Progetto tecnico scientifico:
Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali di Siracusa
Servizio per i Beni Architettonici
Responsabile unico del procedimento:
Mariella Muti
Progettazione e direzione lavori:
Giovanna Susan
Collaborazione alla progettazione:
Mario Caruso
Ersilia Bazzano
Anna Spada
Collaborazione alla direzione lavori:
Giuseppe Vella
Anna Spada
Comitato tecnico scientifico:
Mariella Muti
Giovanna Susan
Maria Giuffrè
Carlo Cresti
Mario Caruso
Riccardo Giammanco
Autori dei testi:
Mariella Muti
Giovanna Susan
Maria Giuffrè
Carlo Cresti
Stefano Piazza
Segreteria Tecnica:
Anna Spada
Contabilità:
Giuseppe Vella
Progetto grafico e impaginazione:
STRATEGICA
Realizzazione editoriale:
Edibook Giada
A cura della Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali di Siracusa
Servizio per i Beni Architettonici
Le città tardobarocche del Val di Noto
nella World Heritage List dell’UNESCO
Saggi introduttivi
Mariella Muti
Giovanna Susan
Carlo Cresti
Maria Giuffrè
Testi di
Stefano Piazza
Foto di
Lamberto Rubino
Fondi per la realizzazione editoriale:
POR Sicilia 2000/2006 Asse VI - Sottomisura 6.06c - Programma titolarità 2003
Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali e Ambientali e delle Pubblica Istruzione
Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali di Siracusa Servizio per i Beni Architettonici
Le città tardobarocche del Val di Noto nella World Heritage List dell’UNESCO / saggi introduttivi Mariella Muti...[et al.]; testi di
Stefano Piazza; foto di Lamberto Rubino; ideazione, impaginazione e coordinamento editoriale Strategica-Palermo - Palermo:
Edibook Giada, 2008.
ISBN 978-88-903272-2-3
1. Barocco - Sicilia orientale. 2. Città - Sicilia orientale - Sec. 18.
I. Piazza, Stefano <1964->. II. Rubino, Lamberto.
720.94581074 CDD-21
SBN Pal0215828
CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana ”Alberto Bombace”
©2008 Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali e Ambientali e delle Pubblica Istruzione,
Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali di Siracusa Servizio per i Beni Architettonici
Edizione fuori commercio.
Vietata la vendita
Casa editrice Edibook Giada
Il processo di tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio storico della nostra regione passa
anche attraverso progetti come “IL BAROCCO DEL VAL DI NOTO”, i cui obiettivi sono orientati verso la
divulgazione della conoscenza e la promozione dei beni presenti in Sicilia.
L’assessorato è pienamente impegnato in questa direzione perché anche in questa maniera si contribuisce
allo sviluppo dell’intero territorio. Non si può certo nascondere che l’area sud-orientale della Sicilia è
una delle più ricche dal punto di vista storico-architettonico. Ciò è un vanto per l’intera nostra regione
e conseguentemente dobbiamo essere tutti impegnati nella tutela e valorizzazione.
Lo stile barocco è una chiara manifestazione dell’esuberanza siciliana e va classificato tra gli stili più
caratteristici della nostra isola. Valorizzare l’arte della Sicilia sud-orientale significa, pertanto, preservare,
nei tempi, le caratteristiche della personalità siciliana.
Antonello Antinoro
Assessore dei Beni Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione
L’impegno profuso in questi anni dalla Regione Siciliana, anche attraverso l’appropriata destinazione dei
Fondi Europei, per il recupero e la valorizzazione del Patrimonio architettonico e monumentale del Val di
Noto, trova in questa pubblicazione il giusto coronamento, la testimonianza documentale di una vicenda
storica, artistica, sociale ed umana, emblematica della storia stessa della Sicilia e della sua Cultura.
Il pensiero barocco dal quale scaturì la ricostruzione del Val Demone e del Val di Noto, dopo l’immane
terremoto del 1693, con la sua originale declinazione locale, resta un unicum nella storia dell’Arte e
dell’Architettura dell’intero mediterraneo, pur avendo avuto la capacità di captare e rileggere con eleganza
accenti straordinari del coevo mondo continentale.
L’attenzione che questo Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali ha dedicato a tutte le iniziative volte
al recupero ed alla valorizzazione di quest’area straordinaria del sud–est della Sicilia, è stata peraltro
coronata dall’inserimento, di questa, nella World Heritage List dell’UNESCO .
Un grande riconoscimento e, al tempo stesso, un forte impegno istituzionale e collettivo a proseguire su
questo cammino.
Romeo Palma
Dirigente Generale del Dipartimento
dei Beni Culturali e Ambientali e dell’Educazione Permanente
Indice
SAGGI INTRODUTTIVI
Mariella Muti
Le città tardobarocche del Val di Noto,
dal “caso Noto” all’iscrizione nella World Heritage List
Giovanna Susan
Il Barocco del Val di Noto: un processo di conservazione,
valorizzazione e promozione
Carlo Cresti
Il Val di Noto: tripudio barocco
Maria Giuffrè
Val di Noto: una “capitale del Barocco”
PREMESSA
CAPITOLO I
IL TERREMOTO DEL 1693: DISASTRO E RICOSTRUZIONE
L’evento sismico e i problemi della ricostruzione
L’azione del governo spagnolo
Le comunità urbane
Il ruolo della Chiesa
Il coinvolgimento della nobiltà terriera
La realtà professionale fra tradizionalismo e rinnovamento
Prassi di cantiere e formazione intellettuale
CAPITOLO II
IL DIBATTITO ARCHITETTONICO
La nuova forma della tradizione: le opere del primo trentennio del Settecento.
Le esperienze catanesi
L’imporsi dei temi della cultura locale
I tentativi di innesto del classicismo romano
Le nuove esperienze: opere e protagonisti del secondo trentennio del Settecento.
Giovan Battista Vaccarini
Giuseppe Palazzotto e la prima attività di Francesco Battaglia
Pietro Paolo Vasta
Rosario Gagliardi
Vincenzo Sinatra
Il perdurare della tradizione
Dagli anni Sessanta agli anni Novanta del Settecento: l’ultima stagione del Barocco.
Le chiese di San Nicolò e di Santa Maria della Stella
Modica
La chiesa di San Giorgio
La chiesa di San Pietro
Noto
La chiesa di Santa Chiara
La chiesa di San Domenico
Il collegio dei Gesuiti e il monastero del SS. Salvatore
Il duomo di San Nicolò
Il palazzo Ducezio
Stefano Ittar e l’opera tarda di Francesco Battaglia
Paolo Labisi e lo scontro con i capomastri del Val di Noto
Palazzolo Acreide
Le chiese di San Sebastiano e di San Paolo
La reazione classicista
Ragusa
La chiesa di San Giorgio
La chiesa di San Giovanni Battista
CAPITOLO III
LE CITTÀ
Caltagirone
La chiesa del collegio dei Gesuiti
La chiesa di San Francesco d’Assisi
Catania
La cattedrale di Sant’Agata
L’abbazia dei Benedettini e la chiesa di San Nicolò L’Arena
La chiesa e il collegio dei Gesuiti
La chiesa della Badia di Sant’Agata
La chiesa di San Giuliano
La chiesa di Santa Maria dell’Elemosina (Collegiata)
Il palazzo Biscari
Militello Val di Catania
La chiesa e l’abbazia di San Benedetto
Scicli
La chiesa di San Giovanni Evangelista
La chiesa di San Bartolomeo
BIBLIOGRAFIA
Saggi introduttivi
LE CITTÁ TARDOBAROCCHE DEL VAL DI NOTO
DAL “CASO NOTO” ALL'ISCRIZIONE NELLA WORLD HERITAGE LIST
Gli eventi traumatici dovuti ai violenti terremoti che nel tempo si sono susseguiti nel Val di Noto hanno
prodotto grandi mutamenti con influenze non solo nell'architettura e nell'urbanistica, ma anche sullo sviluppo culturale e sociale della Sicilia sud-orientale.
La ricostruzione che ha fatto seguito al rovinoso sisma del 1693, la più vasta e articolata nel panorama
europeo, ha introdotto non solo nuovi canoni stilistici rielaborando gli stilemi del barocco, in particolare
quello romano, ma ha diffuso nella società settecentesca prassi e modelli organizzativi che hanno determinato una netta distinzione con la cultura del secolo precedente.
L'immediata riedificazione delle città ad opera dell'Amministrazione Spagnola, sotto il controllo del Duca
di Camastra, con l'impegno, senza distinzioni, di tutta la popolazione, dall'aristocrazia al clero, dagli
architetti ai mastri lapicidi, ha prodotto il rinnovamento dell'immagine complessiva del Val di Noto, rendendo preminente fino ai nostri giorni la facies barocca.
Gli studi più recenti hanno contribuito ad evidenziare le differenti articolazioni che la ricostruzione tardobarocca ha avuto da sito a sito, mettendo in luce i fattori che le hanno determinate, che vanno dalle
diverse caratteristiche geomorfologiche dei luoghi alle risorse economiche, dalle vicende politiche al lavoro e alla sensibilità artistica degli architetti che hanno operato.
Forti analogie si possono riscontrare fra quanto accaduto nel corso della ricostruzione settecentesca e
l'attività che ha fatto seguito al sisma del 13 dicembre 1990, detto di Santa Lucia, che ha infierito sugli
stessi luoghi a distanza di quasi trecento anni.
Già nel corso degli anni ottanta del XX secolo fu lanciato da parte della comunità scientifica internazionale un grido d'allarme per promuovere il recupero del patrimonio barocco della Sicilia orientale, che versava
in un grave stato d'abbandono e di degrado tale da farlo ritenere in parte irrimediabilmente compromesso.
La Regione Siciliana, cui compete la tutela in quanto regione a statuto speciale, sotto la spinta del clamore sollevato erogò finanziamenti, anche cospicui, ma che, considerata l'imponenza del patrimonio su
cui era necessario intervenire, servirono solamente per la messa in sicurezza dei monumenti più degradati, quelli dei quali si paventava addirittura il crollo.
I finanziamenti furono utilizzati prevalentemente per la messa in sicurezza degli edifici di maggior pregio artistico della città di Noto, da sempre considerata la capitale del barocco siciliano e resa celebre dalla
appropriata frase di Cesare Brandi che la definì “il giardino di pietra”.
Per anni i visitatori furono costretti ad accontentarsi di ammirare quanto poteva emergere dai possenti
ponteggi installati a protezione della pubblica incolumità.
Il “caso Noto” ha rappresentato l'emblema dello stato di degrado in cui versava gran parte del patrimonio culturale di questa area della Sicilia orientale, ma anche tutte le altre città, comprese quelle più
importanti, quali Catania, Siracusa e Ragusa, che pur essendo capoluoghi di provincia, presentavano le
stesse drammatiche problematiche.
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Le cronache ci riportano purtroppo anche la notizia di alcuni crolli fra i quali l'episodio più eclatante
rimane sicuramente il cedimento di un'ala del convento dei Gesuiti a Noto.
e soprattutto quasi sempre destinati a risolvere situazioni d'emergenza e raramente a portare a termine
progetti completi di recupero e valorizzazione dei monumenti.
A compromettere ulteriormente il patrimonio architettonico si aggiunse, come accennato prima, il terremoto del dicembre del 1990 che interessò nuovamente il territorio del Val di Noto, uno dei tre valli in cui
sotto la dominazione araba fu suddivisa amministrativamente la Sicilia.
In questo contesto furono immesse cospicue risorse finanziarie: circa cinquecento miliardi delle vecchie
lire, per il miglioramento sismico degli edifici di pregio architettonico e di culto, di cui circa trecento
miliardi per la sola provincia di Siracusa e circa millecinquecento miliardi per il recupero del patrimonio
edilizio privato delle tre province, a cui poi si sono aggiunti ulteriori stanziamenti per poter operare anche
in altri territori, come quello messinese, anch'esso caratterizzato da un elevato rischio sismico.
Nei giorni concitati che fecero seguito al rovinoso evento, mentre si prestava soccorso alla popolazione
e si piangevano purtroppo anche delle vittime, si mise in moto, da subito, la macchina organizzativa dello
Stato e della Regione.
Furono valutati i danni causati dal sisma e si approntarono in tempi brevissimi le misure urgenti per la
messa in sicurezza dei monumenti, ma soprattutto si diede inizio ad un programma di interventi per il
recupero dell'eccezionale patrimonio architettonico.
Il governo nazionale varò una legge apposita, la n° 433/91, per finanziare il recupero e il consolidamento sia del patrimonio monumentale pubblico, sia di quello abitativo privato.
Iniziò così, come nel Settecento, un grande progetto di recupero che ha innescato un interessante processo di rinnovamento e che ha imposto l'adozione di un nuovo modello di sviluppo basato sulla valorizzazione dei beni culturali.
Ma, come ai tempi del Duca di Camastra, il coordinamento della macchina organizzativa ha comportato un notevole dispendio di tempo e risorse umane, determinando un ritardo iniziale nell'attivazione delle
procedure amministrative, anche in relazione ad alcune incertezze inerenti l'attribuzione delle responsabilità ai vari centri decisionali.
Infatti realizzati i primi interventi, quelli di somma urgenza, il programma di ricostruzione subì dei forti
rallentamenti. È in questo quadro di grande difficoltà che si inserisce un altro traumatico evento che
impose una nuova, forte accelerazione.
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Progettisti, funzionari, imprese e soprattutto maestranze erano assolutamente impreparati per affrontare un'opera di questa entità e complessità.
Il lavoro svolto dalla Soprintendenza insieme ai tecnici della Protezione Civile è stato arduo e faticoso.
Si è trattato di trasferire in tempi brevissimi le esperienze maturate sul campo, frutto delle ricerche e dei
confronti anche con il mondo accademico, a tutti i professionisti impegnati nel programma di recupero del
patrimonio architettonico, che spesso erano assolutamente privi di esperienza nel campo del restauro.
Le maggiori difficoltà si sono incontrate nella formazione delle maestranze, visto che il numero eccessivo degli interventi non consentiva più il trasferimento dei “mastri” specializzati da un cantiere all'altro
come nel periodo precedente al terremoto del '90 e come avveniva, altro punto di contatto, nei cantieri
della ricostruzione tardo-barocca.
Era inevitabile che nell'ambito di un programma di questa entità venissero commessi alcuni errori, cui in
corso d'opera si è cercato di porre tempestivamente rimedio, ma il giudizio complessivo non può che essere positivo in quanto l'opera di consolidamento e restauro dell'enorme patrimonio barocco del Val di Noto
è stata condotta in maniera egregia, recuperando le tecniche e le metodologie antiche e utilizzando i
materiali costruttivi locali della tradizione.
La sera del 13 marzo del 1996 la cupola e due delle tre navate della cattedrale di Noto crollarono, fortunatamente senza provocare vittime.
Ogni intervento che ha comportato l'adozione di nuove tecnologie è stato accuratamente valutato, verificando attentamente che rispondesse ai criteri dettati dalla carta del restauro e risultasse il meno invasivo possibile.
Il clamore mediatico suscitato dall'evento riaccese l'attenzione internazionale sul tema della salvaguardia del patrimonio barocco e impresse un forte impulso al programma di interventi per la riparazione dei
danni causati dal sisma di sei anni prima.
Fra le tante realizzazioni l'esempio paradigmatico è quello della cattedrale di Noto, la cui cupola insieme
alle navate sono state rigorosamente ricostruite in muratura secondo le metodologie antiche, impiegando per gli archi e le volte, centine in legno e malte a base di calce.
Lo Stato intervenne nuovamente e finanziò il progetto per la ricostruzione della cattedrale di San Nicolò
con uno stanziamento di circa trenta milioni di euro.
È intendimento della Soprintendenza di Siracusa, al fine di non disperdere le preziose esperienze maturate, costituire una banca dati che raccolga le informazioni tecniche sui progetti realizzati grazie ai finanziamenti stanziati con la Legge 433/91 e con Agenda 2000.
Il forte trauma rese finalmente tutti consapevoli dell'importanza di dover dar corso all'attuazione degli
interventi di consolidamento in tempi strettissimi al fine di scongiurare il pericolo che eventi del genere
potessero ripetersi, imponendo l'adozione di procedure più spedite ed efficaci.
I tecnici e gli studiosi potranno così disporre di uno strumento utile per l'approfondimento dei vari temi,
indirizzato soprattutto alla programmazione e all'attuazione dei prossimi interventi di restauro.
L'operazione è stata estremamente complessa e ha presentato livelli di difficoltà tali che, a opera quasi
conclusa, induce a riflessioni attente specie sugli aspetti tecnici legati ai cantieri di restauro.
A seguito del clamore suscitato dal crollo della cupola della cattedrale di Noto l'UNESCO si è attivato per
verificare lo stato di conservazione del patrimonio culturale e sottoporlo anche alla propria tutela.
L'avvio delle opere di consolidamento, infatti, interessò un settore asfittico, quale quello dei lavori edili,
dove peraltro gli interventi di restauro realizzati fino ad allora erano stati numericamente insignificanti
Dopo una lunga e severa istruttoria, nel giugno del 2002, nel corso della ventiseiesima seduta del
Comitato tenutasi a Budapest, è stata accolta favorevolmente la richiesta di inserimento del sito “Le città
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tardo barocche del Val di Noto” nella World Heritage List, riconoscendo l'eccezionale valore del patrimonio architettonico barocco della Sicilia sud-orientale.
Di tutta l'area interessata dal terremoto del 1693 e oggetto del processo di ricostruzione, il prestigioso
riconoscimento è stato riservato soltanto ad otto città (Catania, Caltagirone, Militello Val di Catania,
Noto, Palazzolo Acreide, Modica, Ragusa e Scicli) in quanto ritenute le più rappresentative dell'esaltante
esperienza culturale, offrendo ciascuna uno spaccato di quella straordinaria e illuminata stagione che la
lunga schiera di viaggiatori e letterati nel Settecento e nell'Ottocento ha degnamente celebrato e che
rappresenta una parte della nostra storia, del nostro passato e della nostra identità.
“L’immagine dell’anima la si trova soprattutto nell’arte della Sicilia.“
J. W. Goethe
Si è reso infatti indispensabile per ottenere il prestigioso riconoscimento redigere un piano di gestione per
promuovere e assicurare la conoscenza, la tutela e soprattutto la valorizzazione dei beni culturali.
Il territorio dell’antico Val di Noto, corrispondente all’attuale area della Sicilia sud-orientale, costituisce
un patrimonio dal valore universale, formatosi sostanzialmente in epoca tardo-barocca, e in particolare
dopo il terremoto del 1693: un evento determinante per lo sviluppo dell’architettura di questo territorio.
Sulle ceneri del sisma, furono ricostruite diverse decine di centri urbani, comprendenti alcune tra le più
importanti città dell’isola, trasformando l’intera area in un enorme cantiere, il più grande sicuramente
dell’Europa settecentesca.
Fra i tanti obiettivi fissati quello più stringente è sicuramente il coinvolgimento dei soggetti privati nel
processo di valorizzazione, viste le difficoltà incontrate dalla Pubblica Amministrazione nella gestione
delle limitate risorse economiche disponibili e l'eccessiva rigidità del sistema organizzativo interno.
Questo eccezionale sforzo “moderno”, come lo definisce Giulio Carlo Argan1, compiuto dalla cultura siciliana, si svolge in un momento in cui la Sicilia viene individuata dall’Impero spagnolo come periferia,
luogo di frontiera2.
La tendenza è quella di pervenire ad una maggiore partecipazione dei privati, sia con finalità di lucro che
no profit, attraverso la sperimentazione di modelli capaci di superare la scarsa efficienza ed economicità degli strumenti gestionali classici.
La riedificazione delle città venne immediatamente intrapresa sotto l’impulso del governo vicereale, delle
autorità locali, dell’aristocrazia, degli urbanisti e degli architetti, offrendo l’occasione per realizzare un
intenso processo di rinnovamento. Il fenomeno della ricostruzione non assunse, tuttavia, nelle varie zone
interessate, caratteri di omogeneità.
Con l'iscrizione UNESCO si è aperto un nuovo capitolo della storia della gestione del patrimonio culturale di questo territorio.
In particolare matura la consapevolezza che è di interesse pubblico allargare lo spettro dei soggetti chiamati a vario titolo alle funzioni di gestione del patrimonio, riservando comunque all'istituzione pubblica
l'attività di tutela attribuita per mandato costituzionale.
L'auspicio è che dal dibattito in corso emergano i presupposti per l'avvio di forme diverse e innovative di
collaborazione tra pubblico e privato, ispirate a criteri di efficienza ed efficacia, che contribuiscano all'affermazione di un nuovo modello di sviluppo sostenibile basato sulla risorsa più importante presente nel
territorio: i beni culturali.
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IL BAROCCO DEL VAL DI NOTO:
UN PROCESSO DI CONSERVAZIONE, VALORIZZAZIONE E PROMOZIONE.
Mariella Muti
Alcune città vennero ricostruite sullo stesso sito, come Catania, dove al terremoto, come sottolinea
Angela Guidoni Marino «segue l’introduzione di nuove norme lavorative e il rivoluzionamento di abitudini che portano ad una distinzione fra l’architettura del Seicento e quella del secolo successivo»3. Nella
città particolare importanza per l’investimento edilizio di questo primo periodo della ricostruzione, affidato al controllo del Duca di Camastra e dell’ingegnere militare Grunembergh, è il ruolo imprenditoriale
assunto dagli ecclesiastici e dalle classi emergenti.
In particolare modo i primi, che cominciano a costruire edifici dimensionalmente notevoli - il monastero
dei Benedettini ne è un esempio - affidano l’ideazione e l’esecuzione delle opere alle maestranze artigiane dei lapidum incisores, provenienti dalle città vicine, che si rifacevano a moduli tecnico-espressivi
acquisiti dalla tradizione locale. L’arrivo a Catania intorno agli anni ’30 di Giovan Battista Vaccarini, una
figura culturalmente “avanzata”, introduce nella città quel filone colto ed erudito in linea con lo sviluppo delle correnti di pensiero del “barocco romano”.
Altre città vennero interamente ricostruite in un nuovo sito, come il caso di Noto. Qui i contrasti derivanti da questa scelta, mettono in luce, più che altrove, come il terremoto faccia emergere e scateni tensioni: le classi urbane emergenti, gli ecclesiastici ed il ceto nobile minore, riuscirono ad esercitare
un’influenza determinate sulle scelte per la ricostruzione, evidenziando la profonda crisi in cui si trovavano il potere militare spagnolo e la vecchia classe baronale.
La classe dirigente urbana riesce ad avere, nella progettazione della città, uno spazio autonomo di intervento e si affida ad architetti di affermata fama regionale; fra questi emerge la figura di Fra Angelo Italia,
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che arriva a Noto nel 1696, a cui si deve il progetto urbanistico della città, facendo di Noto «non un episodio provinciale, ma un episodio di una cultura europea ricollegata ad un movimento di pensiero chiaramente illuminista»4.
La progettazione architettonica viene affidata ad una élite di architetti locali, tra cui emergono
l’architetto matematico Francesco Maria Sortino, il suo allievo Paolo Labisi, Vincenzo Sinatra e Rosario
Gagliardi, tra tutti di certo la figura più rilevante e in grado di esercitare una notevole influenza sul dibattito architettonico del XVIII secolo in Val di Noto.
Altre città, ancora, un esempio ne sono Modica, Siracusa e Palazzolo Acreide, «al terremoto non segue un
rivoluzionamento di abitudini e l’introduzione di nuove norme lavorative»5. Gli equilibri consolidati non
vengono sconvolti, per questo nell’architettura prima e dopo il terremoto, permane una situazione di continuità, garantita, nel campo della produzione architettonica, da una forte presenza locale di maestranze
artigiane, rappresentate da un gruppo di famiglie di capomastri che formano delle vere e proprie dinastie.
Per queste città la ricostruzione avvenne secondo i vecchi allineamenti, rispettando il tessuto urbano esistente che, per alcune zone, risaliva al periodo greco-arcaico e concentrando l’edilizia rappresentativa nel
nodo della piazza principale e lungo assi stradali privilegiati, oppure, come nel caso di Ragusa, ampliando il nucleo urbano in un’area limitrofra, con il conseguente sdoppiamento tra città storica e città
“moderna”.
Tra tutti i centri del Val di Noto, otto - Caltagirone, Catania, Militello, Modica, Noto, Palazzolo Acreide,
Ragusa, Scicli - nel 2002 sono stati inseriti nella World Heritage List dell’UNESCO, come parti costituenti il sito “Le città tardobarocche del Val di Noto”.
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valorizzazione e promozione dei beni del sito da parte dei vari soggetti attivi sul territorio. A tal fine è
stato sviluppato il progetto “Il Barocco del Val di Noto”, i cui obiettivi sono orientati verso la divulgazione della conoscenza e la promozione degli ambienti urbani insigniti dal riconoscimento UNESCO e, al
contempo, all’avvio di un proficuo scambio di esperienze, comprendenti partner internazionali, sulle tecniche e le strategie adottate per la conservazione e gestione dei beni culturali.
Partendo dall’attenta ricognizione dell’esistente, si sta procedendo alla costituzione di una “Banca Dati”
di tutti i beni rilevanti, delle ricerche e gli studi storico-archivistici e documentari precedentemente realizzati, dei testi a carattere scientifico e divulgativo, delle indagini e dei progetti già attuati in precedenza, al fine della loro capitalizzazione e valorizzazione attraverso la loro catalogazione e correlazione
sinergica, da porre in atto anche attraverso supporti digitali e un Portale web in continua evoluzione e
aggiornamento, in modo da garantirne la massima diffusione internazionale.
Il progetto prevede altresì lo svolgimento di attività di cooperazione decentrata nel settore della cultura,
in particolare verso alcuni dei Paesi con i quali sono già in atto, da parte della Soprintendenza, missioni
di internazionalizzazione e lo svolgimento di attività di partenariato, volte a collegare le istituzioni regionali con partner internazionali, per la divulgazione e la condivisione della conoscenza dei processi di
gestione dei beni, nella consapevolezza dell’eccezionale valore storico cultuale del sito.
Lo scopo del progetto “Il barocco del Val di Noto” è, in definitiva, quello di contribuire affinché la storia
della Sicilia sud-orientale, sia più concretamente, così come è nelle finalità dell’UNESCO, Patrimonio
dell’Umanità.
Giovanna Susan
I centri storici scelti per l’inserimento nella lista del Patrimonio Mondiale vanno considerati come esempi particolarmente rappresentativi del fenomeno nel suo complesso, come è ampiamente riconosciuto
nella motivazione adottata dall’UNESCO per l’iscrizione del Val di Noto nel Patrimonio dell’Umanità:
«Questo gruppo di città del sud-est della Sicilia fornisce una notevole testimonianza del genio esuberante dell’arte e dell’architettura del tardo Barocco. Le città del Val di Noto rappresentano l’apice e la fioritura finale dell’arte Barocca in Europa. L’eccezionale qualità dell’arte e dell’architettura del tardo Barocco
del Val di Noto la posizionano in una omogeneità geografica e cronologica [....]. Le otto città del sud-est
della Sicilia che hanno presentato questa richiesta sono l’esempio di sistemazione urbanistica in questa
zona permanentemente a rischio di terremoti ed eruzioni da parte dell’Etna».
Il prestigioso riconoscimento da parte dell’UNESCO è stato possibile grazie ad un intenso lavoro di coordinamento eseguito dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Siracusa, cui resta in capo il
coordinamento delle azioni generali derivanti dall’attuazione del Piano di Gestione del Sito in collaborazione con le Amministrazioni provinciali e comunali interessate. In ragione dell’inserimento nella World
Heritage List, il positivo processo di tutela conservazione e valorizzazione di questo inestimabile patrimonio storico, già in atto, si è ulteriormente intensificato. L’impegno della Soprintendenza si è quindi rinnovato attraverso la promozione e il concreto sviluppo non solo di opere di restauro, di studio e di ricerca,
ma anche di proficui scambi culturali.
In questo contesto si è ritenuto utile procedere con l’attivazione di una serie coordinata di azioni, convergenti in una base conoscitiva unitaria, scientificamente definita, a supporto delle più articolate attività di
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G. C. Argan, Prefazione a F. Minissi, L’Architettura religiosa del ‘700 in Sicilia, Roma 1958, pag.VII.
2 M. Manieri Elia, Intervento sul tema “Il Barocco in Sicilia tra conoscenza e conservazione: problemi di metodo”, in Seminario di Studi, Siracusa,
dicembre 1982.
3 A. Guidoni Marino, Urbanistica e Ancien Régimè nella Sicilia barocca, in «Storia della città», II, 1977.
4 C. Brandi, Un giardino di Pietra, in L’Architettura di Noto, Atti del Simposio Internazionale, Siracusa, 1979, pag. 82.
5 S. L. Agnello, La rinascita edilizia a Siracusa, dopo il terremoto del 1693, in «Archivio Storico Siciliano», s.III, IV, 1950-51, pag. 450.
IL VAL DI NOTO: TRIPUDIO BAROCCO
Per chi ha eletto il “bello” a costante impegno di militanza culturale e di godimento estetico, è fatale
innamorarsi della Sicilia, terra traboccante di splendide testimonianze di tante civiltà: la greca e la romana, l’araba e la cristiana, la sveva e la normanna. Come è pure fatale che un’indole vocazionalmente
entusiastica e immaginativa sia partecipe di una speciale passione per le magnifiche, avvincenti immagini naturali e architettoniche offerte dalla Sicilia sud-orientale.
I miei incontri con le città del Val di Noto, avvenuti nel 1999, 2000 e 2003, non sono stati determinati dal
desiderio di conoscere antichi miti e prodigi, remote o recenti leggende, bensì - inizialmente sollecitato
dallo stimolo delle “parlanti” foto di Giuseppe Leone - sono invece dipesi dall'esigenza e dal piacere di
poter vedere al vero, e toccare con mano, specialmente le architetture della “ricostruzione” barocca susseguente al rovinoso terremoto del 1693, nonché dalla speranza di catturare - se possibile - il mistero
delle fascinose creature di pietra che, con patenti di originalità, compongono le figurate mensole dei settecenteschi balconi sporgenti su strade e piazze di Noto, Ragusa, Scicli, Modica, Palazzolo Acreide e
Siracusa.
Per un fiorentino quale sono, annoiato dalla parsimoniosa “misura” e dalla compostezza un po' algida
(bianca e grigia) della ipercelebrata architettura toscana del Quattrocento, il contatto con le forme di
prorompente dinamicità e di dilagante esuberanza del “barocco” del Val di Noto, ha suscitato una emozione diversa, intensa, salutare, eccitante, rigenerativa.
Sono stato conquistato dai trasgressivi virtuosismi creativi che presiedono la progettazione e la costruzione delle facciate di alcune chiese dalle volumetrie debordanti, imponenti, stupendamente pletoriche,
ricolme delle acrobazie formali di volute, torciglioni, fastigi di nicchie e portali, campanili a guglia, angioloni ignudi e tondi roteanti su turgide nuvole di pietra, ciondolanti da cornicioni, sorreggenti cartigli o
medaglioni, e statue di Santi immobili in positure teatrali e inaspettatamente stupefatti dei loro innaturali gesticolii.
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Mi hanno entusiasmato e “stregato” queste favolose apparizioni di pietra, queste presenze architettoniche, molte delle quali le ho osservate nel silenzio di taluni meriggi d’agosto, folgorate dal sole che, in questi luoghi, ha l'assordante sonorità di un maestoso rombo; e il conseguente spontaneo impulso è stato
quello di urlare di gioia spirituale per la sublime visione che mi era abbondantemente concessa.
Non si può assistere a tali spettacoli senza diventarne partecipi con convinto fervore, e altresì senza
venire coinvolti dall'avvolgente ed esaltante abbraccio di ampi “palcoscenici” curvilinei (come la cortina di archi che contorna il sagrato di Santa Maria Maggiore a Ispica), o di chiese innalzate in posizioni dominanti da raggiungere mediante scalee di dimensioni regali (si pensi a quella corredata dalle statue dei Santi Apostoli che conduce al San Pietro, in Modica), o di larghe facciate configurate come enormi “retabli”, di pietra bionda, dalle superfici animate di opulenti ornati realizzati, con «linguaggio di
lusso» o popolare, da magistrali “lapidum incisores”. È sufficiente ricordare, in proposito, la trionfale convessità del prospetto della chiesa matrice di San Giorgio a Ragusa Ibla, nonché, sempre a Ragusa,
l’incalzante crescendo verticale del fronte della chiesa di San Giuseppe. E ancora riaccarezzare con la
memoria il vigoroso modellato dell'alzato esterno di San Bartolomeo, a Scicli, proiettato sul fondale pie-
troso di un paesaggio da tebaide; o la disposizione a raggiera delle colonne trabeate aggettanti dal corpo
centrale e gonfiante della facciata del San Domenico a Noto, in contrappunto con la vicina concavità
della parte anteriore della chiesa di Montevergine a capo di via Nicolaci: manifestazioni entrambe confermative delle qualità seduttive della struttura architettonica della città regina del barocco, non a caso
definita «Urbs ingeniosa», «Giardino di pietra», e «Fata morgana».
Ma l’esemplificazione più emblematica dell’iperbole barocca in Val di Noto si identifica, a Modica, nell’acuto formale della infinita scalinata che, a ondate successive dai vari ripiani, con inizio e conclusione
nella torreggiante, incombente facciata della chiesa madre di San Giorgio, invera la metafora della
“caduta” nella ripida tumultuosa colata di gradini, e della possibilità di risorgenza, dal basso, per l'ascesa
verso il cielo.
Tra le suggestive epifanie barocche inventate in Val di Noto si distingue inoltre l’assortimento plasticolapideo delle figurazioni mostruose, grottesche, scaramanticamente beffarde, dalle occhiate oblique,
minacciose o ammiccanti, che popolano e aggettivano di fantastico le mensole sulle quali poggiano le
“ribalte” dei balconi, dai panciuti parapetti in ferro battuto, incaricate del compito di impreziosire le facciate di palazzi e “case palazzate”.
I tanti incanti di meraviglie pietrificate, i grandi orgogliosi manufatti barocchi dal respiro mediterraneo,
dall'autonomo connotato morfologico, e pure quelli apparentemente minori, quali “icòne” sacre e profane significanti la volontà di reagire alla funesta terribilità del cataclisma sismico, costituiscono oggi un
organico, irripetibile patrimonio architettonico e ambientale di straordinaria rilevanza espressiva, che ha
assunto anche e soprattutto il rappresentativo valore di luogo-simbolo.
Carlo Cresti
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VAL DI NOTO: UNA “CAPITALE DEL BAROCCO”
Riferendosi soprattutto all’area del Val di Noto, Giulio Carlo Argan ha definito il barocco siciliano «testimonianza di uno sforzo “moderno”: il più grandioso e il più audace, forse, che l’isola abbia mai prodotto»; alcuni anni dopo Christian Norberg-Schulz ha scritto, ancora: «L’architettura tardobarocca più viva e smagliante
d’Italia si trova in Sicilia». Sono due tra le molte, autorevoli, testimonianze che comprendono, anche, i giudizi entusiastici di altri, illustri, storici dell’arte e dell’architettura, siciliani e non, come Rudolf Wittkower,
Anthony Blunt, Anna Maria Matteucci, Salvatore Boscarino, e, ancora, i contributi più circoscritti di Stephen
Tobriner su Noto, di Paolo Nifosì su Modica e Scicli, e di altri, oltre che l’attenzione scientifica costante del
Centro Internazionale di Studi sul Barocco, diretto da Lucia Trigilia. Il riconoscimento dell’UNESCO ha poi
coronato con il proprio prestigioso patrocinio questi assunti, e, insieme, prospettato la necessità di altri sviluppi: nel senso individuato dagli itinerari di ricerca di Stefano Piazza che qui si pubblicano e che confermano al Val di Noto, laddove ce ne fosse stato ancora bisogno, il ruolo di “capitale del barocco”, come enuncia
il nostro titolo.
Insomma, la qualità del barocco nel Val di Noto trova unanime consenso tra gli addetti e anche tra i non
addetti ai lavori, ed è tale da informare di sé l’intera storia dell’isola, nella quale occupa un posto privilegiato e costituisce elemento trainante. Ma quanto di questo patrimonio è realmente noto al vasto pubblico,
quanto dei suoi specifici caratteri che lo pongono all’attenzione internazionale incide sull’offerta culturale e
turistica che la Sicilia intende costruire nel suo futuro? A queste finalità vuole rispondere l’attività promossa
dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Siracusa con le azioni che, nel quadro del progetto POR
Sicilia 2000-2006, la vedono presente con mostre, convegni, proiezioni di video in Portogallo, a Lisbona (in
occasione dell’esposizione per il 250° anniversario della ricostruzione della città, dopo il terremoto del 1755),
e poi in Sicilia, a Noto (ottobre 2008).
22
La presenza di eventi traumatici come i terremoti può costituire infatti una base comune per confronti tra
aree diverse, analizzando comportamenti ed esiti progettuali. In tal senso e in prima istanza, sulla base delle
ricerche di Stefano Piazza qui esposte, e riferite esclusivamente al Val di Noto, sono stati opportunamente
coinvolti, nelle manifestazioni programmate, altri luoghi della Sicilia, come in particolare Palermo e Messina,
e aree geografiche esterne all’isola con le quali instaurare in futuro rapporti di reciproca collaborazione scientifica. Alludiamo a Lisbona, alla Spagna, all’isola di Malta, aree caratterizzate, al pari del Val di Noto, da rifondazioni urbane e architettoniche nell’età barocca: soluzioni elaborate a distanza ma talvolta stranamente
simili per gli atteggiamenti culturali dei protagonisti e per l’uso aggiornato delle fonti libresche e incisorie.
