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ARK 40 / AURA CROSSING PUBBLICITÀ SI PUÒ PROGETTARE L’AURA? Incontro con Mario Ferraguti e Michele Bertolini A cura di Maria Claudia Peretti Fotografie di Cristina Cusani L a casa in legno del sig. Takamizawa - ordinaria, non eclatante -, è stata smantellata e sradicata dalla sua collocazione a Tokio per essere trasportata nel Padiglione giapponese della Biennale d’architettura 2021, dove sono stati esposti i molti ed eterogenei elementi materiali di cui era costruita, stratificati via via nel tempo: sulle / 9 ARK 40 / AURA 10 / CROSSING 11 vorticosi. Un’esperienza alterata di percezione in cui al dato puramente visivo si mescolano in maniera prepotente e imprevedibile ricordi, musiche, odori e sapori; frammenti disassemblati come quelli della casa in legno giapponese in un ruolo transitoriamente aperto che attende nuove ricomposizioni. E pareti della mostra erano appese le fotografie delle persone che questa casa l’hanno abitata, interpretata negli anni, depositandovi tracce, segni, oggetti, continue e quotidiane piccole trasformazioni. Il processo di adattamento e reinterpretazione è continuato all’interno del Padiglione con il riutilizzo da parte del curatore1 di alcuni dei materiali disassemblati per dare forma a nuove funzioni, panche, tavoli, gradini: un intreccio, quello tra la vita della materia e la vita delle persone, tra la costruzione e l’uso, tra Lari e Penati, tra permanenza e transitorietà, che è fatto di continui, inarrestabili scambi. La vita si rivela dentro un processo di eventi trasformativi: gli elementi non sono separabili l’uno dall’altro, vivono e si sostanziano in un sistema di relazioni reciproche di interdipendenza inevitabile, di vasi comunicanti in cui il cambiamento di ogni punto è in grado di indurre il cambiamento di tutti gli altri. L’allestimento è riuscito a restituire con forza poetica e con chiarezza concettuale molte questioni centrali dell’abitare, offrendo interessanti spunti di riflessione anche rispetto al tema che Ark affronta in questo numero: l’aura. Un tema sfuggente e denso, contenuto entro una parola che si apre a molteplici interpretazioni, impalpabile come il vento lieve, come la brezza: emotiva come l’atmosfera, la suggestione: misteriosa come ciò che colpisce l’animo e lo trasporta in una dimensione di sospensione e sacralità. Ma anche perturbante come l’annuncio dei disturbi neurologici spesso incontrollabili (emicrania, epilessia, isteria), che arrivano alterando il nostro rapporto con la luce, provocando l’annebbiamento della vista, l’irruzione di lampi, macchie scintillanti, deformazione degli oggetti, flash di colori allora cosa è l’aura? Appartiene alle cose o alla rappresentazione delle cose? J.P Sarte direbbe: “noi siamo cose o siamo ciò che vive “tra” le cose?” Alla percezione dell’individuo o della collettività? Al sentimento o alla ragione? Alla vista o alla cecità di Andrea Camilleri che ultranovantenne decide di narrare sul palco del teatro di Siracusa la storia del veggente Tiresia? L’aura é il frutto di una relazione e di un incontro tra un sé e un altro da sé. Uno sconosciuto che avvertiamo con forza, ma che rimane indicibile, irrazionale. Una presenza che non si rivela tutta e subito, ma che ci richiede un intervento di completamento narrativo e immaginifico. L’aura ci pone in una dimensione di ricerca, di interpretazione non scontata. È quella che incontriamo quando varchiamo la soglia di una casa abbandonata e, “un po’ come ladri, un po’ come esploratori” mettiamo le nostre mani negli oggetti che lì sono rimasti e che portano i segni delle altre mani che un tempo li usavano, trasudando storie sconosciute di vite (Mario Ferraguti). È l’“apparizione