critiche chiedendo di finirla «con questi luoghi comuni sul praticante avvocato intento a fare fotocopie, [ricordando che] c’è davvero di peggio oggi».49
Anche in questo caso, come nel racconto di Susani, i personaggi che si muovono all’interno della narrazione non mostrano consapevolezza del ruolo di
succube e sfruttato, accettando e giustificando il poco che viene loro offerto
in cambio del proprio lavoro, un’inerzia50 ancora più discutibile poiché si
tratta di una consolidata abitudine accademica, non certo una situazione sorta recentemente.
44 «Non
sono male, spesso mi danno retta». Ivi, p. 29.
MARIO DESIATI, Le ciliegie della ferrovia, in ID. e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi oroscopi, cit.,
p. 73.
45
46
Ibid.
47
Ivi, p. 74.
48
Ibid.
49
Ivi, p. 73.
Cfr. ALESSANDRO CETERONI, Dall’inetto all’inerte. Il personaggio narrativo nella crisi economica, in
NATALIE DUPRÉ et al. (a cura di),Narrazioni della crisi. Proposte italiane per il nuovo millennio, Firenze, Franco Cesati 2016, pp. 74-84.
50
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LA VOCE AFONA DEL PADRONE
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La massiccia presenza di racconti a sfondo universitario (presente anche
nei racconti di Giorgio Fontana,51 Monica Mazzitelli,52 e Chiara Valerio53) mostra, semmai ce ne fosse bisogno, quanta sofferenza si prova anche nei settori
del servizio pubblico, che da anni a questa parte, per dirlo con le parole di
Colin Crouch, «vengono spinti ad agire come se fossero aziende private».54
Le rappresentazioni incontrate, con l’insistenza sugli aspetti negativi e deteriori di questi settori, offrono una rappresentazione alquanto stereotipata
della figura del professore in posizione di potere: è sempre un uomo, è dominante, arrogante, baronale, sdegnoso, oppure – come nel caso di Susani –
possiede un’umanità a fasi alterne, che è giudicato positivamente solo quando coincide con il vantaggio della protagonista.
3
IL PADRE-PADRONE O DEL POTERE IN FABBRICA
L’attenzione degli scrittori che hanno partecipato alle due raccolte si è concentrata in maggioranza sui luoghi tipici della new economy, l’ufficio, il call
center, lo spazio domestico trasformato in luogo di produzione, mentre la
fabbrica, espressione di un mondo che sembra tramontato – sebbene tuttora
ben presente nella Penisola – è al centro di pochi racconti. Tra questi vi è
quello di Massimiliano Zambetta,55 che dà voce a uno studente il quale accetta puntualmente lavori brevissimi da un’agenzia interinale. La sola figura dotata di potere che il protagonista incontra all’interno della fabbrica è descritta
in termini positivi: il «responsabile»,56 così viene definito, è pronto a sporcarsi le mani e a sostituire il protagonista in ritardo e, una volta giunto, non si
assiste a una rampogna, ma solo all’indicazione degli obiettivi di produzione
previsti. Il rapporto di opposizione tra operaio e caporeparto si è dissolto,
sostituito dallo spirito di collaborazione tra appartenenti a livelli gerarchici
diversi; sembra dunque realizzarsi quanto teorizzato da Sennett: il capo diviene leader, ovvero figura che guida la squadra di colleghi piuttosto che comandarla. Certo, il narratore in questione vive la fabbrica come un’esperienza
provvisoria e cambiare continuamente impresa non gli permette di comprendere lucidamente i rapporti di potere presenti negli organismi che integra, ma nonostante le particolari modalità d’impiego il protagonista intuisce
che alcune gentili attenzioni che gli riserva il responsabile sono «un modo
per controllarlo e non dirlo»,57 ma tale forma di controllo rimane latente,
non si esplicita.
GIORGIO FONTANA, Il problema della semplificazione, in M. DESIATI e S. IUCCI (a cura di), Il lavoro e
i giorni, cit., pp. 87-90.
51
MONICA MAZZITELLI, Festa di compleanno, in M. DESIATI e S. IUCCI (a cura di), Il lavoro e i giorni,
cit., pp. 51-56.
52
CHIARA VALERIO, Dieci minuti di recupero, in M. DESIATI e S. IUCCI (a cura di), Il lavoro e i giorni,
cit., pp. 29-36.