La civiltà della pietra “a vista” nel Val di Noto attraversa il lungo medioevo e approda al barocco; scompare
in gran parte, travolta dal terremoto del 1693, per essere poi riconquistata nell’epopea della grande ricostruzione, affidata all’opera di esperti maestri, diffusa sul territorio, rifondata nei suoi specifici connotati, concretizzata nella costruzione di nuove città dove l’anonimia della scacchiera viene sfrangiata dalle grandi architetture, civili e religiose, che testimoniano, per quantità e qualità, l’importanza del fenomeno e giustificano
la vastità dell’interesse collettivo.
Protagonisti si rivelano, quindi, non tanto il potere politico che pur sovrintende alle prime fasi delle operazioni (è famosa l’immagine del duca di Camastra sul suo cavallo bianco) quanto la committenza, religiosa e nobiliare, dotata di grandi possibilità economiche e di ampia cultura, ma soprattutto gli operatori
del cantiere, dagli architetti ai maestri artigiani, eredi, gli uni e gli altri, di una lunga e sapiente tradizione
costruttiva e decorativa. I primi, gli architetti – alcuni reduci esclusivamente da apprendistati presso le botteghe artigiane paterne, altri resi forti e competitivi anche da esperienze esterne all’isola - riescono a coniugare e talora a fondere con genialità linguaggio internazionale e genius loci, usufruendo spesso dell’apporto di libri, disegni e incisioni, la cui circolazione all’interno dei cantieri è caratteristica dei tempi tardobarocchi: una commistione di tradizione e innovazione che, dimostrata da recenti studi, raggiunge esiti brillanti nel
San Giorgio di Modica, per citare un esempio tra i più pregnanti e illustri. I secondi, i maestri artigiani – esperti del taglio della pietra, eredi di una sedimentata sapienza costruttiva, fantasiosi inventori di apparati decorativi - sono i veri protagonisti del cantiere, dove assumono ruoli diversi e talora intrecciati tra loro.
Sulla base di una sintesi generale che qui viene proposta, arricchita da approfondimenti su luoghi, protagonisti, temi, tipologie, legati ai siti UNESCO del Val di Noto, le prospettive, di analisi e di confronto, impongono oggi la stessa area all’attenzione internazionale. L’attivazione concreta di questo percorso prevede, ad
opera delle istituzioni preposte, la sistematizzazione dei materiali raccolti secondo fasi successive, alcune già
concluse o in atto:
la fase della conoscenza, a partire da quanto già effettuato (ricerche storiche, campagne fotografiche mirate, rilievi, disegni storici da acquisire in originale o in riproduzione, stampe e incisioni, mappe catastali e piante urbane, schede urbane e architettoniche, filmati, progetti di restauro ordinati secondo tipologie e metodologie di intervento, formazione di una biblioteca specializzata);
la fase della comprensione e della utilizzazione critica dei materiali individuati, intesi come sistemi aperti e
provvisori, suscettibili di incrementi e approfondimenti;
la fase della divulgazione, attraverso la sistematizzazione delle conoscenze acquisite usufruendo anche di
appositi siti informatici, accessibili a una vasta utenza e proposti come griglie da riempire per successivi
approfondimenti;
la fase della valorizzazione del patrimonio barocco del Val di Noto, sia attraverso l’individuazione di una gradualità di interventi prioritari finalizzati alla conservazione e al restauro, sia attraverso l’organizzazione di
conferenze, convegni internazionali, seminari scientifici, viaggi e visite guidate, itinerari tematici, da svolgere in collaborazione con l’università, le istituzioni, i centri e le associazioni culturali.
Queste iniziative dovrebbero convergere verso la creazione di un Museo del Barocco in Val di Noto, che
potrebbe trovare la sua sede più congeniale proprio nella città di Noto, antica capitale del Vallo omonimo, e
che costituirebbe l’esito più prestigioso dell’intero progetto. Dal momento che, a conclusione di questo breve
percorso, virtuale e “a tavolino”, attraverso un territorio splendido, ricco di beni architettonici e ambientali,
ricordiamo una provocatoria affermazione dello scrittore di Comiso Gesualdo Bufalino: «Vien quasi voglia di
benedire, col cinismo dei posteri, il terremoto del 1693, che a tante fatiscenze diede la scossa e consentì la
fioritura di un’ammirevole e creativa stagione edilizia nell’isola». Come dargli torto, pur impregnati oggi di
cultura della conservazione? Come non rispondere a una grande sfida che ci impone la responsabilità di tramandare ai posteri la coscienza di un patrimonio di inestimabile valore? Con quali mezzi, però, mantenere
vitale un “laboratorio” sul Val di Noto, “capitale del Barocco”?
Sono soltanto alcuni tra i possibili interrogativi ai quali devono essere fornite convincenti risposte, se vogliamo garantire un futuro al Val di Noto.
Maria Giuffrè
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Noto, palazzo Nicolaci,
particolare di un balcone.
Premessa
Lo scopo di questo libro è quello di tracciare un sintetico quadro di orientamento rivolto al patrimonio
architettonico delle otto città siciliane costituenti il sito denominato “le città tardobarocche del Val di
Noto” della World Heritage List dell’UNESCO. Dal punto di vista strettamente metodologico, la selezione
di un numero limitato di nuclei urbani, all’interno di un vasto territorio comprendente più di cinquanta
centri abitati, costituisce di certo una meccanica parzializzazione ma, allo stesso tempo, consente di individuare un efficace campione emblematico su cui focalizzare l’approccio analitico che, viceversa, allo stato
attuale delle conoscenze, risulterebbe del tutto dispersivo.
La possibilità di individuare denominatori comuni nell’ambito della complessa e lunga vicenda dell’architettura della Sicilia sud-orientale del XVIII secolo, rischia comunque di essere un’operazione fuorviante se non si
tiene conto che questo vasto territorio contiene, in realtà, una costellazione di “microstorie” generate sia dalle
esperienze di personalità dalla formazione e dagli orientamenti diversi, sia allo svolgersi del dibattito artistico
all’interno di centri urbani dotati di profonde radici culturali ed autonome energie creative.
Ogni tentativo di delineare tracciati interpretativi generali deve pertanto camminare di pari passo ad analisi di segno opposto, rivolte all’individuazione delle singole peculiarità. L’indagine conoscitiva del patrimonio architettonico in questa parte dell’isola si presta pertanto, a nostro avviso, sia ad un percorso per
grandi temi trasversali, sia per singoli centri e singole personalità, intendendo questi due binari di lettura
inscindibilmente complementari.
In ogni caso, tentare di ricostruire, attraverso una rapida sintesi, un fenomeno di tale complessità e durata implica, inevitabilmente, delle drastiche semplificazioni. Ci si è pertanto limitati, nei primi due capitoli,
a individuare alcuni temi e protagonisti ritenuti significativi, dedicando il terzo capitolo a sintetici profili
storici di ognuna delle otto città. Sono state infine selezionate solo alcune opere emblematiche, tracciandone delle brevi schede, al fine di fornire un ulteriore supporto conoscitivo rispetto a quanto riportato nei
primi due capitoli.
L’attenzione è stata focalizzata quasi esclusivamente sull’architettura chiesastica, in considerazione del
ruolo fondamentale che ebbe non solo come esemplificazione della rinnovata immagine della Chiesa ma,
sopratutto, come manifestazione della nuova identità delle collettività urbane. Fu nei cantieri delle chiese che, nel corso dell’intero Settecento, si misurò la prosperità dei centri, si alimentarono gli antagonismi
tra i diversi gruppi sociali, si infiammarono conflitti umani, si concentrarono gli sforzi creativi degli architetti e gli impegni economici di piccole e grandi comunità. La storia delle chiese del Val di Noto costituisce, quindi, uno scenario privilegiato attraverso il quale rileggere e interpretare la storia delle città.
L’attenzione verso il patrimonio chiesastico è poi risultata una scelta quasi obbligata in rapporto ad altre
valutazioni. Bisogna infatti considerare che l’architettura civile del Val di Noto, dal punto di vista storiografico, costituisce una vera e propria zona d’ombra. Nonostante il consistente numero di edifici di grande interesse presente in ogni centro, della quasi totalità delle opere non si conoscono ancora gli autori, i
committenti e perfino una pur orientativa collocazione cronologica. Se si escludono pochi contributi, dedicati soprattutto a palazzi catanesi, l’assenza dalla letteratura storiografica di approfonditi studi rivolti alle
sedi delle autorità cittadine e alle dimore signorili rende mutila qualsiasi perlustrazione e valutazione del
fenomeno architettonico nel suo complesso, e non vi è dubbio che, fin quando questa straordinaria parte
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del patrimonio architettonico della Sicilia del XVIII secolo non verrà posta nella giusta luce, gli studi sul
Val di Noto non potranno progredire in modo significativo.
I limiti cronologici del nostro percorso attraverso le architetture vengono idealmente stabiliti dalle chiese
dei Gesuiti di Caltagirone e di San Benedetto a Militello, quasi integralmente sopravvissute al terremoto
del 1693, ponendosi come pregnanti testimonianze della cultura architettonica seicentesca sopravvissuta al sisma, e dalla chiesa di San Bartolomeo a Scicli che rappresenta, con la sua facciata a torre realizzata tra il 1785 e il 1815, l’approdo ottocentesco di alcuni dei temi fondamentali del Barocco in Val di Noto.
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Catania, chiesa della Badia di
Sant’Agata, particolare del portale.
CAPITOLO I
Il terremoto del 1693:
disastro e ricostruzione
Nell’ambito della grande stagione del barocco in Sicilia, è possibile distinguere una vicenda legata in modo particolare a un luogo e a un evento scatenante: l’area sud-orientale dell’isola e il terremoto che ne devastò i centri
abitati nel 1693.
La violenza del sisma che colpì questa parte della Sicilia fu tale da creare una sorta di soluzione di continuità nella
storia dei luoghi, fisicamente percepibile a causa della scomparsa di gran parte del patrimonio architettonico
preesistente.
Le distruzioni inferte dal sisma, che per alcune città furono particolarmente devastanti, divennero l’occasione per un
ripensamento totale dell’assetto urbano dei centri colpiti e un’opportunità per dar vita a una più razionale e al contempo retorica idea di città, ridefinendo il ruolo all’interno di essa dell’architettura, intesa come espressione eclatante delle forze sociali in gioco.
Va tuttavia sottolineato che l’attività edificatoria che si svolse nella Sicilia sud-orientale nel corso del XVIII secolo,
non si limitò a un puro intento ricostruttivo. Dopo i primi decenni caratterizzati dal faticoso riassetto dei centri urbani e dall’apertura di centinaia di cantieri allo scopo di riedificare gli edifici più importanti, nel corso della seconda
metà del Settecento le imprese costruttive conobbero un ulteriore impulso, superando di gran lunga i limiti cronologici e le necessità del dopo terremoto. Fu grazie a questo perdurare della vitalità dei cantieri che prese forma una
stagione architettonica di eccezionale portata, in grado di assumere connotazioni proprie allontanandosi, definitivamente, dalle vicende dell’altro fondamentale ambito dell’età barocca in Sicilia costituito dalla parte nord-occidentale dell’isola, culturalmente dominata da Palermo, nei riguardi della quale, già dalla fine del Seicento, nell’area sudorientale si erano andate delineando tendenze progettuali divergenti.
L’evento sismico e i problemi della ricostruzione
La notte del 9 gennaio 1693 una violenta scossa di terremoto colpì la Sicilia sud-orientale, comprendente gran parte
dei centri del Val di Noto e parte di quelli del Val Demone, due dei tre distretti amministrativi in cui era divisa l’isola.
Il terzo Vallo, quello di Mazara, formato dalla parte occidentale della regione, non venne praticamente interessato
dall’evento (fig.1). Il sisma, nonostante la sua forza, procurò solo danni materiali e, ovviamente, molta paura.
Nell’universale convinzione che simili fenomeni fossero dei chiari segni dell’ira divina, l’intera popolazione delle aree
colpite si riversò nelle chiese per organizzare atti di penitenza, preghiere collettive e processioni. Due giorni dopo, la
domenica mattina dell’11 gennaio, quando alla paura iniziava probabilmente a subentrare il sollievo dello scampato
pericolo, la terra tornò a tremare, causando questa volta il disastro. Per quanto l’epicentro fosse localizzato nell’area
tra Catania e Siracusa, il terremoto giunse ad interessare il territorio palermitano e il tratto meridionale della Calabria
(fig.2). Chi ebbe la fortuna di sopravvivere si rese immediatamente conto della dimensione catastrofica dell’evento.
Quaranta centri urbani erano stati devastati e almeno altri quindici avevano subito danni più o meno gravi. Alcune
popolose città, come Catania e Noto, erano state praticamente rase al suolo. Ragusa aveva perso sotto le macerie
più della metà della popolazione. Secondo le fonti ufficiali del tempo, i morti accertati furono 53.757, ma a questi
vanno aggiunti tutti coloro che perirono per le ferite riportate e per gli insostenibili stenti subiti nei mesi successivi
al disastro.
Bisogna poi considerare che il terremoto si era abbattuto in una Sicilia provata da mezzo secolo di crisi, scandito
dalla drammatiche rivolte degli anni quaranta, dalla distruttiva eruzione dell’Etna del 1669, e dal moto indipendentista di Messina del 1674 che, per quattro anni, aveva condizionato pesantemente la vita del regno. A questo si associava la precarietà del quadro politico internazionale dovuta alla fine ormai prossima di Carlo II di Spagna, privo di
35
fig.1 - Pianta della Sicilia
(incisione, A. Bova, 1726 c.).
In rosso sono indicati i confini
dei tre valli.
eredi, la cui morte, avvenuta nell’anno 1700, era destinata a scatenare una guerra di portata europea.
L’azione del governo spagnolo
La reazione del governo spagnolo dovette necessariamente essere rapida per evitare che la popolazione delle aree
colpite precipitasse nella disperazione e, soprattutto, nell’anarchia.
Il viceré Giovanni Francesco Pacheco, duca di Uzeda, nominò immediatamente due giunte speciali, una dedicata ai
problemi civili e l’altra a quelli della numerosa popolazione ecclesiastica.
Il governo centrale avrebbe poi stabilito la temporanea sospensione delle gabelle per le città sinistrate e l’esenzione,
per dieci anni, dai donativi dei vescovati di Catania e Siracusa, a condizione che questi venissero riconvertiti per la
riedificazione delle chiese. Un rescritto pontificio consentì inoltre di usufruire, per cinque anni, di altre notevoli agevolazioni economiche, provvedimenti sufficienti a ingigantire il già enorme patrimonio del clero delle due diocesi.
Nel frattempo, il 19 gennaio, il viceré aveva nominato due Vicari Generali come suoi luogotenenti nelle aree colpite: il principe di Aragona, per il Val di Noto e Giuseppe Lanza, duca di Camastra, per il Val Demone ma, a causa di
una sopraggiunta infermità del primo, tutto il peso dell’incarico ricadde sul Camastra (fig.3). Il duca si era già distinto come efficiente funzionario governativo, impegnandosi a fondo nella repressione della rivolta messinese (167478). Nel 1682, inoltre, aveva brillantemente affrontato la ricostruzione del centro feudale di Santo Stefano, distrutto da una frana. A Giuseppe Lanza vennero affiancati tre commissari e un gruppo di tecnici. Tra questi, il colonnello
fiammingo Carlos De Grunembergh, ingegnere militare della corte di Spagna, sembra avere avuto un ruolo importante,
almeno per quanto concerne i problemi legati alle fortificazioni danneggiate. Il De Grunembergh era già stato impegnato in Sicilia fin da quando, al seguito del viceré Claudio Lamoraldo, principe di Ligne, nel 1673 aveva visitato i
sistemi difensivi della costa orientale dell’isola, allo scopo di progettarne eventuali integrazioni, in rapporto all’aggravarsi della situazione militare del Mediterraneo dopo la conquista, da parte dei Turchi, dell’isola di Creta. Egli era
inoltre l’autore della cittadella fortificata realizzata a Messina dopo la fine della rivolta nel 1678.
Il compito del Camastra e dei suoi collaboratori si rilevò estremamente complesso: era necessario portare i primi soccorsi alle popolazioni colpite, stabilire misure d’ordine pubblico, sovrintendere alle operazioni di sgombero delle macerie e alle opere per l’alloggiamento provvisorio dei sopravvissuti. Si doveva inoltre fornire indicazioni generali sulla
scelta dei luoghi per la ricostruzione, in base agli orientamenti generali del governo centrale, e guidare, con regolamenti adeguati, le opere di pianificazione urbana vera e propria. Ogni intervento andava in ogni caso rapportato ad
una certa variabilità di problematiche.
Innanzi tutto vi erano i problemi legati alla realtà fisica dei luoghi: la maggioranza dei centri colpiti insistevano su
impianti urbani medievali formati da un intricato sistema di strade strette, tortuose e a volte inerpicate su impervi
declivi, ritenuto ormai del tutto inadeguato e irrazionale. Il terremoto aveva inoltre tragicamente mostrato come i
vicoli, in caso di crollo degli edifici, «racchiudevano il passo ai passeggeri e l’aprivano il sentiero della morte ...». La
tendenza del governo centrale era tuttavia quella di mantenere i siti originari per ridurre i costi della ricostruzione
e, soprattutto, evitare di rompere consolidati equilibri tra i vari centri e tra questi e il sistema difensivo della costa.
36
fig.2 - Pianta della Sicilia. Sono
indicate le linee isosismiche del
terremoto del 1693, le città del
sito UNESCO e i principali centri
dell’isola.
37
fig.1
fig.2
Solo in pochi casi (Avola, Grammichele, Noto e
Giarratana) si optò quindi per una ricostruzione ex
novo. In altri casi (come Militello, Ispica, Palazzolo
Acreide e Ragusa) si ricostruì per duplicazione, cioè
associando ai vecchi siti una nuova lottizzazione. Nella
maggioranza dei casi il processo di modernizzazione dei
centri urbani dovette comunque misurarsi con la ricostruzione in loco.
fig.3 - Santo Stefano di
Camastra, chiesa del Collegio,
busto del duca di Camastra.
fig.4 - Pianta assonometrica di
Catania (incisione, A. Vacca,
1780).
Le comunità urbane
38
La ricostruzione si poneva anche come lo scenario di
confronto, e in molti casi di scontro, tra le diverse forze
sociali andate definendosi nel corso dei due secoli precedenti. Le distruzioni, o addirittura la tabula rasa, che il
terremoto aveva causato nella realtà fisica dei centri abitati si era trasformata in un’occasione non solo per rivedere il rapporto tra gli insediamenti e il territorio circostante, ma anche per rimisurare l’effettivo peso dei
diversi gruppi sociali e la loro capacità di controllo della
fig.3
città e del suo spazio. Allo stato attuale degli studi, le
travagliate vicende connesse alla ricostruzione di Ragusa e di Noto rappresentano in tal senso i casi più significativi.
Emblematica, e ancora perfettamente percepibile, è anche la divisione tra la città dei ricchi e la città dei poveri che
governò la nuova pianificazione di Catania (fig.4).
Per quanto ogni centro visse vicende diverse, in linea di massima la vita urbana delle città del Val di Noto fu caratterizzata dallo scontro tra i ceti emergenti dei nuovi quartieri andatisi formando nel corso del XVI e XVII secolo, e i
gruppi familiari, detentori per tradizione dei quadri dirigenti, inscindibilmente legati ai più antichi nuclei medievali
dell’abitato.
Nella maggioranza dei centri minori i conflitti sociali si manifestarono soprattutto attraverso il contrapporsi delle comunità afferenti a parrocchie e confraternite diverse. Come testimoniano con evidenza le storie urbane di Modica, Militello,
Palazzolo Acreide e della stessa Ragusa, la drastica divisione dei nuclei familiari legati a diversi santi protettori se da un
lato condusse a momenti di drammatico scontro, dall’altro alimentò costantemente la competizione architettonica
attraverso la costruzione delle rispettive chiese, giungendo in alcuni casi a porre in secondo piano i cantieri delle stesse chiese Madri, sotto le volte delle quali le divisioni e i contrasti dovevano trovare effimere pacificazioni.
Il ruolo della Chiesa
Un aiuto fondamentale giunse al Camastra dalle autorità vescovili delle diocesi di Catania e Siracusa (fig.5), entro le
quali ricadevano praticamente tutti i centri colpiti. Ad essere investiti delle pesanti responsabilità dettate dall’emergenza furono il trentatreenne vescovo di Catania Andrea Riggio (1693-1717) - scampato al crollo della cattedrale
perchè in quel momento in viaggio verso Roma - e Francesco Fortezza vescovo di Siracusa (1676-1693) – a cui subentrò poi Asdrubale Termini (1695-1722). I due porporati ebbero l’ingrato compito di relazionare immediatamente a
fig.4
papa Innocenzo XII (1691-1700) sullo stato delle distruzioni dell’immenso patrimonio architettonico della Chiesa,
stabilendo e coordinando gli interventi prioritari, non solo rivolti al costruito ma anche alle necessità e ai comportamenti della comunità di religiosi colpiti dal cataclisma. In tal senso una immediata preoccupazione fu rivolta al
taglio delle spese non strettamente necessarie, vietando le processioni e le pompe festive in occasione delle ricorrenze religiose, e all’urgente sistemazione provvisoria delle monache di clausura che, a causa del sisma, si erano trovate private del “guscio protettivo” dei conventi. Attraverso le visite pastorali e l’emanazione di «ordinanze e decreti», i
vescovi tentarono poi di arginare eventuali frodi, alimentate dalle cospicue somme a disposizione.
A differenza dell’azione del governo vicereale che, dopo i primi anni di emergenza, tese a disinteressarsi di tutti i problemi connessi con la ricostruzione, le diocesi di Catania e Siracusa continuarono ad avere un ruolo fondamentale
per tutto il secolo, ponendosi come imprescindibili punti di riferimento e controllo delle articolate vicende economiche e decisionali connesse al riassetto dei complessi religiosi. Porporati come Tommaso Marino (1724-1730),
Pietro Galletti (1729-1757), Matteo Trigona (1732-1748), Francesco Testa (1748-54), non solo si rivelarono uomini
energici e dotati di forti capacità decisionali, ma si posero anche fra i protagonisti delle scelte progettuali di importanti cantieri, condizionando in modo significativo il dibattito architettonico.
Nei dinieghi e nelle altalene decisionali da parte dell’autorità vescovile è possibile scorgere inoltre la volontà di perseguire una politica di equilibrio, allo scopo di smorzare le contrapposizione all’interno delle comunità cittadine,
svolgendo, nei limiti del possibile, il ruolo di pacificatrice sociale.
Il coinvolgimento della nobiltà terriera
Nella complessa realtà della Sicilia devastata dal terremoto del 1693, entravano infine in gioco anche delicate questioni
39
Dei sei borghi a pianta rettangolare contornanti l’impianto centrale ad esagono, uno doveva essere interamente
occupato dal grande palazzo padronale, come segno evidente del suo potere (fig.6).
Il principe Carlo Carafa morì nel 1695, all’età di 49 anni, lasciando il suo progetto appena all’inizio. Lo stesso anno
Giuseppe Lanza di Camastra si dimise dall’incarico di Vicario, senza riuscire a risolvere tutti i problemi che aveva
affrontato nei corso del suo mandato. La vicenda della ricostruzione del Val di Noto era in realtà appena iniziata.
fig.5 - Pianta della diocesi di
Siracusa (Archivio di Stato di
Palermo).
fig.6 - Pianta assonometrica di
Grammichele (incisione, XVIII
secolo, da L. Dufour, H.
Raymond, 1994).
La realtà professionale fra tradizionalismo e rinnovamento
fig.5
40
fig.6
di tipo politico. I centri colpiti si dividevano infatti in demaniali (soggetti direttamente al re) e feudali, facenti cioè
parte del patrimonio dell’aristocrazia terriera. L’azione governativa doveva quindi interagire e misurarsi con
l’effettivo potere decisionale della nobiltà sulle proprie terre.
Da parte loro i feudatari non assunsero un atteggiamento monolitico, ma ogni casato modulò il proprio impegno
nella ricostruzione in rapporto agli effettivi interessi connessi con i centri colpiti e alle reali disponibilità economiche. Nel caso di Palazzolo Acreide, per esempio, resta da chiarire il ruolo svolto dalla famiglia Ruffo, proprietaria del
feudo dal 1625, che già da tempo aveva concesso le terre di Palazzolo in affitto a diversi gabelloti (affittuari), e non
sembra quindi avere reagito in modo significativo ai problemi causati dal sisma.
In altri ambiti l’azione della nobiltà terriera fu ben più incisiva. Non fu una semplice coincidenza il fatto che tre dei
quattro casi di integrale ricostruzione in un nuovo sito riguardarono centri feudali: Giarratana (dei Naselli di Comiso),
Avola (dei principi di Terranova), Grammichele (dei principi di Butera). Per quest’ultimo centro, uno dei più celebri
grazie alla sua singolare pianta a matrice esagonale, le cronache descrivono il ruolo di assoluto protagonista svolto
dal suo unico fondatore, Carlo Maria Carafa Branciforte, principe di Butera. A lui fu rivolto l’appello di aiuto della
popolazione superstite (1394 abitanti sui 2910 presenti prima del sisma) e sorprende come, appena tre giorni dopo
il terremoto, il principe, dalla sua residenza a Mazzarino, fu in grado di inviare i primi aiuti e, dopo cinque, di ordinare il trasferimento della popolazione nell’area dove sarebbe sorta la nuova città. Carlo Carafa, fattosi annunciare
dalla costruzione di un lussuoso padiglione da campo, giunse sul luogo del disastro il 10 aprile, salutato dalla popolazione come un monarca salvatore. Dopo avere fatto tracciare sul terreno dall’architetto fra’ Michele da Ferla la
pianta del nuovo insediamento, «lineata e fatta da detto signor Principe», il 18 aprile il principe pose la prima pietra
con due piastre d’argento recanti la sua effige e il suo stemma, avviando così la costruzione del centro.
Nel tentativo di tracciare dei quadri interpretativi di orientamento, in un panorama architettonico estremamente
differenziato, la storiografia ha teso ad individuare due distinte tendenze progettuali che sembrano in effetti attraversare tutto il XVIII secolo: una all’insegna del rinnovamento e l’altra conservatrice.
La tendenza individuata come innovatrice - considerata più colta perché in grado di recepire apporti eteronomi in
modo meno superficiale e di collocarsi, con inedite sperimentazioni, nel contesto del dibattito artistico europeo prese le mosse dall’adozione di spazialità complesse e dalla propensione a conferire movimento e tridimensionalità
al piano di facciata (esplicato dall’andamento curvo della superficie muraria), ponendo in secondo piano il ruolo della
decorazione. A questa corrente devono ricondursi opere come le chiese di Sant’Agata e di San Giuliano a Catania
(fig.8), la chiesa di Santa Chiara a Noto, le facciate delle cattedrali di Siracusa e di Catania e delle chiese madri di San
Giorgio a Ragusa e San Giorgio a Modica.
La seconda tendenza si connota soprattutto per l’esaltazione della decorazione, intesa come componente qualificante degli elementi architettonici, e per l’impiego sistematico di criteri compositivi consueti, quali l’impianto basilicale a tre navate e le facciate concepite come superfici piane intelaiate da ordini di paraste (San Giovanni a Ragusa,
San Pietro a Modica (fig.7), San Giacomo a Caltagirone ecc.). L’evidente rapporto di continuità con il patrimonio cinque-seicentesco, che tali scelte progettuali rivelano, non comportò tuttavia un immobilismo creativo.
Va innanzi tutto precisato che alla decorazione architettonica fu affidato il compito di assorbire la sperimentazione
formale e l’aggiornamento linguistico, attuato soprattutto grazie alla circolazione delle incisioni. Facendo riferimento ai repertori decorativi del tardo Seicento, oltre all’evidente sopravvivenza di motivi connessi alla tradizione italiana e fiamminga, è possibile quindi rintracciare anche soluzioni desunte dalla più aggiornata produzione incisoria
francese (con riferimento soprattutto a Jéan Berain il vecchio e Jean Le Pautre). Nei giochi decorativi settecenteschi
sono poi individuabili agevolmente gli influssi della copiosa produzione italiana (Pozzo, De Rossi, Bibiena ecc.) e, a
partire dalla metà del secolo, quelli delle incisioni rocaille.
In alcune delle opere più celebri di questo ambito - come il monastero dei Benedettini e il palazzo Biscari a Catania o
ancora il palazzo Nicolaci a Noto - vanno in ogni caso poste in evidenza scelte progettuali coraggiose e motivate da
una grande fertilità inventiva, che non sembrano potersi ricondurre a una visione conservatrice della conoscenza e della
prassi professionale. Bisogna tuttavia considerare che, a causa della quasi totale scomparsa del patrimonio architettonico anteriore al terremoto, non è in effetti possibile valutare quanto delle soluzioni progettuali successive si posero
come riproposizione di esperienze già svolte.
Analizzando l’effettivo svolgersi dell’attività costruttiva del Val di Noto nel corso del XVIII secolo, le due correnti, in
realtà, non sempre risultano facilmente distinguibili e neppure concretamente definibili. Certo, non vi è dubbio che
i primi decenni della ricostruzione furono prevalentemente vissuti all’insegna della continuità con la tradizione, in
antagonismo con la cesura creata dal terremoto. È poi possibile individuare un trentennio, a partire dal 1730 circa,
in cui grazie soprattutto all’imporsi degli architetti Rosario Gagliardi (1690?-1762), a Noto e Ragusa, e Giovan
41
fig.7 - Modica, chiesa di San
Pietro, facciata.
fig.9 - Enna, duomo, facciata.
fig.10 - Disegno acquarellato
della facciata della chiesa di San
Matteo a Palermo (da Teatro
Geografico antiguo y moderno
del Reyno de Sicilia, 1686,
Madrid, Ministerio de Asuntos
Exteriores).
fig.8 - Catania, chiesa di San
Giuliano, facciata.
fig.7
42
fig.8
Battista Vaccarini (1702-1768), a Catania, l’innovazione della ricerca architettonica ebbe un impulso decisivo. Nel corso
dell’ultimo quarantennio del secolo, tuttavia, alcune delle soluzioni innovative degli anni precedenti si consolidarono
alimentando una sorta di nuova tradizione settecentesca che si oppose in molti casi al procedere del dibattito architettonico internazionale proteso, in quei decenni, verso un rinnovato e rigoroso classicismo.
Tradizione e rinnovamento tesero in ogni caso ad interagire. Abbiamo del resto già sottolineato il costante apporto
di componenti eteronome nei repertori decorativi della tradizione e, sull’altro fronte, è risaputo che l’adozione di
spazialità tradizionali venne imposta anche agli architetti più all’avanguardia. Ancora più emblematica, in tal senso,
è la vicenda delle facciate-campanile ad accentuato sviluppo verticale, da considerare uno dei fenomeni più pregnanti e singolari dell’architettura del XVIII secolo nella Sicilia orientale. Per quanto gli esiti più significativi siano da
imputare agli architetti d’avanguardia, non vi è dubbio che i risultati settecenteschi affondino le proprie radici in
opere siciliane del Cinquecento e del Seicento. Ricordiamo in merito l’imponente facciata torre del duomo di Enna
(fig.9) (già esistente nel XVI secolo ma ricostruita nella forma attuale dal 1681), la cinquecentesca torre campanaria
della facciata del duomo di Siracusa, (crollata nel 1693), la facciata della chiesa di San Matteo a Palermo (fig.10)
(seconda metà del XVII secolo) e, molto probabilmente la facciata della chiesa di San Benedetto a Militello Val di
Catania. Legata alle esperienze seicentesche era anche il prospetto della chiesa dell’Annunziata a Messina (fig.11)
(1660-62), progettato da Guarino Guarini, dove ritroviamo già presenti le componenti fondamentali dei futuri sviluppi settecenteschi, quali il sistema a tre ordini degradanti raccordati da volute, l’andamento curvo della superficie
muraria e l’uso delle colonne libere.
fig.9
fig.10
Prassi di cantiere e formazione intellettuale
Nonostante sia impossibile tracciare dei netti confini all’interno del dibattito architettonico locale, è tuttavia interessante notare come le opposte tendenze fin qui tracciate trovarono generalmente diverse collocazioni professionali. Più aggiornati e aperti alle esperienze svolte fuori dall’isola furono di certo gli architetti intellettuali, dotati di
una salda formazione teorica che trovava un supporto “scientifico” fondamentale nello studio della matematica e
della geometria. Come è noto, il monopolio della cultura da parte della Chiesa determinò in questo ambito la netta
prevalenza di architetti religiosi: limitandoci ai personaggi intervenuti nei mesi successivi al disastro, ricordiamo il
gesuita Angelo Italia, interpellato per i piani urbani di Lentini, Noto e Avola, fra Michele da Ferla, impegnato nel tracciamento di Grammichele, e lo stesso Carlos De Grunembergh, responsabile delle piazzeforti di Siracusa e Augusta.
Intimamente connessi alla tradizione risultano invece i capomastri la cui formazione, basata sulla pratica di cantiere e
l’attività artigiana, poggiava su una grande padronanza dei problemi costruttivi, l’assimilazione di temi architettonici
consolidati e un virtuosismo inventivo connesso con l’abilità nel taglio della pietra.
Legati ancora al sistema corporativo e all’apprendistato in bottega perpetuato da padre in figlio, i capomastri più
capaci, come gli Amato di Messina, i Cultraro di Ragusa o gli Alì di Siracusa, riuscirono a dar vita ad agguerrite imprese familiari, in grado di assorbire al loro interno tutte le attività connesse alla realizzazione di un’opera: dal semplice artigianato preposto agli arredi lignei e alla doratura degli apparati decorativi, al più impegnativo lavoro di mastri
muratori, stuccatori e intagliatori di pietra, fino a giungere, in alcuni casi, alla vera e propria progettazione architettonica, entrando così in aperta concorrenza con gli architetti.
43
fig.11 - G. Guarini, facciata della
chiesa dell’Annunziata di
Messina (incisione, da G.
Guarini, 1737).
fig.12 - Paolo Labisi, progetto
per gli arredi lignei e un
ostensorio nella sacrestia della
chiesa della SS. Annunziata a
Ispica (Ispica, archivio
parrocchiale).
I conflitti professionali innescati da tali sconfinamenti erano resi più complessi dal fatto che i capomastri, grazie a un
ulteriore supporto di conoscenze, potevano raggiungere il rango di architetti. Rosario Gagliardi, protagonista indiscusso di un trentennio di attività costruttiva nel Val di Noto, nel suo passaggio da «faber lignarius», al seguito del padre
falegname, a «magister» e infine ad architetto ed ingegnere della città di Noto, lo dimostrava in modo chiaro. Stessa
origine aveva in fondo l’abate Giovan Battista Vaccarini, anche se poi ne aveva preso le distanze entrando in seminario.
Dopo la morte dei due architetti, le tendenze professionali e architettoniche dei centri della Sicilia sud-orientale non
seguirono un unico destino. Nell’area catanese, il predominio degli architetti si consolidò grazie alla presenza di
Francesco Battaglia - anch’egli tuttavia legato a una famiglia di capomastri - e Stefano Ittar che, operando secondo un più composto classicismo, aprirono la strada al totale affrancamento dalle forme barocche, attuato poi dai
loro figli, Antonio e Sebastiano.
Nel Val di Noto, dove ricadevano Siracusa e i centri della contea di Modica, l’attività costruttiva fu invece monopolizzata dalle imprese artigiane, interessate a sviluppare gli esiti più eclatanti delle opere del Gagliardi e propense a
una disimpegnata sperimentazione dei repertori decorativi rococò.
Il perdurare nel Val di Noto di tali tematiche fu in realtà una tendenza diffusa che coinvolse non solo i capomastri,
tra i quali ricordiamo, per la loro attività progettuale, Carmelo Bonaiuto, Costantino Cultraro e Luciano Alì, ma anche
alcuni architetti, come i due netini Vincenzo Sinatra e Paolo Labisi (fig.12).
44
45
fig.11
fig.12
CAPITOLO II
Il dibattito
architettonico
fig.13 - Catania, Palazzo Massa
San Demetrio, particolare della
facciata.
fig.13
La nuova forma della tradizione: le opere del primo trentennio del Settecento.
L’attività costruttiva dei primi decenni successivi al terremoto fu caratterizzata dallo sforzo collettivo rivolto a garantire, nel minor tempo possibile, una sede alle principali istituzioni civili e religiose. Se si considera il numero totale
dei centri colpiti, si trattava in sostanza di ridare sincronicamente forma a una cinquantina di sedi municipali, a non
meno di 150 chiese parrocchiali, e ad alcune centinaia di conventi e monasteri. Dovevano innanzi tutto essere valutate con attenzione le possibilità di recupero delle strutture preesistenti e la loro adattabilità a modifiche o ampliamenti. Andavano poi realizzate con somma urgenza delle sedi provvisorie per quegli enti, come i conventi di clausura, le chiese madri e i palazzi municipali, che non potevano aspettare il lento procedere dei cantieri. Solo in alcuni casi quindi, nel corso dei primi decenni post 1693 si procedette all’impianto di progetti impegnativi e definitivi.
È ovvio che, in una situazione di tale emergenza, la figura del capomastro risultava quella più adatta a far fronte alle
impellenti necessità costruttive. La richiesta delle diverse comunità urbane di questa figura professionale fu tale da
determinare una massiccia immigrazione di capomastri provenienti dalle altre città siciliane scampate al sisma, che
in molti casi andarono a colmare il vuoto professionale lasciato dalle maestranze locali morte sotto le macerie.
In quegli anni, l’attività degli architetti intellettuali, allo stato attuale degli studi, risulta marginale e per lo più legata ad alcuni piani urbani e a pochi progetti.
49
fig.14 - Catania, abbazia dei
Benedettini, prospetto orientale,
particolare della cornice di
coronamento.