unica di una distanza, per quanto essa possa essere vicina” che avvertiamo davanti all’opera d’arte e al hic et nunc della sua autenticità non riproducibile (Walter Benjamin). LA SOCIETÀ TRADIZIONALE, AL CONTRARIO DI NOI, MANTIENE IL RESIDUO DI UNA VISIONE ALLARGATA DEL MONDO, IN CUI CIÒ CHE È METAFISICO E TRASCENDENTALE HA COSTANTI RAPPORTI CON LA VITA QUOTIDIANA; IL CAMINO E IL POZZO SONO FINESTRE SEMPRE APERTE CON IL CIELO E IL SOTTOSUOLO. È l’emozione che ci prende guardando il Condensation Cube di Hans Haacke (1963-1968) esposto ora alla Gamec nella mostra “Nulla è perduto” e la leggera patina di vapore acqueo depositata sulle superfici del cubo in plexiglass che testimonia il passaggio di un respiro e ci mette davanti alla consapevolezza che viviamo in rapporto, che il nostro andare da viandanti, anche se in punta di piedi, cambia comunque il mondo e comunque dal mondo viene cambiato. O entrando nel ‘tempo scolpito’ dei film di Andrej Tarkovskij che ci immerge nell’implosione delle cronologie lineari. Possiamo nell’architettura, progettare l’aura? Rispetto a questo tema complicato Crossing interroga Mario Ferraguti, scrittore e viaggiatore, autore del libro La voce delle case abbandonate. Piccolo alfabeto del silenzio, pubblicato da Ediciclo nel 2016; e Michele Bertolini, docente di Estetica e Storia e Teoria dei Nuovi Media presso l’Accademia di Belle Arti “G. Carrara” di Bergamo. Maria Claudia Peretti MARIO FERRAGUTI Scrittore MCP Leggendo il tuo libro, La voce delle case abbandonate. Piccolo alfabeto del silenzio, sembra che il senso del tuo viaggiare sia proprio la ricerca dell’aura. È così? Cosa è l’aura? MF In realtà all’inizio cercavo racconti e capitava spesso di imbattermi in case abbandonate. Poi, un pomeriggio di sole forte, quello capace di fare i miraggi, ne ho vista una e non ho resistito; ho fermato l’auto e ho detto, voglio entrare a vedere. Quella casa chiamava, aveva un fascino potente, sembrava fosse una creatura capace di comunicare. Attraversata dagli anni, visitata dal gelo, dal sole feroce e dalla pioggia, abbracciata dall’edera, dalla vitalba, fino a toglierle il fiato, non sembrava per nulla sofferente. Si era organizzata un dolce ritorno al territorio da cui era nata e restituiva, con gentilezza, pietre e travi di legno ai campi e ai boschi limitrofi da cui erano stati raccolti per costruirla. Nel frattempo si reggeva su equilibri precari e strabilianti che sembrava bastasse un colpo di tosse a infrangerli. Occorreva essere molto delicati e cauti. Aveva ribaltato strutture, oggetti e spazi, l’erba cresceva sopra il tetto e i coppi scivolati a terra. Un noce, quasi per sfida, le era cresciuto nel camino e le camere, che avevano conosciuto solo l’intimità della notte ora, con il solaio sfondato, si affacciavano al cielo. Mi aveva fatto fermare, quasi ARK 40 / AURA 12 / CROSSING obbligato, una visione legata alla meraviglia; quella casa, pur pericolante, sembrava in perfetta armonia con tutto ciò che aveva attorno, emanava una bellezza profonda e lasciava intuire ciò che più si avvicina alla definizione di anima. Ecco l’aura è il trascendente che si rivela attraverso un’energia, ben rappresentata iconograficamente da una luce, un’aureola. Quando ci si imbatte in creature, luoghi, strutture, in grado di mostrarla, si crea un frattempo, uno sfasamento temporale, si rimane incantati; come se si svelassero i legami invisibili tra gli esseri e le cose e a noi, per un attimo, fosse concesso di intuirli, decifrarli. Credo sia impossibile cercare l’aura, certo l’uomo è l’essere che, più di ogni altro, può infrangerla inserendo un elemento che la spezza e l’adombra. E chissà se il riuscire a coglierla, che a noi capita così di rado, sia per gli