53
54 COLIN CROUCH, Postdemocrazia,
Roma-Bari, Laterza 2003, p. 52.
MASSIMILIANO ZAMBETTA, Sabato, afterhour, in M. DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi
oroscopi, cit., pp. 93-104.
55
56 Ivi,
57
p. 100.
Ivi, p. 101. Corsivo mio.
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BAGHETTI
Ben più attenta alle dinamiche di potere all’interno della fabbrica è invece
Giulia Fazzi, che apre il suo racconto opponendo chiaramente la figura subalterna a quella egemonica, rispolverando anche il termine “padrone”: «Lui
qui dentro è il padrone», e alla riga successiva: «Tu sei quella che prende
uno stipendio».58 Nella fabbrica di piccole dimensioni descritta dalla Fazzi,
che impiega una decina di donne tra operaie e amministrative, oltre al proprietario – l’unico uomo –, il tempo sembra non essere trascorso rispetto alle
rappresentazioni che ne offrì la letteratura industriale. Sebbene sembri di essere calati in un tempo remoto, come ricorda anche la sociologia il tessuto
economico di gran parte del Settentrione si regge su questi piccoli impianti59
e anche osservando la descrizione letteraria dell’ambiente di lavoro, le dinamiche di potere, tutto sembra immutato, eppure si è smarrito quell’anelito al
progresso che era tuttavia presente in quegli anni e rendeva il giudizio più
sfumato. Anche dal punto di vista contrattuale la situazione sembra essere
più positiva che altrove: le operaie, a differenza di molti altri lavoratori descritti, beneficiano di un contratto a tempo indeterminato, sebbene l’abbiano
ottenuto dopo un periodo di precarietà; per il resto, il rumore, lo sporco, la
durezza fisica e mentale del lavoro restano inalterate. Proprio la costruzione
binaria del racconto, fondata sull’opposizione tra il padrone e l’operaia, aiuta
il lettore a comprendere con esattezza quali difficoltà si presentano oggi a una
donna all’interno di una fabbrica. Il più grande ostacolo sembra essere quello
della genitorialità: come si evince dal frequente richiamo a tale problematica
anche in altri racconti, la maternità appare incompatibile con il mondo del
lavoro contemporaneo, tanto che la protagonista, durante il colloquio, si sente chiedere: «Lei ha in progetto di fare figli molto presto?».60 Vi sono però
implicazioni e significati diversi a seconda del genere sessuale e della posizione
gerarchica occupata; per il proprietario della fabbrica non solo non è un impedimento, ma anzi egli assume la paternità anche a livello simbolico presentandosi come padre delle operaie, riproducendo un modello patriarcale e paternalista che sembrava superato: «A volte ha con le operaie lo stesso modo
di fare paterno e burbero che usa con i suoi figli di dodici e sedici anni. Le
sgrida ma poi promette loro un premio se faranno le brave».61 A questo si
aggiunge una sorta di dittatura emotiva che il proprietario instaura all’interno della fabbrica lasciandosi andare a comportamenti irrazionali, rilevati dalla
protagonista, che però sembra giustificarlo quando afferma che è «solo un
uomo isterico con problemi di gestione dell’emotività, [che] controlla gli scatoloni con i pezzi già fatti, sbraita ordini, sbatte la porta a vetri».62 Le operaie
non reagiscono in maniera frontale alle vessazioni del superiore, subiscono e
soffrono in silenzio, anzi addirittura sviluppano un senso di colpa perché nel
disastroso contesto lavorativo italiano esse possono godere di un contratto a
tempo indeterminato («le viene da pensare che è una privilegiata con il suo
GIULIA FAZZI, Divieto d’entrata, in M. DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi oroscopi, cit., p.
159.
58
La più avvincente rappresentazione letteraria di questa Italia dei “padroncini” è stata offerta da
ALDO BUSI, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, Milano, Mondadori 1985.
59
60
G. FAZZI, Divieto d’entrata, cit., p. 161.
61 Ivi,
62
pp. 161-162.
Ivi, p. 162.