Le esperienze catanesi
fig.15 - Catania, palazzo Biscari,
particolare del prospetto verso il
mare.
fig.14
50
fig.15
Fu soprattutto nel grande cantiere della ricostruzione del capoluogo etneo che il decorativismo architettonico ebbe
modo di manifestarsi con nuovo vigore, raggiungendo un’insuperata monumentalità ed inediti effetti. La Catania
settecentesca deve essere considerata, in effetti, come una città dotata di connotazioni del tutto singolari e come
tali non generalizzabili o riconducibili ad altri centri dell’isola.
Un ruolo primario nel contesto della ricostruzione sembra averlo avuto Alonzo Di Benedetto (not. dal 1694 al 1720),
«faber murarius, expertus e lapidum incisor», considerato tradizionalmente l’unico sopravvissuto tra i maestri attivi
a Catania prima del 1693. A quella data Di Benedetto era già un professionista maturo e il suo modo di operare dopo
il disastro doveva quindi rispecchiare la cultura architettonica dominante in città nel tardo Seicento. In ogni caso le
sue prime opere, quali il seminario dei Chierici e il palazzo Massa-San Demetrio (fig.13), entrambe iniziate nel 1694,
presentano tutte le componenti che distingueranno l’architettura palazziale catanese dei primi decenni della ricostruzione: il telaio di paraste giganti bugnate, la fitta decorazione a rilievo intorno alle aperture, l’impiego di inserti scultorei e, in particolare, delle cariatidi fiancheggianti portali e finestre.
L’uso delle paraste giganti era stato introdotto in Sicilia probabilmente da Giacomo Del Duca, allievo di Michelangelo,
operante alla fine del Cinquecento a Messina. Qui aveva utilizzato questo tipo di telaio per definire la facciata posteriore della chiesa di San Giovanni di Malta. Non sappiamo tuttavia che diffusione ebbe questa soluzione nella Sicilia
orientale prima del terremoto. Ne rimane comunque una valida testimonianza nella grande facciata dell’abbazia di
San Benedetto a Militello Val di Catania (fondata nel 1614) che probabilmente si ispirò al primo impianto di quella
di Catania. La definizione a bugne del fusto delle paraste costituisce comunque un accento prettamente catanese, e
da qui si diffuse poi in altri centri, come dimostrano emblematicamente il palazzo comunale di Acireale, o anche la
facciata del duomo di San Giovanni a Ragusa.
Il gusto per una iperbolica decorazione scultorea affondava invece le radici nelle esperienze dell’ultimo quarantennio del seicento siciliano. Anche in questo caso, tuttavia, non è chiaro quanto l’uso della decorazione avesse interessato già le configurazioni esterne degli edifici prima del 1693.
In ambito catanese, sulla strada tracciata dal Di Benedetto si inserirono i capomastri messinesi Antonino e Andrea
Amato, che risultano impegnati fin dal 1703 nella ricostruzione dell’abbazia dei Benedettini, il più grande complesso monasteriale siciliano, dove è documentata anche la presenza del Di Benedetto. Ad Antonino si deve l’ideazione
delle due grandi facciate orientale e meridionale del blocco monasteriale a sinistra della chiesa, completate, entro il
1726, sotto la direzione del figlio Andrea, da considerare di certo l’opera più monumentale della corrente architettonica autoctona. L’uso delle paraste giganti bugnate, l’accanimento decorativo sulle membrature delle aperture, lo
stesso uso delle erme nelle finestre delle campate estreme mostrano un’assoluta affinità con gli intenti e le forme
delle opere di Alonzo Di Benedetto, ma nella facciata benedettina l’esaltazione del ruolo della decorazione conosce
una inedita accentuazione: attraverso una sorta di frangia merlettata in pietra bianca, Amato separa i capitelli delle
paraste dal cornicione di coronamento (fig.14). Il telaio architettonico, strutturante il piano di facciata, viene così
“scardinato” e le stesse paraste diventano semplici elementi decorativi appoggiati alla parete.
Questa scelta atettonica, che fu ovviamente attentamente valutata e ponderata in fase progettuale, risulta abbastanza isolata in ambito siciliano, richiamando concettualmente solo alcune e altrettanto isolate soluzioni ideate,
negli stessi anni, dall’architetto del senato di Palermo Paolo Amato, del quale non si conoscono legami di parentela
o contatti con gli Amato di Messina.
Il capolavoro di Antonino Amato è considerato il prospetto verso il mare di palazzo Biscari (fig.15), iniziato nel 1707.
L’Amato fu di certo l’esecutore dell’opera ma non è da escludere che il progetto complessivo sia da imputare ad
51
fig.16
52
Alonzo di Benedetto, anch’egli presente nel cantiere. In palazzo Biscari l’inserto scultoreo e soprattutto il tema delle
cariatidi, traslato nella variante maschile dei telamoni, trova una inedita amplificazione, divenendo l’elemento dominante dell’intera composizione. L’uso di atlanti o cariatidi fiancheggianti le aperture - che ritroviamo puntualmente
nelle altre opere di Alonzo di Benedetto e Antonino Amato - aveva in Sicilia una lunga tradizione, ancora rintracciabile in opere della Sicilia occidentale. Nel caso di palazzo Biscari sono state tuttavia evidenziate delle tangenze (A.
Krämer) con coeve esperienze europee, come il celebre Zwinger di Dresda (1709-28), o la facciata meridionale del
castello estivo di Federico il Grande a Sanssouci (1744-47). I capitelli sorretti dai telamoni denunciano invece una provenienza del tutto italiana. Essi sono direttamente tratti dal repertorio di Cosimo Fanzago, caposcuola della cultura
decorativa napoletana del Seicento. È possibile che Amato avesse assimilato tali motivi nella sua città di origine prima
di trasferirsi a Catania. A Messina infatti i repertori fanzaghiani erano stati introdotti da Innocenzo Mangani e Andrea
Gallo, due scultori che avevano in precedenza lavorato a Napoli, collaborando anche con Fanzago.
L’imporsi dei temi della cultura locale
Al di là dei casi eclatanti e singolari di Catania, nell’ambito della prassi professionale che in quegli anni interessò l’intero
Val di Noto è possibile rintracciare altri temi architettonici di origine seicentesca che ebbero, fin dai primi anni successivi al sisma, una diffusione capillare, contribuendo a conferire forti accenti distintivi al patrimonio architettonico della
Sicilia sud-orientale.
Ricordiamo innanzi tutto, nel contesto dell’architettura
civile, la messa in valore del balcone retto da grandi
mensole decorate con figure antropomorfe e zoomorfe
(fig.16), le cui manifestazioni di esordio in ambito siciliano
vanno rintracciate in opere della fine del Cinquecento o
dei primi anni del Seicento, come sembrano dimostrare
alcuni balconi di dimore signorili di Palazzolo Acreide
(palazzo Zacco) e di Caltagirone, o ancora alcuni celebri
reperti esposti al museo Regionale di Messina e, a date
più avanzate, il palazzo Moncada di Caltanissetta (fig.17),
da ricondurre alla metà del Seicento.
Rimasto sostanzialmente estraneo alla cultura architettonica palermitana - dove furono sempre preferite soluzioni decorative più moderate e canoniche - questo
tema si era andato probabilmente diffondendo nel corso
del XVII secolo in tutto il Val di Noto. È certo comunque
che, fin dagli anni immediatamente successivi al terremoto, il balcone animato da figure mostruose si impose
nell’architettura palazziale, individuando nel grado di
elaborazione decorativa delle mensole una componente
fondamentale di distinzione sociale dei committenti.
L’idea di un architettura basata su volumetrie semplici
fig.17
aggettivate da risalti decorativi alimentò anche originali rielaborazioni del tema del portale che, nell’ambito dell’architettura civile, contemplò costantemente complessi
congegni decorativi unificanti l’arco di ingresso con la soprastante finestra balconata (fig.19).
Nel contesto dell’architettura chiesastica gli apporti più singolari si ebbero invece attraverso l’uso delle colonne tortili.
Anche in questo caso si tratta di una soluzione che si era andata diffondendo in Sicilia nell’ultimo ventennio del XVII
secolo, sincronicamente ad analoghe soluzioni spagnole. Nell’area orientale dell’isola uno dei primi esempi pervenutici
è il portale della chiesa madre di Piazza Armerina, dei primi anni del Settecento, dove il tema della colonna tortile trova
già una insuperata enfatizzazione attraverso il raggruppamento di terne di colonne ad aggetto differenziato.
Un ruolo primario nel diffondersi dell’uso delle colonne tortili nei partiti centrali delle facciate dopo il 1693 sembra
sia stato assunto da Giuseppe Ferrara, uno dei capomastri più attivi del periodo, a cui sono attribuiti i monumentali portali salomonici dell’Annunziata di Palazzolo Acreide (fig.18) (1721-31), del duomo di Siracusa (dopo il 1628) e
della chiesa Madre di Sortino (1734 c.).
Sul tema del prospetto chiesastico la soluzione imposta dalla tradizione costruttiva fu di certo quella canonica della
facciata intesa come piano bidimensionale scandito da due ordini di paraste sovrapposte raccordati da volute. Su
questo schema, tuttavia, fu ricorrentemente aggiunto un terzo ordine, concepito come loggia campanaria, conferendo così al profilo del prospetto un andamento piramidale.
Come è noto questa soluzione a tre ordini aveva già conosciuto delle eclatanti manifestazioni nei primi anni sessanta del Seicento con l’enigmatica facciata della chiesa di San Matteo a Palermo, di incerta paternità, e quella
dell’Annunziata di Messina, progettata dall’architetto Guarino Guarini senza loggia per le campane, dove ritroviamo
fig.16 - Palazzolo Acreide,
palazzo Judica-Caruso,
particolare del balcone.
fig.17 - Caltanissetta, palazzo
Moncada, particolare di un
balcone.
53
fig.18 - Palazzolo Acreide, chiesa
dell’Annunziata, portale.
fig.19 - Modica, palazzo
Napolino-Tommasi Rosso,
particolare del portale.
fig.20 - Acireale, chiesa di San
Sebastiano, facciata.
fig.19
fig.20
in realtà fondamentali temi, quali l’andamento curvo della superficie muraria e l’uso delle colonne libere che rimarranno, almeno per il primo trentennio del Settecento, estranei all’attività costruttiva del Val di Noto. Una conformazione a tre ordini con loggia campanaria sommitale sembra avere avuto anche la facciata della chiesa di San
Benedetto a Militello, ultimata nel 1646. Il netto anticipo di quest’opera rispetto agli esempi palermitani e messinesi fa supporre che il tema della facciata e tre ordini fosse stato impiantato nell’area catanese già nella prima metà
del Seicento.
Potrebbe non essere un caso, quindi, il fatto che la prima facciata a tre ordini costruita dopo il 1693 fu quella della
chiesa di San Sebastiano ad Acireale (fig.20), iniziata nel 1705 su progetto del mastro fabbricatore Angelo Bellofiore
e conclusa intorno al 1715 dal già citato Antonino Amato. La facciata è stata spesso ricondotta ad un influsso
dell’Annunziata di Messina, della quale tuttavia non recepisce affatto le soluzioni più innovative. Più calzante appare invece l’accostamento alla facciata di Militello, il cui schema, ad Acireale, viene rielaborato secondo i criteri del
decorativismo: una piatta facciata, appena segnata dal telaio di paraste, fa da supporto a un complesso repertorio
scultoreo a cui è affidata la qualificazione architettonica e la definizione plastica del prospetto, che trova il momento di più accentuata singolarità nel sistema a mensole con mascheroni e la sottostante processione di putti reggi
ghirlanda, interposto tra il primo e il secondo ordine.
I tentativi di innesto del classicismo romano
In questo contesto sostanzialmente caratterizzato da un dibattito architettonico svolto all’insegna della continuità
con la tradizione seicentesca, negli anni venti del Settecento due impegnativi progetti si distinsero per la volontà di
fig.18
55
fig.21 - Palermo, chiesa della
Pietà, facciata.
fig.22 - Catania, chiesa di San
Francesco Borgia, facciata.
imporre un linguaggio desunto dal classicismo di ascendenza romana: la facciata della chiesa dei Gesuiti di Catania
e il nuovo prospetto del duomo di Siracusa.
A Catania, il cantiere post terremoto del collegio dei gesuiti era stato affidato ad Alonzo Di Benedetto, ma per la facciata della chiesa, negli anni 1695-96, venne chiesto l’intervento progettuale dell’architetto gesuita Angelo Italia, legato all’ambiente palermitano da una lunga attività professionale e attivo anche nel Val di Noto dopo il sisma del 1693.
Per quanto l’opera fu in effetti realizzata non prima del 1723 (anno in cui arrivarono in cantiere le colonne), è plausibile pensare che il disegno del gesuita non fu modificato, considerando anche l’estraneità dell’opera rispetto al lessico di Alonzo Di Benedetto (fig.21).
L’impostazione adottata è stata ricondotta al non più esistente prospetto della chiesa dei Gesuiti di Messina, della
quale devono essere ancora stabilite una convincente paternità e una più precisa datazione. In ogni caso, considerando anche la provenienza dell’architetto a cui è attribuibile la facciata catanese, è più plausibile il riferimento alle esperienze condotte a Palermo dall’architetto Giacomo Amato, dopo il suo lungo soggiorno romano, incentrate sull’accentuazione plastica del piano di facciata attraverso l’uso delle colonne e la modulazione del loro aggetto.
Particolarmente pertinente risulta l’accostamento della facciata dei Gesuiti con quella ideata da Amato per la chiesa
domenicana della Madonna della Pietà a Palermo (fig.22), iniziata nel 1690, di cui l’opera catanese sembra una più severa e semplificata riproposizione.
Ben più complessa ed enigmatica è la vicenda del duomo di Siracusa. La città non aveva subito le devastazioni di
56
fig.21
fig.22
Catania ma aveva sofferto diversi crolli, tra cui quello dell’alta facciata-torre della cattedrale dedicata a San
Marziano e Santa Lucia (fig.23). La struttura dell’antico tempio di Atena, su cui la chiesa era stata fondata, insostituibile simbolo dell’antichità e del prestigio della città, aveva comunque resistito. Su iniziativa del vescovo Tommaso
Marini, la ricostruzione ex novo della facciata (1728-1753) prese le mosse da una sorta di concorso, espletatosi tra
il 1727 e il 1728, di cui non si conoscono i partecipanti, il vincitore e i membri della giuria. L’idea di una facciata
svettante sopra l’abitato, che caratterizzava il primitivo impianto, venne abbandonata, optando per una più canonica soluzione a due ordini (fig.24). L’opera doveva tuttavia imporsi non per la sua altezza ma per la modernità delle sue
forme. La soluzione adottata, chiaramente accostabile al raffinato classicismo barocco di ascendenza romana, va
anch’essa collegata a quella linea di ricerca inaugurata da Giacomo Amato.
Il prospetto di Siracusa non si pone tuttavia come una banale rielaborazione di tali temi, quanto piuttosto come
un’ulteriore riflessione in direzione di una maggiore accentuazione volumetrica. La soluzione a portico, le volute con
fasci di foglie di palme, come anche l’idea della statua incorniciata dalla grande finestra centrale, sono elementi
nuovi per il panorama siciliano che denotano un progettista in grado di attingere direttamente dalle ricerche svolte nella città dei papi. La paternità del progetto, definitivamente decaduta la tradizionale attribuzione all’architetto
del senato di Palermo Andrea Palma, costituisce tuttavia una questione ancora aperta. Nel tentativo di rintracciare
possibili autori siciliani, è stata ipotizzata (M. R. Nobile) l’attribuzione dell’opera a Giuseppe Mariani, uno dei principali esponenti della corrente filo-romana palermitana e allievo di Giacomo Amato. Suscita inoltre interesse il fatto
che, per motivi ancora ignoti, Mariani morì nel 1731 a
Lentini, località a pochi chilometri da Siracusa.
In ultima analisi non è possibile neppure escludere una
provenienza romana del progetto, considerando che il
vescovo committente visse per un certo periodo a Roma
prima di ricoprire la carica a Siracusa. La realizzazione
del progetto, dopo la morte del vescovo Marini, rimase
interrotta all’altezza del cornicione del primo ordine e
solo tra il 1748 e il 1753 fu portata a termine.
Al di là della lentezza dei cantieri, il nuovo corso linguistico che le facciate di Catania e Siracusa, suggerivano
rimase comunque, in quegli anni, sostanzialmente
senza seguito.
fig.23
fig.23 - Triburzio Spannocchi,
schizzo della facciata-torre del
duomo di Siracusa, 1578 (da L.
Dufour, 1987).
57
fig.24 - Siracusa, cattedrale,
facciata.
fig.24
58
Le nuove esperienze: opere e protagonisti del secondo trentennio del Settecento.
Giovan Battista Vaccarini
Ben più determinante fu l’arrivo nel 1730 a Catania del palermitano Giovan Battista Vaccarini, architetto del tutto
estraneo, per nascita e formazione, alla temperie culturale dell’area etnea. Muovendosi dalla diretta conoscenza delle
coeve esperienze romane e palermitane, l’architetto aprì la strada a una più decisa articolazione delle masse e dello
spazio architettonico e a una drastica riduzione degli apparati decorativi. La nuova impronta segnata dalle opere del
Vaccarini finì per prevalere sulla precedente tendenza, grazie anche alla stretta collaborazione con gli architetti
Giuseppe Palazzotto e Francesco Battaglia, che ne sostennero le linee di ricerca fondamentali anche dopo
l’allontanamento dell’architetto palermitano dalla città.
Nato a Palermo nel 1702, da Francesca Mancialardo e dal faber lignarius Gerlando Vaccarini, il giovane Giovan Battista
iniziò ad avvicinarsi all’architettura seguendo probabilmente il padre nella sua bottega di ebanista. Fondamentale per
la sua formazione fu comunque l’ingresso in seminario, dove intraprese gli studi di matematica, geometria e filosofia.
Facendo fede a un elogio dottorale scritto in suo onore nel 1736, sembra che, grazie ai suoi studi teorici, Vaccarini
acquistò una certa fama a Palermo, cimentandosi in conferenze di Teologia e nella sperimentazioni di congegni idraulici e meccanici. Per le sue invenzioni idrauliche, ebbe inoltre modo di farsi conoscere anche a Roma, entrando in contatto con il cardinale Ottoboni, figura di primo piano dell’ambiente culturale pontificio. In base a tali informazioni, si
ritiene pertanto che il giovane architetto abbia completato i suoi studi nella città papale, dove ebbe probabilmente
modo di conoscere Luigi Vanvitelli, con il quale sono documentati cordiali e duraturi rapporti di amicizia.
La sua carriera professionale prese l’avvio soltanto quando giunse a Catania su invito del nuovo vescovo Pietro
Galletti, un potente prelato che l’architetto aveva avuto modo di conoscere a Palermo. La scelta da parte del vescovo di un giovane agli esordi della sua attività professionale, dotato tuttavia di una salda formazione intellettuale,
dimostra la stessa volontà, manifestata in quegli anni dal committente della facciata del duomo di Siracusa, di
opporsi al tradizionalismo dei capomastri locali per imprimere alla città una immagine più moderna. Lo stesso
Galletti, del resto, proveniva da Palermo, città che già da diversi anni si era affrancata dalla cultura autoctona seicentesca, avviando nuove ricerche architettoniche.
L’immediato successo professionale, dovuto al sostegno del vescovo, procurò comunque al Vaccarini costanti inimicizie nell’ambiente cittadino, che ebbero modo di manifestarsi apertamente soprattutto nel corso della realizzazione del suo progetto per la facciata del duomo. Fu proprio a causa delle opposizioni mossegli in quest’ambito che
Vaccarini, tra il 1733 e il 1734, si recò a Roma per sottoporre il modello dell’opera all’Accademia di San Luca. Questo
episodio ha indotto gli storici a ritenere che, in effetti, l’architetto avesse già in precedenza instaurato dei rapporti
con l’ambiente romano, rinforzando quindi l’attendibilità di quanto riportato nell’elogio dottorale. L’approvazione
del progetto da parte degli esponenti dell’accademia più prestigiosa d’Italia, costituì una sorta di consacrazione professionale. Lo confermano la nomina ad architetto del Senato e commissario delle opere pubbliche di Catania nel
1735 e l’assegnazione, l’anno successivo, della «phisico matematici doctoris laurea», disciplina di cui ottenne la cattedra universitaria nel 1745. Nel 1749, infine, fu nominato architetto della Deputazione del Regno e ritornò a
Palermo, pur continuando a mantenere i contatti con i suoi collaboratori catanesi.
Il cospicuo corpus di opere e progetti che la storiografia tradizionale ha assegnato a Vaccarini è stato spesso supportato da considerazioni esclusivamente linguistiche, giungendo non di rado a fragili e opinabili attribuzioni, in considerazione anche delle scarse conoscenze sugli orientamenti e l’attività degli altri architetti operanti a Catania in quel
periodo. Negli ultimi anni, si è invece proceduto a un progressivo ridimensionamento della sua attività progettuale,
basato tuttavia, in molti casi, solo sulla rilettura delle fonti archivistiche che, per quanto attenta, se privata di più articolati ragionamenti e riscontri, rischia, a nostro avviso, di condurre a considerazioni altrettanto fuorvianti. Manca quindi, ancora oggi, uno studio sistematico sull’architetto che sia in grado di dipanare i molti dubbi, giungendo a rinnovati e più convincenti esiti critici. Il predominio di Vaccarini sull’attività costruttiva catanese per quasi un ventennio sembrerebbe comunque dimostrato dalla sua presenza nei cantieri della Cattedrale (1731-1761), del palazzo dell’Università
(fig.25) (dal 1730, per la costruzione del cortile), del palazzo del Senato (1732-35) e dell’antistante fontana dell’Elefante
(1735), della chiesa della Badia di Sant’Agata (1735-67), del Collegio Cutelli (dopo il 1747) e dell’abbazia dei Benedettini
(1739-43). Gli sono state attribuite tradizionalmente anche la chiesa di San Giuliano e un certo numero di residenze
private, tra le quali ricordiamo i palazzi Villarmosa (dal 1736), Valle (1740 c.) e San Giuliano (intorno al 1745), recante
il suo nome inciso sul concio di chiave dell’arco d’ingresso.
Per quanto la sua opera a Catania si ponga apertamente contro la consolidata tradizione locale, Vaccarini mostra di
saper fondere, in brillanti e originali soluzioni, componenti autoctone e concetti architettonici di ascendenza romana. Il valore della sua ricerca risiede proprio nell’assenza di inerti riproposizioni di esperienze altrui. Si legga in questa
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fig.25 - Catania, palazzo
dell’Università, cortile.
fig.26 - Catania, cattedrale,
facciata.
fig.27 - Catania, chiesa della
Badia di Sant’Agata, pianta
(disegno dell’autore).
fig.25
60
chiave il suo progetto per la facciata del Duomo di Sant’Agata (1731-1761), di certo la sua opera più celebre (fig.26).
Nonostante la chiara vocazione a rielaborare temi romani, Vaccarini, nel concepire l’impostazione complessiva della
grande opera, sembra seguire altri percorsi. Ciò emerge non tanto dal linguaggio dei singoli elementi, comunque
fedele a un classicismo sostanzialmente canonico, quanto dall’impostazione complessiva, facente piuttosto fede a
ciò che aveva potuto osservare in Sicilia. Il progetto, caratterizzato da tre ordini degradanti, dall’uso di telai di colonne libere e da una lieve convessità centrale, sembra infatti una personale interpretazione di opere come la facciata
di Sant’Anna, realizzata a Palermo da Giovanni Amico dopo il 1726, e la facciata guariniana per la chiesa
dell’Annunziata di Messina.
Un più diretto debito di Giovan Battista Vaccarini nei riguardi delle esperienze romane è individuabile invece nella chiesa monasteriale della Badia di Sant’Agata (1735-1767) ma, anche in questo caso, i riferimenti alle esperienze della città
papale sono rielaborati secondo le scelte personali dell’architetto, recependo componenti locali che fanno della chiesa
catanese un’opera singolare e inconfondibilmente siciliana. L’impianto della chiesa (fig.27) viene tradizionalmente riferita dalla storiografia alla chiesa romana di Sant’Agnese in Agone. Del modello romano riprende fedelmente
l’impostazione a croce greca, con predominanza dello spazio centrale coperto a cupola, l’inserimento delle colonne negli
angoli e lo scavo delle cappelle a base semicircolare nei tratti di muro diagonali. Contrariamente alla chiesa romana,
nell’opera catanese l’asse principale è quello della direttrice portale-altare, accentuato dalla conclusione ad abside del
presbiterio e dall’innesto dell’ambiente cubico d’ingresso contenente il coro delle monache. È comunque nella concezione della volumetria esterna (fig.28) che sono rintracciabili le componenti di maggiore originalità. Il movimento concavo convesso della facciata, riconducibile genericamente ad influenze borrominiane, viene elaborato in una composizione del tutto inedita dove Vaccarini fonde citazioni colte e libere sperimentazioni: per far fronte all’esigenza delle
monache di affacciarsi su strada senza essere viste, Vaccarini inserisce tra i capitelli del telaio architettonico, una fascia
fig.26
fig.27
continua di panciute gelosie in lamiera traforata. Sotto di esse corre una frangia in pietra arabescata chiaramente
ripresa dal baldacchino di San Pietro, che qui viene rielaborata come allusione ai sontuosi tessuti da esporre sui prospetti degli edifici nei giorni di festa. I riferimenti romani ritornano nei capitelli a palmette incrociate e nell’audace
timpano concavo, ma questi elementi si sposano con l’originale attico a fitto traforo lapideo e con motivi prettamente siciliani, quali gli scultorei timpani spezzati posti a coronamento del portale centrale.
Ma la concessione agli etimi locali non supera mai un certo limite. Ne è una riprova eclatante il suo modo di operare nell’ambito dell’architettura civile. Vaccarini si oppone in modo drastico all’accanimento decorativo ed alla
deformazione in senso scultoreo degli elementi architettonici. Nelle sue opere i grumi “scultorei” vengono sostituiti
da lisce profilature, le bugne fiorite cedono il passo a bianche cornici intese come piani ritagliati e sovrapposti (si
veda in merito palazzo San Giuliano) (fig.29), demandando la qualificazione delle superfici alla sola accentuazione
plastica degli elementi architettonici e al loro, a volte bizzarro, assemblaggio. Una atteggiamento che potremmo definire “purista”, quindi, teso a riaffermare il primato delle forme architettoniche e delle loro potenzialità espressive.
Le vicende del palazzo Senatorio sono in tal senso emblematiche (fig.30). La ricostruzione della sede della municipalità catanese era stata avviata, subito dopo il terremoto, secondo un impianto planimetrico attribuito all’architetto
Vincenzo Caffarelli. L’edificazione del fronte principale su piazza Duomo iniziò seguendo il motivo “catanese” delle paraste giganti bugnate, ma nel 1735 intervenne Vaccarini che preferì prolungare le paraste, giunte al primo livello, con
piatte lesene. Escludendo ogni possibile impiego dei rilievi scultorei, la parte terminale fu completata poi da un motivo a finestre “appese” al cornicione, desunto probabilmente dal palazzo Doria Phampili di Roma, che l’architetto aveva
di certo osservato durante il suo soggiorno romano tra il 1733 e il 1734.
Nel 1745 l’architetto riprendeva intanto i contatti con l’ambiente palermitano, offrendosi come progettista per il
nuovo albergo dei Poveri. La proposta approdò nel 1746 in un concorso, in occasione del quale Vaccarini si scontrò
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fig.29 - Catania, palazzo San
Giuliano, prospetto principale.
fig.28 - Catania, chiesa della
Badia di Sant’Agata, facciata.
fig.30 - Catania, palazzo
Senatorio, prospetto principale.
fig.28
62
fig.29
con l’ostilità della giuria, subendo la beffa di vedere assegnata la mastodontica opera a Orazio Furetto, un architetto praticamente sconosciuto.
Nel 1747 Vaccarini nominò suo procuratore Giuseppe Palazzotto, segno che i suoi interessi iniziavano comunque ad
allontanarsi da Catania. Nel 1749, infine, dopo la nomina ad architetto della Deputazione del Regno, rientrò definitivamente nella sua città natale. Dei due anni successivi sono i suoi progetti di ristrutturazione dei palazzi del conte
di Prades e del principe di Villafranca. L’inserimento nella sua città si rilevò tuttavia professionalmente deludente.
Nel 1752 fu incaricato dal vescovo di redigere il progetto di ristrutturazione della cattedrale palermitana, ma il suo
impegno prestato all’opera non ebbe seguito. A partire dallo stesso anno Vaccarini si trovò invece coinvolto nel grande cantiere della reggia di Caserta, ricevendo l’incarico di curarne la fornitura di marmi siciliani. Ciò gli consentì di
riprendere i rapporti con Luigi Vanvitelli. L’amicizia fra i due, testimoniata dai rapporti epistolari, ebbe poi modo di
rinsaldarsi durante i soggiorni di Vaccarini a Napoli nel 1753 e, per più di sei mesi, nel 1757.
Al rientro da quest’ultimo viaggio nella capitale partenopea, l’architetto palermitano sembra allontanarsi progressivamente dalla professione, grazie anche al sostegno dei suoi collaboratori: il nipote Giovan Battista Cascione
Vaccarini, operante a Palermo, e Giuseppe Palazzotto, impegnato nei cantieri catanesi.
Nel 1760 la sua carriera ecclesiastica venne coronata dalla nomina ad abate. Nell’ottobre 1767 si recò per l’ultima
volta a Catania in occasione del completamento della chiesa della Badia di Sant’Agata. A quasi quaranta anni dal
suo primo arrivo, la visione della città dovette apparigli profondamente gratificante: molti degli edifici in cui aveva
lavorato erano stati completati e l’impronta data dal suo linguaggio dominava ormai i luoghi più rappresentativi
della città. Rientrato a Palermo, Vaccarini morì nel marzo 1768.
63
fig.30
fig.31 - Catania, chiesa di San
Giuliano, prospetto della facciata
e della loggia (disegno
dell’autore).
64
fig.32 - Catania, chiesa di Santa
Chiara, facciata e loggia.
Giuseppe Palazzotto e la prima attività di
Francesco Battaglia
Tutto da chiarire resta ancora il ruolo svolto
nella Catania del tempo da Giuseppe
Palazzotto (Messina 1683-Catania 1764), il
principale collaboratore del Vaccarini, e suo
procuratore dopo il rientro a Palermo. La sua
attività si intreccia infatti costantemente con
quella dell’architetto palermitano a tal punto
da impegnare la storiografia in complesse e
dubbiose questioni attributive.
Più anziano del Vaccarini di diciannove anni,
Palazzotto era giunto a Catania nel 1709, iniziando a lavorare come «magister lapidum
incisor et fabrorum murarium». In attesa che
il suo apporto creativo venga precisato in
prestigiosi cantieri come il palazzo del Senato
e il palazzo dell’Università, dove subentrò
comunque in cantieri già controllati da
Vaccarini, gli sono stati recentemente attribuiti il palazzo Valle e la chiesa di San
Giuliano, tradizionalmente assegnati al
Vaccarini. Di questo edificio chiesastico sembra potersi ascrivere con certezza al
fig.31
Palazzotto la loggia realizzata intorno alla
cupola della chiesa come belvedere per le
monache (fig.31), soluzione che lo stesso architetto ebbe modo di riproporre nella chiesa di Santa Chiara, (fig.32) la sua
opera più sicura e completa (1760-64).
Negli anni in cui Palazzotto raggiunge la massima affermazione, consacrata con la nomina ad architetto del Senato
nel 1747, risulta già operante a Catania anche Francesco Battaglia (1701-1788), personaggio destinato a un grande
successo professionale soprattutto negli anni ‘60 e ‘70 del secolo, e anch’egli in stretto contatto con Vaccarini.
Tra le sue prime opere come architetto autonomo, oltre al suo intervento per la facciata ad andamento leggermente concavo-convesso della chiesa della SS. Trinità (1745-51) (fig.33), merita una attenta valutazione il suo contributo
nel cantiere del collegio dei Gesuiti (1745-1747 c.) (fig.34), dove gli è attribuito il secondo ordine del cortile. Qui il consueto tema della loggia subisce un significativo ripensamento tramite l’adozione di arcate ribassate il cui movimento
viene riecheggiato dal soprastante cornicione mistilineo.
Al ritmo ondulatorio così ottenuto si contrappone un ritmo più serrato, in senso opposto, ottenuto tramite raccordi
semicircolari tra pilastri e archi. Una soluzione del tutto originale, improntata sulla libertà inventiva e sul dinamismo
del segno progettuale, che individua nel giovane Battaglia un’indole sperimentale ben diversa da quel rigido classicismo caratterizzante l’attività più tarda dell’architetto.
fig.33 - Catania, chiesa della SS.
Trinità, facciata.
fig.32
fig.33
Pietro Paolo Vasta
Nel contesto etneo, parallelamente all’attività del Vaccarini si svolge nella vicina Acireale quella di Pietro Paolo Vasta
(Acireale 1697-1760), artista vicino all’architetto palermitano per formazione e intenti. Vasta era infatti rientrato da
Roma nel 1731, esordendo come pittore nella chiesa di San Sebastiano. Il suo soggiorno di ben 17 anni nella città
papale, dove sembra avesse vissuto, così come il Vaccarini, sotto la protezione del cardinale Ottoboni, aveva profondamente condizionato il suo linguaggio e gli aveva garantito una veloce affermazione in patria. Per quanto la sua
attività fu prevalentemente pittorica, ebbe modo di realizzare un’opera d’architettura di rilievo, la facciata della chiesa dei SS. Pietro e Paolo (fig.35) (1740), legata a un’importante confraternita cittadina da sempre in aperto contrasto
con quella di San Sebastiano. Il drastico distacco dalla tradizione decorativa locale del suo progetto è evidente sia nei
dettagli, sia nell’impostazione generale che, con il suo composto sistema di colonne e risalti, sembra riecheggiare
quel «buon costume dell’architettura Romana che richiede ornato di colonne e maggiori aggetti», a cui aveva fatto
riferimento Sebastiano Conca in occasione del concorso del 1732 per la facciata di San Giovanni in Laterano.
L’operazione del Vasta appare colta ma tuttavia priva di inventiva, quasi un’esercitazione accademica realizzata. La
scelta “romana” dei committenti si rivelò comunque fragile. Nel 1765 alla facciata fu aggiunto un terzo ordine, su
disegno dell’architetto Paolo Guerrera, nel tentativo di conferirgli un verticalismo tipicamente siciliano.
65
fig.34 - Catania, ex collegio dei
Gesuiti, particolare del cortile.
fig.35 - Acireale, chiesa dei SS.
Pietro e Paolo, facciata.
fig.36 - Noto, chiesa di Santa
Chiara, pianta (disegno
dell’autore).
fig.34
Rosario Gagliardi
66
Oltre alle vicende dell’area catanese, nel corso del secondo trentennio del secolo, ad emergere fu soprattutto l’attività
architettonica del Val di Noto, grazie all’affermarsi di Rosario Gagliardi (Siracusa 1690 c., Noto 1762), considerato,
insieme a Giovan Battista Vaccarini, il protagonista di maggior talento del XVIII secolo, nell’ambito della Sicilia sudorientale. La vita professionale dei due architetti si svolse praticamente in contemporanea, anche se sembra che essi
non siano mai entrati in contatto. L’agire in aree diverse, e secondo ricerche distinte, giovò comunque al dibattito
architettonico, rendendo più estesa e articolata la stagione di sperimentazione e di innovazione innescata dalle loro
opere. Così come il Vaccarini, Gagliardi era figlio di un falegname ma, a differenza del collega palermitano, il suo
ingresso nel mondo del lavoro avvenne seguendo le orme paterne.
Con la qualifica di «fabri Lignarius» (carpentiere) lo ritroviamo infatti a Noto a partire dal 1713, quando iniziò a lavorare nel monastero di Santa Maria dell’Arco. Tre anni dopo viene citato nei documenti ancora come semplice «magistro». Grazie alla pratica di cantiere, negli anni successivi Gagliardi acquisì notevoli competenze tecniche considerando che, nel 1723, lo ritroviamo nella vicina Modica, in qualità di «ingignere», nelle chiesa di San Martino (e probabilmente in quella del SS. Salvatore) e, nel 1725, nel convento di Santa Caterina da Siena.
La sua formazione si completò presumibilmente presso il collegio dei Gesuiti di Palermo, dove risulta presente nel
1726. Da qui ritornò nello stesso anno a Noto con l’ambito titolo di architetto, riuscendo ad imporsi in poco tempo
come il più ricercato professionista della città e dei centri urbani vicini.
Grazie anche ai buoni rapporti con i Gesuiti (per i quali lavorò nei cantieri di Siracusa, Noto, Modica e Caltagirone) e
alla fiducia dei vescovi di Siracusa (in particolare Matteo Trigona e il suo successore Francesco Testa), l’affermazione
professionale di Gagliardi non conobbe praticamente interruzioni per più di trent’anni.
fig.35
fig.36
Dopo le prime, e un po’ impacciate, esperienze progettuali nei cantieri netini di Santa Maria dell’Arco e della Collegiata
del SS. Crocifisso (dal 1728), Gagliardi sembra entrare in una fase più matura con il progetto per la chiesa di Santa
Chiara a Noto (1730), adottando un impianto complesso formato dall’aggregazione, secondo l’asse longitudinale, di
tre spazi distinti: il vestibolo a terminazioni absidale, l’aula ovale e il presbiterio quadrato (fig.36). Per quanto il tracciato ovale dell’aula si riferisca a una forma più che sperimentata, Gagliardi mostra una chiara vocazione creativa caricando lo spazio interno di un singolare accento scenografico grazie all’accostamento, lungo l’involucro murario, di
dodici colonne sorreggenti le statue degli apostoli (fig.37). L’assetto esterno della piccola chiesa, concepito come aggregazione di volumi semplici, è tuttavia ancora lontano dalle più stimolanti ricerche gagliardiane.