altri esseri che abitano il mondo, il consueto modo di guardarlo. MCP Come definiresti il concetto di genius loci? Coincide in qualche modo con quello di aura? E cosa li differenzia? MF Armida, una donna anziana di Comano, in Lunigiana, prima di entrare si ferma sulla soglia e saluta il buio della propria casa. È ben consapevole di non essere la sola ad abitare quelle stanze e il saluto è una forma di rispetto. Tra i racconti che cercavo mi sono imbattuto spesso nell’universo dei folletti; quei buffoni divini che si rivelano con improvvisi mulinelli d’aria e che, per etimologia, sono parenti dell’anima, del soffio vitale e, quindi, dell’aura. Demoni psicopompi, capaci di frequentare più mondi, possono diventare incubi notturni quando salgono sul petto 13 a toglierci il fiato o visitatori assidui delle stalle, in cui intrecciano i crini dei cavalli. Creature complesse, composte da innumerevoli nature, vantano tra antenati e parenti anche i Lari e i Penati, i patroneddu del Sud, il Trickster e numerose divinità minori poste a tutela di luoghi, abitazioni e crocicchi, tanto da potersi sovrapporre e confondere col genius loci. Eppure quest’ultimo non sono mai riuscito a collegarlo alla banda dei folletti; questi ultimi si muovono e si mostrano in qualsiasi circostanza, il genius loci si palesa proprio all’interno dell’aura, è lì che ne avvertiamo la presenza, in quella condizione privilegiata e sospesa. Non ha bisogno, come altri geni o demoni, di emettere voci, rumori o compiere azioni, non ha nemmeno la necessità di possedere un corpo, vive nella rivelazione. La sua presenza è già nella meraviglia e attrae col fascino, con la sensazione che ci fa sentire di essere al cospetto del nume tutelare di quel luogo. La società tradizionale, al contrario di noi, mantiene il residuo di una visione allargata del mondo, in cui ciò che è metafisico e trascendentale ha costanti rapporti con la vita quotidiana; il camino e il pozzo sono finestre sempre aperte con il cielo e il sottosuolo. Quando gli uomini si sono portati in casa l’acqua e il fuoco, hanno ospitato anche la loro parte selvatica, mai doma e piena di spiriti e presenze. Creature ambigue, lunatiche, capaci senza logica apparente di transitare dal bene al male, per cui occorre attenzione e soprattutto rispetto. Lo stesso atteggiamento di Armida che saluta il buio, di Fiovo, un rabdomante che, quando decide di cercare l’acqua, indossa il vestito della festa perché va “ad un appuntamento con qualcuno di molto importante”, o Tefro, unico abitante di una frazione abbandonata che, una volta all’anno, infila l’abito buono, il cappello e il gilet per entrare in ogni casa e accendere il camino, così da tenerle ancora in vita. Ecco, il genius loci lo inserisco qui, in un mondo abitato da altre presenze che occorre rispettare; è il nume che sovrintende all’armonia di un microcosmo in cui tutto riesce a dialogare. L’uomo non è che un ospite tra i tanti. MCP Che cosa pensi possano insegnare le storie di case abbandonate che racconti a chi le case le costruisce per mestiere? MF Possono insegnare a ricercare materiali vivi; molte case abbandonate sono costruite con elementi in continua trasformazione; il cotto, proprio come un’epidermide, trasuda e assorbe, attraverso i pori; i legni si gonfiano e si restringono, emettono suoni secchi, si assestano; i sassi mutano a seconda di dove sorge la costruzione; possono essere di fiume, di campo o di monte e per ogni zona sono differenti. Poi i colori. Stratificazioni di vernici, muffe, licheni, i fumi grassi di cucina, la fuliggine, lo stillicidio di sole cocente e pioggia, creano cromatismi unici e irripetibili. Le case abbandonate insegnano a valorizzare il silenzio, da cui emergono suoni