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LA VOCE AFONA DEL PADRONE
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contratto senza scadenza»63); l’unica reazione che si può osservare all’interno
della fabbrica è la fintaggine, il piccolo sotterfugio: le impiegate rispettano il
codice comportamentale imposto solamente in presenza del capo. L’espressione della loro vera natura è possibile solamente all’esterno della fabbrica;
come mostra la conclusione, le operaie sono finalmente libere dalle costrizioni e felici ritrovandosi per cenare insieme: «Ridono, scherzano, sono scatenate. Come se fuori dalla fabbrica fossero altre persone. Fuori sono autorizzate a
essere donne diverse da quelle che sono dentro».64 Nei primi anni del nuovo
millennio, la fabbrica permane un luogo di castrazione, di sofferenza, in cui la
tecnologia e l’evoluzione nella gestione del personale non hanno apportato
miglioramenti o una nuova definizione, più paritaria, dei rapporti tra proprietari e dipendenti: al contrario, la vita e la libertà hanno una loro possibilità di esistenza unicamente fuori dai recinti dell’azienda, ma anche qui si tratta
di una socialità legata a doppio filo allo status di operaie, che illustra al lettore
nuove forme che assume l’alienazione contemporanea.
4
IL CAPO SCEMPIO
Anche quella che potrebbe essere considerata una forma di ribellione e
sovversione della gerarchia, definire il proprio superiore un individuo grossolano e futile, risulta depotenziato e privo di conseguenze positive nei racconti
presenti nei due volumi analizzati. Il primo racconto dove ciò avviene è lo
scritto ironico di Andrea Di Consoli. Il protagonista ha compreso che il senso
dell’esistenza è racchiuso nel sudore e perciò decide di abbandonare il lavoro
d’ufficio che svolge da alcuni anni e dedicarsi a un’attività che finalmente possa renderlo felice: spostare oggetti, massi, tronchi d’albero, fino a che le sue
forze glielo consentono, all’unico fine di affaticarsi e annullarsi nello sforzo.
Basilare per giungere a questa comprensione è la figura del suo superiore,
«un commercialista di Frosinone, di quelli con le mani di velluto ed esangui»,65 un modello negativo dal quale partire per costruirsi un’identità antitetica, ma una persona alla quale essere grato: «devo dire grazie anche a tipi
come il commercialista […], uomo altamente stupido, che passa le giornate a
fare cose senza senso».66 Il legame tra i due colleghi non è affatto ottimale e
l’ambigua rottura del rapporto professionale (non si capisce se si tratti di dimissioni o di un licenziamento), rappresenta il culmine di questa opposizione frontale:
Mi ha licenziato per scarso rendimento e per sostanziale odio nei miei
confronti. Non è che lavorassi poco, ma m’ero stancato di stipendio, di email, di lettere, di culo sulla scrivania, e quindi un giorno buono buono
63
Ivi, p. 160.
64 Ivi,
p. 162.
ANDREA DI CONSOLI, La rivoluzione del sudore, in M. DESIATI e S. IUCCI (a cura di), Il lavoro e i
giorni, cit., p. 47.
65
66 Ivi,
p. 49.
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sono andato nel suo studio e, guardandolo dritto negli occhi, gli ho
detto ciao, mi hai rotto, me ne vado.67
Il momento in cui il subalterno si libera della propria condizione è l’unico
in cui la gerarchia è azzerata ed egli può guardarlo «dritto» negli occhi, essere
raffigurato sullo stesso piano. Eppure, questa temporanea parità, vissuta nel
segno della sfida, comporta la fine del rapporto lavorativo, non la sua evoluzione o il miglioramento. Il protagonista rifiuta il modello esistenziale proposto dalla società e afferma per tutto il racconto di preferire la nuova vita «selvatica e liberata e faticata»,68 sebbene il tono sarcastico della narrazione suggerisca di non prendere in seria considerazione i propositi del narratore, ma
piuttosto di considerare la scelta come un gesto disperato, la preferenza per
l’abbrutimento naturale piuttosto che impiegatizio.