Di pochi anni dopo dovrebbe essere il suo progetto per la chiesa del collegio gesuitico di Modica (fig.38) (1733 c.),
dove l’architetto mise in atto per la prima volta l’estroflessione della facciata, intesa come conseguenza della forma
dello spazio interno, riprendendo così uno dei temi fondamentali dell’architettura barocca, e anticipando di diversi anni
la chiesa di San Giuliano di Catania.
L’uso delle colonne libere, quali fondamentali elementi di esaltazione plastica, così come l’organico incurvamento delle
superfici divennero delle costanti della ricerca espressiva gagliardiana.
Tra il 1736 e il 1738, l’architetto approdò ad alcuni dei suoi lavori più significativi: il progetto per la chiesa di Santa Maria
delle Stelle a Comiso (databile tra il 1736 e il 1739), e i più fortunati progetti per le chiesa di San Domenico a Noto (dal
1737) e la chiesa di San Giorgio a Ragusa (dal 1738), quest’ultima unanimemente considerata la sua opera principale.
In una fase più tarda della sua attività a Noto, dovrebbero collocarsi i progetti attribuitigli per la riedificazione ex novo
della chiesa madre di San Nicolò e le singolari creazioni per la torre del monastero del SS. Salvatore e per la chiesa gesuitica di San Carlo Borromeo (fig.39) (collocabile, secondo G. Pagnano, negli anni 1748-56). In queste ultime ritornò, con
67
fig.37 - Noto, chiesa di Santa
Chiara, interno.
fig.38 - Modica, chiesa del
collegio dei Gesuiti, pianta
(disegno dell’autore).
fig.39 - Noto, chiesa di San
Carlo Borromeo, pianta (da S.
Boscarino, 1981).
fig.40 - Caltagirone, chiesa di
San Giuseppe, pianta (da
Boscarino, 1981).
fig.37
68
ulteriori risultati, sui temi del movimento e della modellazione plastica delle volumetrie esterne.
Il decennio orientativamente compreso tra il 1740 e il 1750 fu probabilmente il più impegnativo della sua carriera. In questo periodo, oltre al suo febbrile lavoro a Noto, sono documentati infatti incarichi a Comiso, a Modica, a Ragusa, a Siracusa,
a Caltagirone, a Scicli e a Niscemi, segno evidente della raggiunta notorietà in tutto il Val di Noto. A Caltagirone, in particolare, ebbe modo di riprendere i temi legati ai piccoli impianti ad ambiente unico con i progetti per la chiesa di San
Giuseppe (1743-1755 c.), singolare applicazione della matrice geometrica pentagonale (fig.40), e la chiesa di Santa Chiara
(1740?-1746), dove ritorna l’impianto ovale e la facciata incurvata. Bisogna sottolineare che il riproporre da parte del
Gagliardi di un simile impianto per una chiesa annessa a un convento si inserisce in una più ampia tendenza dei monasteri femminili a utilizzare impianti centrici o centrici allungati. Le già citate chiese catanesi della Badia di Sant’Agata e di
San Giuliano ne sono esempi significativi.
Rispetto alle grandi chiese madri e parrocchiali, che si mantennero rigidamente all’interno della tradizione basilicale, le piccole chiese monastiche rappresentarono quindi un ambito tipologico più legato alle tematiche segnatamente barocche. Per quanto in un simile fenomeno non possa essere trascurato il ruolo degli ordini committenti, le soluzioni adottate dal Gagliardi dovettero risultare particolarmente efficaci se si pensa che la chiesa benedettina di San
Chiara a Noto divenne un modello di riferimento per almeno altre tre chiese, dello stesso ordine femminile, realizzate nella seconda metà del Settecento in Val di Noto: San Giovanni a Scicli, San Giuseppe a Ragusa e San Giacomo
a Buscemi. Un ulteriore caso di filiazione, anche se in una versione semplificata, potrebbe essere considerata la chiesa delle benedettine a Sortino.
L’esiguità di notizie sugli anni della formazione e le incertezze attributive su una parte delle opere ascrittegli ostacolano di certo la valutazione del bagaglio culturale del Gagliardi. La sua opera si rivela sostanzialmente compresa
fig.38
fig.39
fig.40
tra il riferimento a una tradizione consolidata e la libera sperimentazione ma, all’interno di tale bipolarità, il gioco
delle citazioni e degli intrecci appare estremamente complesso.
Non vi è dubbio che l’architetto visse da una posizione geografica marginale lo straordinario dibattito delle capitali
europee. In tal modo però, assimilandone le diverse forme attraverso la produzione libresca e incisoria, fu in grado
di annullarne le contraddizioni. La sua opera si pone così come una straordinaria sintesi tra componenti eteronome
ed esperienze locali, tra ossequio al classicismo codificato e libera sperimentazione personale.
L’approccio dualistico del suo metodo progettuale affiora puntualmente nei suoi progetti più celebri. Si pensi alla chiesa di San Domenico a Noto (1737-1762 c): un impianto sostanzialmente tradizionalista e una volumetria basata su
più innovative sperimentazioni (fig.41). La pianta della chiesa si pone sulla scia di quelle ricerche tendenti a conciliare
spazi centrici e spazi longitudinali, attraverso la modificazione della croce greca inscritta nel quadrato. È il caso, per
citare solo alcuni degli esempi più noti, delle chiese del Gesù Nuovo a Napoli (1586), di Sant’Alessandro a Milano
(1602) e di San Carlo ai Catinari a Roma (1612 c.). A questo sistema l’architetto associò l’idea delle terminazioni curve
dei bracci della croce, avvicinandosi così ad altri illustri precedenti, come la chiesa romana dei SS. Luca e Martina (fig.42)
(1634). Il gioco dei rimandi potrebbe continuare ma, in questo caso, non ha lo scopo di individuare dei reali modelli
di riferimento quanto, piuttosto, di porre in evidenza la serena assimilazione da parte del Gagliardi dei criteri compositivi della grande tradizione del Cinquecento e del Seicento italiano. Il contributo di Gagliardi, rispetto ai numerosi precedenti, è individuabile nella convessità centrale impressa alla facciata (fig.43), intesa come conseguenza della
concavità dello spazio interno.
Questa soluzione, come abbiamo accennato, era già stata adottata dall’architetto nella chiesa gesuitica di Modica,
ma nel progetto di Noto acquistò una maggiore forza, grazie a una più energica curvatura della superficie muraria
69
fig.41 - Noto, chiesa di San
Domenico, pianta, progetto
originario (ridisegno dell’autore).
fig.42 - Roma, chiesa dei SS.
Luca e Martina, pianta (da R.
Wittkover, 1958).
fig.43 - Noto, chiesa di San
Domenico, facciata.
fig.41
70
fig.42
e all’accentuazione plastica conferita dal telaio di colonne libere.
Un supporto fondamentale allo studio dell’opera di Gagliardi proviene dalla copiosa raccolta di disegni appartenuti
all’architetto, oggi conservata in tre volumi: un primo interamente dedicato a progetti di chiese e due miscellanei,
forse non interamente di mano dell’architetto, dove si conservano disegni di soggetto militare, progetti di altari e
soprattutto una nutrita serie di ordini architettonici.
Quest’ultimo gruppo di disegni, quotati in ogni dettaglio in modo da poter fungere da grafici esecutivi, ripropone
un repertorio che oscilla dalle soluzioni dei trattatisti italiani del Cinquecento, quali Vignola e Serlio, ai motivi del
tardo Seicento francese (fig.44), come le decorazioni Bérain: soluzioni di opposti orientamenti vengono così ricomposte in un inventario di forme pronte per l’uso e tutte potenzialmente valide.
Negli impianti chiesastici contenuti nel primo volume la componente tradizionale ritorna chiaramente nella tendenza a riproporre, se si escludono alcuni impianti ovali con deambulatorio (fig.45), i temi consolidati dalle precedenti
esperienze italiane. La rinuncia alla sperimentazione, in questo caso, rispecchia l’esigenza, da parte dell’architetto, di
predisporre modelli effettivamente realizzabili, strutturalmente collaudati e proponibili con successo a una committenza in quest’ambito dichiaratamente conservatrice.
A conferma delle loro finalità applicative, i progetti si concentrano in modo evidente nella definizione volumetrica e nell’impatto visivo dei prospetti, entrambi temi centrali per le comunità cittadine impegnate, in quel periodo, nella creazione delle nuove emergenze urbane (fig.46). Fu proprio rispondendo a tali necessità che l’architettura del Gagliardi raggiunse i migliori risultati, come mostra il suo progetto per il Duomo di San Giorgio a Ragusa (1738-1775). Su un consueto
impianto basilicale (fig.47), l’architetto innestò una delle più spettacolari facciate chiesastiche dell’isola. Nel concepimento dell’opera, che ebbe un travagliato iter tra il 1738 e il 1744, ritornano i temi di maggiore attualità dell’ambiente
fig.43
fig.44 - R. Gagliardi, «colonne
composite» (disegno a
inchiostro, coll. Mazza).
fig.47 - Ragusa Ibla, chiesa di
San Giorgio, pianta (disegno
dell'autore).
fig.45 - R. Gagliardi, «Icnografia
della Scenografia citata C»
(disegno a inchiostro, coll.
Mazza).
fig.46 - R. Gagliardi «Scenografia
della Icnografia citata L»
(disegno a inchiostro, coll.
Mazza).
fig.48 - In alto: prospetto della
chiesa dei SS. Vincenzo e
Anastasio a Roma (incisione, da
De Rossi, 1721). In basso: R.
Gagliardi soluzione finale per la
facciata della chiesa di San
Giorgio a Ragusa Ibla (ridisegno
dell’autore).
fig.49 - Ragusa Ibla, duomo di
San Giorgio, facciata.
fig.44
fig.45
fig.47
fig.48
siciliano del momento: lo schema della facciata a tre ordini decrescenti, l’impiego del telaio di colonne libere, il movimento curvo della superficie muraria, rivelando evidenti tangenze con le coeve esperienze di Vaccarini per la facciata
del duomo di Catania. Per la facciata del San Giorgio, Gagliardi sembra però tener conto anche di altri e più trascurati
modelli, quali gli svettanti volumi della facciata torre del duomo di Enna, o più verosimilmente, della celebre, anche se
a quel tempo non più esistente, torre del duomo di Siracusa, sua città d’origine.
L’architetto impresse infatti una forte accentuazione tridimensionale al partito centrale, dando così forma compiuta
all’ibridazione tra campanile e facciata chiesastica. Ma nell’opera è possibile rintracciare un’ulteriore fonte di ispirazione. Il rapporto instaurato tra colonne libere e il muro retrostante, basato sul triplice scatto in avanti del partito centrale, è stato plausibilmente messo in relazione con il progetto di Martino Longhi il Giovane per la facciata della chiesa dei
SS. Vincenzo e Anastasio a Roma (1646) (fig.48), divulgato attraverso le incisioni del De Rossi (1721). Il movimento delle
colonne è comunque sviluppato dal Gagliardi con maggiore decisione e coniugato con un accentuato verticalismo, del
tutto assente nella chiesa romana. Tutte le possibili componenti rintracciabili nel progetto gagliardiano vengono in
definitiva fuse in modo inscindibile in una formula inedita e di grande efficacia visiva (fig.49).
Sulla stessa scia, e negli stessi anni, prese forma anche il progetto per la facciata della chiesa di Santa Maria delle
Stelle a Comiso (fig.50), dove ritorna una più accentuata terminazione a bulbo, tipica dei campanili, quasi a voler
sottolineare la doppia valenza della facciata.
I risultati raggiunti dalla ricerca architettonica sulle facciate-campanile hanno indotto gli studiosi (fin dagli studi di
Rudolf Wittkower e Anthony Blunt) ad avvicinare l’esperienza dell’isola a coeve opere di area germanica, innestante
anch’esse su una lunga tradizione locale.
La possibilità di un reale contatto tra le due regioni in ambito architettonico resta però una questione aperta.
72
fig.46
73
fig.49 - Ragusa Ibla, duomo di
San Giorgio, facciata.
fig.50 - R. Gagliardi, progetto
della facciata della chiesa di
Santa Maria delle Stelle a
Comiso (disegno a inchiostro e
acquarello, Comiso, archivio
parrocchiale).
75
fig.50
Il progetto di Gagliardi per Comiso rimase sulla carta mentre il cantiere di San Giorgio fu portato a termine nel 1775,
esercitando di certo un forte impatto sulla cultura architettonica del momento.
Grazie al clamore di quest’opera, e di altre che nel frattempo erano andate sorgendo, il tema della facciata-campanile si sviluppò in numerosissime varianti fino ai primi decenni dell’Ottocento, portando anche alla sopraelevazione di
prospetti già realizzati.
Vincenzo Sinatra
fig.49
Durante il secondo quarto del Settecento, nel contesto professionale di Noto, si affermò, all’ombra del Gagliardi,
Vincenzo Sinatra (1707-1787). La sua attività, inizialmente con la qualifica di semplice muratore, è documentata
fig.51- Floridia, chiesa Madre,
facciata.
fig.52 - Noto, chiesa di
Montevergine, facciata.
76
dal 1726. Nel 1730 fu assunto come mastro intagliatore nel cantiere di Santa Maria dell’Arco,
diretto da Rosario Gagliardi. Il contatto con il
maestro si rilevò di certo importante per la sua
formazione e per la successiva affermazione professionale. È plausibile pensare che, grazie alla
costante collaborazione con il Gagliardi, Sinatra,
in qualità ancora di capo mastro, ottenne nel
1742 l’incarico di seguire la costruzione del
palazzo municipale. Non è da escludere inoltre
che vi sia stato un legame tra il suo matrimonio
con la nipote del Gagliardi, nel 1745, e
l’acquisizione del titolo di architetto nel 1746.
La sua attività di progettista autonomo iniziò
probabilmente da quell’anno ma, in base alle
poche opere fin oggi attribuitegli, non sembra
che sia stata guidata da un particolare talento
inventivo. Ne è prova il suo progetto del 1761 per
i primi due ordini della facciata della chiesa
Madre di Floridia (fig.51), dove alcune tematiche
fondamentali dell’opera di Gagliardi, quali la curfig.51
vatura della parete, l’uso delle colonne libere e il
sistema a facciata-campanile, vengono riprese e
drasticamente semplificate. Stessa semplificazione affiora dal suo progetto per la facciata della chiesa del monastero di Montevergini a Noto, caratterizzata da una semplice ma decisa concavità centrale (fig.52). Ciononostante le
sue indubbie capacità tecniche, ampiamente dimostrate nella meticolosa gestione del cantiere del palazzo municipale (figg.53-53bis), lo resero un professionista stimato. Lo stesso Rosario Gagliardi, ormai prossimo alla morte, come
ultimo atto di fiducia lo nominò suo procuratore nel dicembre 1762. All’indomani della morte del maestro, Sinatra
si trovò pertanto in una posizione preminente.
fig.52
fig.53
fig.54
fig.53 - Noto, palazzo Ducezio,
particolare dei prospetti.
Il perdurare della tradizione
fig.53 bis - Noto, palazzo
Ducezio, pianta (disegno
dell’autore).
78
fig.53 bis
fig.55
L’opera di Gagliardi si sviluppò parallelamente ai consolidati tradizionalismi progettuali che comunque continuavano a dominare una parte consistente dell’attività
costruttiva del Val di Noto. Ne sono prova i numerosi cantieri delle chiese parrocchiali che, a partire dai primi anni
venti del secolo sembrano vivere un rinnovato impulso.
Emblematica in tal senso è la chiesa di San Giovanni
Battista a Ragusa, sorta a partire dal 1719 come chiesa
madre della parte di città costruita ex novo dopo il terremoto, i cui autori sono da rintracciare tra i capomastri
che presero parte alla costruzione nei primi anni:
Giovanni Arcidiacono e Giuseppe Recupero, provenienti
da Acireale, e Carmelo Cultraro, uno stimato faber
lignarius, originario di Vittoria ma residente da venti
anni a Ragusa, destinato a diventare, negli anni successivi, il titolare di una delle più affermate imprese familiari
del Val di Noto. L’impianto iniziale a tre navate, privo di
fig.54 - Ragusa, chiesa di San
Giovanni Battista, particolare
della facciata.
fig.55 - Ragusa, chiesa di San
Giovanni Battista, ricostruzione
del progetto originario della
facciata (disegno dell’autore).
79
fig.57
fig.56
transetto e cupola, scandito da arcate su colonne, rivela l’intento di collocarsi nel solco della tradizione delle
grandi chiese madri siciliane e competere con queste non per modernità ma per dimensione. Altrettanto conservatore appare il prospetto, realizzato attraverso il sovrapporsi di due progetti, tra il 1731 e il 1765, che approdarono alla riproposizione del canonico schema a due campanili (fig.55) (di cui solo uno fu realizzato). L’opera, per
la sua bidimensionalità e il compiacimento decorativo dei singoli elementi, appare ormai, per quelle date, rigidamente conservatrice, ad eccezione dell’uso delle colonne libere, che risultano tuttavia ingenuamente accostate (fig.54),
senza entrare in rapporto con il muro retrostante e con l’ordine superiore.
Tra il 1721 e il 1722 si impiantarono poi i cantieri delle chiese di San Nicolò e Santa Maria della Stella a Militello,
dove l’ossequio alla tradizione viene vitalizzato soltanto da elaborati portali e dagli svettanti fastigi posti a conclusione del timpano di coronamento, secondo una soluzione che verrà poi ripresa nella già citata chiesa dei Santi
Pietro e Paolo ad Acireale. Del 1721 è anche l’impianto della facciata della chiesa di San Sebastiano a Palazzolo
Acreide (fig.56), del siracusano Mario Diamanti, che si ispirò invece all’omonima chiesa di Acireale, riconducendo
all’interno di forme e soluzioni più consuete il sistema a tre ordini con loggia campanaria sommitale (quest’ultima
conclusa solo nella seconda metà dell’Ottocento).
Lo stesso atteggiamento conservatore lo ritroviamo nella piatta facciata della chiesa di San Pietro a Modica (fig.8) , iniziata nell’ultimo decennio del Seicento (i portali furono collocati nel 1697) - ad opera del capomastro Mario Spata e
fig.56 - Palazzolo Acreide,
chiesa di San Sebastiano.
fig.57 - Noto, palazzo Nicolaci,
particolare della facciata.
81
del mastro intagliatore messinese Francesco Romeo (alias Agliotti) - ma completata con la realizzazione del secondo
ordine solo dopo il 1775. Per quanto la decorazione delle volute di raccordo tra il primo e il secondo ordine e, soprattutto, i flessuosi motivi del finestrone centrale sono da ricondurre a un linguaggio pienamente settecentesco, estraneo al repertorio conosciuto da Spata e Romeo, l’opera presenta una certa coerenza d’insieme dimostrando come,
al di là degli inevitabili aggiornamenti linguistici, i criteri del progetto originario non furono traditi.
Perdura, infine, e subisce un’ulteriore amplificazione plastica anche il tema del balcone con mensole scultoree che, proprio in quegli anni, raggiunge un apice non più suscettibile di ulteriori sviluppi nella facciata del palazzo Nicolaci a Noto
(fig.57), riconducibile al 1737 ma dalla paternità ancora ignota. Al di là degli inequivocabili rapporti di continuità con la
tradizione dei lapidum incisores, il repertorio figurativo dei mensoloni della dimora netina si distingue per l’originalità
delle forme, che rivelano un autore capace di andare oltre i modelli tradizionali e rivolgersi a uno spettro di riferimenti più ampio, forse veicolato dallo stesso committente del palazzo, Giacomo Nicolaci di Villadorata (1711-1760), inserito in un entourage internazionale.
La mancata attribuzione di gran parte della straordinaria architettura palazziale dei centri del Val di Noto (il rimando
va a opere come i palazzi Napolino-Tommasi-Rosso a Modica, Judica a Palazzolo, Melfi di Sant’Antonio a Ragusa Nuova
e Trigona a Noto), associata ad una loro incerta collocazione temporale, costituisce in realtà un sostanziale vuoto conoscitivo che ostacola una più esaustiva comprensione della grande stagione architettonica della Sicilia sud-orientale e
dei suoi protagonisti.
fig.58 - Catania, palazzo Biscari,
particolare del prospetto verso il
mare.
fig.59 - Caltagirone, chiesa di
Santa Maria del Monte, facciata.
fig.60 - Catania, chiesa di San
Michele Arcangelo dei Minoriti,
facciata.
Dagli anni Sessanta agli anni Novanta del Settecento: l’ultima stagione del Barocco.
Nel 1761, Rosario Gagliardi, mentre era in piena attività, fu colto da un colpo apoplettico. L’architetto si spense a
Noto poco dopo il dicembre 1762. Negli stessi anni, il sessantenne Giovan Battista Vaccarini, ormai da tempo residente a Palermo, iniziò a ritirarsi dall’attività professionale, anche se la sua vita si concluse nel 1768. La forza delle
esperienze condotte dai due maestri fu comunque tale da non esaurirsi con la loro scomparsa. Dopo la morte di
Gagliardi e Vaccarini, le tendenze professionali e architettoniche della Sicilia sud-orientale non seguirono tuttavia
un unico destino.
82
Stefano Ittar e l’opera tarda di Francesco Battaglia
Nell’area catanese, dopo la morte, nel 1764, di Giuseppe Palazzotto, l’ambiente professionale fu monopolizzato da
Francesco Battaglia e da Stefano Ittar, un architetto di origine polacca trasferitosi da Roma a Catania intorno al 1765.
L’attività di Francesco Battaglia fu intensa e articolata, riuscendo ad estendersi anche in altri centri etnei e a
Caltagirone. Innestatosi sull’eredità vaccariniana, il suo linguaggio si mosse verso il progressivo affrancamento dalle
tendenze sperimentali che avevano caratterizzato l’ambiente catanese della sua giovinezza. È bene sottolienare che la
ricerca di Battaglia non si aprì alle più avanguardistiche tendenze del tempo - come il gusto antiquario piranesiano o
il razionalismo di stampo francese - quanto piuttosto alla più diffusa corrente del dibattito architettonico italiano,
rivolta alla drastica riduzione delle libertà progettuali all’interno di un più rigido classicismo che, come è noto, in
molti casi finì per sfociare in un neocinquecentismo accademico. Il suo fu un linguaggio colto, capace di soluzioni
raffinate e ponderate ma comunque raggelato da una sorta di “ richiamo all’ordine” nei riguardi delle bizzarie barocche.
Una significativa parentesi in questa direzione è data dal suo impegno nei lavori di ampliamento del palazzo Biscari
fig.58
(1764-1786), dove l’architetto - pur opponendosi alle fantasmagorie decorative del fronte a mare con un energico
sistema di semicolonne e paraste binate (figg.58) - nella definizione del grande salone interno dovette assistere, per
evidente volontà del committente, al trionfo del più acceso rococò. Coerente risultato della sua linea di ricerca è la
facciata della chiesa Madre di Caltagirone, oggi Santa Maria del Monte (dal 1766) (fig.59). Qui anche gli evidenti
omaggi al progetto della facciata vaccariniana del Duomo di Catania - rintracciabili nei portali laterali, con finestra
ovale e timpano a omega, e nell’arco posto al centro del secondo ordine - vengono depurati, appiattiti e ricondotti
all’interno di una serena composizione priva di energia plastica.
Informata dalla stessa volontà di ridurre i risalti plastici e ricondurre la composizione ai criteri trilitici dell’ordine trabeato, è anche la più tarda facciata della chiesa di San Michele Arcangelo dei Minoriti a Catania (1770-1787) (fig.60) dove
l’architetto, tuttavia, non rinuncia a un fitto gioco di incastri tra colonne, paraste e parete.
L’attività di Stefano Ittar (Owrucz 1724, Malta 1790), genero di Battaglia, operante a Catania fino al 1784, si rivela
più attenta alle esperienze locali, pur non rinunciando alle memorie e ai criteri progettuali assimilati a Roma, nel
tentativo di approdare a un efficace equilibrio tra sperimentalismo tardobarocco e misurato classicismo.
83
fig.59
fig.60
fig.62
Lo dimostra pienamente il suo progetto per la facciata della chiesa della Collegiata (1767), energica e colta interpretazione del tema del prospetto inflesso e svettante.
Sullo schema della facciata a torre campanaria, desunto dall’ambiente isolano, Ittar ricompone al primo livello il
gioco delle colonne secondo il canonico sistema dell’ordine trabeato, rinforzando il segno orizzontale della trabeazione fino a configurare, in corrispondenza del portale, una sorta di portico schiacciato (fig.61). La soluzione sembrerebbe nascere dalla volontà di conferire forza tridimensionale all’impostazione data da Allessandro Galilei alla facciata della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma (1732-35) dove, al posto delle colonne libere adottate da Ittar,
troviamo colonne alveolate. La rigidità del sistema trilitico nel progetto catanese viene inoltre smorzata da una lieve
curvatura del partito centrale, riecheggiata ai margini della facciata dalla rotazione della giacitura delle colonne. La
curvatura viene ribadita al secondo ordine dove l’architetto ripensa radicalmente la terminazione a campanile, associando una nicchia cassettonata - che richiama quella della facciata della chiesa della Maddalena di Roma - con una
cella campanaria cupolata le cui forme riecheggiano alcune invenzioni di Andrea Pozzo.
Una piena e creativa adesione alla bicromia caratterizzante l’architettura settecentesca catanese prende invece forma
nella fasciatura orizzontale della porta Ferdinandea (fig.62), progettata dall’Ittar nel 1768, mostrando una singolare sensibilità verso gli effetti cromatici, affiorante anche in altre opere dell’architetto.
L’attività di Ittar e soprattutto quella di Battaglia aprirono la strada all’affrancamento graduale e senza traumi dalle forme
barocche attuato poi dai loro figli, Antonino Battaglia (Catania 1753-1823?) e Sebastiano Ittar (Catania 1768-1847).
Paolo Labisi e lo scontro con i capomastri del Val di Noto
Più lunga e vitale fu l’ultima stagione del barocco in Val di Noto. Nell’ampio territorio comprendente Siracusa, Noto e i
centri della contea di Modica, a partire dagli anni sessanta del secolo, l’attività costruttiva fu monopolizzata dalle imprese artigiane, ancorate agli esiti più eclatanti delle opere del Gagliardi e propense a una disimpegnata sperimentazione
fig.61
fig.61- Catania, chiesa di Santa
Maria dell’Elemosina
(Collegiata), facciata.
fig.62 - Catania, porta
Ferdinanda.
87
fig.63 - Paolo Labisi, progetto di
villa Gargallo (disegno a
inchiostro, da A. Krämer, E.
Fidone, 2000).
fig.64 - Paolo Labisi, progetto
per la casa e chiesa dei padri
Crociferi a Noto (disegno a
inchiostro, Noto, Biblioteca
Comunale).
fig.65 - Modica, chiesa di San
Giorgio, facciata.
fig.63
88
fig.64
dei repertori decorativi rococò. Il perdurare nel Val di Noto di tali tematiche fu in realtà una tendenza diffusa che coinvolse non solo i capomastri, tra i quali ricordiamo, per la loro attività progettuale, Carmelo Bonaiuto, Costantino
Cultraro e Luciano Alì, ma i pochi architetti di spicco operanti nell’area, come il già citato Vincenzo Sinatra (1707-1787)
che, dopo la morte di Gagliardi (1762) si trovò in una posizione professionale del tutto preminente, e il più giovane
Paolo Labisi (1720-1798?). A differenza del Sinatra che aveva esordito come semplice muratore, Labisi ebbe una formazione esclusivamente intellettuale.
Appartenente a una famiglia della piccola aristocrazia netina, il suo percorso formativo avvenne, con ogni probabilità, sotto
la tutela di Francesco Sortino, ricordato come «Professore di filosofia, matematica e belle arti della città di Noto». A lui si
deve infatti la traduzione pervenutaci del trattato matematico-architettonico di Christian Wolff, Elementa Matheseos
Universae (1713-1715), scritta per il Labisi nel 1746. Il riferimento alla cultura architettonica tedesca, ed europea in genere, sembra sia stata per Labisi una componente ricorrente del suo operare, nel costante tentativo di acquisire un linguaggio dal respiro internazionale. In quest’ottica va interpretato il suo progetto per la grande facciata della chiesa di San
Giorgio a Modica (1761), e il progetto per la villa del barone Gargallo di Siracusa (fig.63), anch’essa ispirata, come il palazzo
municipale di Noto, al tema diffusosi in Europa della maison de plaisance a convessità centrale. Alcune sue scelte progettuali, la sua stessa abilità grafica, rivelano anche una evidente dipendenza dal Gagliardi. Ne abbiamo una prova emblematica in soluzioni di dettaglio e d’insieme del progetto per il complesso dei padri Crociferi di Noto (1751). Si noti in particolare la pianta ovale con deambulatorio dell’annessa chiesa di San Camillo (fig.64), che costituisce una sorta di sintesi di due
analoghi impianti elaborati dal Gagliardi per la sua raccolta di disegni. Legata a una fase più tarda della sua carriera, e del
tutto estranea alla poetica del Gagliardi, risulta invece la sua adesione al rococò, del quale rielaborò liberamente i repertori nell’ideare elementi architettonici, dettagli decorativi e arredi lignei.
A differenza del Sinatra, Labisi fu un progettista brillante ma della sua attività sono state fin oggi rintracciate più testimonianze grafiche che opere costruite. Nessuno dei suoi progetti citati giunse a buon fine, a causa probabilmente di una
sua mediocre preparazione tecnica che lo vide ricorrentemente sollevato dagli incarichi durante la fase realizzativa.
fig.65
fig.66 - L. Zucchi, Hofkirche a
Dresda secondo il progetto di
G. Chiaveri ( incisione, da E.
Hempel, 1955).
fig.67 - Buscemi, chiesa di
Sant’Antonio, particolare della
facciata.
fig.66
90
fig.67
Le difficoltà professionali ebbero probabilmente inizio poco dopo il 1755, quando, nel corso di un suo intervento nella
chiesa madre di Sortino, fu accusato di imperizia e gli venne richiesto un risarcimento economico. L’eco della vicenda di Sortino giunse a Modica, giocando a favore di chi voleva sottrargli il grande cantiere della facciata di San Giorgio.
Dopo l’inizio dei lavori, sempre in base ad argomentazioni di carattere tecnico, l’architetto venne apertamente criticato dai capomastri e sollevato dall’incarico. Stessa sorte seguì nel cantiere della casa dei Crociferi di Noto. Nel 1766,
a causa di un parziale crollo della struttura in costruzione, gli fu affiancato come «secondo architetto» Vincenzo
Sinatra, personaggio che il Labisi doveva reputare un ignorante capomastro. Quattro anni più tardi, infine, venne
allontanato dal cantiere in seguito ad un’aspra controversia sui costi e sulla stabilità dell’edificio. L’opera fu quindi
portata avanti dal Sinatra che ne modificò in parte il progetto iniziale.
Sembrerebbe in definitiva che la sua formazione raffinata, se da una parte gli consentì di entrare in contatto con
grandi opportunità lavorative, dall’altro, nell’impatto con la realtà dei cantieri, lo rese vulnerabile agli attacchi dei
più esperti capomastri, tendenti in quel periodo ad impadronirsi, senza l’aiuto di nessuno, dei cantieri più prestigiosi. Queste vicende non fermarono la carriera professionale di Paolo Labisi ma di certo ne ferirono profondamente
l’orgoglio, costringendolo a incassare pesanti insuccessi. Agli storici restano ovviamente intricate e spesso irrisolvibili
questioni attributive, come nel caso della facciata della chiesa di San Giorgio a Modica (1761-1848), di certo una
delle opere più significative del Settecento siciliano (fig.65).
Allo stato attuale degli studi, per quanto sia certo che il disegno iniziale fu modificato, si è comunque propensi ad
attribuire al Labisi almeno la sua impostazione complessiva. Di questo orientamento sono soprattutto le recenti
ricerche (A. Krämer), che hanno sottolineato una possibile derivazione del progetto per il San Giorgio dalle incisioni
riproducenti la chiesa cattolica di corte a Dresda (dal 1738) (fig.66). Una possibile derivazione della chiesa siciliana da
quella tedesca è supportata anche dal fatto che, nell’opposizione al progetto scritta dal tesoriere della fabbrica, Labisi
fu accusato, tra le altre cose, di trascurare la pratica costruttiva locale proponendo capricci inventivi desunti da autori che avevano soggiornato in «Germanea ed altre parti». A partire dal 1762, assunsero comunque un ruolo primario
nella conduzione dei lavori i capomastri Michele Alessandra, Pietro Cultraro (dal 1764) e Costantino Cultraro, questi
ultimi appartenenti ad una delle imprese familiari più attive del Val di Noto. Bisogna considerare inoltre che
Costantino Cultraro svolgeva anche l’attività di progettista ed ebbe quindi di certo l’opportunità, e la volontà, di
modificare i disegni di Labisi. Allo stesso Cultraro si deve la paternità dell’incompleto prospetto della chiesa di
Sant’Antonio a Buscemi (1767) (fig.67), un’opera certamente interessante che rivela come alcuni degli esiti più significativi dell’opera di Rosario Gagliardi, come il movimento concavo-convesso del piano di facciata, fossero stati
assorbiti anche dalla più pragmatica cultura costruttiva dei capomastri. La disinvoltura con cui Costantino tratta il
tema del movimento conduce, nella facciata di Buscemi, ad una insuperata esasperazione della curvatura, che
mostra come il suo modo di progettare rimase comunque estraneo ai più ponderati e controllati processi creativi
degli architetti.
Persa in campo la battaglia con i capomastri, Labisi si dedicò alla stesura di un trattato dal titolo “La scienza
dell’Architettura civile”, completato nel 1773 e rimasto manoscritto. Fu un modo per rilanciare il primato della formazione teorica su quella pratica, ma anche un mezzo per disprezzare chi lo aveva umiliato. Contro la cultura superficiale dei suoi antagonisti così scrisse: «se poi credono, che le Scienze sono facili ad apprendersi da se soli, e soltanto con una lettura delle cose [...] gli si può francamente rispondere, che un tale assunto potrà essere preso ò da un
Ignorante, o veramente un matto che non ha cervello».
--L’assenza di dati cronologici e di attribuzioni per un gran numero di opere realizzate nella seconda metà del secolo
non consento, allo stato attuale degli studi, di avere una idea chiara delle capacità progettuali e dell’affermazione
professionale delle diverse imprese artigiane. In attesa quindi che la ricerca storica fornisca più illuminanti coordinate sullo sconfinato patrimonio architettonico del Val di Noto, si può procedere solo per ipotetiche attribuzioni,
come nel caso dell’enigmatico palazzo Beneventano a Scicli che, in mancanza di supporti documentali e dati cronologici, si tende ad attribuire, sia nel disegno che in parte dell’esecuzione, a Pietro Cultraro, fratello di Costantino.
L’opera, da ricondurre forse agli anni sessanta-settanta del Settecento, si colloca, come il citato palazzo Nicolaci a
Noto, nell’ambito di quella radicata tendenza locale, secondo la quale il grado di elaborazione dei balconi e delle
aperture costituiva una componente fondamentale di distinzione sociale dei proprietari. Gli esiti formali raggiunti
pongono tuttavia il palazzo tra le opere dotate di maggiore originalità del coevo panorama siciliano. Particolarmente
elaborata è la soluzione d’angolo a paraste con bugne lobate, pensata per porre in risalto la parte del palazzo più in
vista dallo stretto scenario urbano. Sorprende poi il “gigantismo” impresso alla decorazione delle chiavi degli archi
al piano terra, modellate a forma di grandi teste di creature mostruose e di caricaturali saraceni (fig.68).
Anche a Siracusa le imprese artigiane ebbero un ruolo importante per tutto il secolo. A partire dai primi anni sessanta, in città emerse, come architetto colto e aggiornato, Alexandre Louis Dumontier, un professionista di origine francese che resta tuttavia un personaggio ancora da indagare e non è chiaro quanto la sua opera abbia effettivamente
inciso sull’ambiente cittadino. Ma in attesa di più attente analisi rimane anche l’operato di attivi personaggi dalla formazione artigiana come Carmelo Bonaiuto, «Capo Mastro delle Regie Fabbriche», Nicolò Sapia e Luciano Alì (17361820), esponente di spicco di una delle più antiche famiglie di capomastri siracusani. Dopo un lungo tirocinio in
diversi cantieri cittadini, Alì riuscì ad imporsi anche come progettista, giungendo alla consacrazione professionale
con l’incarico di ristrutturare integralmente il palazzo Beneventano del Bosco (1779-1788) in piazza Duomo,
91
fig.68 - Scicli, palazzo
Beneventano, particolare della
facciata.
fig.69 - Siracusa, palazzo
Beneventano del Bosco,
particolare del cortile.
fig.69
appartenente a una delle famiglie più prestigiose dell’aristocrazia siracusana. L’impegno progettuale di Alì si concentrò soprattutto nel nuovo corpo della scala di accesso al piano nobile. La struttura, alleggerita da ampie arcate su
entrambe i fronti, fu concepita come un filtro traforato, tra i due spazi aperti dei cortili, contenente al centro lo scalone a doppia fuga di rampe. Si trattava di una formula dal grande effetto scenografico ma ormai, a quelle date,
ampiamente collaudata (fig.69). Basti pensare ai palazzi napoletani, dove le strutture traforate degli scaloni posti in
asse con l’ingresso avevano fatto la loro prima, e insuperata, apparizione settecentesca. Anche Palermo aveva già
prodotto significative opere basate su questi criteri, come gli scaloni di palazzo Bonagia (intorno al 1755), di palazzo
Cutò (1758-60) e di palazzo Comitini (1766 c.). L’opera di Alì si riscatta tuttavia per il felice esito formale, per la forza
plastica impressa dalle colonne binate e per l’impeccabile esecuzione in pietra d’intaglio, segno evidente, quest’ultima, delle competenze artigiane del progettista. Più ingenua e ritardataria appare invece la riproposizione di motivi
rococò sul coronamento della facciata.