altrimenti impercettibili e predicano la necessità del buio. Chi progetta case, oltre alla luce, dovrebbe prevedere luoghi d’ombra. MICHELE BERTOLINI Docente di Estetica MCP Come spieghi il concetto di aura agli studenti che frequentano i tuoi corsi di estetica? MB Il concetto di aura I FENOMENI AURATICI, NON RIDUCIBILI ALLE ESPERIENZE ARTISTICHE, CI RESTITUISCONO UNO SGUARDO, CI GUARDANO DA LONTANO, ISTITUENDO UN’EMPATIA NELLA DISTANZA, UNA RELAZIONE TRA L’IO E L’ALTRO. INOLTRE, L’AURA È CORRELATA ALLE ESPERIENZE DI SOGLIA, DI INTERVALLO, DI PASSAGGIO TRA LIVELLI DIFFERENTI DELLA REALTÀ inevitabilmente trova la sua elaborazione teorica più nota nel Novecento nell’opera di Walter Benjamin, oggi riconosciuto come uno dei padri della cultura visuale. Il fascino di questo termine risiede nella sua stessa volatilità e nella sua ambiguità semantica: in greco “aura” significa brezza, soffio, alito. Il primo aspetto da sottolineare e da restituire agli studenti credo che sia proprio la dimensione di esperienza vitale e complessa propria dell’aura, non potendola limitare alla semplice elaborazione teorica e intellettuale di una nozione. Delle diverse possibile declinazioni di questo concetto amo soprattutto soffermarmi sul legame istituito da Benjamin, attraverso Karl Kraus, tra l’aura e lo sguardo: i fenomeni auratici, non riducibili alle esperienze artistiche, ci restituiscono uno sguardo, ci guardano da lontano, istituendo un’empatia nella distanza, una relazione tra l’io e l’altro. Inoltre, l’aura è correlata alle esperienze di soglia, di intervallo, di passaggio tra livelli differenti della realtà: l’incontro con un’opera d’arte è per eccellenza un’esperienza di soglia, in quanto segna uno scarto di senso rispetto al flusso spesso inavvertito dell’esistenza, anche se le esperienze auratiche sono accessibili pure nei momenti minimi della vita quotidiana. MCP Quali sono gli artisti che useresti come esempio? MB La dimensione auratica è un’esperienza che rimanda al contesto specifico in cui è inserita un’opera d’arte, al luogo per cui è stata concepita, alle condizioni storiche e culturali della sua creazione. Sceglierei quindi forse più alcune opere d’arte piuttosto che degli artisti, opere nelle quali il contesto ambientale è decisivo per indirizzare e valorizzare l’esperienza di senso e il valore sprigionati dalla fruizione dell’opera. La Madonna del Parto di Piero della Francesca, al di là delle complesse vicende storiche legate alla conservazione dell’affresco, è inseparabile da Monterchi, la città dove nacque la madre di Piero e dove è conservata ancora oggi. Il viaggio intrapreso dal visitatore per raggiungere l’opera, il paesaggio naturale e gli spazi culturali che la circondano partecipano a pieno titolo dell’esperienza auratica. L’aura che sprigiona l’affresco di Piero risulta inoltre potenziata oggi dagli omaggi cinematografici che registi come Zurlini o Tarkovskij hanno tributato all’opera nel corso del Novecento. Queste rimediazioni tecnologiche, lungi dal ridurre l’opera a feticcio o merce riproducibile, ne arricchiscono il valore iconico e auratico. Quando il destino di un’opera o di un artista si lega intimamente alla storia di una città, l’aura si manifesta come il risultato di una sedimentazione progressiva di significati e valori culturali: penso ad esempio allo stretto rapporto tra la città di Toledo e El Greco, in particolare a un quadro come La sepoltura del conte di Orgaz nella chiesa di Santo Tomé, che si eleva proprio al di sopra della tomba del conte. Nel campo dell’arte contemporanea, la Rothko Chapel di Mark Rothko a Houston è un ambiente che, con le sue variazioni di luce e di atmosfera nel corso della giornata, contribuisce a rivelare sfumature