Altro racconto da cui emerge la rappresentazione di un personaggio dominante insipiente è quello di Nicola Lagioia.69 Il protagonista, un autore a
cui viene commissionata la scrittura di una sceneggiatura cinematografica,
abita sia fisicamente che socialmente i piani più bassi della società: dal seminterrato nel quale vive riesce al massimo e con l’ausilio di una sedia a vedere
una minima porzione della realtà, coincidente con «una discreta quantità di
calzature maschili e femminili in movimento – almeno fino a quando il solito
cane al guinzaglio scompone la visione pisciandogli sui doppi vetri»;70 anche
professionalmente è rappresentato in fondo alla scala gerarchica, privo di decisionalità e margini di manovra. Analizzando le relazioni che il protagonista
ha con i tre personaggi con i quali entra in contatto emerge una rappresentazione del lavoratore intellettuale alle prime armi alquanto sconfortante: oltre
al collega scrittore, che fa parte della medesima «scuderia»71 e con il quale
cerca di darsi manforte, gli altri due personaggi sono assimilabili a datori di
lavoro gerarchicamente superiori. Da una parte, l’agente letterario a cui basta
alludere genericamente a «un vantaggio considerevole. Le bollette del telefono. Quindici giorni in Sardegna […]. Le rate del mutuo»72 per spingerlo ad
accettare un lavoro poco gradito; dall’altra, il produttore cinematografico,
«un monolite d’imbecillità»73 che propone idee sconclusionate e insulse, ma
che i due scrittori non possono rifiutare. I giovani intellettuali sono dotati di
spirito critico, discernono lucidamente tra prodotti culturalmente raffinati e
altri dozzinali, ma non hanno possibilità di imporre il proprio punto di vista,
67 Ivi, pp. 47-48.
68
Ivi, p. 50.
NICOLA LAGIOIA, Le strade di Roma, in M. DESIATI e S. IUCCI (a cura di), Il lavoro e i giorni, cit.,
pp. 37-44.
69
70 Ivi,
p. 39. Corsivo mio.
La metafora bestiale è ampiamente presente tanto nella letteratura del lavoro industriale quanto il
quella più recente. Per uno studio iniziale e non unicamente dedicato alla letteratura del lavoro resta
fondamentale il capitolo di EMANUELE ZINATO, Figure animali nella narrativa italiana del secondo
Novecento: Sciascia, Primo Levi, Calvino, Volponi, Morante, in ID., Letteratura come storiografia, cit.,
pp. 91-106.
71
72 N.
73
LAGIOIA, Le strade di Roma, cit., p. 39.
Ivi, p. 41.
Ticontre. Teoria Testo Traduzione – 15 (2021)
LA VOCE AFONA DEL PADRONE
15
la qualità del proprio lavoro non viene riconosciuta e rispettata: il messaggio
che filtra, non immune da un certo ideologismo, è che per esistere nel mercato del lavoro intellettuale sia inutile puntare su qualità e raffinatezza, che l’industria culturale promuove ormai unicamente formule semplici, sperimentate, persino banali, che l’imperativo novecentesco «make it new»74 sia definitivamente decaduto: la stoltezza è al potere e i personaggi che si muovono tra
i racconti non sono in grado di contrastarlo se non attraverso il rifiuto del
lavoro stesso che però, come visto nel racconto di Di Consoli, coincide con
una situazione altrettanto svantaggiosa.
5
IL PADRONE ARCHETIPICO
Sinora abbiamo preso in considerazione personaggi che presentavano una
dimensione corporea, fatti di carne e ossa, dotati di parola e che interagivano
– alcuni ruvidamente, altri meno – con i protagonisti dei racconti, i quali
solitamente procedono dagli strati più bassi della società. In alcuni dei trentotto racconti s’incontrano casi in cui l’elemento dominante non ha un aspetto fisico, bensì astratto, talvolta puramente simbolico o morale. In questo
ultimo paragrafo intendiamo concentrarci su quello che potremmo definire
un “padrone archetipale”, l’essenza stessa del potere, la sua forma originaria e
astratta. Va da sé che nella costruzione letteraria questo genere d’incarnazione
del potere può avvenire attraverso protagonisti della diegesi, figure portavoce
di un’ideologia, di una Weltanschauung, ma ad interessarci qui è specificamente la rappresentazione del potere nella sua forma inanimata. Essa si manifesta ogni qualvolta il protagonista risponde a un imperativo interiore che lo
spinge alla produzione senza costringimenti materiali: la gerarchia non è più
esteriore, ma introiettata, gli ordini non discendono dall’alto, ma provengono
dalle profondità psichiche, dall’intimità del personaggio stesso.