92
fig.68
93
La reazione classicista
fig.70
Nonostante il generalizzato indugiare su tematiche
barocche, che finì per concretizzarsi in un reale disimpegno nella ricerca architettonica da parte dei capomastri,
anche nel Val di Noto, a partire dagli anni sessanta soprattutto da parte di architetti provenienti dagli
aggiornati ambienti palermitani e catanesi - non mancarono i tentativi di impiantare un rigoroso classicismo di
stampo internazionale.
All’interno di questo limitato filone va posto l’assetto
classicista della facciata del duomo di Noto (fig.70),
costruita a partire dal 1767 e completata alla fine del
Settecento, sotto le direttive dell’architetto Bernardo
Labisi. Il lungo periodo di realizzazione e alcune incongruenze linguistiche rendono dubbiosa la paternità dell’opera. Dell’edificio è stato notato un certo accento
francese, accostandone la sua impostazione a quella
della facciata della chiesa parrocchiale di Versailles
(secondo A. Blunt) o della chiesa di Saint Roch a Parigi
(secondo M. R. Nobile) (fig.71). Gli indizi di una possibile
rielaborazione di un progetto francese sono stati del
fig.71
resto già posti in evidenza nelle vicende del vicino palazzo municipale. Va poi segnalato, negli anni di costruzione della facciata del duomo, l’impegno progettuale di Andrea Gigante (1731-1787) per la chiesa del SS. Salvatore
(fig.72) (dal 1767), prospettante sullo stesso invaso della piazza Duomo, da considerare di certo l’opera più drasticamente estranea al linguaggio barocco tra quelle realizzate nel XVIII secolo a Noto.
Composto e coerente appare anche il classicismo del prospetto della chiesa dell’Annuniziata di Comiso (dal 1772)
(fig.73), elaborato, insieme all’impianto dell’edificio, da Giovan Battista Vaccarini, anch’egli, come Gigante, proveniente da Palermo.
Ma al di là di questi casi eclatanti, dovuti all’azione di singoli architetti in un contesto non sempre favorevole,
l’esaurimento del Barocco nel Val di Noto seguì, nel corso dell’ultimo ventennio del secolo, ritmi più lenti e graduali. Emblematica in tal senso è l’opera degli ultimi esponenti delle famiglie artigiane di Siracusa: Natale Bonaiuto
(Siracusa 1730-Caltagiorne 1794), e Salvatore Alì (Siracusa 1767, not. fino al 1821). Al primo, operante a Caltagiorne
dagli anni settanta, si deve l’impaginazione palladiana del Monte di Pietà (1783) e la severa mole del Carcere
Borbonico (fig.74) (1781-89), per la quale fu adottata l’accademica soluzione a paraste giganti su basamento bugnato. Eppure, nella stessa facciata Bonaiuto concatenò verticalmente le aperture alternando cornici a omega e flessuose volute, chiaramente memori dell’esuberanza decorativa barocca. Un più evidente compiacimento decorativo
prende forma nell’intreccio tra pietra e maiolica policroma del teatrino belvedere (1792), sempre a Caltagirone, da
considerare l’ultima opere d’impegno dell’architetto.
Si guardi infine alle vicende della chiesa di San Bartolomeo a Scicli (1753-1815). L’impostazione interna è ancora
intimamente connessa con i criteri della tradizione siciliana: un semplice involucro, appena segnato dal telaio
fig.70 - Noto, chiesa di San
Nicolò, facciata.
fig.71 - Chiesa di S. Roch a
Parigi (incisione, da J. Mariette,
post 1727).
95
fig.72 - Noto, chiesa del SS.
Salvatore, facciata.
fig.73 - Comiso, chiesa
dell’Annunizata, facciata.
fig.74 - Caltagirone, carcere
Borbonico, facciata.
fig.73
97
fig.72
fig.74
fig.75 - Scicli, chiesa di San
Bartolomeo, facciata.
architettonico, la cui qualificazione è interamente demandata al fastoso apparato decorativo realizzato in gran
parte tra il 1760 e il 1780 dagli stuccatori Giuseppe e Giovanni Gianforma, tenacemente fedeli ai temi decorativi di ascendenza rococò. Nel concepimento della facciata, realizzata tra il 1801 e il 1815, ebbe invece un ruolo
primario Salvatore Alì, figlio del già citato Luciano. A differenza del padre, Salvatore aveva condotto gli studi
teorici per diventare architetto, riuscendo ad assumere, nel 1792, la carica di architetto Camerale di Siracusa.
Nel cantiere di San Bartolomeo l’architetto ebbe modo di cimentarsi sul tema della facciata torre che aveva
segnato in modo determinate l’architettura religiosa siciliana del secolo appena conclusosi. Gli elementi fondamentali delle opere del XVIII secolo sono tutti presenti: i tre ordini degradanti raccordati da volute, il gioco plastico delle colonne libere, le statue integrate con la composizione architettonica, il coronamento cupoliforme.
Ogni componente viene però rielaborata secondo un sobrio classicismo che raffredda e semplifica i dettagli e
cancella il compiacimento decorativo. Ciononostante, anche in quest’opera, ormai temporalmente e linguisticamente lontana dalla grande stagione architettonica del Settecento, la forza d’impatto sull’ambiente urbano,
l’idea stessa della facciata come turriforme macchina scenografica del tutto svincolata dalla retrostante struttura della chiesa (fig.75), restano ancora nel solco delle esperienze precedenti.
98
fig.75
CAPITOLO III
Le città
CALTAGIRONE
Pagg. 102-103 Caltagirone,
veduta aerea.
L’originario nucleo del centro storico di Caltagirone si formò in età normanna (tra la fine del XI e l’inizio del XII secolo) come città del demanio regio, su uno sperone roccioso in corrispondenza dell’intersezione di due importanti vie
di traffici: quella tra la costa meridionale (piana di Gela) e la costa ionica (piana di Catania) e quella tra l’altopiano
nisseno e l’altopiano della contea di Modica.
Il tessuto urbano, già in età medievale, si era andato delineando secondo quattro quartieri legati ad altrettante chiese parrocchiali: San Giorgio e San Giacomo, delimitanti gli estremi est e ovest dell’abitato, e, in una posizione baricentrica secondo la direzione nord-sud, la chiesa Madre, collocata nella parte più alta, e le chiesa di San Giuliano.
Tra questi fu in modo particolare il quartiere di San Giacomo, patrono della città, a consolidarsi nei secoli successivi come l’area urbana privilegiata dalle famiglie nobiliari.
Nel corso del XVI secolo la città aveva vissuto diversi eventi traumatici che, tuttavia, non sembrano averne fermato
lo sviluppo: il sanguinoso conflitto tra le opposte fazioni baronali dei Bonanno e dei Gravina, conclusosi nel 1529
con la sconfitta di quest’ultimi; i terremoti del 1534 e del 1542, che avevano causato considerevoli danni al patrimonio edilizio e, infine, il pericolo della peste scoppiata in Sicilia nell’estate del 1575, da cui era dipeso lo sforzo collettivo per il restauro e il completamento delle antiche mura cittadine, in modo da poter concentrare il cordone sanitario alle sole porte di accesso. L’impegnativa opera svolta sul circuito murario, oltre a preservare il centro dal dilagare del contagio, consolidò i limiti dell’abitato stabilendo una perimetrazione che venne mantenuta anche dopo il
terremoto del 1693. Nonostante le gravi carestie del 1589 e del 1591, tra la fine del XVI e i primi decenni del XVII
secolo, la vitalità architettonica di Caltagirone è attestata da una serie di iniziative tese a riqualificare l’impianto
urbano, attraverso la consulenza di qualificati maestri e architetti forestieri.
Chiesa di Santa Chiara,
particolare del portale.
105
Palazzo Gravina di Ramacca,
particolare della facciata.
Chiesa di Santa Chiara, facciata.
106
107
Con la fondazione del collegio dei Gesuiti nel 1570, e la conseguente delimitazione del piano antistante la chiesa,
era infatti iniziata l’opera di riassetto del centro cittadino proseguita, intorno al 1587, con la costruzione, affidata
ad Antonuzzo Gagini, del nuovo palazzo della corte Capitaniale.
Sulla stessa direttrice individuata dall'asse di collegamento dei piani del collegio e della corte, nel 1606 fu aperta, su progetto dell'architetto palermitano Giuseppe Giacalone, la monumentale scalinata di Santa Maria del Monte. Veniva così a
rafforzarsi urbanisticamente l'asse nord-sud che, incrociando la direttrice est-ovest delle vie San Giorgio e San Giacomo,
rendeva più chiara la divisione della città in quattro parti. Al 1627 la storiografia riconduce poi i progetti dell'architetto
messinese Simone Gullì per la riedificazione della chiesa di San Giuliano e quello del romano Orazio Torriani per il ponte
San Francesco (completato in realtà solo nel 1665), avente lo scopo di consolidare e rendere agevole il collegamento tra
la piazza del Mercato e l'appendice meridionale dell'area urbana delimitata dalle mura, dominata da un poggio su cui era
sorto il complesso conventuale di San Francesco d'Assisi. Il consolidarsi in quegli anni di Caltagirone come una delle città
siciliane emergenti trova conferma nell'elevazione del collegio dei Gesuiti a sede universitaria (1622) e, nel 1638, nella
concessione all'assemblea dei Giurati del titolo di Senato, prerogativa amministrativa dei maggiori centri dell'isola. Nel
censimento del 1652, con i suoi 10.951 abitanti, Caltagirone risultava tra i centri più popolosi del Val di Noto. Il terremoto del 1693, per quanto di certo si pose per la città come il più grave evento dell'età moderna, procurando circa 1.000
morti, risultò meno devastante che altrove, tanto che fu possibile procedere alla ricostruzione senza mutare in modo rilevante l'assetto viario e la giacitura degli edifici preesistenti. A subire i danni maggiori furono soprattutto le strutture
medievali e i campanili delle chiese di San Giorgio, San Giacomo e della chiesa Madre, che richiesero una riedificazione
Chiesa Madre, interno.
Chiesa di San Giacomo, facciata.
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quasi totale. Danni meno rilevanti subirono invece gli impianti più recenti, come la corte Capitaniale, il complesso dei
Gesuiti e il convento di San Francesco di Paola, i cui ultimi interventi risalivano al 1690. In molti casi fu comunque possibile mantenere le originarie giaciture e recuperare parte delle strutture preesistenti. Le stesse considerazioni valgono per
l'architettura residenziale di pregio, nell'ambito della quale è ancora oggi possibile rintracciare consistenti brani dell'architettura calatina del XVI e XVII secolo. L'attività ricostruttiva post terremoto, coordinata da quattro deputati nominati
dal duca di Camastra, sembra sia stata quasi del tutto monopolizzata da professionisti provenienti da altri centri, come i
mastri Giuseppe Montes da Palermo e Simone Lo Mastro da Agrigento, impegnati per circa dieci anni nei cantieri delle
chiese di San Giacomo, di San Giuliano e della chiesa Madre (l'attuale Santa Maria del Monte). Pochi anni dopo giunsero da Catania il giovane Francesco Battaglia e i fratelli messinesi Andrea e Tommaso Amato, già attivi in alcuni dei più
impegnativi cantieri dell'area catanese.
La ricostruzione di Caltagirone venne retoricamente celebrata, su iniziativa dei quattro deputati nominati dal Camastra,
con la stampa, nell'anno 1700, di una pianta assonometrica della città «Ristorata dopo le rovine del Terremoto». Al di là
dell'evidente scopo propagandistico dei committenti e del fatto che in realtà, a quelle date, molti cantieri erano ancora
all'inizio, la pianta testimonia comunque come, nel giro di pochi anni, la città fosse riuscita quantomeno ad uscire dalle
fasi più critiche dell'emergenza. Così come avvenne per molti centri del Val di Noto, gli anni quaranta segnano anche per
Caltagirone una fase di ulteriore sviluppo dell'attività costruttiva. Sono gli anni dell'attività calatina di Rosario Gagliardi
che, tra il 1743 e il 1751, progettò e portò avanti la costruzione delle chiese di Santa Chiara, di San Giuseppe e il campanile, oggi non più esistente, dell'oratorio del SS. Crocifisso. Ben documentata è anche la successiva attività di Francesco
Battaglia (a Caltagirone dal 1755) che, insieme a quella più tarda di Natale Bonaiuto, chiude la stagione del barocco calatino. Come mostra la pianta assonometrica del 1774, nel frattempo, la città aveva iniziato ad espandersi oltre il perimetro murato, privilegiando le aree meridionali a valle. Con l'opera di Bonaiuto, rivolta alle strutture di pubblica utilità (quali
il carcere, il palazzo di Monte di Pietà e il teatrino Belvedere) e alla sistemazione architettonica della strada Carolina
(1766-1769), vennero consolidate le vocazioni urbane della futura stagione ottocentesca, orientate alla qualificazione
monumentale del centro cittadino e allo svago pubblico fuori le mura.
La chiesa del collegio dei Gesuiti
Su sollecitazione del principe di Butera e del vicerè Avalos, il senato di Caltagirone, nel 1569, decise di finanziare la costruzione
di un collegio gesuitico, facendosi carico anche delle spese di mantenimento. Dopo l’approvazione del generale dell’ordine,
Francesco Borgia, nel 1570 si pose la prima pietra del nuovo insediamento della Compagnia, su progetto del gesuita messinese
Francesco Costa. Ad appena due anni di distanza, la costruzione fu interrotta per il subentrare di nuove esigenze e di obiezioni
da parte degli architetti della Compagnia a Roma, Tristano e De Rosis. Nel 1575, il padre provinciale, dopo avere ottenuto il parere favorevole sull’impianto da parte del Carrese Andrea Calamecca (inquegli anni impiegato nella direzione dei lavori della cattedrale di Messina), e aver richiamato a Caltagirone padre Costa, riuscì a riavviare la costruzione della chiesa e del collegio che
comunque procedette superando rallentamenti e modifiche. Nel 1593 si giunge alla benedizione. Nel 1602, per mano dell’architetto gesuita Natale Masuccio, venne inviato da Roma a Caltagirone il progetto definitivamente approvato per il collegio, la cui
costruzione può ritenersi conclusa nelle strutture primarie nel 1616, anno inciso nel portale principale.
La chiesa, attribuita dalla storiografia tradizionale al Costa, ha un impianto modesto, ad aula con tre cappelle per lato, un transetto incluso nel perimetro e un soffitto ligneo a cassettoni. La facciata, con il suo severo impaginato di paraste, risente del rigorismo architettonico che caratterizza molte fondazioni religiose italiane della Controriforma. Ciononostante la presenza al primo
ordine di otto nicchie con statue disposte su due livelli, conferisce al prospetto un assetto del tutto originale.
Una accento locale è da rintracciare poi nella cornice della finestra centrale decorata con una fitta trama di scanalature vermiculate, un motivo singolare che ritroviamo anche nella cornice nella fontana della Zizza a Militello. Vista la particolarità del
decoro, se si suppone che ad intervenire nelle due opere fu lo stesso intagliatore, la datazione della fontana al 1606-1607 può
fornire un orientamento cronologico anche per le opere di intaglio della facciata di Caltagirone.
A partire dal terzo decennio del Seicento, alcune cappelle della chiesa furono decorate in marmi policromi, seguendo quanto, in
quegli anni, si andava realizzando nelle sedi gesuitiche di Palermo. È il caso della cappella della Madonna della Pietà che riprende chiaramente le decorazioni realizzate negli anni venti del Seicento nel transetto della chiesa del Gesù di Palermo. La dipendenza dai cantieri gesuitici della capitale del regno è confermata dalle decorazioni marmoree della cappella di San Francesco
Pagg. 110-111 Caltagirone,
convento di San Francesco
d’Assisi, chiostro.
Scalinata di Santa Maria del
Monte.
Chiesa di Sant’Agata e Carcere
Borbonico.
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Chiesa del collegio dei Gesuiti,
particolare della facciata.
Chiesa del collegio dei Gesuiti,
particolare della facciata.
114
Saverio che, grazie a recenti ritrovamenti archivistici (A. Zalapì), sappiamo essere state realizzate a Palermo, negli anni 1636-40,
dal marmoraro Giuseppe Musca, su disegno dello scultore di origine ligure Gian Giacomo Cerasola. Negli anni ottanta del
Seicento va invece collocato il grande altare di Sant’Ignazio, caratterizzato da una decorazione più esuberante e da terne di
colonne tortili.
Il terremoto del 1693 danneggiò gravemente la chiesa in corrispondenza del portale e causò il crollo della parete di fondo del presbiterio. Dalle cronache del tempo sappiamo anche che nel collegio crollarono i portici su colonne del cortile «nuovamente fatto».
Le opere murarie furono affidate ai mastri Simone Mancuso e Giuseppe Montes, già impegnati in altri cantieri calatini. Per la
ricostruzione del portale fu invece chiamato, intorno al 1727, il mastro intagliatore messinese Andrea Amato che realizzò l’opera
secondo i criteri decorativi del momento, entrando inevitabilmente in contrasto visivo con il rigoroso impaginato architettonico
della facciata.
La chiesa di San Francesco d’Assisi.
Di fondazione duecentesca, la chiesa dei francescani era sorta al di fuori dell’abitato su un promontorio a sud, separato dal
centro cittadino da un profondo vallone. Per quanto inclusa all’interno delle mura urbiche cinquecentesche, l’area era rimasta
scarsamente abitata anche dopo l’edificazione, nel 1665, dell’attuale ponte di collegamento, basato su un progetto del 1627
dell’architetto romano Orazio Torriani.
Tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, si ha notizia di un serie consistente di interventi rivolti ad ampliare e qualificare architettonicamente il convento, ma è ipotizzabile che il programma costruttivo riguardasse anche la chiesa, intitolata nel
1642 all’Immacolata, considerando che, nella cronaca del terremoto del 1693, scritta da Antonio Boscarelli, la chiesa francescana viene citata come «moderna fatta a dammuso». Il complesso fu gravemente danneggiato dal sisma, senza subire tuttavia irrimediabili crolli. Le opere di ricostruzione, portate avanti tra la fine del Seicento e il primo trentennio del Settecento, salvaguardarono l’impianto e la volumetria della chiesa preesistente, inserendo una nuova cupola, della quale, tuttavia, a causa di un crollo in corso d’opera (1702), fu realizzato solo il tamburo.
L’intervento più interessante post 1693 è di certo la facciata, tradizionalmente attribuita a Tommaso Amato, membro della nota
famiglia di capomastri messinesi che, dopo il sisma, si erano affermati nell’area catanese, monopolizzando prestigiosi cantieri
come l’abbazia benedettina e il palazzo Biscari. In realtà, l’iter progettuale dell’opera attende ancora di essere chiarito.
Un primo progetto fu di certo elaborato non oltre il 1724, anno in cui venne stipulato il contratto per le opere d’intaglio affidate ai mastri Pietro Merita e Antonino Rizzo. Nel 1727, venne stipulato un altro contratto con l’Amato per completare «di tutto
punto» la facciata, sostituendo le nicchie con «quattro tabelloni di rilievo con geroglifici dell’Immacolata Concezzione proporzionati al vano», da identificare nei rilievi scultorei tutt’ora esistenti nelle campate laterali. Insieme a Tommaso Amato lavorarono,
per almeno un anno, il fratello Andrea, in quegli anni impegnato anche nel vicino cantiere della chiesa dei Gesuiti, e il giovane
115
Chiesa di San Francesco
d’Assisi, facciata.
Casa Ventimiglia, particolare
della facciata
116
Francesco Battaglia (1701-1788), probabilmente al suo primo incarico fuori Catania. Ai maestri provenienti da Catania va probabilmente ricondotto solo l’intervento decorativo, considerando che sia il sistema compositivo che il severo linguaggio scelto
per le altre parti della facciata, sembrano del tutto estranei al loro modo di progettare e concepire l’architettura. Si tratta infatti di un singolare congegno scenografico su tre livelli, di cui i primi due, di uguale larghezza, vengono scanditi da colonne libere binate e il terzo da ampie volute.
Il rapporto tra le colonne e la parete non è basato su una semplice sovrapposizione quanto, piuttosto, su una salda interazione:
alla disposizione delle colonne di ogni coppia su differenti piani corrisponde infatti un forte incasso angolare, ai margini, e un
arretramento del piano di facciata, nella campata centrale. Considerando lo stretto rapporto tra il piano di facciata e il telaio di
colonne, non sembra possibile ricondurre quest’ultimo ad un intervento più tardo - così come avvenne nel prospetto della chiesa di San Giovanni Battista a Ragusa – ed è lecito pensare quindi che la sua definizione risalga al progetto del 1724.
L’uso delle colonne libere su due livelli, associato a un rigido vocabolario classicista, nell’area sud-orientale dell’isola trova in
quegli anni riscontro solo nella facciata della chiesa dei Gesuiti di Catania (dove le colonne vengono poste in opera nel 1723).
Un rapporto così articolato tra l’ordine architettonico e la parete, invece, non solo risulta in anticipo per l’intero Val di Noto, ma
precede di poco anche le invenzioni di Giovanni Amico per la chiesa di Sant’Anna a Palermo (1726), dove ritorna il gioco delle
colonne arretrate in corrispondenza del partito centrale, giungendo tuttavia ad esiti ben più raffinati.
Altrettanto singolare risulta l’impostazione dei tre livelli che non segue il più consueto schema piramidale, come quello che, un
decennio prima, Antonino Amato aveva completato nella chiesa di San Sebastiano ad Acireale (1714-1715). In questo caso tuttavia la deroga agli schemi compositivi consueti si deve probabilmente alla necessità di occultare in modo più efficace il preesistente volume della chiesa caratterizzato da un profilo stretto e alto.
CATANIA
Pagg. 118-119 Catania, veduta
aerea.
In una delle prime incisioni raffiguranti Catania (datata 1592), la città è rappresentata nella conformazione che era
andata assumendo nel corso del medioevo: un fitto reticolo di strade tortuose, stretto dalle cinquecentesche mura
bastionate e saturo di abitazioni. Dal tessuto cittadino emergono i segni del passato e del potere: il teatro,
l’anfiteatro e l’odeon romani, la platea Magna, con il palazzo del Senato e il duomo di fondazione normanna, il
Castrum Regium (l’attuale castello Ursino), costruito da Federico II a difesa della costa. Questa immagine, nel secolo successivo, sarebbe stata sconvolta e quasi del tutto cancellata dagli eventi naturali e dalla successiva azione dell’uomo.
Il primo evento fu l’imponente eruzione dell’Etna dell’11 marzo 1669. La lava, diretta verso Catania, travolse i centri
del versante meridionale e, in aprile, giunse a lambire le mura cittadine, riversandosi infine a mare. Il castello venne
letteralmente circondato dal magma su due lati, perdendo il suo contatto con il mare, e il porto fu in gran parte colmato dalla colata.
Per far fronte all’emergenza dei profughi provenienti dai centri distrutti vennero creati, sui terreni risparmiati dalla
lava, i quartieri della Consolazione e del Borgo. I vincoli creati dalla colata lavica e i nuovi insediamenti extra moenia posero così le basi per l’espansione della città verso nord (secondo la direzione porto-montagna) e la conseguente frantumazione del circuito delle mura.
Ben più gravido di conseguenze fu il sisma del 1693. La scossa dell’11 gennaio rase al suolo la città. Della sua popolazione, calcolata intorno ai 20.000 abitanti, quasi 12.000 perirono sotto le macerie. Grazie al tempestivo intervento del governo spagnolo, impersonato da Giuseppe Lanza, duca di Camastra (giunto in città il 4 febbraio), nel giro di
poco tempo fu avviata la costruzione delle baracche per i sopravvissuti e la liberazione delle strade dalle macerie.
Nel giugno 1693 il duca scriveva a Madrid che le «calles mayores» erano state liberate e «los cabballeros» potevano
iniziare a ricostruire le proprie case lungo i loro fronti. Il 7 febbraio 1694 il vescovo Andrea Reggio impose con un
Palazzo Massa San Demetrio,
particolare della facciata.
121
editto ai diversi istituti religiosi di tracciare, entro due mesi, i lotti dove ricostruire, con l’ausilio dell’ingegnere
Giovanni Battista Vespro e «giusta la disposizione della nuova pianta di detta città».
Il Camastra, infine, il 28 giugno 1694, dopo aver ascoltato i rappresentanti del senato e del clero, formalizzò i criteri
della ricostruzione in un documento titolato «Consiglio ed istruzioni fatte dal Vicario generale [...] col voto dell’Ill.mo
Senato, e corpo ecclesiastico, per la nuova riedificazione della città di Catania». Qui vennero stabilite le modalità di
compravendita, i prezzi dei terreni e, seguendo una logica antisismica, l’ampiezza delle nuove strade (variabile dai sedici agli otto metri), da tracciare secondo una trama viaria a reticolo ortogonale. Sempre in base a un’ottica antisismica, fu stabilita anche la creazione di un certo numero di ampie piazze, in parte condizionata dalla localizzazione delle
chiese e dei conventi, intese come spazi di fuga e ricovero dei cittadini. Le piazze, in caso di necessità, avrebbero infatti consentito agli scampati di accamparsi nelle vicinanze delle proprie case, evitando così quegli atti di sciacallaggio
sulle rovine che, nei tristi giorni del 1693, avevano afflitto ulteriormente la popolazione sopravvissuta. L’aspetto rappresentativo che il nuovo tracciato implicava sembra in effetti, nella fase di pianificazione della nuova città, passare
in secondo piano rispetto alle preoccupazioni di ordine pratico che il terremoto aveva sollevato.
Il nuovo sistema di piazze e strade, «passando tanto sopra le strade antiche quanto sopra casaleni distrutti ...» (come
recita il documento del 28 giugno), tendeva a cancellare il precedente tessuto viario medievale anche se ciò, in alcune zone della città, si verificò solo parzialmente. Nel tracciamento degli spazi urbani furono poi vincolanti le forti preesistenze architettoniche, così come gli individualistici interessi degli ordini religiosi e degli aristocratici più influenti.
Il piano di ricostruzione ebbe anche lo scopo di regolare il mercato immobiliare e distinguere le zone a diversa vocazione sociale. L’intera area urbanizzata fu quindi divisa in due: la prima, a ovest, intorno all’abbazia dei Benedettini,
con un valore dei terreni di 13,10 onze a tumulo - riconfermando così la destinazione popolare che sembra avesse già
Palazzo dell’Università, cortile.
Chiesa di Santa Chiara, loggia
belvedere.
123
Cattedrale, particolare della
facciata.
124
assunto nel corso del Cinquecento (quartieri delli Casalini) - e la seconda, costituita dal resto della città sviluppatasi
intorno alle principali emergenze architettoniche e lungo la linea del mare – dove il valore del terreno fu stabilito
in 20 onze a tumulo.
Del piano urbanistico progettato dopo il sisma non è rimasta alcuna testimonianza grafica. Il punto di partenza della
trama viaria ricostituita all’interno del perimetro delle mura fu dato, comunque, dalle due strade di collegamento tra
il piano di Sant’Agata (attuale piazza Duomo) e le porte urbiche principali: la via Uzeda (oggi Etnea), verso nord, e
la via San Francesco (la parte ovest dell’attuale via V. Emanuele II), già aperte nel 1693. Nel maggio 1694 risultano
già realizzate anche la via Lanza (oggi Sangiuliano, ortogonale a via Uzeda) e la via San Filippo (via Garibaldi),
anch’essa tracciata in direzione ovest a partire dal piano della cattedrale.
Il centro urbano venne articolato, secondo l’asse della via Uzeda, nella scenografica sequenza della piazza Duomo e dell’adiacente piazza degli Studi. Lungo i fronti della prima, ricavata sull’antica platea Magna, furono ricostruiti il palazzo
del Senato, l’antica cattedrale normanna, la sede del vescovo e l’annesso seminario dei Chierici. La piazza dell’Università
fu invece definita da prestigiose residenze aristocratiche (palazzo Sangiuliano e palazzo Gioeni) e dal nuovo edificio
dell’Almo Studio, il più antico istituto universitario siciliano.
L’azione pianificatrice seguita al disastro venne attuata, complessivamente, in modo efficiente e rapido. Molto più
lenta e problematica fu invece la risposta architettonica. Al di là dell’effettiva difficoltà di avviare la ricostruzione di
un’intera città, il procedere dell’attività costruttiva venne ostacolato dalle continue controversie per
l’accaparramento dei lotti e da una disponibilità economica spesso non adeguata all’ambizione dei progetti. Fino alla
metà del Settecento, la città risultava pertanto indefinita in molte sue parti e popolata da baracche in legno.
La cattedrale di Sant’Agata
Edificato negli anni 1086-1090, il duomo catanese era una delle più antiche cattedrali di fondazione normanna. Nonostante i ripetuti danni inferti da incendi e terremoti nel corso della sua lunga vita, la struttura originaria, alla fine del Seicento, era sostanzialmente ancora integra. Pregiate opere di completamento e trasformazione erano state realizzate al suo interno, come i cinquecenteschi portali marmorei dei carraresi Giovan Battista e Gian Domenico Mazzolo, collocati nel transetto, all’ingresso delle cappelle del Crocifisso e della Madonna, e gli affreschi del romano Giovan Battista Corradini realizzati nell’abside centrale nel 1628.
Il terremoto del 1693 risparmiò l’area del santuario, comprendente il transetto, le due cappelle e le absidi, lasciando del resto
della struttura solo alcuni tratti dei muri perimetrali.
Il trauma collettivo per la devastazione subita dal monumento più importante della città aprì un lungo dibattito sui modi in cui
avviare la ricostruzione. La necessità di salvaguardarne la memoria, le precauzioni antisismiche, come anche la programmazione economica, furono probabilmente i fattori che alla fine determinarono la soluzione adottata, basata sul mantenimento dell’intera area absidale, il riutilizzo delle fondazioni delle navate normanne e la realizzazione di imponenti pilastri al posto delle
colonne granitiche crollate.
La nuova struttura fu iniziata nel 1709, per volere del vescovo Ignazio Riggio, secondo le indicazioni presumibilmente fornite dall’architetto cappuccino Girolamo Palazzotto (1686-1754), proveniente da Messina. Sembra che la soluzione adottata sia stata scelta tra diverse proposte. Una di questa è stata ipoteticamente identificata nel progetto per una chiesa dell’architetto Romano
Carapecchia, conservato presso il Courtauld Institute di Londra. A questa fase costruttiva si deve anche la realizzazione di una prima
cupola, inserita demolendo la crociera centrale del transetto, che venne sostituita dall’attuale, nell’ultimo ventennio del Settecento.
Il problema della facciata rimase irrisolto fino all’arrivo, nel gennaio del 1730, del nuovo vescovo, Pietro Galletti e, poco dopo, di
Giovan Battista Vaccarini, che venne subito impegnato nel cantiere del duomo e nominato canonico secondario della cattedrale. In
base a un suo disegno, nel marzo del 1731, fu posta la prima pietra del nuovo prospetto.
La singolarità della scelta progettuale prestò il fianco agli oppositori dell’architetto, infiammando una lunga polemica. Nel
tentativo di spiazzare gli avversari, Vaccarini decise di sottoporre il modello della facciata ai membri dell’Accademia romana
di San Luca. Gli architetti interpellati, tra cui figuravano Antonio Derizet e Luigi Vanvitelli, nel giugno del 1734 approvarono
Piazza Duomo.
125
il progetto, pur suggerendo la modifica degli elementi decorativi dei portali. Dopo tale approvazione il cantiere di certo fu
riavviato, ma il lento procedere della costruzione consentì agli oppositori del Vaccarini di farsi nuovamente avanti. Nel 1753
il regio visitatore Francesco Testa, ad insaputa del Vaccarini, inviò il modello e i pareri contrari a Napoli, affinché fossero sottoposti ai due maggiori architetti del regno: Ferdinando Fuga e Luigi Vanvitelli, quest’ultimo impegnato nella costruzione della
reggia di Caserta e in buoni rapporti con l’architetto palermitano. I pareri furono in realtà discordanti ma finì per prevalere
il giudizio positivo di Vanvitelli, tanto che venne ordinato al Vaccarini di rientrare in città per riprendere la direzione dei lavori. L’architetto, impegnato a Palermo per la fornitura di marmi per la Reggia di Caserta, nominò suo aiutante l’architetto catanese Francesco Battaglia. Nell’ottobre 1755 una grave crollo nel cantiere di San Nicolò l’Arena, seguito dallo stesso Battaglia,
scatenò nuovamente gli oppositori del progetto che convinsero il Senato cittadino a chiedere alla corte di Napoli di inviare
una architetto per correggere il progetto del Vaccarini. La contesa, a questo punto, dovette sembrare all’architetto del tutto
compromessa. L’appoggio di Vanvitelli e le stesse puntuali repliche del Vaccarini ad ogni critica riuscirono invece a chiudere
definitivamente la partita, suscitando l’irrevocabile approvazione del sovrano. La tenacia di Vaccarini, alla fine, aveva prevalso. Nel 1761, a cantiere praticamente concluso, fece realizzare un’incisione del progetto definitivo riassumendo, in una breve
didascalia, la vicenda che aveva segnato per trent’anni la sua vita professionale.
L’abbazia dei Benedettini e la chiesa di San Nicolò l’Arena
L’abbazia della congregazione benedettina cassinese di Catania è il più grande complesso monasteriale siciliano. Realizzata nel
corso di oltre un secolo e lasciata infine incompiuta, l’attuale struttura è il risultato di diversi interventi progettuali, condizionati dalle esigenze mutevoli della committenza.
L’impianto anteriore al terremoto era stato costruito a partire dal 1558 secondo una pianta quadrata aperta al centro da un
ampio chiostro. La fabbrica visse una fase fondamentale nel 1686, quando fu interpellato l’architetto romano Giovan Battista
Contini per progettare la nuova chiesa, dopo i danni subiti dal complesso a causa dell’eruzione dell’Etna del 1669. L’impostazione
Cattedrale, capitello del primo
ordine.
Abbazia dei Benedettini,
prospetto meridionale.
127
Abbazia dei Benedettini,
prospetto meridionale, balcone
del primo livello.
Abbazia dei Benedettini,
prospetto meridionale, balcone
del secondo livello.
Collegio dei Gesuiti, cortile.
128
planimetrica del gigantesco edificio chiesastico sembra sia stata ricavata da quella elaborata nel Cinquecento per la chiesa di
Santa Giustina a Padova, appartenente alla stessa congregazione, rivelando così una certa influenza della committenza nelle
scelte architettoniche. In base alle immagini cartografiche settecentesche e a una ricostruzione ideale del complesso, curata dall’architetto J. I. Hittorff nell’Ottocento, sappiamo che la chiesa del Contini, fu pensata come emergenza centrale di un sistema
formato da quattro grandi cortili quadrati concluso, posteriormente, da un vasto giardino.
Le dimensioni previste dal progetto, che costituivano un fuori scala rispetto all’architettura chiesastica e monasteriale siciliana
del periodo, rispecchiavano la grande prosperità economica dei committenti. In merito, è interessante notare che i Benedettini,
tra il 1694 e il 1696, proprio mentre dovevano affrontare l’impegno economico per ricostruire la loro abbazia, avviarono una
vasta campagna di acquisti di immobili messi in vendita da privati e da altri enti ecclesiastici in difficoltà finanziarie.
L’impresa costruttiva successiva al sisma prese avvio dal progetto del blocco dei due cortili a sinistra della chiesa, destinato alle
celle dei monaci e inglobante, nelle ali ovest e nord, alcune strutture del complesso cinquecentesco scampate al terremoto. Le
celle del settore abbaziale, più grandi, furono poste nell’angolo sud-est.
Un contratto del 1703 cita il mastro messinese Antonino Amato quale progettista dell’opera. Nel documento si specifica che
Amato si impegnava a realizzare «di sua mano» i disegni per la facciata principale (il fronte orientale del complesso, rivolto verso
la città) e per quella meridionale.
Dopo un intervento di Alonzo Di Benedetto, nel 1717 assunse la direzione dei lavori Andrea Amato, figlio di Antonino, che aveva
iniziato a lavorare nel cantiere, fin dal 1703, in qualità di scalpellino. Fu lui, nel 1726, a ricevere il compenso per il completamento dei corpi principali (orientale e meridionale).
I documenti riferiti agli anni successivi rivelano un costante avvicendarsi nel cantiere dei personaggi più in vista della Catania
settecentesca. Nel 1732 la direzione dei lavori passò all’architetto Francesco Battaglia (1701-1788), che riaprì il cantiere della
chiesa secondo il progetto elaborato dal Contini, avviando la costruzione della zona presbiteriale. Nel 1738 Battaglia iniziò anche
la costruzione degli ambienti di servizio posti a destra della chiesa, sul banco lavico creato dall’eruzione del 1669. Ma a causa di
sopraggiunti problemi con i committenti, l’opera fu affidata nel 1739 a Giovan Battista Vaccarini. A lui si deve il sistema dell’antirefettorio, dei refettori, della biblioteca e del museo. Abbandonata da parte dei Benedettini l’idea dei quattro cortili simmetrici,
l’architetto fu libero di concepire il sistema come una sequenza scenografica di cellule spaziali, indipendenti e di forma variabile, concatenate secondo due percorsi disposti a L .