inattese e tonalità cangianti nei grandi monocromi del pittore. L’aura in questo caso si arricchisce delle molteplici esperienze e testimonianze dei visitatori dell’opera. Molte opere d’arte ambientale o di Light Art evocano il respiro avvolgente proprio dell’aura: ricordo, ad esempio, l’installazione Infinity Room di Doug Wheeler presentata a Palazzo Grassi a Venezia alla mostra L’illusione della luce, curata da Caroline Bourgeois nel 2014. A titolo personale ho ritrovato un’aura veramente poetica nell’opera di Gino De Dominicis Senza titolo (Autoritratto) del 1995: la foglia d’oro del fondo, la sparizione della presenza dell’artista richiamata dal titolo, l’occhio, ombelico, cratere o buco nero al centro dell’immagine che apre lo spazio e al tempo stesso ci riguarda, la sospensione del tempo al cuore della sua poetica sono tutti tratti che appartengono all’esperienza dell’aura. MCP E nel mondo del cinema? MB Ho già citato Tarkovskij, un 14 / CROSSING autore che, grazie al raffinato confronto operato con la poesia, la letteratura e la pittura, ha ricercato, nella dispersione e frammentazione del mondo contemporaneo, una dimensione sacrale, auratica dell’esperienza umana, del tutto immanente e concreta peraltro. I sipari di pioggia che intervengono spesso nei suoi film, senza motivazioni narrative, sono epifanie di senso, veli del visibile che nascondono e rivelano insieme, momenti auratici. Anche in autori più prosaici e legati a una forma di realismo quotidiano, come Éric Rohmer, la ricerca dell’aura sempre disegna il viaggio interiore e le peripezie dei suoi personaggi: penso alle protagoniste femminili de Il raggio verde (un fenomeno che si presenta come un’epifania naturale) o di Racconto d’inverno. Alle spalle di Rohmer si profila un grande maestro del cinema francese come Robert Bresson: il finale di Pickpocket è emblematico da questo punto di vista. MCP Pensi che si possa vivere senza fare esperienza dell’aura? Possiamo farne a meno? MB Non credo. L’aura percorre come uno sfondo sonoro o un basso continuo la nostra esistenza: richiede sicuramente l’attivazione di una sensibilità attenta, di uno sguardo attivo per poterla cogliere o per riuscire ad aprirsi a questa esperienza. L’aura è al tempo stesso depositata nelle cose fuori di noi e alimentata dal nostro sguardo sulle cose. Proprio la vita quotidiana offre aperture di senso, improvvise epifanie in cui può manifestarsi una dimensione inattesa, quasi magica, misteriosa. L’estetica quotidiana è un ramo dell’estetica contemporanea che indaga appunto la pienezza di senso di queste esperienze di soglia, che oltrepassano il campo più ristretto della fruizione delle opere d’arte. LA DIMENSIONE AURATICA È UN’ESPERIENZA CHE RIMANDA AL CONTESTO SPECIFICO IN CUI È INSERITA UN’OPERA D’ARTE, AL LUOGO PER CUI È STATA CONCEPITA. LA MADONNA DEL PARTO DI PIERO DELLA FRANCESCA È INSEPARABILE DA MONTERCHI, LA CITTÀ DOVE NACQUE LA MADRE DI PIERO E DOVE È CONSERVATA ANCORA OGGI. Cristina Cusani (Napoli 1984) è un’artista visiva che lavora principalmente con la fotografia sperimentandone il potenziale. Nella sua ricerca utilizza le esperienze quotidiane come punto di partenza per analizzare il significato dell’essere umani. Lavora sul residuo, su quello che resta, utilizzando la traccia, la memoria, la storia per indagare la dimensione intima che riguarda l’identità. Finalista di importanti premi, ha partecipato a diverse mostre e residenze d’artista e il suo lavoro è parte di alcune collezioni di arte contemporanea. Vive e lavora a Napoli. Note 1 Il titolo del Padiglione giapponese alla Biennale d’architettura di Venezia 2021 è Co-ownership of Action: Trajectories of Elements. Il curatore è l’architetto Kozo Kadowaki. PUBBLICITÀ