Forme archetipali del potere si ritrovano in misura maggiore nei racconti
di Emanuele Trevi75 e Angelo Ferracuti,76 ma ci concentreremo solamente su
quest’ultimo poiché l’autore pone l’accento sull’introiezione della norma da
parte del lavoratore subalterno. Il protagonista è uno sportellista delle poste77
ed è descritto come un individuo che gode di un punto di vista privilegiato
sull’umanità: lo sportello è assimilato a una finestra sul mondo, un avamposto esclusivo; tale ruolo d’osservatore risulta però paradossale, poiché il protagonista sembra non accorgersi di quanto avviene nella propria intimità,
non riesce a mettere a fuoco la relazione che intrattiene col potere e a disfarsi
degli stretti lacci dell’ideologia. Nel racconto compare di sfuggita, nelle ultimissime righe, anche la figura di un direttore di filiale nell’atto di redarguire il
Cfr. CARLO TIRINANZI DE MEDICI, Il romanzo italiano contemporaneo. Dalla fine degli anni Settanta a oggi, Roma, Carocci 2018, pp. 31-32.
74
EMANUELE TREVI, Psicotici e precari a Paperopoli, in M. DESIATI e T. TARQUINI (a cura di), Laboriosi oroscopi, cit., pp. 13-21.
75
ANGELO FERRACUTI, Certi giorni sono più belli di altri, in M. DESIATI e T. TARQUINI (a cura di),
Laboriosi oroscopi, cit., pp. 31-39.
76
Angelo Ferracuti ha nel tempo costruito una precisa immagine letteraria dell’impiegato delle poste.
L’opera senz’altro più importante in questo senso è ID., Andare, camminare, lavorare. L’Italia raccontata dai portalettere, Milano, Feltrinelli 2015, ma si segnala anche il capitolo «Poste vita» contenuto in
ID., Le risorse umane, Milano, Feltrinelli 2006, pp.75-104.
77
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sottoposto e ricordargli che egli è «utile ma non indispensabile»,78 ma a dominare intimamente lo sportellista non è un superiore gerarchico, bensì
l’identificazione profonda con il proprio lavoro, il senso del dovere, il modello altissimo di professionalità che guida tutte le sue azioni, sia consce che inconsce. Questa particolarità è evidente fin dall’incipit del racconto, dove egli
risponde a ogni domanda di natura filosofica attingendo alla sfera professionale; ad esempio, quando si domanda cosa sia «veramente il tempo reale»,79
egli lo assimila a «un’operazione da eseguire e lui da sportellista cerca di
espletarla al meglio impiegandone il meno possibile»;80 persino l’inconscio è
pervaso dalla dimensione lavorativa, come si evince dai sogni che il protagonista fa: «Certe notti sogna la postazione, il terminale».81 Il protagonista appare completamente immerso nel suo lavoro e l’unico, forse l’ultimo, vincolo
con la sfera privata è puramente biologico: solo gli incubi che disturbano il
sonno della figlia lo riportano in un ambito extra-lavorativo; anche in questo
caso, però, lo sportellista riesce a immaginare solamente soluzioni che provengono dalla sfera professionale: vorrebbe estinguere le paure della figlia
«come si estinguono i conti correnti».82 La descrizione dell’immaginario
dello sportellista, così corrotto e infestato dal lavoro, ci offre la rappresentazione esatta dell’alienazione contemporanea: egli non possiede più una vita
propria, indipendente, ma tutto acquisisce senso nella sfera professionale,
tanto da spingere il narratore ad affermare che «quando non ci sono problemi da risolvere, gente da servire o conti da risistemare, lo sportellista si
immagina inconcludente e inutile, e come se fosse privato della normale
energia che lo muove».83 Vita biologica e vita professionale sono fuse insieme, ormai indistinguibili, ma non più nell’accezione marxista di compimento
ultimo della propria natura, in cui «la vita produttiva è la vita della specie
[…], vita che produce la vita»,84 perché non vi è nulla di edificante nelle mansioni servili85 che svolge lo sportellista. La scarsa lucidità sulla propria vita lo
porta addirittura a considerarsi il «padrone della postazione»,86 senza vedere
che in realtà è sottoposto a un doppio livello gerarchico, materiale (il direttore della filiale) e immateriale (l’ideologia o addirittura la religione del lavoro).
Diversa è la posizione del narratore, il quale sembra essere più consapevole
78
ID., Certi giorni sono più belli di altri, cit., p. 39.
79 Ivi,
p. 33.
80 Ibid.
81
Ibid.
82
Ibid.
83
Ibid.
KARL MARX, Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso (2007), a cura di ENRICO DONAGGIO e
PETER KAMMERER, Milano, Feltrinelli 2017, p. 129. Il passo riportato si trova nei Manoscritti economico-filosofici del 1844.
84
Il protagonista impiegherà a due riprese il verbo “servire” per descrivere il proprio lavoro, a p. 33 e a p.