Nel 1747 il cantiere passò nuovamente sotto la direzione del Battaglia, che mantenne questo ruolo fino all’ottobre 1755, quando, in
seguito al crollo di un pilastro della cupola e di una parte delle coperture della chiesa, fu definitivamente allontanato dal cantiere.
Nel 1756 subentrò quindi Giuseppe Palazzotto, stretto collaboratore del Vaccarini e suo successore nella carica di architetto del
Senato di Catania. Dal 1768 al 1783 è documentata la presenza di Stefano Ittar. Sotto la sua direzione vennero completate le
volte e, su suo disegno, fu realizzata la cupola (completata nel 1780). Nel 1775, in concorrenza con altri architetti, Ittar propose
un disegno per la facciata della chiesa che non fu comunque accettato. A quella data dovrebbe ricondursi anche il progetto dell’architetto Virginio Bracci conservato nell’archivio dell’Accademia di San Luca di Roma.
Nel 1794, in un clima culturale ormai totalmente dominato da un rigoroso classicismo, furono portati avanti i lavori dello scalone principale del monastero, seguendo un progetto di Carmelo Battaglia Santangelo, al quale si può attribuire anche il portale
d’ingresso sul prospetto orientale. Lo stesso architetto ebbe la fortuna di avere finalmente approvato il suo progetto per la facciata della chiesa, ma la condizione socio-economica della committenza, ormai profondamente cambiata, aveva segnato il destino dell’opera. I lavori iniziarono nel 1796, mentre in Italia avanzavano le truppe napoleoniche. Pochi mesi dopo, una grave carestia colpì la produzione cerealicola siciliana, spingendo i catanesi in rivolta nel dicembre 1797 e nel giugno 1798. Nello stesso anno
il cantiere della grandiosa facciata dei Benedettini fu definitivamente interrotto.
129
Chiesa della Badia di Sant’Agata,
particolare della facciata.
130
La chiesa e il collegio dei Gesuiti
I Gesuiti giunsero a Catania nel 1556, su sollecitazione del vescovo Nicola Maria Caracciolo. Nello stesso anno fu assegnata loro
la chiesa della Santissima Ascensione, posta in prossimità del monastero di San Benedetto. Tra il 1565 e il 1578 il piccolo complesso fu sottoposto a progetti di trasformazione e ampliamento da parte degli architetti Giovanni Tristano e Francesco Schena.
Il progressivo consolidarsi del ruolo della Compagnia nel contesto cittadino, indusse comunque i Gesuiti a cercare una più idonea collocazione in corrispondenza dei principali spazi urbani. Dopo avere ottenuto nel 1621 dal Generale della Compagnia
l’autorizzazione a mutare sito, nel 1623 si giunse così ad impiantare il nuovo collegio in via Luminaria – sul cui tracciato si sarebbe sovrapposta dopo il sisma la via Uzeda (oggi via Etnea) - in prossimità del piano della Fiera (piazza dell’Università).
L’impianto della nuova chiesa, a tre navate con transetto incluso nel perimetro murario, fu affidato a Tommaso Blandino che
dal 1616, dopo un periodo di perfezionamento a Roma, si era imposto come architetto della Compagnia in Sicilia. Per la sede di
Catania, Blandino rielaborò il disegno che nel 1613 aveva predisposto per il collegio di Trapani, riutilizzando il sistema a serliane su colonne per suddividere le navate. Soluzione, quest’ultima, originale, desunta probabilmente dalla conoscenza delle chiese genovesi del tempo, che verrà riproposta, dopo la sua morte (1629), anche per le sedi di Noto, di Termini Imerese e di Salemi.
La costruzione del nuovo complesso catanese procedette lentamente. Nel 1681 la struttura primaria della chiesa venne completata, mentre il collegio risultava ancora in costruzione.
Il terremoto del 1693 non solo devastò le strutture già edificate ma causò un cambiamento radicale nella strategia insediativa
perseguita fino a quel momento. La determinazione dei Gesuiti a ricostruire la propria sede nello stesso sito, che adesso si trovava in prossimità della prestigiosa Via «Osseda» (Uzeda, ex via Luminaria e futura via Etnea) e della piazza dell’Università, fu
infatti ostacolata dalle autorità cittadine e dagli interessi fondiari dei privati a tal punto da costringere i padri, intorno al 16951696, a ritornare nel vecchio complesso vicino la chiesa di San Benedetto, abbandonato e saccheggiato dopo il terremoto.
Nell’intento di riutilizzare, trasformare e ampliare le vecchie strutture, si decise di reimpiantare la chiesa (dedicata a San
Francesco Borgia) su via Crociferi, secondo la pianta del Blandino, avvalendosi anche della consulenza dell’architetto gesuita
Angelo Italia, a cui fu chiesto il progetto per la nuova facciata e per il collegio.
Il cantiere fu affidato ad Alonzo Di Benedetto (documentato nel cantiere dal 1701), che coordinò le opere per circa un ventennio.
Per quanto sotto la sua direzione furono impiantati sia la chiesa che il cortile principale del collegio (dal 1717), il contributo progettuale del capomastro catanese è da ricondurre probabilmente ai soli disegni delle cornici delle finestre e dei portali del corpo del
collegio. Di questi, quello principale su via Crociferi, dopo la destinazione del collegio a sede del tribunale (1854), subì delle trasformazioni radicali che resero illeggibile il disegno originario.
La facciata della chiesa fu portata a termine dopo il 1723 (anno in cui arrivarono in cantiere le colonne), ma è plausibile pensare che
il progetto di Angelo Italia non venne modificato, considerando anche l’estraneità dell’opera rispetto al lessico di Alonzo Di Benedetto.
La volontà da parte dei Gesuiti di Catania di rifarsi a modelli e progetti collaudati riaffiora con chiarezza nei due grandi altari
del transetto, dedicati a S. Ignazio e a S. Francesco Saverio, che riprendono fedelmente il progetto di Andrea Pozzo per l’altare
di S. Luigi Gonzaga nella chiesa del Collegio di Roma, pubblicato nell’anno 1700.
Mentre tra il 1726 e il 1740 si procedeva ai lavori di finitura dell’interno della chiesa, ad Alonzo Di Benedetto subentrò nella direzione del cantiere Francesco Battaglia, il cui reale contributo progettuale nel grande complesso gesuitico attende ancora una più
precisa valutazione. Al Battaglia si è propensi ad attribuire il secondo ordine del cortile principale, riconducibile agli anni quaranta del Settecento.
La chiesa della Badia di Sant’Agata
La chiesa della Badia di Sant’Agata, prospettante su corso Vittorio Emanuele in corrispondenza della piazza fiancheggiante il duomo,
è da considerare, insieme alla facciata della cattedrale, l’opera più completa di Vaccarini, essendo stata progettata ex novo e realizzata interamente sotto il suo controllo. La prima pietra fu collocata nel 1735. Nel 1747, a causa del suo progressivo riavvicinamento all’ambiente palermitano, Vaccarini affidò la direzione del cantiere a Giuseppe Domenico Palazzotto che portò a compimento i
Chiesa di San Giuliano,
particolare della facciata.
Palazzo San Giuliano, particolare
del portale.
lavori nel 1767, restando fedele al progetto e alle direttive del maestro. Estraneo alle scelte progettuali dell’architetto è certamente il portale, da considerare una sopravvivenza di un edificio preesitente al terremoto, rimontato evidentemente per volere della
committenza.
Il recente restauro della cupola ne ha totalmente travisato l’originario assetto cromatico basato, come di consueto nella Catania
del Settecento, sul bicromismo tra superfici e risalti architettonici, così come è ancora leggibile nella cupola della vicina cattedrale.
La chiesa di San Giuliano
132
L’attribuzione al Vaccarini della chiesa di San Giuliano, per quanto ricorrentemente condivisa, non si basa su supporti documentari. Recenti studi hanno messo in luce le fasi salienti della costruzione e il nome di altri personaggi impegnati nel cantiere. La
riedificazione del convento benedettino iniziò intorno al 1703. Nel decennio successivo prese forma la nuova struttura con
annessa una chiesetta. Nel 1732 fu intrapresa la costruzione dell’ala sud del chiostro, comprendente un nuovo dormitorio, individuando nel terreno adiacente il luogo per realizzare una nuova chiesa. Nello stesso anno sono documentati pagamenti al padre
Vincenzo Caffarelli (morto in quello stesso anno) «per il disegno di detta chiesa» e a Gaspare Ciriaci per il modello ligneo. La
modesta cifra corrisposta al Caffarelli (27 tarì) induce comunque a ricondurre l’impegno di questi alla semplice esecuzione di
grafici, piuttosto che a una progettazione vera e propria. Il programma costruttivo, in ogni caso, entrò in una fase esecutiva solo
tra il 1741 e il 1742, quando il monastero acquistò i rimanenti terreni su cui realizzare il nuovo impianto. Nel 1746 la struttura
della chiesa risulta in fase avanzata di costruzione sotto la direzione dell’architetto Giuseppe Palazzotto, già da tempo al fianco del Vaccarini in qualità di stretto collaboratore. Bisogna ricordare inoltre che, dal 1745, Vaccarini era impegnato nella progettazione del grande albergo dei Poveri di Palermo ed è quindi plausibile che non si potesse occupare in prima persona dei cantieri catanesi. Nel 1751 la chiesa venne aperta al culto. Il Palazzotto continuò ad assistere le monache nelle opere di ampliamento del monastero su via San Giuliano, iniziate nel 1763.
L’impianto a ottagono allungato della chiesa di San Giuliano aveva già illustri precedenti siciliani nelle chiese palermitane del XVII
secolo. La soluzione della convessità centrale in facciata, riferita al movimento interno della pianta, trova invece dei significativi
La chiesa di Santa Maria dell’Elemosina (Collegiata)
Chiesa di Santa Maria
dell’Elemosina (Collegiata),
particolare della facciata.
Ritenuta dalla storiografia tradizionale una fondazione religiosa di epoca bizantina, la chiesa di Santa Maria dell’Elemosina è in
realtà citata per la prima volta in un documento del 1226.
La chiesa acquisì un ruolo primario nel contesto della vita religiosa cittadina quando, nel 1446, divenne sede di un collegio di
canonici per il clero secolare.
Dopo la distruzione dell’edificio originario e del suo campanile a causa del terremoto del 1693, fu decisa la ricostruzione secondo un impianto ex novo, affidando il progetto ad Angelo Italia, architetto gesuita attivo nella Sicilia occidentale che, dopo il sisma,
si era spostato nelle aree terremotate, lasciando a Catania anche il progetto per la nuova facciata della chiesa di San Francesco
Borgia e per l’annesso collegio. Seguendo probabilmente le indicazioni della committenza, l’architetto si limitò ad elaborare un
dignitoso quanto consueto impianto basilicale a tre navate, scandite da pilastri, eliminando qualsiasi accento sperimentale.
Le opere di riedificazione furono avviate celermente tanto che, nel novembre 1696, Alonzo Di Benedetto ricevette l’incarico per la
realizzazione della zoccolatura della facciata. L’anno successivo anche il capomastro Antonino Amato riuscì ad inserirsi nel cantiere, prendendo in appalto altre opere murarie per la facciata e la scalinata della chiesa.
Nel 1703, tuttavia, il cantiere fu bloccato dal nobile Michelangelo Paternò Castello che si oppose alla costruzione del campanile nella posizione originaria, sostenendo che le campane sarebbero risultate troppo vicine al suo palazzo. Nonostante
l’energica difesa del capitolo, la vertenza finì per bloccare i lavori della facciata per più di sessant’anni.
Solo alla fine degli anni sessanta del Settecento fu infatti possibile riprendere la costruzione del prospetto, in base a un nuovo
progetto elaborato dall’architetto Stefano Ittar.
Il palazzo Biscari
134
antecedenti romani, come il primo disegno di Ferdinando Fuga per la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, dove ritroviamo anche l’analoga soluzione con i due vani affiancanti l’ingresso alla chiesa. Non si può escludere che, in occasione del suo
viaggio a Roma tra il 1733 e il 1734, Vaccarini abbia avuto la possibilità di osservare i disegni di Fuga, condizionando poi in qualche modo il progetto per San Giuliano, in considerazione anche del ruolo preminente che l’architetto aveva in quegli anni nei
riguardi dei cantieri religiosi. Estranei alla cultura decorativa locale sono anche le raffinate profilature dei portali e della finestra centrale. Gli accenti più marcatamente siciliani, da attribuire a Giuseppe Palazzotto, ritornano invece nell’esuberante attico
a gelosie metalliche, posto a coronamento delle campate laterali, e soprattutto nella singolare loggia belvedere realizzata intorno alla volta di copertura dello spazio principale della chiesa.
La residenza dei principi di Biscari a Catania è unanimemente considerata una delle opere più significative del Settecento siciliano. Il palazzo, nel suo complesso, si configura come il risultato di più progetti che pur registrando emblematicamente lo svolgersi del dibattito architettonico catanese nel corso del XVIII secolo, riescono a raggiungere livelli di grande originalità, ponendosi come episodi pregnanti e singolari del patrimonio storico isolano.
Già esistente in parte dell’area attualmente occupata, dopo le distruzioni del terremoto del 1693, la residenza dei Biscari ebbe
l’opportunità, grazie all’autorizzazione concessa dal duca di Camastra, di svilupparsi sul terrapieno delle mura cinquecentesche
che divennero, così, un “podio” privilegiato per l’affaccio della dimora verso il mare.
Per quanto i primi documenti riferiti a lavori per il palazzo risalgano al 1695, sembra che solo nei primi anni del secolo successivo fu intrapresa la costruzione del nuovo impianto. Morto nell’anno 1700 Ignazio Paternò Castello, terzo principe di Biscari,
l’onere della ricostruzione del palazzo di famiglia passò infatti al figlio Vincenzo che, dopo avere avviato un programma di acquisti di altri immobili limitrofi, fu già in grado di dichiarare, in un documento del 1702, di avere iniziato a «reedificare il suo tenimento di case [...] avendosi sopra tutto il compreso di quelli fatto con magnifico disegno».
Nel 1707, a lavori già avanzati, il principe affidò al capomastro Antonino Amato la realizzazione dei sette «finestroni d’intagli di
pietra bianca» del nuovo prospetto a mare della dimora che, per la sua formidabile aggettivazione decorativa costituisce uno
degli episodi più singolari della cultura architettonica locale. L’Amato fu di certo l’esecutore dell’opera ma non è ancora chiaro
se fu anche il progettista, vista la contemporanea presenza nel cantiere di Alonzo di Benedetto. La facciata sul mare fu conclusa poco dopo il 1726 probabilmente ad opera dei figli di Antonino Amato, Adrea e Tommaso (V. Librando).
Nel 1741, in occasione delle nozze del figlio Ignazio e della conseguente necessità di approntare un nuovo appartamento per l’erede,
il principe Vincenzo dopo avere acquistato altri immobili limitrofi, diede avvio a un progetto di ampliamento del palazzo, verso est,
affidando l’incarico all’architetto Giuseppe Palazzotto. Il nuovo regista dell’opera fu probabilmente, fin dall’inizio, il giovane
Ignazio Paternò Castello, già impegnato, dal 1743, a raccogliere importanti reperti, allo scopo di allestire un museo archeologico
che, nel giro di pochi decenni, sarebbe diventato una delle mete obbligate dei viaggiatori stranieri di passaggio a Catania.
Il nuovo programma edificatorio, e la campagna di acquisti immobiliari ad esso connessa, si protrassero per diversi anni tra
135
Pagg. 136-137 Palazzo Biscari,
salone.
Palazzo Biscari, facciata verso il
mare.
Palazzo Biscari, facciata verso il
mare, particolare.
138
modifiche, interruzioni e ripensamenti. Dopo un lungo viaggio in Italia nel 1750 e l’avvio di scavi archeologici nel territorio catanese, il principe fece realizzare, tra il 1752 e il 1757, la «fabbrica del Museo collaterale alla casa», avviando contemporaneamente altre opere di espansione del palazzo che rendevano superati i progetti di Palazzotto. Demolizioni e nuove costruzioni si intrecciarono nel 1764, anno di morte dell’architetto. In quello stesso anno il cantiere passò nelle mani di Francesco Battaglia, al quale
va assegnata la paternità del prolungamento del fronte a mare, contenente il grande salone delle feste. Battaglia aveva già intrapreso la via verso un classicismo più controllato. Il nuovo prospetto del palazzo è il frutto di una evidente volontà di affrancamento sia nei riguardi del tradizionale decorativismo, che del piatto grafismo che aveva caratterizzato la stagione vaccariniana.
Concepita verosimilmente in tre corpi, di cui uno centrale (realizzato nel 1765) preminente, la facciata è scandita da un fitto ritmo
di paraste e semicolonne binate giganti che non trova riscontri nella Sicilia del tempo. Le fonti di ispirazioni vanno piuttosto ricercate nella vasta produzione incisoria coeva, di ispirazione palladiana o anche di provenienza francese. La possente composizione
rimase comunque mutila per la realizzazione di soltanto due dei tre corpi previsti.
Nella definizione dell’interno l’architetto dovette, evidentemente, scendere a compromessi con gli orientamenti bifronte del committente. Ignazio Paternò Castelli si poneva infatti come entusiastico promotore del collezionismo archeologico, continuando a
ampliare il museo del palazzo, e si presume quindi che fosse orientato verso il gusto antiquario e le nuove correnti del classicismo che aveva di certo avuto modo di conoscere durante i suoi viaggi. Tuttavia, per decorazione degli spazi di rappresentanza
(svoltasi prevalentemente negli anni 1769-1773) il principe scelse, senza trovare di certo il consenso di Battaglia, la più sfrenata decorazione rocaille. Anche in questo caso l’ambizione dei Biscari diede i suoi frutti. Il grande salone con volta ovale - sfondata al centro dal palco per i musicisti - come anche la vicina scala dei musici, concepita come un organico movimento di laceri cartigli, sono da considerare, insieme alla volta della galleria di palazzo Valguarnera a Palermo, le più spettacolari manifestazioni architettoniche del rococò in Sicilia.
MILITELLO VAL DI CATANIA
Pagg. 140-141 Militello Val di
Catania, veduta aerea.
Le tracce architettoniche più antiche del centro storico di Militello risalgono presumibilmente al XIV secolo, periodo
che corrisponde al potenziamento difensivo del centro da parte di Abbo IV Barresi, che nel 1337 ottenne il privilegio
di circondare di mura l’abitato formatosi intorno alla propria dimora fortificata.
Nel 1567 il feudo di Militello, in piena crescita demografica, passò nelle mani di Fabrizio Branciforte, principe di Butera
(dal 1563) e di Pietraperzia (dal 1591), conte di Mazzarino, uno tra i più potenti feudatari dell’isola.
Nonostante l’evento traumatico della peste del 1572, che a Militello portò a un drastico decremento demografico, è
probabile che sotto Fabrizio Branciforte il centro abbia iniziato a consolidare la propria espansione sull’altopiano
posto a nord delle scoscese pendici su cui si era sviluppato il primo insediamento, come dimostrerebbe la presenza
del palazzo Majorana della Nicchiara nell’area antistante la chiesa di Santa Maria della Stella, il cui primo impianto
è stato ricondotto (G. Pagnano) alla fine del XVI secolo. Ma fu soprattutto il primogenito di Fabrizio, Francesco
Branciforte e Barresi (1575-1622) a dare un impulso decisivo alla crescita del paese. La nuova stagione costruttiva
fu inaugurata nel 1602, con la costruzione, nel piano antistante il castello, della nuova chiesa Madre di San Nicolò.
Nel 1603 Francesco sposò Giovanna d’Austria (1573-1630), nipote illegittima dell’imperatore Carlo V, in quanto figlia
di Don Giovanni d’Austria, una colta nobildonna che aveva fino a quel momento vissuto tra le corti di Napoli e di
Parma. Dopo la celebrazione del matrimonio nella cattedrale di Palermo, la coppia si trasferì nel feudo di Militello,
che fu sottoposto a un impegnativo programma di riconfigurazione architettonica. Nel 1605 si procedette alla
costruzione dell’acquedotto, per incanalare le acque della contrada Zizza, di cui rimane memoria nella fontana realizzata pochi anni dopo nel cortile del castello. Si procedette quindi al riassetto viario sull’altopiano con la sistemazione
della piazza della Matrice (1617) e, a partire dall’ingresso orientale del Castello (aperto nel 1612), dell’asse rettilineo
Palazzo Maiorana, particolare.
143
le distruzioni causate dal sisma per rivisitare la strategia insediativa degli edifici parrocchiali, in rapporto allo sviluppo
del tessuto urbano cittadino. Per quanto la decisione del nobile feudatario fosse condivisa e appoggiata anche dal
vescovo, la sua volontà fu elusa e si procedette, nei primi anni venti del Settecento, alla costruzione delle nuove chiese di San Nicolò, nel quartiere di San Leonardo, e di Santa Maria della Stella, in quello di Sant’Antonio Abate, alimentando nel paese un clima di aperto conflitto che proseguì per tutto il secolo nonostante i diversi tentativi di
pacificazione da parte delle autorità religiose e civili.
La storia di Militello, nel contesto delle piccole comunità rurali siciliane del tempo, risulta in definitiva emblematica, sotto tre diversi aspetti: il primo va riferito al ruolo fondamentale che molte famiglie della grande feudalità siciliana svolsero nello sviluppo urbano dei propri feudi nel corso del Seicento. Il secondo riguarda la conflittualità religiosa, dietro la quale si schermarono in realtà i gravi conflitti socio-economici all’interno dei nuclei urbani. Il terzo,
infine, mostra la capacità di indipendenza decisionale che le comunità riuscirono comunque a mantenere tra le
maglie dell’autoritario controllo feudale e vescovile.
Palazzo Maiorana, facciata.
Abbazia di San Benedetto,
facciata.
La chiesa e l’abbazia di San Benedetto
144
tracciato verso ovest (via porta di Terra), al quale si innestarono le direttrici viarie verso nord, secondo le quali si sarebbe sviluppato il paese nei tre secoli successivi. Alle opere di pubblica utilità si aggiunsero anche la costruzione di un carcere e dell’ospedale dei Fatebenefratelli (1628). Gli istituti religiosi furono potenziati con la fondazione, nel 1613, del
convento dei Domenicani e, nel 1614, dell’abbazia di San Benedetto, di certo l’opera architettonica più impegnativa.
Il principe avviò anche l’ampliamento del castello di famiglia, del quale rimangono oggi esili tracce, realizzando
un’armeria, una «distilleria» per gli esperimenti di chimica, una moderna tipografia, affidata a Giovanni Rossi da
Trento, e una grande biblioteca (1611-1622), costituita da un ambiente di 6 metri per 44, contenente circa 11.000
volumi.
L’immagine tramandataci dalla tradizione storiografica della Militello di Francesco Branciforte e Giovanna d’Austria
è quella di una piccola ma fiorente corte umanistica, frequentata da intellettuali e artisti, come il pittore Filippo
Paladini e lo storico e antiquario Pietro Carrera (1573-1638). Con la morte di Francesco il feudo passò alla figlia
Margherita che, dopo avere sposato nel 1624 Federico Colonna, figlio del Contestabile di Napoli, visse tra la capitale partenopea e Roma, soggiornando a Militello solo nel 1628. A lei si deve il completamento della chiesa di San
Benedetto (1646) ma anche il progressivo depauperamento della biblioteca paterna. Dopo la sua morte (1659) il feudo
passò al cugino Giuseppe Branciforte che fu l’ultimo del casato ad abitare stabilmente a Militello, tra il 1662 e il 1663.
Il terremoto del 1693 causò gravi danni materiali ma poche vittime. Nonostante nell’elenco dei centri colpiti della
diocesi di Siracusa fossero segnati per Militello 1276 morti, da altri documenti più attendibili si ritiene che i decessi non furono più di 400.
L’emergenza fu affrontata da Carlo Maria Carafa Branciforte, principe di Butera, che, dopo avere inviato i primi soccorsi, giunse a Militello il 10 aprile dello stesso anno per poi ripartire pochi giorni dopo alla volta del feudo di Occhiolà,
dove avrebbe rifondato ex novo il centro abitato con il nome di Grammichele. A Militello il principe stabilì la ricostruzione in loco, limitandosi a far tracciare un piccolo quartiere dalla maglia ortogonale nei pressi della chiesa di
Sant’Agata, e ordinò che anche le chiese parrocchiali venissero riedificate sui siti originari. Questa determinazione
entrò tuttavia in conflitto con una parte dei vertici della comunità urbana che, invece, aveva intenzione di sfruttare
Il complesso dei Benedettini di Militello, edificato nel corso del Seicento, costituisce oggi una enigmatica testimonianza di una
stagione architettonica quasi del tutto scomparsa e, come tale, di difficile interpretazione.
La fondazione si deve all’iniziativa di Francesco Branciforte e Giovanna d’Austria, signori di Militello nel corso del primo trentennio del XVII secolo.
Secondo le cronache del tempo (Carrera), il monastero fu fondato nel 1614, anche se solo nel 1619 giunse l’approvazione papale alla
nuova fondazione benedettina. Il progetto è tradizionalmente attribuito al padre cassinese Valeriano De Franchis, personaggio in realtà quasi del tutto sconosciuto, al quale viene comunemente ricondotta anche la paternità del primo impianto del complesso benedettino di San Nicolò l’Arena di Catania, realizzato prima di quello di Militello.
Non si conoscono comunque le fasi del cantiere, che dovette durare di certo diversi decenni. Dalla targa dedicatoria sulla facciata
della chiesa, sappiamo soltanto che il prospetto dell’edificio chiesastico fu ultimato nel 1648 da Margherita Branciforte. La grande
facciata del monastero è stata interpretata (S. Benedetti) come una riproposizione dell’impaginato a paraste giganti sovrapposte,
desunto dalla tribuna della chiesa di San Giovanni di Malta a Messina, progettata dall’architetto Giacomo Del Duca negli ultimi anni
del Cinquecento. Non sappiamo tuttavia se la filiazione dall’opera messinese fu diretta o, piuttosto, venne mediata dal complesso
benedettino di Catania, di cui non si conosce l’assetto seicentesco.
Ancora più problematica risulta la datazione della facciata. Se l’anno 1648 corrisponde in effetti al completamento, la sua impostazione a tre ordini, con cella campanaria in sommità, risulterebbe in ampio anticipo nei riguardi delle facciate delle chiese di San
Matteo a Palermo e dell’Annunziata a Messina (entrambi degli anni sessanta del Seicento), considerate fin oggi i prototipi seicenteschi di questo tipo di facciata che, nel corso del Settecento, ebbe un’ampia fortuna in Val di Noto.
In ogni caso, il terzo ordine originario andò distrutto durante il terremoto del 1693 e sostituito da quello attuale nel 1725, su progetto del capomastro Antonino Scirè, attivo in quegli anni anche in altre fabbriche militellesi. Non si hanno notizie di interventi settecenteschi nel prospetto del monastero ma, da un’analisi puramente visiva, sembrerebbe che diversi elementi di decoro, come il portale centrale, furono trasformati dopo il terremoto. Considerando tuttavia la trama compatta della muratura, che non rileva aggiunte o rimaneggiamenti, non è neppure da escludere che il prospetto venisse in realtà completato poco prima del terremoto, con un
lessico architettonico rinnovato rispetto al progetto originario. Di certo legate al primo disegno sono invece la finestra del secondo
ordine della facciata della chiesa e le finestre laterali del corpo della navata, caratterizzate da un singolare bugnato a reticolo. Da
ricondurre al primo progetto sono anche le cornici delle aperture del cortile interno, riferite a un lessico rigidamente classicista, comune a molte opere del primo Seicento siciliano.
145
Chiesa di Santa Maria della
Stella, facciata.
Le chiese di San Nicolò e di Santa Maria della Stella.
La storia delle due parrocchie di Militello inizia a delinearsi a partire dal 1506 quando, in aggiunta alla chiesa Madre di San Nicolò,
posta nei pressi del piano del castello, i Barresi fecero elevare a seconda parrocchia la chiesa di Santa Maria la Vetere legata al
culto di Santa Maria della Stella edificata, forse nel corso del XIV secolo, in una posizione defilata rispetto al centro del paese, ad
est della dimora baronale, e già utilizzata dai signori di Militello come luogo di sepoltura familiare. Del particolare interesse dei
Barresi rivolto alla chiesa, oltre al portale con i leoni stilofori datato 1506, rimane l’emblematica testimonianza della pala di
ceramica attribuita ad Andrea Della Robbia, che la tradizione vuole acquistata dallo stesso Antonio Pietro nel 1487, di ritorno
dalle campagne militari in Fiandra.
I Branciforte, pur mantenendo inalterato il prestigio della chiesa mariana, a partire dal 1602 finanziarono un ambizioso progetto di riedificazione della chiesa Madre, del quale rimangono solo scarne descrizioni. Concepito secondo un impianto a tre navate su colonne, il nuovo edificio si caratterizzò per la grande torre campanaria posta al centro della facciata, secondo una soluzione di certo rara ma che, in quel momento, faceva riferimento ai due celebri prospetti turriformi del duomo di Enna e della
146
cattedrale di Siracusa, diocesi a cui Militello era legata. La torre, che le fonti descrivono alta 44 metri e divisa in tre ordini secondo la canonica sequenza di dorico, ionico e corinzio, venne completata nel 1648.
Nel frattempo, nel 1618, un incendio aveva gravemente danneggiato la chiesa di Santa Maria la Vetere, comportando lo spostamento dei sarcofaghi dei Barresi nella chiesa di San Francesco, in attesa che il vecchio edificio venisse riparato.
Non sappiamo in realtà quanto le due comunità parrocchiali nel corso del XVI e XVII secolo furono in antagonismo ma è certo
che, dopo il terremoto del 1693, si scatenò il loro perenne e insanabile conflitto. Nonostante le disposizioni di Carlo Maria Carafa
di lasciare gli edifici sacri nell’originaria posizione, all’interno della comunità si iniziarono a creare violente fratture tra chi voleva mantenere i vecchi siti e chi intendeva ricostruire in luoghi strategicamente più appropriati. Nel 1696 il vescovo di Siracusa,
Asdrubale Termini, nell’evidente intento di scoraggiare costose fabbriche ex novo, si rifiutò di destinare fondi per la chiesa di San
Nicolò, invitando i parrocchiani a rivolgersi alla generosità del feudatario.
Ciononostante, ad appena due anni di distanza (1698) sia Carlo Maria Carafa che il vescovo siracusano furono costretti ad ordinare nuovamente ai giurati di non cambiare sito alle chiese parrocchiali, ma i vertici della società militellese, continuarono nel
loro intento, alimentando il conflitto.
Un altro vano tentativo di pacificare la disputa religiosa fu compiuto nel 1710, quando il vescovo decise di riunire le due parrocchie in un’unica collegiata posta in una struttura provvisoria nelle adiacenze dei ruderi della vecchia San Nicolò, incoraggiandone la ricostruzione. Ma una incendio ai danni della vecchia chiesa Madre – che a questo punto si potrebbe ipotizzare di natura dolosa - scoraggiò definitivamente ogni progetto di riedificazione.
Nel 1721 iniziò la costruzione della nuova chiesa di San Nicolò nel quartiere di San Leonardo e, l’anno successivo, fu aperto il
cantiere della nuova chiesa di Santa Maria della Stella. Come progettisti sono stati indicati rispettivamente i nomi di Francesco
Fichera e Francesco Coniglio, ma il loro effettivo ruolo nelle vicende delle due chiese deve essere ancora verificato.
È interessante notare che le due parrocchie, invece di puntare su progetti fortemente differenziati (si pensi al caso di Modica e
di Ragusa), scelsero praticamente le stesse soluzioni architettoniche: un impianto a tre navate, con transetto e cupola all’incrocio (nel caso di Santa Maria della Stella rimasto incompiuto), scandito da pilastri con paraste e concluso da una facciata su due
ordini, raccordata da volute. La somiglianza tra i primi due ordini delle facciate - entrambi basati sullo stesso sistema di paraste e dotati di finestre ovali sopra i portali laterali - è tale da far supporre il coinvolgimento nelle due opere degli stessi progettisti e maestranze. Anche la soluzione della parte sommitale con un ampio fastigio inserito all’interno di un timpano spezzato,
al di là dei diversi dettagli, è praticamente la stessa.
L’elemento di maggiore distinzione tra i due impianti resta il campanile, in San Nicolò addossato al fianco della facciata e in
Santa Maria concepito come volume indipendente. Anche i portali si configurano secondo disegni diversi, ma nell’ambito del
medesimo criterio rivolto alla qualificazione degli elementi architettonici salienti attraverso una fitta trama decorativa.
Nel 1738 giunse finalmente il riconoscimento della diocesi di Siracusa della nuove fondazioni, ufficializzato dall’unzione delle
campane delle due chiese da parte del vescovo Trigona.
Pagg. 148-149 Oratorio di Santa
Maria della Catena, interno.
Chiesa di San Nicolò, facciata.
150
Il 1740, anno inciso sopra il portale di Santa Maria della Stella, è da considerare l’anno di conclusione della facciata della chiesa mariana, anche se non è da escludere che la parte sommitale possa essere stata ultimata più tardi. Il prospetto e il campanile della chiesa di San Nicolò furono portati a termine tra il 1755 e il 1765, secondo le direttive dell’architetto catanese
Francesco Battaglia.
Nonostante i conflitti per i nuovi siti fossero ormai risolti da tempo, le due parrocchie continuarono a contendersi i primato del
patronato sulla città. Nel 1744, nel tentativo di operare l’ennesima pacificazione, il tribunale della monarchia, dopo avere consultato sia il principe Branciforte che il vescovo Francesco Testa, dichiarò entrambi i patronati validi. Ma la politica di equilibrio
fino a quel momento perseguita non ebbe gli esiti desiderati. Nel 1788 si giunse quindi a un provvedimento clamoroso: il vescovo impose la soppressione della parrocchia di Santa Maria della Stella e una nuova dedicazione della chiesa di San Nicolò sotto
il titolo del SS. Salvatore, proclamato unico patrono del paese.
Solo nel 1875 la chiesa di Santa Maria della Stella fu riabilitata come parrocchia, ma il suo cantiere era destinato ad arenarsi,
lasciando l’edificio privo della parte del transetto e il campanile incompiuto. La costruzione della chiesa di San Nicolò proseguì
invece fino al 1904, quando venne realizzata la cupola.
MODICA
Pagg. 152-153 Modica, veduta
aerea.
Principale centro dell’omonima contea, al momento del terremoto, Modica era la quarta città dell’isola, dopo Palermo,
Messina e Catania. Il primo nucleo era sorto intorno al castello comitale, arroccato su un alto sperone roccioso. Il promontorio formava una sorta di cuneo tra due profonde gole confluenti solcate da torrenti. A causa della condizione orografica, l’abitato si era espanso lungo i declivi circostanti in modo discontinuo, occupando anche zone sui versanti opposti dei corsi d’acqua. Nessuna precisa pianificazione era riuscita a contenere le periodiche piene invernali, che interessavano il fondovalle, e l’incremento demografico seguito alla diffusione dei contratti enfiteutici. Fu piuttosto la traccia ad
Y creata dai torrenti a costituire l’ossatura dei percorsi principali lungo i quali, già in epoca medievale, erano sorti alcuni
importanti insediamenti religiosi. Questa tendenza era stata poi definitivamente consolidata, nel corso del Seicento, con
la fondazione di nuovi complessi e la ristrutturazione dei preesistenti.
A partire dai primi anni del XVII secolo, quando il centro urbano aveva raggiunto da tempo i 18.000 abitanti, la vita cittadina si andò polarizzando sulla rivalità tra le due parrocchie, sotto le quali gli abitanti erano equamente divisi: la chiesa Madre di San Giorgio e la chiesa di San Pietro. Come abbiamo già visto a Militello, e come avremo modo di notare a
Ragusa, dietro alle fazioni religiose del periodo si nascondevano puntualmente dei conflitti socio-economici. Nel caso di
Modica, possiamo avere degli indizi in questo senso considerando le diverse collocazioni delle due chiese. San Giorgio era
una delle più prestigiose fondazioni normanne della contea. La chiesa, a dimostrazione della sua dignità storica, sorgeva
vicino alla sommità del promontorio e dominava da secoli il nucleo più antico dell’abitato. La chiesa di San Pietro, seppur di fondazione medievale, era sorta a fondovalle, in prossimità della sponda di uno dei torrenti, e solo nel 1504, grazie al progressivo espandersi dei nuovi quartieri, era divenuta parrocchia. Nel 1597 era stata poi elevata a collegiata, iniziando così ad aspirare al titolo di matrice.
Modica, veduta aerea del centro
storico.
155
Chiesa di San Giorgio, interno.
156
Chiesa di San Giorgio,
particolare del portale centrale.
La competizione tra le due chiese si trasformò in scontro aperto e, in alcuni episodi, assunse connotazioni violente tanto
che, nel 1690, vennero scomunicate una ventina di persone, comprendenti l’arciprete e l’intero capitolo di San Pietro.
Le devastazioni inflitte dal terremoto interruppero drasticamente la vicenda. Nei mesi successivi, mentre si faceva fronte ancora alle emergenze primarie, giunse il divieto regio di ricostruire le due chiese, fin quando non si fossero risolti i
contrasti tra i rispettivi capitoli. Con un dispaccio del giugno 1693, il governo di re Carlo II caldeggiò inoltre la ricostruzione della città in un sito più pianeggiante. La riedificazione integrale del centro in un altro luogo avrebbe anche consentito di spegnere definitivamente la competizione tra le due parrocchie edificando un’unica chiesa madre dedicata ai
santi Giorgio e Pietro.
Le disposizioni e gli orientamenti governativi non ebbero comunque esito, in conseguenza anche del fatto che Modica
ricadeva all’interno di un possedimento feudale. La città fu ricostruita lentamente su se stessa, mantenendo il suo intricato tessuto urbano, e tra i numerosi cantieri che si aprirono entro la fine del Seicento emersero, per impegno economico ed esiti architettonici, quelli delle chiese di San Giorgio e San Pietro, ancora una volta in competizione tra loro.
La chiesa di San Giorgio
La chiesa di San Giorgio di Modica è unanimemente considerata una delle più significative e originali manifestazioni dell’architettura del Settecento in Sicilia. Recenti studi hanno dimostrato, in realtà, che una parte consistente dell’opera fu realizzata nella prima
metà dell’Ottocento. La paternità del progetto resta inoltre un enigma senza soluzione.
Di un primo impianto dedicato a San Giorgio si hanno notizie fin dal 1150, ma di questa prima chiesa sappiamo solo che, nel Seicento,
era considerata la più antica e celebre della contea. Nel 1643, in seguito a evidenti segni di cedimento di una parte della struttura, si
decise per un intervento radicale sul vecchio manufatto, in base a una nuova pianta elaborata dal frate francescano Marcello da
Palermo, di cui si conoscono pochi altri, e non ben identificati, interventi progettuali. Non si trattò probabilmente di una ricostruzione ex novo ma di una sostanziale trasformazione di un edificio già di considerevoli dimensioni, a giudicare dal grande polittico di
Bernardino Niger, che era stato posto sopra l’altare maggiore nel 1573 e che costituì un vincolo per il progetto del 1643.
La nuova struttura seicentesca fu gravemente scossa dal terremoto del 1693. Il presbiterio contenente la preziosa pala era rimasto
intatto, ma erano crollati parte del transetto, della facciata e del campanile. Le colonne, gli archi e il tetto delle navate, anche se ancora in piedi, erano stati irrimediabilmente dissestati. Ciononostante, il capitolo fece stilare una perizia da alcuni capomastri allo scopo
di dimostrare come la struttura, a differenza di quella della chiesa di San Pietro, fosse, tutto sommato, in buono stato e facilmente
riparabile. La relazione si poneva in realtà come strumento di pressione contro il divieto regio di ricostruire le due chiese. Una volta
157
Chiesa di San Giorgio,
particolare della facciata.
Chiesa di San Pietro,
particolare della facciata.
Chiesa di San Pietro, veduta
d’insieme.
158
rientrato il veto reale, si dovette però ammettere la necessità di ricostruire gran parte dell’edificio. Da alcune relazioni legate ai primi
interventi, si evince che la chiesa iniziò ad essere ricostruita «conforme l’antica pianta» ma su un nuovo modello. Non è chiaro, quindi, se le attuali dimensioni della pianta si debbano all’edificio seicentesco o alle modifiche su di esso apportate dopo il terremoto.
La costruzione procedette per diversi decenni. Tra il 1746 e il 1747 si lavorava ancora alla struttura muraria della cappella del SS.
Sacramento (a destra dell’abside), alla definizione della cappella del SS. Crocifisso, posta nell’ala destra del transetto, e dovevano essere ancora portate a termine gran parte delle cappelle perimetrali. In quegli anni troviamo impegnati nel cantiere i capomastri Carmelo,
Pietro e Costantino Cultraro, titolari a una delle imprese familiari più attive del periodo in Val di Noto.
Solo nel 1761 si iniziò concretamente ad affrontare il problema della facciata da ricostruire ex novo. Da un «atto protestatario» dell’architetto Paolo Labisi, sappiamo che nell’ottobre di quell’anno una commissione aveva scelto, tra diversi progetti, un suo disegno,
avviandone la realizzazione. Poco dopo l’apertura del cantiere, quando la struttura era arrivata ad appena due metri e mezzo
d’altezza, scoppiò un’aspra polemica tra l’architetto e Francesco Gaetano Basile, procuratore economo del capitolo della chiesa, il
quale si poneva come portavoce di un ampio coro di perplessità sulla correttezza del progetto del Labisi. Basile fece eseguire una base
di colonna da capomastri locali, come proposta alternativa al disegno del Labisi, mentre il mastro Girolamo Iacinto da Scicli giunse
addirittura a realizzare un modello al solo fine di porre in evidenza i difetti del progetto dell’architetto. Non sappiamo come fu conclusa tale controversia. Dallo scritto del Basile si deduce che il progetto del Labisi prevedeva una facciata a unico campanile a convessità centrale, un’impostazione analoga, quindi, a quella effettivamente realizzata. Dallo stesso scritto si deduce però che, nel corso
della lunga fase realizzativa, alcune modifiche furono di certo apportate. Si è comunque propensi ad attribuire l’opera al Labisi, almeno per quanto riguarda la sua impostazione complessiva. La possibile derivazione del progetto di San Giorgio da quello della chiesa
Cattolica di corte a Dresda, supposto dalla studiosa tedesca A. Krämer, è in effetti storicamente possibile. La chiesa di Dresda era stata
voluta dall’elettore di Sassonia, August III, nel 1738, anno in cui la figlia Maria Amalia aveva sposato Carlo di Borbone, re di Napoli
e di Sicilia. Lo stesso committente aveva stabilito l’impostazione della facciata a torre, affidando la definizione delle forme all’architetto romano Gaetano Chiaveri. Nel 1740 iniziarono a circolare le incisioni del progetto, giungendo nello stesso anno a Napoli, da
dove è ipotizzabile che abbiano successivamente raggiunto la Sicilia.
Dal 1762, assunsero un ruolo primario nella conduzione dei lavori i capomastri Michele Alessandra, Pietro Cultraro (dal 1764) e, successivamente, Costantino Cultraro. I Cultraro erano impegnati nella costruzione della chiesa prima dell’intervento del Labisi e non è
da escludere che furono proprio loro a fomentare l’opposizione all’architetto. A Costantino Cultraro, attivo fino al 1778, potrebbero,
in via del tutto ipotetica, essere ricondotti gli esuberanti portali rococò. Comunque siano andate le cose, nel 1780 era stato realizzato solo il primo ordine della facciata. In quell’anno, del resto, si stavano ancora realizzando le volte della navata e del transetto.
Chiesa di San Pietro, interno.
Chiesa di San Pietro,
cappella della navata destra.
Due anni dopo, Giovanni Gianforma iniziò la stuccatura delle coperture dell’abisde, del transetto e della navata maggiore, seguendo
probabilmente un disegno da lui stesso elaborato. Tra il 1791 e il 1795 venne infine realizzata la cupola, ad opera del capomastro
ragusano Giambattista Muccio, con la consulenza dell’architetto Antonino Battaglia.
La vicenda conclusiva della facciata è fin oggi legata ai pochi indizi deducibili da un unico documento: in un atto notarile del 1841 i
mastri Carmelo Cultraro, Pietro Muccio e Gaudenzio Lauretta si impegnano a terminare il terzo ordine e realizzare gli altri livelli
sommitali. Nel documento, inoltre, si fa riferimento a un disegno del secondo e del terzo ordine realizzato in precedenza dallo stesso Carmelo Cultraro. Va sottolineato che Carmelo era il figlio di Costantino Cultraro. Nel 1848 l’impresa fu finalmente portata a
termine completando la copertura a bulbo sopra il terzo ordine.
La chiesa di San Pietro
160
La chiesa di S. Pietro esistente prima del terremoto era sorta, sul luogo di un precedente impianto medievale, a partire dal 1504, anno
in cui l’edificio era stato elevato a parrocchia. Nel 1597 divenne collegiata. Poco dopo iniziarono i contrasti con la parrocchia di San
Giorgio per la disputa sul titolo di matrice. Il grande impianto, a tre navate su colonne con cappelle laterali, fu quasi del tutto distrutto dal terremoto. La ricostruzione fu avviata negli anni 1694-95 sfruttando le strutture di fondazione e le murature rimaste in piedi
dell’edificio preesistente, come la cappella dell’Immacolata (attuale sacrestia), dove è ancora leggibile la data incisa 1620. Il cantiere
fu affidato ai capomastri Mario Spata, originario di Ragusa, e il modicano Rosario Boscarino. Sotto la loro direzione, e presumibilmente in base a un progetto dello Spata, si procedette speditamente all’elevazione della struttura della navata centrale e della facciata. I portali di quest’ultima vennero collocati nel 1697, mentre il primo ordine risulta ultimato entro il primo decennio del
Settecento. La piatta superficie muraria, l’impiego di elementi di ascendenza cinquecentesca, il compiacimento decorativo delle paraste bugnate, e dei dettagli scultorei, fanno di questo prospetto chiesastico una delle testimonianze più emblematiche della tendenza
tradizionalista che distinse le prime imprese costruttive del dopo terremoto. Per quanto l’opera sia riconducibile con maggior certezza al capomastro Mario Spata, di certo uno dei più attivi nei grandi cantieri chiesastici del periodo, non deve essere sottovalutata la
possibile partecipazione progettuale (almeno negli elementi decorativi) del mastro intagliatore messinese Francesco Romeo, (alias
Aglioti), personaggio anch’egli di rilievo, che firmò una stima dei lavori nell’anno 1700.
Dopo il primo decennio di febbrile attività, il cantiere procedette lentamente con la realizzazione delle cappelle perimetrali, approdando alla consacrazione della chiesa solo nel 1760. A causa del progressivo esaurimento delle risorse economiche, nel 1775 il secondo
ordine era ancora fermo a metà altezza e non è chiaro quando, e in base a quale progetto, fu effettivamente completato. La ricca decorazione delle volute di raccordo tra il primo e il secondo ordine e, soprattutto, i flessuosi motivi del finestrone centrale sono in ogni caso
da ricondurre a un linguaggio pienamente settecentesco di certo estraneo al repertorio conosciuto da Spata o da Romeo.
Ciononostante, la facciata presenta una certa coerenza d’insieme che dimostra come, nonostante gli inevitabili aggiornamenti linguistici, i criteri del progetto originario non furono traditi.
La definizione delle superfici interne è invece da collocare fuori dalla stagione barocca. Decorata tra la fine del Settecento e i primi
dell’Ottocento, l’originaria struttura venne in parte modificata nel 1815, quando, su progetto dell’architetto catanese Carlo Puleio, le
coperture delle navate laterali furono sostituite dall’attuale sistema a volte ovali.
NOTO
Pagg. 162-163 Noto, veduta
aerea.
Il centro storico di Noto è tradizionalmente assunto ad emblema dell’intera stagione barocca della Sicilia sud-orientale. Il suo assetto urbano, dotato di singolari connotazioni scenografiche e monumentali, associato alla pregnanza
delle opere d’architettura costituisce, in effetti, uno dei risultati più significativi di quella idea di magnificenza collettiva a cui le comunità cittadine del periodo aspiravano. Bisogna tuttavia considerare che la Noto risorta dopo il
1693 non nacque da un’azione corale dei suoi artefici, ma fu invece il frutto di scelte sofferte e di aspri conflitti.
Secondo le testimonianze del tempo, la vecchia Noto, arroccata sulla sommità del monte Alveria, era stata ridotta
dal terremoto in «un monton de piedras abandonadas». Tra le sue tortuose strade avevano trovato la morte 3000 dei
suoi 12.000 abitanti. Del suo patrimonio architettonico era rimasto ben poco. Le prime settimane successive al sisma
furono scandite dalla fuga caotica degli abitanti, dagli atti di sciacallaggio e dall’inerzia della classe dirigente, incapace di far fronte all’emergenza e di trovare un accordo su dove ricostruire la città.
Con l’arrivo del duca di Camastra, il 24 febbraio, e la destituzione dei giurati e del Capitano di Giustizia, i rappresentati della comunità, nonostante il parere contrario dello stesso duca, giunsero infine alla decisione di ricostruire in
un altro luogo. L’area prescelta per la nuova città fu individuata sul cosiddetto «pianazzo» del feudo del Meti (ricadente nel territorio di Avola), un ampio altopiano a sette chilometri dal vecchio sito e a cinque dalla costa. Anche se
la faziosità delle fonti storiche coeve non consente una chiara valutazione dei fatti, sembra certo che il duca acconsentì a patto che si fosse costruito solo sull’altopiano (più difendibile e pianificabile) e non sui pendii che lo delimitavano. Alla sua partenza tuttavia nulla si mosse. La cittadinanza continuò a porre ostacoli al trasferimento definitivo, tanto da determinare in aprile il ritorno di Camastra. In questo momento (tra il 3 e il 20 aprile) si colloca
l’intervento progettuale dell’architetto gesuita Angelo Italia. La storiografia non concorda nella valutazione del suo
Palazzo Trigona, facciata.
165
Palazzo Trigona, particolare della
facciata.
Palazzo Nicolaci, facciata.
166
apporto. Riferendosi solo ai contribuiti più recenti, le ipotesi formulate oscillano tra chi (M. Luminati) ritiene
l’architetto responsabile dei piani di lottizzazione dell’altopiano e del pendio, quest’ultimo inteso dal Camastra come
luogo per l’insediamento provvisorio, e chi (L. Dufour, H. Raymond) invece sostiene che Italia fu il progettista del
piano di lottizzazione del pendio, inteso come alternativa a quello voluto dal Camastra sull’altopiano, lasciando la
paternità di quest’ultimo incerta. È comunque indubbio che il programma del funzionario governativo si scontrò con
la tendenza della popolazione a preferire il pendio come sede definitiva. L’altopiano veniva messo sotto accusa per
il suo accesso troppo ripido, l’assenza di risorse idriche e l’insalubrità della sua aria.
Il trasferimento della popolazione iniziò a maggio, sotto il controllo del commissario generale Giuseppe Asmundo
che strategicamente, nel giugno del 1693, fece trasportare nel nuovo sito l’arca d’argento contenente il corpo di San
Corrado, il santo patrono di Noto. L’arca fu però sistemata sul pendio e non sull’altopiano, segno forse di un atto di
debolezza dell’Asmundo o della sua volontà di assecondare la tendenza generale.
Nel novembre del 1694 Asmundo segnalò il costante trasferimento, suo malgrado, di parte della popolazione sul
declivio. Nel dicembre dello stesso anno Camastra tornò a Noto e ordinò lo spostamento sull’altopiano delle capanne e degli istituti religiosi (la collegiata del SS. Crocifisso e i conventi di San Francesco di Paola e di Santa Maria di
Gesù) in fase di costruzione nelle aree in pendenza. Lo stesso duca non riuscì comunque a impedire che la chiesa
madre rimanesse dove era stata impiantata, segnando definitivamente il futuro dell’altopiano.
A questi problemi si aggiungeva un malcontento sempre più manifesto di una parte consistente della cittadinanza,
costituita per lo più dagli artigiani, dal ceto dei lavoratori più umili e da alcuni nobili penalizzati dagli eventi, che
avevano trovato l’abbandono del sito originario poco conveniente o economicamente troppo gravoso. Nel 1698, il
viceré, nel tentativo di dare una svolta alla vicenda, decise di indire una votazione di tutti i cittadini maschi.
Pagg. 168-169 Palazzo Nicolaci,
salone, decorazione
ottocentesca.
Chiesa di Santa Chiara, veduta
d’insieme.
Palazzo Nicolaci, particolare di
un balcone.
170
La vittoria del partito promotore del ritorno alla vecchia Noto fu schiacciante.
Ma il gruppo minoritario, costituito dai principali esponenti del clero, della nobiltà e della ricca borghesia, aveva
ormai iniziato ad investire e a costruire nell’area del Meti e il loro peso politico riuscì a rendere di fatto nullo l’esito
della votazione. Tre anni dopo, nel 1702, il fervore dei cantieri delle chiese e dei palazzi nel nuovo sito, contrapposto
all’assenza assoluta di attività nella vecchia Noto, indusse il governo centrale a chiudere definitivamente la questione.
La città crebbe secondo due reticoli stradali leggermente inclinati tra di loro, uno per l’altopiano, o «pianazzo», e uno per
il pendio. Con l’intento di equilibrarne il ruolo, al centro delle lottizzazioni così ottenute sorsero le due chiese più importanti: il duomo di San Nicolò sul pendio, e la collegiata del SS. Crocifisso sull’altopiano. Ma la risposta architettonica
affidata alla comunità urbana si differenziò in modo netto. La Noto barocca, quella divenuta celebre per il suo assetto
scenografico e per i suoi monumenti, corrisponde solo alla parte di città realizzata sul pendio. Qui gli assi portanti del
sistema viario furono tracciati nella direzione est-ovest in modo da tagliare la pendenza del terreno e risultare il più
possibile pianeggianti. Sulla via principale, individuata in una posizione mediana, furono ricavate tre piazze, riservando
a quella centrale un gigantesco invaso a pianta rettangolare, sul quale si sarebbero fronteggiati il palazzo municipale e
il duomo. I lotti furono assegnati quasi esclusivamente alle sedi delle più importanti istituzioni religiose e alle famiglie
dell’élite dirigente, lasciando il «pianazzo» e le aree marginali del nuovo centro al resto della popolazione.
Va tuttavia considerato che per diversi decenni la risposta architettonica all’ambizioso piano urbanistico stentò a decollare. Solo a partire dagli anni trenta del Settecento, in coincidenza con le fasi di affermazione professionale di Rosario
Gagliardi, la città visse una intensa attività costruttiva che consentì di conferire la fisionomia definitiva agli impianti architettonici frettolosamente edificati nei primi anni successivi al terremoto. Per il grande vuoto della piazza del
duomo si dovette aspettare altri due decenni: il cantiere del palazzo municipale procedette lentamente a partire dal
1742, mentre il primitivo e precario impianto della chiesa di San Nicolò resistette almeno fino al 1753 prima di essere inglobato nell’attuale edificio.
La chiesa di Santa Chiara
Le prime notizie riguardanti il monastero benedettino di Santa Chiara risalgono al maggio 1693, quando il vescovo di Siracusa, mentre era in atto il trasferimento della popolazione di Noto sull’altopiano del Meti, stanziò la prima somma necessaria alla realizzazione del nuovo complesso. La preoccupazione immediata fu quella di realizzare, nel minor tempo possibile, un ricovero che garantisse
il voto di clausura delle monache. La costruzione vera e propria del monastero, situato nella principale strada di attraversamento del
171
Chiesa di Santa Chiara, interno.
Chiesa di San Domenico,
facciata.
172
pendio, iniziò quindi solo qualche anno dopo.
Intorno al 1730 assunse la direzione del cantiere Rosario Gagliardi che progettò la chiesa su un lotto di terreno già stabilito, predisponendo anche i disegni per il completamento dell’edificio monasteriale. L’architetto diresse i lavori fino alle opere di decorazione dell’interno, eseguite tra il 1754 e il 1755 dallo stuccatore agrigentino Onofrio Russo. La chiesa venne infine aperta al
culto nel 1758.
Il progetto per il monastero non fu portato a termine e subì diverse modifiche. Le suore abitarono il complesso fino al 1918,
quando l’edificio fu requisito e trasformato in caserma. La struttura venne poi adibita a scuola e in parte trasformata in cinematografo. Negli anni Cinquanta, infine, l’ala sud orientale del dormitorio fu demolita per lasciare il posto a un ufficio postale. La chiesa resta invece sostanzialmente integra nel suo assetto originario, ad eccezione del pavimento in marmo, realizzato
in sostituzione di quello originario in maiolica policroma, e dell’ingresso laterale, aggiunto alla fine del Settecento in alternativa al portale principale, reso inutilizzabile dai lavori di abbassamento della strada.
L’aspetto turriforme dato al prospetto è la risposta del Gagliardi a delle precise esigenze funzionali. Il volume infatti, oltre ad
ospitare il vestibolo di accesso alla chiesa, è destinato a due distinti spazi di raccolta delle monache: il coro sull’ingresso, aperto verso l’aula, e una soprastante loggia belvedere, utilizzata anche come cella campanaria. L’assetto esterno, rigidamente concepito come accostamento di volumi è riscattato dalla cura di alcuni dettagli come l’elaborata soluzione del capitello angolare,
ispirata alle intenzioni ornamentali Bérain.
La chiesa di San Domenico
La chiesa di Noto annessa al convento dei padri Domenicani costituisce uno dei rari casi in cui la paternità dell’opera, in ogni sua
parte, può essere ricondotta ad un unico autore. Gagliardi non solo ne seguì personalmente la costruzione ma ebbe cura di lasciare memoria del suo operato inserendo nella sua raccolta di disegni tre tavole del progetto. Confrontando i grafici con l’opera realizzata è quindi possibile constatarne la corrispondenza, sia nell’impostazione generale che nei dettagli decorativi. È inoltre possibile
Chiesa del collegio dei Gesuiti,
facciata.
174
Monastero del SS. Salvatore,
interno, decorazione
ottocentesca.
individuare alcune significative rinunce che l’architetto fu costretto ad accettare in fase di realizzazione, quali l’eliminazione, per
problemi di spazio, della terminazione curva dei bracci trasversali e la riduzione dello sviluppo dell’abside, compromettendo così
la chiara coerenza del progetto.
Un primo contatto tra il convento e Gagliardi è documentato nel 1732, quando il cantiere era da tempo avviato. La costruzione
della chiesa iniziò nel 1737 sotto il suo diretto controllo. I lavori procedettero con una certa lentezza anche a causa delle contemporanee opere di completamento del convento, che si protrassero almeno fino al 1746. Nel 1754 si giunse a realizzare le volte
di copertura, riuscendo così a chiudere lo spazio interno. La presenza in cantiere del Gagliardi è documentata fino al 1758, quando la struttura muraria non era del tutto ultimata, ma è plausibile pensare che fino al 1761 ebbe modo di seguirne le fasi di
completamento.
Il collegio dei Gesuiti e il monastero del SS. Salvatore
Un parte consistente dell’assetto monumentale del corso principale di Noto è demandata sostanzialmente a due complessi religiosi: il collegio dei Gesuiti, con l’annessa chiesa di San Carlo, e il monastero benedettino del SS. Salvatore. Entrambe le opere
sono attribuite a Rosario Gagliardi, anche se le lunghe vicende dei cantieri, che videro avvicendarsi diversi progetti, non sono
sufficientemente documentate. Le differenti scelte linguistiche operate sui lunghi prospetti del collegio e del monastero rendono ancora più problematica la loro attribuzione. Tuttavia, se si osserva la facciata della chiesa di San Carlo e la torre belvedere
del SS. Salvatore, è possibile rintracciare alcune affinità progettuali, come il movimento della superficie muraria e l’uso di finestre polilobate, che, oltre a suggerire l’operato della stessa mano, risultano del tutto congruenti con le ricerche architettoniche
svolte dal Gagliardi. Per quanto la presenza di Gagliardi nei due cantieri sia provata in modo frammentario e vago, va comunque considerato che le fasi costruttive salienti, riconducibili agli anni 1730-1760, corrispondono al periodo di massima attività
e prestigio dell’architetto.
--I due istituti religiosi, al momento in cui fu tracciato il nuovo piano della città, dovettero di certo impiantare con urgenza delle
strutture provvisorie che poi, con l’allontanarsi dell’emergenza, furono lentamente sostituite da progetti più ambiziosi. Di questi,
quello per il complesso gesuitico fu probabilmente avviato nel 1729, quando iniziano ad essere documentate consistenti forniture di pietra di intaglio «per il nuovo Collegio e Chiesa». Non è da escludere che, già in questa fase, sia intervenuto progettualmente Gagliardi. Il giovane architetto nel 1726 aveva infatti concluso i propri studi nel collegio dei Gesuiti di Palermo, iniziando una proficua collaborazione con la Compagnia, documentata nei cantieri delle chiese gesuitiche di Modica (1733 c.) e
Siracusa (post 1735). La mano dell’architetto sembra potersi rintracciare nel portale centrale del collegio, dove ritorna, in una
forma più elaborata, il singolare decoro scultoreo a mascheroni mostruosi dei capitelli della chiesa del Sepolcro di Santa Lucia
a Siracusa, considerati opera giovanile del Gagliardi.
L’intervento più impegnativo di Gagliardi si riconduce in realtà nell’impianto della nuova chiesa, realizzato tra il 1748 e il 1756, in
sostituzione di quello previsto nel progetto del 1729. Per quanto tracciata su un consueto schema a tre navate su pilastri e
175
Monastero del SS. Salvatore,
particolare del prospetto
meridionale.
Collegio dei Gesuiti, particolare
del portale centrale.
176
transetto incluso nel perimetro, la chiesa si distingue per alcune soluzioni singolari. I pilastri che dividono le navate, contrariamente alla prassi comune, presentano il lato corto in corrispondenza della navata, quasi del tutto occupato da una semicolonna,
mentre, il lato lungo, disposto secondo lo spessore degli archi, viene scandito da paraste binate. La calotta della cupola, poggiante sul tradizionale circuito anulare retto da quattro archi, si configura come una struttura ibrida, formata dalla compenetrazione
di una volta e una tamburo a base quadrata con gli angoli smussati. Ancora più interessante è la soluzione del lato di ingresso,
inteso non come un semplice piano di chiusura ma come un volume contenente un vestibolo animato da un’articolata sequenza
di dilatazioni e contrazioni spaziali: in corrispondenza della navata centrale, l’architetto pone infatti una esedra che inflette la
parete interna del vestibolo e viene controbilanciata, specularmente, dalla curvatura impressa alla facciata. La contrazione così
ottenuta, attraverso il contrapporsi di due convessità, viene compensata dalla dilatazione di ampie curvature disposte secondo
l’asse trasversale del piccolo ambiente d’ingresso. Il complesso gioco di convessità e concavità interattive, che solo Gagliardi in
quegli anni era in grado di sperimentare a Noto, si pone come ulteriore riflessione su temi già impostati nelle vicine chiese di
Santa Chiara, dove è presente il vestibolo a terminazioni curve, e di San Domenico, caratterizzata dall’estroflessione convessa
dello spazio della navata. Stesse considerazioni valgono per il congegno di facciata: il tema della torre belvedere, che nella chiesa di Santa Chiara aveva avuto una iniziale, quanto rigida, visualizzazione, si sposa qui con il gioco tra colonne libere e movimento curvo del piano di facciata - già sperimentato dal Gagliardi nel San Domenico a Noto e nel San Giorgio a Ragusa - in
una sintesi inedita e non più ripetuta.
--Il movimento della parete ritorna nella torre belvedere del monastero del SS. Salvatore ma in una forma del tutto nuova. Il fronte su strada si incurva, senza la mediazione delle colonne libere, in una morbida, quasi organica, successione di ampie concavità e brevi convessità, secondo il ritmo a-b-a-b-a, trasponendo così sulla parete il tema della contrazione e della dilatazione. La
parete ondulata viene inoltre concepita come un elemento sovrapposto al corpo dell’edificio, dotato di un suo spessore e concluso da “sfrangiature” plastiche, ottenute con la sovrapposizione di volute contrapposte. Vale la pena di sottolineare che quest’ultimo motivo decorativo lo ritroviamo, in una forma miniaturizzata, ai lati della finestra del prospetto della chiesa di Santa
Maria dell’Arco, sempre a Noto, opera certa di Gagliardi.
La torre del SS. Salvatore fu costruita come struttura di raccordo tra il corpo superiore del complesso, posto a nord lungo la via
Dogali, e il corpo basso, ad angolo tra il corso e il piano di San Francesco, nell’ambito di una successione di interventi e progetti dalla difficile collocazione cronologica. Secondo le ipotesi di S. Tobriner è possibile che, nei primi anni successivi al terremoto,
un primo impianto del monastero e della chiesa venissero realizzati a nord, nella parte alta. Successivamente, un nuovo e più
impegnativo progetto fu avviato nella parte bassa dando forma al lungo prospetto sul corso. La presenza di Gagliardi è documentata solo nel 1738 per la realizzazione della cripta della prima chiesa. Una terza fase dei lavori dovette poi riguardare i corpi
di collegamento tra i due impianti, comprendenti la torre belvedere. Nel 1751, il fronte sul corso doveva comunque essere ultimato considerando che, in quell’anno, Vincenzo Sinatra, il più stretto collaboratore di Gagliardi, ne seguì la realizzazione delle
inferriate. In ogni caso, tutti i corpi fin qui citati dovevano essere costruiti entro il 1767, anno in cui si decise di stravolgere del
tutto l’impianto, inserendo una nuova chiesa all’interno del cortile basso in modo da far rivolgere la facciata sul grande invaso
della piazza del duomo in vista, evidentemente, della realizzazione del grande progetto di riedificazione della chiesa Madre.
L’incarico per l’ideazione del nuovo edificio, che risulta ancora in costruzione quando, nel 1790, crollò la vecchia chiesa, fu affidato ad Andrea Gigante, un colto architetto di origine trapanese che, a partire dagli anni Cinquanta del Settecento, si era affermato nel difficile e competitivo ambiente palermitano. Dopo i primi anni di attività, orientati verso un accentuato sperimentalismo, l’architetto si era rapidamente convertito alle nuove correnti orientate verso un severo classicismo. In questa temperie culturale va di certo inserito il progetto per la chiesa di Noto, dal quale sembrano affiorare, nella proposta dell’architetto per la
decorazione interna documentata dai disegni pervenutici, anche influssi piranesiani.
La facciata realizzata corrisponde quasi del tutto al progetto originario ma è interessante notare che l’opera non ebbe unanime
consenso. È infatti noto un progetto di modifica del prospetto, illustrato in tre disegni, da attribuire allo stesso Gigante, vista
l’affinità grafica con il primo gruppo di grafici, o al ciantro Antonio Mazza (1760-1826), coinvolto nel cantiere dopo la morte,
nel 1787, dell’architetto trapanese. La proposta di modifica - basata sul rinforzo del telaio architettonico attraverso l’inserimento
di due colonne ai lati del portale e di corrispondenti paraste nel secondo ordine - non fu posta in atto, in rapporto forse alle
spese consistenti che avrebbe comportato. Dal secondo progetto, tuttavia, dipendono la forma delle volute di raccordo tra primo
e secondo ordine e la chiusura delle campate laterali del portico d’ingresso pensato da Gigante.
177
Il duomo di San Nicolò
La storia dell’edificio iniziò nel giugno del 1693, quando fu posta nell’area dell’attuale chiesa l’arca di San Corrado, patrono della
città antica. La piccola chiesa in legno approntata per l’occasione venne sostituita da una modesta struttura in muratura a partire dal 1728, anno in cui Rosario Gagliardi risulta impegnato nel cambiamento di posizione delle campane.
Questo primo impianto, nel corso del decennio successivo, dovette risultare però del tutto inadeguato, in rapporto anche a ciò che
si stava costruendo negli altri centri del Val di Noto. Si giunse così all’ideazione dell’attuale basilica, il cui progetto originario è ormai
unanimemente attribuito a Rosario Gagliardi. I lavori iniziarono negli anni quaranta, elevando i muri longitudinali all’esterno della
chiesetta provvisoria, ma vennero poi ostacolati dalla presenza, all’interno del nuovo tracciato, di questo piccolo edifico, dove si
continuava nel frattempo ad officiare. Nel 1753 Gagliardi ne sollecitò l’abbattimento al fine di portare avanti il nuovo progetto.
Nessuna decisione fu comunque presa fino al 1767. In quell’anno, infatti, il capitolo del duomo ricevette un cospicuo lascito, in
grado di fornire il supporto economico per rimettere in funzione il cantiere e, grazie alla contestuale espulsione dei Gesuiti dalla
Sicilia trovò una agevole sistemazione provvisoria nella chiesa di San Carlo Borromeo. I lavori furono ripresi ma procedettero con
lentezza. La facciata venne completata alla fine del Settecento, sotto le direttive dell’architetto Bernardo Labisi.
Il lungo periodo trascorso tra il progetto gagliardiano e il completamento dell’edificio rende dubbiosa la paternità dell’opera. La
mancata corrispondenza tra le paraste del primo ordine e quelle dei campanili sembrerebbe poi essere la prova di ripensamenti
in corso d’opera. A diversi interventi progettuali è stata ricondotta anche l’evidente discordanza linguistica tra i portali neocinquecenteschi, le soprastanti nicchie, riferibili a modelli autoctoni, e il finestrone centrale con cornice ad orecchie derivato, presumibilmente, dai celebri repertori pubblicati a Roma nei primi del Settecento. Dell’edificio è stato inoltre notato un certo accento francese, accostandone il prospetto a quello della chiesa parrocchiale di Versailles (A. Blunt) o alla facciata della chiesa di
Saint Roch a Parigi (M. R. Nobile). Non può del resto escludersi la possibilità che il disegno provenisse direttamente dai circuiti
internazionali, considerando che il progetto del vicino palazzo senatorio (palazzo Ducezio), era stato acquistato proprio in
Francia, prima che il cantiere dalla facciata del duomo venisse avviato.
Monastero del SS. Salvatore,
prospetto orientale.
Pagg. 180-181 Duomo,
Monastero del SS. Salvatore,
Palazzo Ducezio, veduta
d’insieme.
Palazzo Ducezio
La costruzione della sede municipale, voluta e finanziata dal gruppo più in vista degli aristocratici locali, iniziò nel 1742, affidando il cantiere a Vincenzo Sinatra, a quel tempo ancora capomastro e collaboratore del Gagliardi. La scelta di un capomastro per un fabbrica così prestigiosa fu probabilmente dovuta al fatto che l’incarico consisteva, in realtà, nell’attuazione di un
progetto già determinato. Secondo una testimonianza ottocentesca, sappiamo infatti che il disegno per la nuova costruzione
era stato acquisito a Montpellier dal barone Giacomo Nicolaci, esponente del gruppo di aristocratici che aveva promosso
l’iniziativa, e committente del palazzo omonimo.
La dipendenza da un progetto di derivazione francese risulta plausibile. L’impianto originario, a un unico piano sollevato da un
basamento a gradini e caratterizzato dalla pronunciata convessità della sala centrale, deriva infatti da un modello di residenza
di campagna che in quegli anni, dopo essere stato sperimentato e codificato in Francia, si era già diffuso a livello europeo.
Secondo i criteri francesi, la convessità creata dall’ambiente centrale era destinata al prospetto posteriore verso il giardino ma a
Noto, al fine di conferire maggior enfasi al prospetto principale, fu rivolta verso la piazza. Ad un ulteriore adattamento alla destinazione pubblica dell’edificio si deve l’aggiunta su tre lati di un portico su arcate.
Sinatra seguì con impegno e costanza il cantiere (che si protrasse almeno fino al 1757) e non è da escludere che alcune soluzioni siano di sua ideazione. Non è chiaro se per lo spazio centrale fosse in origine prevista, così come nei modelli francesi, una copertura a cupola. Di questa idea abbiamo un’unica testimonianza in uno schizzo dell’edificio di Léon Dufourny, un architetto francese presente in Sicilia negli ultimi anni del Settecento. Nella seconda metà dell’Ottocento si decise comunque di realizzare un secondo piano, che venne portato a termine solo intorno al 1950.
179
PALAZZOLO ACREIDE
Pagg. 182-183 Palazzolo
Acreide, veduta aerea.
Per quanto le origini di Palazzolo risultino ancora poco chiare, sembra certo che il primo nucleo abitato si sia andato formando, verso il XII secolo, nell’area sottostante a un castrum feudale, posto su un poggio dominante il territorio circostante. Agli inizi del XIII secolo l’abitato doveva avere già subito un certo sviluppo, considerando che nel
1215, sul luogo dell’attuale chiesa Madre, venne benedetta dal vescovo di Siracusa una nuova chiesa dedicata a San
Nicola, in aggiunta a quella di San Martino esistente in prossimità del castello. Alla metà del XV secolo la baronia
passò sotto il controllo degli Alagona, casato parlamentare tra i più potenti dell’isola, che ebbero modo di frequentare la dimora fortificata di Palazzolo, anche se non è chiaro che ruolo assunsero nello sviluppo del paese. Di certo,
ad Artale Alagona si deve la fondazione, nel 1529, del convento di Santa Maria di Gesù dei PP. Minori Osservanti,
posto ai margini di un’ampia area più elevata, a sud del nucleo abitato originario, sulla quale nel corso del
Cinquecento iniziò ad espandersi il centro urbano.
L’urbanizzazione avanzata di quest’area sopraelevata già nel Cinquecento è attestata dalla fondazione della confraternita di San Sebastiano nel 1588 (per alcuni studiosi la fondazione risalirebbe invece al 1568), la cui sede venne
stabilita in una posizione baricentrica sull’asse di percorrenza principale del nuovo quartiere. La confraternita, che
evidentemente riuniva le nuove famiglie emergenti della Palazzolo del XVI secolo, nel giro di pochi decenni riuscì a
dare forma a un nuovo centro cittadino attraverso la costruzione di una grande chiesa a tre navate, in aperta competizione con la chiesa di San Nicola, elevata nel frattempo a chiesa Madre.
La contrapposizione tra la nuova città alta e la vecchia città bassa iniziò a delinearsi con più chiarezza con l’istituzione,
nel 1608, della confraternita di San Paolo Apostolo, la cui sede definitiva fu stabilita a pochi passi dalla chiesa Madre,
dando vita a quell’antagonismo tra Sansebastianesi e Sanpaolesi, i cui retaggi sono ancora oggi percepibili.
Palazzo Judica, veduta
d’insieme.
185
Chiesa dell’Annunziata,
particolare del portale.
186
Al consolidamento socio-economico della città alta segue, nel 1642, la richiesta inoltrata al vescovo di Siracusa, di
elevare a parrocchia coadiutrice della chiesa Madre la chiesa di San Sebastiano e, nel 1644, quella di nominare patrona della città la Madonna dell’Itria, venerata in una cappella al suo interno. Considerando le ferme opposizioni dell’arciprete della Matrice, il vescovo si limitò ad accettare solo il patronato ma, dopo anni di controversie, nel 1664 fu
concesso anche il titolo di chiesa filiale parrocchiale coadiutrice. I Sanpaolesi, frustrati nella corsa ai privilegi religiosi dalla vicinanza della chiesa Madre, riuscirono tuttavia a strappare il primato della Madonna dell’Itria, facendo
nominare nel 1688 San Paolo Apostolo patrono principale della città.