38.
85
86 A.
FERRACUTI, Certi giorni sono più belli di altri, cit., p. 35.
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LA VOCE AFONA DEL PADRONE
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del giogo a cui è sottoposto il protagonista quando descrive, in termini volponiani,87 la visione che quest’ultimo ha del denaro:
Sente l’odore della cartamoneta. È un odore forte e insolito che sa di
cose disinfettate. Le banconote gli sembrano una cosa enormemente
viva, sono come pesci squamati da tirare via dalle mani del mare. […]
Mentre dormiva e si rigirava inquieto sotto le coperte, mentre sua figlia si
lamentava, incapace di prendere sonno, le banconote si sono riprodotte.
Comunque dovrà darle dei sonniferi, dovrà portarla da un medico […].
Pensa al danaro come un dio onnipotente e invincibile, capace di ogni
cosa.88
Rispetto al Saraccini de Le mosche del capitale, che «confida negli psicofarmaci e nei calcolatori»,89 lo sportellista di Ferracuti fa un passo indietro,
egli è direttamente controllato dalla macchina, «la macchina non si può ingannare in nessun modo».90 Emerge dunque l’immagine di un lavoratore
contemporaneo che non ha più bisogno di un superiore poiché gli ordini gli
provengono direttamente dalla propria intimità, ha introiettato le forme di
controllo e quelle rimaste esterne non hanno più forma umana, ma meccanica: il computer, il terminale.
6
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Una prima constatazione, di natura formale, va fatta sulla congenialità della forma breve al racconto del lavoro: anche nel XXI secolo il paradigma di
riferimento è il racconto di corta durata, tanto per le raccolte, quanto per gli
organismi narrativi di più ampio respiro che tendono a organizzarsi in capitoli brevi e autosufficienti.
L’analisi dei racconti ci mostra una realtà diversa da quella annunciata dalla
manualistica del neo-management durante gli anni Novanta e prontamente
studiata dalla sociologia: le figure del capo o del padrone non sono affatto
scomparse, la gerarchia non ha perso verticalità e peso, tra superiori e sottoposti permangono rapporti generalmente basati sulla prevaricazione, ben più
simili a quelli tra servo e padrone, che non a quelli di colleghi con incarichi e
responsabilità diversi. La letteratura, dunque, rispolvera la propria funzione
di critica alla società e al discorso “dominante”, sebbene impiegando una serie
di stereotipi che fanno apparire i racconti come prevedibili e scarsamente originali. Le immagini che ritornano costantemente in questa produzione sono
infatti molto simili tra loro, si concentrano sui medesimi aspetti; attraverso
protagonisti e narratori che occupano quasi sempre una posizione subalterna, di vittima, si portano avanti constatazioni allarmanti, resoconti sconfortanti, ma anche denunce blande, proteste deboli. Su questo aspetto, le raccolMolto simile la descrizione del capitale nell’incipit di PAOLO VOLPONI, Le mosche del capitale, Torino, Einaudi 1989, pp. 5-9, dove nella città immersa nel sonno, «mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici».
87
88 A. FERRACUTI, Certi
89 P.
giorni sono più belli di altri, cit., pp. 35-36.
VOLPONI, Le mosche del capitale, cit., p. 6.
90 A.
FERRACUTI, Certi giorni sono più belli di altri, cit., p. 37.
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te di racconti si pongono in linea di continuità con quanto emerge dalla letteratura del lavoro contemporanea, ovvero la scomparsa pressoché totale d’ogni
forma di conflittualità, la quale se da una parte è il frutto di un’impostazione
realistica della narrazione, dall’altra fa emergere l’incapacità della letteratura
contemporanea di immaginare mondi possibili, di proporre soluzioni alternative e, in fin dei conti, di contrastare lo slogan thatcheriano there is not alternative. Il racconto ad argomento lavorativo ha ritrovato una funzione che
sembrava aver perso – di denuncia, di critica serrata ai costumi del terziario
avanzato – senza tuttavia conseguire una funzione prospettica e ottativa, capace di congetturare futuri ipotetici: essa rimane inviluppata nell’analisi del
tempo presente.
Dallo studio delle figure dominanti emerge che esse sono maschili nella
quasi totalità dei casi: le donne non raggiungono mai ruoli di responsabilità e
appaiono sempre in una posizione d’inferiorità e ciò indifferentemente nei
racconti scritti da uomini (venticinque) che in quelli scritti da donne
(tredici). Anche qui, tra le ragioni possibili vi è la tendenza al realismo, ma
resta sintomatico che nell’immaginario collettivo maneggiato dagli intellettuali italiani del XXI secolo il ruolo di responsabilità sia esclusivamente affidato a uomini.
Ulteriore caratteristica che affiora dalla nostra analisi è la perdita di corrispondenza tra i vertici gerarchici e il capitale. Quel processo che si iniziava a
intravedere ne Le mosche del capitale per cui il consiglio d’amministrazione
non era l’espressione diretta del capitale, ma un suo indiretto rappresentante
e un intermediario, si consolida ulteriormente: le figure dominanti inserite in
una gerarchia appaiono come parte di un ingranaggio più voluminoso e possente, del quale si direbbe che non hanno consapevolezza. Gli scrittori rinunciano a ricostruire con la loro immaginazione o con le loro conoscenze la
traccia invisibile che lega i piani della realtà aziendale o industriale e preferiscono dare forma narrativa a quanto è già visibile ed esperibile da molti lavoratori piuttosto che indagare quanto permane oscuro. All’epoca della pubblicazione de Le mosche del capitale questo processo di spersonalizzazione era
iniziato da poco più di un decennio e il testo letterario s’inseriva in un contesto in cui era ancora operante il ricordo delle lotte degli anni Sessanta e Settanta, le quali non avevano difficoltà a individuare gli obiettivi polemici (si
pensi al famoso: «Agnelli e Pirelli ladri gemelli»). Oggi questo nesso tra persone fisiche, capitali e imprese è più labile e gli scrittori di narrativa non si occupano di rintracciarlo e mostrarlo, anzi ci ritraggono personaggi che hanno
interiorizzato inconsciamente la norma, introiettato la gerarchia.
Infine, l’ultimo elemento da mettere in evidenza è la compresenza, esplicita
o meno, di tre sentimenti: il senso di colpa, la vergogna, l’accontentamento. I
protagonisti delle vicende, dinanzi alla difficile situazione occupazionale del
Paese, tendono ad abbassare le proprie pretese, ad accontentarsi del poco che
posseggono perché consapevoli e relativamente sereni di non trovarsi nella
più stretta indigenza. Talvolta, come accade nel racconto di Fazzi, i personaggi provano addirittura disagio a manifestare il desiderio di una condizione
più agevole, ne provano quasi ritegno. Il lavoro, in una società in continuo
stato di crisi, finisce con l’essere percepito sempre di più come privilegio, a
prescindere dal salario corrisposto. Sebbene gli scrittori non indaghino in
profondità l’origine e il senso di questi sentimenti hanno il merito di farli affiorare: compito della critica letteraria dovrebbe essere quello di segnalarli,
studiarli e arricchire il registro delle emozioni e dei sentimenti che affiorano
nella letteratura del lavoro, una via ancora tutta da esplorare per comprendeTicontre. Teoria Testo Traduzione – 15 (2021)
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re attraverso le rappresentazioni letterarie le ragioni profonde e le conseguenze sul piano individuale di una metamorfosi del lavoro tuttora in atto.
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PAROLE CHIAVE
Trasformazione del lavoro; rappresentazione dei dirigenti; conflitto di classe; subalternità
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NOTIZIE DELL’AUTORE
Carlo Baghetti, beneficiando di un contratto A*Midex – Académie
d’Excellence, ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica presso le
Università di Roma “La Sapienza” e Aix-Marseille Université, con una tesi
dedicata alle rappresentazioni letterarie del lavoro nell’italia contemporanea
(1994-2018). Ha dedicato studi anche la letteratura industriale e protoindustriale italiana, alla Neoavanguardia - in particolare alla figura di Nanni
Balestrini -, e alla non-fiction italiana. È attualmente ricercatore post-doc
presso la Casa de Velázquez (École des Hautes Études Hispaniques et Ibériques
- EHEHI) e sta ampliando i suoi studi sulle rappresentazioni letterarie di
fenomeni sociali nell’area mediterranea (Italia, Francia, Spagna).
COME CITARE QUESTO ARTICOLO
CARLO BAGHETTI, La voce afona del padrone. Fenomenologia delle figure
dominanti nella narrativa breve italiana del XXI secolo, in «Ticontre. Teoria
Testo Traduzione», 15 (2020)
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