Vale la pena di sottolineare che nel corso del XVII secolo, all’antagonismo tra le due confraternite corrispose un certo
disinteresse nei riguardi della chiesa Madre considerando che, nel 1685, a fronte delle cospicue energie economiche
rivolte ai nuovi impianti delle chiese di San Sebastiano e San Paolo, la chiesa di San Nicola risultava priva di fondi
tanto da non potere riparare il tetto cadente.
Il sisma del 1693 causò danni considerevoli al patrimonio architettonico e un numero di morti non precisato ma
comunque oscillante tra i 700 e i 900, corrispondenti a circa un sesto della popolazione. Il paese fu visitato dal
Camastra nell’aprile dello stesso anno, ma il suo passaggio non sembra avere lasciato tracce significative, considerando anche che il centro ricadeva in un territorio feudale. Resta da chiarire invece il ruolo svolto dalla famiglia
Ruffo, proprietaria del feudo dal 1625, che già da tempo aveva concesso le terre di Palazzolo in affitto a diversi
gabelloti (affittuari), e non sembra quindi particolarmente partecipe ai problemi causati dal sisma.
Nelle fasi ricostruttive un ruolo fondamentale fu comunque svolto dai gruppi dirigenti della comunità urbana che stabilirono di mantenere quanto più possibile inalterato l’assetto originario del centro abitato.
La distruzione subita dagli edifici religiosi alimentò invece il tentativo di sovvertire gli equilibri consolidatisi nell’ambito dei privilegi religiosi. L’agguerrito gruppo dei Sanpaolesi, approfittando del fatto che, dopo il sisma, la sede provvisoria della chiesa di San Nicola era stata individuata in una «barracca» vicino alla chiesa di San Sebastiano, tentò
di rendere stabile il nuovo sito, allo scopo di liberarsi dell’ingombrante vicinanza della chiesa Madre, ledendo contemporaneamente i privilegi dei Sansebastianesi. Questi ultimi riuscirono tuttavia a condizionare la decisione del
vescovo che impose la ricostruzione della Matrice nel sito originario.
Il prevalere decisionale dei Sansebastianesi sembra avere pilotato anche le scelte urbanistiche. Sia le fonti del tempo
che l’attuale assetto della città dimostrano come, nelle fasi ricostruttive, si tese a privilegiare la parte alta della città,
perchè ritenuta, «più commoda», grazie probabilmente al fatto che l’area non era ancora del tutto satura e consentiva una più chiara pianificazione. Dalla piazza San Sebastiano, in direzione ovest, verso la nuova sede del convento
di Santa Maria di Gesù, fu così riconfigurato il corso principale della città, secondo i criteri antisismici di regolarità
e ampiezza, che non si erano potuti imporre nell’intricato tessuto viario preesistente. L’importanza assunta da questo asse viario nel corso del XVIII secolo è testimoniata dalla presenza di edifici signorili, tra cui emerge il palazzo dei
baroni Judica, di certo la più prestigiosa dimora cittadina.
Dagli studi fin oggi svolti sulla Palazzolo post terremoto emerge un altro fatto interessante. Nonostante la popolazione tra il 1713 e il 1798 fosse passata dai 5.600 ai 8.500 abitanti, nel corso del XVIII secolo vi fu una drastica riduzione delle chiese che dalle 31 presenti prima del 1693 passarono, nel giro di un quarantennio, a una quindicina. In
attesa di studi che spieghino in modo esaustivo il fenomeno, è possibile ipotizzare che il terremoto, in questo caso,
operò una spietata selezione degli istituti religiosi che nell’arco di diversi secoli si erano formati all’interno o ai margini dell’abitato, consentendo solo a quelli ancora effettivamente vitali di sopravvivere.
Nel corso del XVIII secolo si andò comunque definendo anche l’altra direttrice di sviluppo della città, in direzione sudest, caratterizzata dalla convergenza, in un’unica piazza (piano della Guardia), delle tre principali strade di percorrenza
Chiesa di San Sebastiano,
facciata.
Chiesa di San Sebastiano,
portale centrale.
della città bassa e della città alta. Sarà da questo nodo viario che prenderà le mosse la principale espansione urbana tra XIX e XX secolo.
Le chiese di San Sebastiano e di San Paolo
La due chiese legate alle confraternite maggiori di Palazzolo furono danneggiate gravemente dal terremoto ma non del tutto
distrutte. Delle due, fu quella di San Paolo a subire i crolli più consistenti. La chiesa di San Sebastiano fu sottoposta a interventi meno impegnati, conclusisi intorno al 1698, anno in cui il mastro Giuseppe Sacchetti, originario di Milano ma abitante a
Francofonte, si obbligò a realizzare il portale della facciata.
Nell’anno 1700, superata l’emergenza post sismica, si decise di dare un nuovo impulso ai due cantieri, finanziando progetti più
ambiziosi rivolti alla ricostruzione integrale delle strutture. Le due chiese, evidentemente su richiesta della committenza, seguirono il medesimo impianto planimetrico a tre navate divise in cinque campate. Entrambe prive di transetto, furono concluse con
un presbiterio quadrato affiancato da due profonde cappelle, poste a chiusura dello spazio delle navate laterali. La struttura
interna diverge leggermente: mentre infatti nella chiesa di San Paolo venne scelta la consueta struttura a pilastri con paraste
addossate, per San Sebastiano si scelsero i pilastri con semicolonne, soluzione meno diffusa ma comunque ricorrente nelle basiliche del Val di Noto.
Le vicende costruttive dei primi anni del Settecento si intrecciano con quelle della chiesa Madre e costituiscono lo scenario in
cui si riuscì ad affermare professionalmente il mastro calabrese Giuseppe Ferrara (m.1743) a danno dei Mastrogiacomo, affermati costruttori originari di Ferla.
Nel gennaio 1700 Ferrara ottenne l’appalto della ricostruzione della chiesa di San Paolo, coinvolgendo nell’opera il figliastro
Antonino La Ferla e il mastro netino Corrado Scarrozza.
188
Nello stesso mese il cantiere della chiesa di San Sebastiano fu invece affidato ai mastri ferlesi Giuseppe e Nicolò Mastrogiacomo
e Sebastiano Pisasale.
Tre mesi dopo (marzo 1700) venne aperto anche il cantiere della chiesa Madre, sotto il controllo di mastro Scarrozza. A maggio
dello stesso anno, tuttavia, le opere di quest’ultimo vennero bloccate da una perizia di Antonio Mastrogiacomo, «fabro murario
et architetto», in base alla quale i pilastri iniziati furono dichiarati poco idonei e fu predisposto un nuovo disegno. Il progetto di
Mastrogiacomo, tuttavia, venne inaspettatamente affidato nel 1701 a Giuseppe Ferrara che, l’anno successivo, fece rientrare nell’opera anche il suo amico Scarrozza.
Nel 1703 infine, Ferrara, approfittando di un momento di crisi del cantiere di San Sebastiano, a causa di crolli subentrati in corso
d’opera, riuscì ad imporsi anche nel controllo di quest’ultima opera, scalzando definitivamente i Mastrogiacomo.
Nel giro di tre anni, quindi, il mastro calabrese riuscì a monopolizzare i cantieri chiesastici più prestigiosi di Palazzolo mostrando,
evidentemente, non solo capacità tecniche ma anche notevoli doti organizzative. A partire dal 1704 Ferrara iniziò a seguire cantieri anche a Buccheri e a Buscemi, mantenendo comunque il controllo delle opere a Palazzolo. Dopo il primo ventennio del Settecento,
entro il quale furono realizzate le strutture primarie, i cantieri procedettero lentamente attraverso modifiche e ripensamenti.
Completata la struttura muraria da parte dell gruppo di Ferrara, nel 1721 si iniziò a lavorare alla facciata della chiesa di San
Sebastiano, su progetto e sotto la direzione di mastro Mario Diamanti da Siracusa che si impegnò, tra l’altro, a demolire le opere
realizzate alla fine del Seicento da mastro Sacchetti. Il disegno di Diamanti, prima di essere messo in opera, fu comunque modificato in diversi dettagli (ben specificati nel contratto d’appalto) dai deputati della fabbrica, i sacerdoti Francesco Leone,
Francesco Santoro e Faustino Infantino. Ai deputati si devono le finestre cieche sopra i portali laterali e la nicchia del portale
principale con la statua del santo. Il contratto cita esplicitamente anche il terzo ordine che in realtà verrà realizzato, secondo
forme diverse, solo nella seconda metà dell’Ottocento. In quegli anni, il riferimento per lo schema piramidale del prospetto doveva
evidentemente essere l’omonima chiesa di Acireale, completata nel 1715 da Antonino Amato.
Chiesa di San Sebastiano, volta
della navata centrale.
189
Chiesa di San Paolo, facciata.
Chiesa di San Paolo, particolare
della facciata.
Pagg. 192-193 Palazzolo
Acreide, la chiesa di San Paolo
in occasione della festa del
Santo patrono.
190
Nel 1756 si appaltarono nuovamente le opere di completamento del prospetto in base a modifiche e dettagli decorativi elaborati da Costantino Cultraro, figura di spicco di una nota famiglia di costruttori ragusani, che ritroviamo attivi, negli stessi anni,
nel cantiere della chiesa di San Giorgio a Modica.
Lo stesso Costantino, nel 1766, intervenne anche nel primo ordine della facciata della chiesa di San Paolo, al cui prospetto era
stata data la stessa impostazione a tre ordini della chiesa di San Sebastiano. Nel 1790, a opera ormai completata, i sanpaolesi
decisero comunque di imprimere all’edificio un forte accento distintivo, finanziando un nuovo progetto per la facciata, intesa
adesso come un volume turriforme addossato al corpo della chiesa. L’opera fu appaltata dai mastri Nunzio Farina di Palazzolo
e Pasquale Mazza da Noto, quest’ultimo legato evidentemente al progettista del nuovo prospetto, da identificare nel mastro
Corrado Mazza che, nel documento di appalto, viene indicato, insieme ai procuratori della confraternita, come supervisore delle
opere. Il Mazza era del resto già intervenuto come progettista a Palazzolo nel 1788, quando aveva elaborato la riforma interna
dei muri perimetrali della chiesa di San Michele.
Per quanto concepito e realizzato nell’ultimo decennio del Settecento, il prospetto di San Paolo è un’opera ancora pienamente
inserita nello spirito e nei criteri progettuali tardobarocchi e costituisce una sorta di meditato compendio di alcune delle opere
più celebri del tempo. Se infatti la soluzione a torre non può che rimandare alla facciata del San Giorgio a Ragusa, completata
nel 1775, non vi è dubbio che l’architetto recepì anche diversi suggerimenti dal prospetto del duomo di Siracusa, al quale vanno
ricondotte l’idea del vestibolo al piano terra, la grande finestra inquadrante la statua del santo, al secondo ordine, il modo di
impostare le colonne binate affiancanti la campata centrale, ma anche soluzioni di dettaglio, come il sovrapporsi di paraste nell’angolo e l’arco d’ingresso retto da colonne. L’architetto riuscì tuttavia a rielaborare i suggerimenti in una forma nuova, trasformando il vestibolo in un vero e proprio portico aperto su tre lati. Anche la soluzione angolare venne ripensata e resa più fluida
attraverso l’inserimento di un raccordo curvo (di borrominiana memoria) in sostituzione dello spigolo. Rispetto ai modelli di riferimento, il linguaggio architettonico risulta infine sobrio e scevro da decorativismi gratuiti, rivelando come Corrado Mazza fosse
comunque sensibile alle nuove correnti improntate su un rigido classicismo.
191
RAGUSA
Pagg. 194-195 Ragusa, veduta
aerea.
Secondo centro preminente della grande contea di Modica, Ragusa si era andata formando sulla sommità di un promontorio stretto da profonde gole e dominato dal castello comitale. Il centro urbano era militarmente imprendibile da tutti i fronti tranne che da ovest, dove una sorta di istmo a schiena d’asino collegava il monte con il vicino
altopiano del Patro. La tradizione storica riferisce di un primo insediamento fuori le mura creato da un gruppo di
coloni calabresi (giunti nel XI secolo al seguito di Goffredo il Normanno) e per questo chiamato dei «Cosentini». L’area
di espansione extra moenia raggiunse però dimensioni ragguardevoli solo con il consolidarsi, nel corso del XVI secolo, del ceto dei lavoratori della terra legato ai contratti enfiteutici, detto dei «massari». All’interno di questo nucleo
sociale, grazie alla prosperità economica derivata dal nuovo sistema agricolo, si era andato delineando un gruppo
emergente di ricchi imprenditori e di piccola nobiltà di recente nomina. Gli abitanti dei quartieri fuori le mura, aggregati intorno alla parrocchia di San Giovanni, erano comunque rimasti esclusi dalla gestione del potere cittadino, che
restava appannaggio della consolidata classe dirigente residente all’interno delle mura e facente capo alla chiesa
madre di San Giorgio. Quando il centro, grazie alle dimensioni raggiunte, ottenne nel 1634 il titolo di «città», al suo
interno si erano già da tempo delineate due fazioni in contrasto: i Sangiovannari, chiamati anche in modo dispregiativo «Cosentini», costituenti la struttura produttiva della comunità, e il gruppo conservatore dei Sangiorgiari, di
cui facevano parte il clero e la nobiltà di toga tradizionalmente legati all’amministrazione comitale.
Dopo il disastro del terremoto, questa realtà sociale ebbe modo di manifestarsi in modo eclatante. La città fu tra le
più colpite: dei 9.900 abitanti (secondo un censimento del 1681) 5.000 rimasero sotto le macerie. Il dibattito sulla ricostruzione si concentrò sulle divergenti proposte delle due fazioni cittadine: i Sangiovannari erano decisi a lasciare la
vecchia Ragusa, che si trovava in una posizione disagevole per chi aveva un quotidiano rapporto con le campagne
Palazzo Cosentini, particolare
della facciata.
197
Chiesa di San Giuseppe, veduta
d’insieme.
Chiesa del Purgatorio, veduta
d’insieme.
198
circostanti, e rifondare la città ex novo sul vicino altopiano del Patro. i Sangiorgiari, all’opposto, erano invece determinati a rimanere nel vecchio sito, dove avevano acquisito da tempo una posizione sociale e urbana privilegiata.
Il partito dei Sangiovannari tuttavia, fin dall’iniziò risultò indebolito dal fatto che una parte consistente dei parrocchiani, non avendo intenzione di imbarcarsi nell’avventura di una nuova fondazione, era decisa a rimanere ancorata al vecchio agglomerato di case, il cui centro era costituito dalla piazza degli Archi, posta in corrispondenza nell’avvallamento tra la vecchia Ragusa e l’altopiano.
Il gruppo dei Sangiovannari favorevole al trasferimento, guidato dal barone Mario Leggio Schininà e dal dottore
Ignazio Garofalo, portò comunque avanti il suo progetto per una nuova Ragusa sull’altopiano del Patro. Nell’aprile
1693 fu inoltrata la richiesta al vescovo per ricostruire la chiesa di San Giovanni sul nuovo sito, segno che la pianificazione urbana dell’altopiano era già in atto. Nel luglio dello stesso anno la diocesi di Siracusa autorizzò anche la
fondazione di una chiesa filiale di San Giovanni (identificata nella preesistente chiesa del Purgatorio) allo scopo di
garantire i sacramenti a chi aveva deciso di rimanere nel vecchio quartiere degli Archi, decretando definitivamente
la frattura all’interno del partito dei Sangiovannari.
Poco tempo dopo, i rappresentanti del nuovo centro chiesero la separazione dalla vecchia Ragusa in modo da consentire ad ogni nucleo abitato di autofinanziarsi con i propri proventi fiscali.
Nel marzo 1795, grazie all’appoggio di Bernardo Arezzo, procuratore in Sicilia del conte di Modica, il vicerè decretò
la separazione del nuovo centro che prese così il nome di Ragusa Nuova.
Il gruppo dirigente dei Sagiovannari, risolto almeno temporaneamente il conflitto con i Sangiorgiari, tentò a questo punto di fiaccare il partito del quartiere degli Archi, rallentando o negando del tutto le licenze per ricostruire
nei vecchi siti.
Negli anni successivi l’edificazione della nuova città sull’altopiano fu in grado di assorbire gran parte delle energie
costruttive, mostrando in modo chiaro le capacità economiche dei Sangiovannari.
L’avventura della nuova città era però destinata a concludersi nel giro di pochi anni. Dopo la morte di Carlo II e il conseguente scoppio, nel 1701, della guerra di successione spagnola, il conte di Modica, Giovanni Tommaso Enriquez, si
schierò a favore di Carlo d’Asburgo, contendente al trono di Madrid in contrapposizione a Filippo d’Angiò, designato
alla successione dal re defunto. Nel 1702 il conte venne quindi condannato a morte in contumacia e le sue terre divennero proprietà regia. Dal censimento ordinato dal governo nel 1703 risultarono circa 2.000 abitanti nell’altopiano,
1.500 nel promontorio di Ragusa Ibla e ben 4.600 nei vecchi quartieri della parrocchia di San Giovanni.
Nello stesso anno fu ordinata la riunificazione delle due città ragusane, e la suddivisione dei poteri cittadini secondo
l’importanza riconosciuta ai tre quartieri: ai Sangiorgiari spettò l’elezione del capitano di giustizia e di due giurati, al
quartiere degli Archi quella del sindaco e di un giurato, e al quartiere del Patro quella di un giurato e del secreto.
I due nuclei urbani continuarono ovviamente a rivaleggiare, misurando le proprie energie economiche e culturali nei
cantieri delle chiese di San Giovanni e di San Giorgio.
All’attività costruttiva di Ragusa Nuova e Ragusa Ibla si associò quella condotta nell’avvallamento posto tra i due
centri che, con l’andare del tempo, finì per saldare il tessuto urbano dell’altopiano con quello del promontorio. In
quest’area intermedia, a partire dagli anni quaranta del Settecento, oltre alla nuova chiesa del Purgatorio (dal 1740),
sorsero significative emergenze architettoniche quali: il palazzo Cosentini, la chiesa di Santa Maria dell’Itria, il palazzo della Cancelleria (1760) e, sul finire del secolo, il palazzo Sortino Trono. Sarà tuttavia, come è noto, l’altopiano del
Patro ad assorbire gran parte dell’espansione cittadina nel corso del XIX e XX secolo, dimostrando come il partito più
intraprendente dei Sangiovannari aveva, in definitiva, sostenuto il progetto più lungimirante.
Chiesa di San Giorgio, facciata.
La chiesa di San Giorgio
200
Dopo la scossa dell’11 gennaio 1693, della chiesa medievale di San Giorgio era rimasto ben poco. Nonostante la necessità di
ricostruire in tempi brevi un edificio adeguato, il capitolo del duomo si trovò diviso tra chi era a favore del trasferimento e chi,
invece, considerando le enormi spese che ciò avrebbe comportato, non intendeva abbandonare la sede originaria. Nell’intricato
e saturo tessuto abitativo della vecchia Ragusa, la scelta di un nuovo sito era poi una questione di difficile soluzione. Per un
certo periodo si ipotizzò addirittura di recuperare le strutture diroccate dell’antica San Giovanni. Il nodo fu sciolto solo nel 1738,
quando il vescovo di Siracusa, Matteo Trigona, dopo avere effettuato attenti sopralluoghi in città, fissò come nuova sede l’ex
chiesa di San Nicola, la più antica parrocchia del paese. Seguendo forse un consiglio dello stesso vescovo, l’incarico di elaborare la nuova struttura fu affidato all’architetto Rosario Gagliardi che, entro la fine dell’anno, presentò il progetto. La coraggiosa
decisione di abbandonare il vecchio sito e intraprendere un ambizioso programma edificatorio, la stessa scelta di un architetto
all’avanguardia, sono i segni più espliciti di una forte ripresa della vecchia Ragusa, dopo anni di relativa stasi dovuta, probabilmente, alla traumatica scissione dei Sangiovannari.
Di lì a poco il cantiere fu aperto ma, appena un anno dopo, l’andamento dei lavori venne turbato da controversie suscitate dal
disegno della facciata, che indussero l’architetto a formulare proposte diverse. Di questa fase progettuale resta una traccia tangibile in quattro particolari della pianta del duomo, conservati nella raccolta di disegni dell’architetto, rappresentanti altrettante soluzioni.
Dopo l’approvazione definitiva del 1744, il cantiere procedette velocemente e senza ulteriori intoppi. Nel 1754 l’architetto tornò
a Ragusa per seguire la posa in opera del cornicione del primo ordine. Nel 1758 fu posto il festone sopra il portale maggiore.
Dopo la morte del Gagliardi i lavori della facciata si protrassero ancora per diversi anni ma il suo sforzo progettuale aveva alla
fine trovato una concordia generale e il suo disegno non fu modificato.
Nel 1775 il prospetto venne completato. La monumentale torre, liberata dalle impalcature, poté finalmente imporsi sullo scenario cittadino e sul territorio circostante. Non abbiamo nessuna prova documentale dell’effettivo impatto suscitato dall’opera nell’ambiente
architettonico del Val di Noto, ma possiamo rintracciare gli indizi del suo successo nella grande quantità di chiese che, negli anni
successivi, furono dotate di facciate campanile o subirono la soprelevazioni dei prospetti già costruiti.
Completata la facciata, rimaneva da realizzare la cupola. Il problema fu affrontato e risolto nel primo ventennio dell’Ottocento in
un clima culturale ormai profondamente mutato. Abbandonato il progetto di Gagliardi, fu dato incarico all’architetto catanese
Sebastiano Ittar di elaborare un nuovo disegno che venne poi realizzato nel 1820 dal capomastro ragusano Carmelo Cultraro.
La chiesa di San Giovanni Battista
La prima chiesa di San Giovanni Battista di Ragusa Nuova fu una baracca in legno atta ad officiare le messe mentre, nell’area
circostante, sorgeva la nuova città. Solo nella seconda metà del 1694 iniziò la costruzione di un primo, modesto impianto in
muratura, ricadente sul lato nord dell’attuale chiesa. L’opera fu affidata a Mario Spata, il capomastro che aveva tracciato la
nuova città, seguendo probabilmente le indicazioni del barone Mario Leggio. Nel 1696 la chiesa fu elevata a matrice dal vescovo di Siracusa ma la sua struttura non venne modificata. È evidente che, una volta data una sede provvisoria al cuore religioso
della nuova comunità, le energie costruttive dovettero concentrarsi interamente nella costruzione delle strade e delle case,
rimandando di qualche anno la costruzione di una chiesa adeguata.
Con la fine, nel 1703, della breve indipendenza dalla vecchia Ragusa, il programma di realizzare un grande edificio religioso dedicato
201
Chiesa di San Giovanni Battista,
facciata.
Chiesa di San Giovanni Battista,
portale centrale.
202
a San Giovanni fu ulteriormente posticipato.
Si giunse così al 1719, anno in cui fu aperto il cantiere dell’attuale edificio. Il progetto iniziale prevedeva un impianto a tre navate, privo di transetto e cupola, scandito da arcate su colonne. L’intento era chiaramente quello di rientrare nel solco della tradizione delle grandi chiese madri siciliane e competere con queste non per modernità ma per dimensione. L’autore del nuovo edificio è
da rintracciare tra i capomastri che presero parte alla costruzione nei primi anni: Giovanni Arcidiacono e Giuseppe Recupero, provenienti da Acireale, e Carmelo Cultraro, uno stimato faber lignarius, originario di Vittoria ma residente da venti anni a Ragusa,
destinato a diventare, negli anni successivi, il titolare di una delle più affermate imprese familiari del Val di Noto. La presenza nel
cantiere di San Giovanni di Arcidiacono e Recupero si limitò comunque al 1719, mentre l’impegno di Cultraro all’interno della fabbrica fu duraturo.
Nel 1731 fu reso funzionante un primo campanile, corrispondente a una parte di quello attuale. La torre era inizialmente pensata come una struttura accostata e leggermente arretrata rispetto al piano di facciata che, in quell’anno, risultava ancora
incompleto. Nel 1732 iniziò la posa in opera delle grandi colonne in pietra delle navate. Due anni dopo ritroviamo Carmelo
Cultraro impegnato nell’intaglio dei capitelli secondo i modelli cinquecenteschi del Vignola e del Serlio: un ulteriore segnale dell’atteggiamento culturalmente conservatore che accompagnò l’intera storia dell’edificio. Dal 1745 altri membri della famiglia
Cultraro risultano presenti nella definizione delle cappelle. Entro il 1751 venne infine completata la facciata, corrispondente alle
tre campate centrali di quella attuale.
Particolare di un balcone
Chiesa di San Giovanni Battista,
interno.
204
Nel frattempo, dopo un quarantennio di inattività e dibattiti, nel 1738 era stato avviato il cantiere del nuovo San Giorgio. La
costruzione procedeva con una certa rapidità e, anche se l’impianto era più piccolo di quello della chiesa di San Giovanni, il progetto, prevedendo un transetto con cupola e una svettante facciata-campanile, appariva di certo più sofisticato.
Il riaccendersi della competizione con i Sangiorgiari spinse i promotori della chiesa di San Giovanni a rivedere il progetto iniziale. Nel 1750 era già stato deciso di costruire un secondo campanile. Poco dopo si giunse alla conclusione che era necessaria
anche la realizzazione di un transetto sovrastato da una cupola. Ma la fretta di edificare era prevalsa sulla perizia costruttiva.
Nel 1762 si manifestarono dei preoccupanti segni di cedimento dell’unico campanile realizzato. Nel 1764 crollò addirittura la
volta della navata. Si ritenne a quel punto, forse per la prima volta dall’apertura del cantiere, di rivolgersi ad un architetto. Nel
1765 venne quindi consultato il catanese Francesco Battaglia che propose due alternative: l’una di restauro, l’altra di rifacimento complessivo secondo il criterio della facciata-campanile. Fu scelta la prima soluzione. Il primo ordine della facciata fu prolungato fino a inglobare la base del campanile, rinforzando con un possente contrafforte il cantonale. Per simmetria un’analoga
struttura venne creata dal lato opposto in attesa di realizzare il secondo campanile, che non fu in realtà mai costruito.
SCICLI
Pagg. 206-207 Scicli, veduta
aerea.
Politicamente legata alla contea di Modica, ma in una posizione secondaria rispetto ai centri di Modica e Ragusa,
Scicli godette comunque degli sviluppi socio-economici già notati per gli altri centri della contea. L’incremento
demografico del XVI secolo, anche in questo caso, comportò l’espansione dell’originario nucleo, fortificato e in posizione soprelevata, verso la vallata circostante.
La crescita dell’abitato fu bruscamente interrotta dalla peste del 1626 che ridusse la popolazione di circa due terzi
(da 11.000 a 4.000 abitanti). Ma la vitalità della comunità urbana non fu intaccata in modo permanente tanto che
a distanza di 25 anni dall’epidemia gli abitanti erano già raddoppiati. Nel corso della seconda metà del Seicento
vennero istituite ben quattro collegiate (le chiese di San Matteo, di San Bartolomeo, della Consolazione e di Santa
Maria la Nova) e si aprirono numerosi cantieri legati a vecchi e nuovi complessi religiosi, tra i quali emerse, a partire dal 1686, la fabbrica della chiesa del collegio dei Gesuiti.
Il terremoto dell’11 gennaio 1693 si abbatté, quindi, su un centro urbano in pieno sviluppo, uccidendo un terzo della
popolazione e devastandone il patrimonio architettonico. La città risorse lentamente su se stessa tentando di salvare
il salvabile. Molti dei nuovi edifici settecenteschi inglobarono strutture preesistenti cancellando ulteriormente le già
esigue tracce dell’architettura antecedente al sisma. La più antica area soprelevata fu definitivamente abbandonata.
Emblematica in tal senso è la vicenda della chiesa madre di San Matteo. Arroccata sul promontorio dove era sorto il
primo nucleo della città, la chiesa era stata rasa al suolo dal terremoto. Dell’edificio fu subito intrapresa la ricostruzione nell’evidente intento, da parte dei superstiti, di recuperarne rapidamente la confortante presenza. Il cantiere si
protrasse tuttavia a fatica per tutto il Settecento, mentre la città risorgeva nel più agevole territorio sottostante. Nel
1874 si decise infine di spostare la sede della matrice nella chiesa di Sant’Ignazio dell’ex collegio gesuitico, posta a
Chiesa di San Matteo, veduta
d’insieme.
209
Chiesa Madre (ex chiesa del
collegio dei Gesuiti), facciata.
210
Chiesa di San Giovanni
Evangelista, facciata.
fondo valle, e abbandonare al suo destino la chiesa di San Matteo, ancora incompleta.
Superati gli anni dell’emergenza ricostruttiva, intorno alla metà del Settecento, presero forma i progetti più ambiziosi che diedero l’assetto definitivo alle emergenze architettoniche. Questa città tardo settecentesca, nonostante le
pesanti mutilazioni inferte sia al patrimonio religioso sia a quello residenziale, è ancora per lunghi tratti leggibile
nella sua conformazione originaria.
La chiesa di San Giovanni Evangelista
Il monastero di suore benedettine di clausura, a cui in origine la chiesa era annessa, fu fondato nel 1651 grazie al finanziamento di Giovanna Di Stefano, baronessa di Donnabruna. L’impianto seicentesco del complesso religioso, distrutto dal terremoto del 1693, venne riedificato nel corso della prima metà del Settecento in base, probabilmente, a un nuovo progetto.
Superati i difficili anni seguiti al sisma, il monastero, a partire dal 1745, si trovò in una favorevole congiuntura, grazie anche
alla conclusione in suo favore di una lunga causa legale intrapresa contro gli eredi della fondatrice. Da ciò dipese la volontà di realizzare ex novo un edificio chiesastico più prestigioso.
Il cantiere della chiesa fu aperto verosimilmente tra il 1760 e il 1765 sotto la direzione di fra’ Alberto Maria di San Giovanni
Battista, architetto sciclitano che, qualche anno prima, aveva elaborato nella stessa città il progetto per la chiesa del
Carmine. Il ruolo direttivo svolto dall’architetto nel cantiere è documentato negli anni 1775-76, in occasione della realizzazione della volta principale. Le fonti archivistiche rivelano però la presenza nel 1771 di Vincenzo Sinatra da Noto, impegnato nella fabbrica in qualità di perito. Considerando il ruolo di maggior prestigio professionale svolto in quegli anni da Sinatra,
non è da escludere che a lui venisse affidato il progetto e a fra’ Alberto la sola direzione dei lavori.
L’intervento dell’architetto netino a Scicli potrebbe inoltre dipendere dalla evidente volontà, da parte delle monache, di emulare fedelmente l’impianto ovale della chiesa di Santa Chiara a Noto, anch’essa annessa a un monastero benedettino. L’opera,
ricordiamo, era stata completata un decennio prima da Rosario Gagliardi, maestro di Sinatra. Della chiesa di Noto la struttura del San Giovanni recepisce sia la pianta, sia il sistema interno delle colonne sormontate da statue che qui viene riproposto, in modo semplificato, da semicolonne reggenti piedistalli con putti.
Più raffinato, ma in ogni caso dipendente da esperienza gagliardiane, è il movimento concavo-convesso della facciata-campanile assecondato da colonne binate alveolate. Anche nel caso della facciata sembra doversi escludere la paternità di fra’
Alberto. A quest’ultimo potrebbero comunque ricondursi elementi di dettaglio, come le cornici delle finestre.
Alla fine del 1776 la volta fu completata con gli stucchi di Giovanni Gianforma e l’affresco raffigurante San Benedetto.
L’opera fu modificata e portata a termine da interventi ottocenteschi. Il terzo ordine della facciata, già previsto nel progetto originario, fu realizzato nel 1802 da Salvatore Alì, architetto della città di Siracusa, impegnato in quel momento nella progettazione
211
Chiesa di San Giovanni
Evangelista, volta centrale.
212
della facciata della vicina chiesa di San Bartolomeo. Alì, pur restando fedele all’impostazione architettonica complessiva,
semplificò i partiti decorativi, entrando in evidente contrasto con le scelte linguistiche operate nelle fasi precedenti della
costruzione. L’architetto realizzò anche, in corrispondenza del terzo ordine, il belvedere a loggia, conferendo così un assetto
tridimensionale al piano di facciata. L’originario apparato decorativo a stucchi eseguito dal Giaforma fu sostituito, ad esclusione forse dei putti in corrispondenza dei pilastri di imposta della volta, dall’attuale decorazione progettata dall’architetto
Vincenzo Signorelli nel 1854 ed eseguita, probabilmente, dallo stuccatore Giuseppe Sesta entro il 1861. Dell’annessa struttura monasteriale sappiamo ben poco. Ancora in costruzione nel 1770, l’edificio fu demolito nei primi del Novecento per far
posto all’attuale palazzo del municipio.
La chiesa di San Bartolomeo
La chiesa è posta al centro della cava omonima che si estende ai piedi del promontorio su cui era sorta la Scicli medievale. La
realizzazione dell’attuale struttura fu decisa nel 1752, in un contesto quindi del tutto svincolato dalle necessità post-terremoto,
corrispondente a un periodo di ripresa dell’attività edificatoria cittadina e di altri centri del Val di Noto.
I lavori iniziarono nel gennaio del 1753, sul luogo di un precedente impianto, e procedettero con una certa rapidità. La direzione del cantiere fu affidata al capo mastro sciclitano Mario Mormina, attivo in molti altri cantieri cittadini, che non si ritiene tuttavia l’autore del progetto. Nel 1760 fu completata la volta ed entro gli anni sessanta venne ultimata la struttura muraria perimetrale, secondo un originale impianto a transetto centrale che dovette, almeno in parte, inglobare la struttura preesistente.
La superficie muraria interna è concepita come un semplice involucro, appena segnato dal telaio architettonico, la cui qualificazione è interamente demandata all’apparato decorativo.
Grazie al contributo della maggiori famiglie del luogo, le opere di decorazione erano iniziate nel 1760, quando ancora la struttura muraria non era del tutto ultimata, con la realizzazione, da parte dello stuccatore Giuseppe Gianforma, degli stucchi della
volta centrale e dell’arco trionfale. Erano proseguite poi con la realizzazione del pavimento in elementi lapidei bicromi (1762) e
la collocazione (tra il 1764 e il 1766) dei paliotti in marmi policromi, commissionati al catanese Domenico Viola. L’opera decorativa di maggior impegno fu comunque realizzata solo negli anni successivi alla consacrazione, ad opera di Giovanni
Gianforma, figlio di Giuseppe. Figura emergente nel contesto della contea, Giovanni Gianforma viene indicato nei documenti
come stuccatore, scultore, pittore e architetto. Si è pertanto propensi ad attribuirgli sia il progetto che parte dell’esecuzione,
almeno per quanto riguarda gli stucchi della volta del presbiterio. Il suo modo di operare si pone in continuità linguistica con
quello del padre, dimostrando un tenace attaccamento ai temi decorativi di ascendenza rococò, ma la sua abilità nel modellato lo colloca in una posizione nettamente superiore rispetto al grossolano Giuseppe. L’apparato decorativo del presbiterio fu concluso nel 1780, quando venne collocata sopra l’altare maggiore la grande tela raffigurante il martirio di San Bartolomeo, dipinta dal pittore romano Francesco Pascucci. L’opera di definizione dell’interno rimase comunque incompiuta per diversi decenni
prima di essere portata a termine, negli anni 1859-87, all’insegna della continuità con l’impostazione settecentesca.
Nel 1785 erano iniziati intanto gli scavi per le fondazioni della facciata, ma solo tra il 1801 e il 1806 fu innalzato il primo ordine. Il progetto originario era stato redatto dall’architetto Antonino Mazza ma, poco prima dell’apertura del cantiere, il disegno
venne in parte modificato dall’architetto siracusano Salvatore Alì, al fine di rendere il portico più ampio e la struttura muraria
più solida. Alì era figlio del capomastro Luciano, autore del palazzo Beneventano a Siracusa. Nel cantiere di Scicli ebbe inizialmente anche il ruolo di appaltatore, continuando poi a sovrintendere i lavori fino al 1815, anno in cui i mastri Antonino Pirré
da Scicli e Pasquale Ventura da Ragusa realizzarono il coronamento cupoliforme, su un disegno dello stesso Ventura preventivamente approvato da Alì.
A sinistra, chiesa del Carmine,
facciata. A destra, chiesa di
Santa Maria della Consolazione.
213
Palazzo Beneventano,
particolare.
Chiesa di San Bartolomeo,
facciata.
214
Bibliografia
La selezione bibliografia di seguito riportata si limita a dare delle indicazioni di orientamento sulla ormai vastissima letteratura storiografica dedicata all'architettura del Val di Noto. Sono state quindi trascurate le fonti a stampa, i testi più datati e le voci dei dizionari bibliografici, anche se consultati, privilegiando piuttosto i contributi rivelatisi particolarmente utili per lo svolgimento dello studio e le pubblicazioni più recenti, alle quali si rimanda per ulteriori approfondimenti bibliografici. Si è poi dato un ordine tematico,
che tenesse conto della suddivisione del libro, scegliendo il criterio topografico per città, all'interno del quale hanno trovato posto
anche le indicazioni bibliografiche riferite agli architetti, in rapporto ai luoghi più legati alla loro attività o alla loro formazione. Le
bibliografie riferite a Vaccarini e a Gagliardi sono state quindi inserite, rispettivamente, in quelle su Catania e Noto, anche se, considerata l'importanza dei due personaggi, altre indicazioni hanno trovato più opportuna collocazione nella voce “Tematiche generali”. Nell'indicare volumi collettivi, sono stati specificati, dove ritenuto necessario, i saggi più pertinenti ai temi svolti.
Tematiche generali
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Finito di stampare
nel mese di dicembre 2008
presso la tipografia Seristampa
Palermo