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Il discorso dell'ordine Alex Viaro, m. 1059936, M3 0. Prœludium Originariamente le parole erano magie e, ancora oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l'altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l'insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l'oratore trascina con sé l'uditorio e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro1. Sigmund Freud 0.1 Grazie Freud! La filosofia contemporanea ha verso Freud un debito incommensurabile e siccome si dice che il filosofo sia un «funzionario dell'umanità2», allora anche l'umanità dovrebbe avere un debito enorme verso il padre della psicoanalisi. Attenzione! Non un debito con la psicoanalisi o con gli psicoanalisti: un debito esclusivamente verso Freud. Chi sarebbero oggi Lacan, Deleuze, Althusser, Derrida, Foucault, Žižek, i loro allievi e i loro avversari senza Freud? Chi saremmo senza Freud? Di cosa ci dobbiamo sdebitare? Thomas Mann, l'autore di Der Zauberberg, disse di Freud che la sua opera ha lasciato un'impronta profonda, e siamo certi che, semmai alcuna impresa della nostra specie umana rimarrà indimenticabile, questa sarà proprio l’impresa di Sigmund Freud, che ha penetrato le profondità dell’animo umano. Il suo può grande contributo per noi, qui, oggi, è di aver legittimato con un discorso medico la decostruzione delle narrazioni. Qui, oggi ,sappiamo senza più dubbi che le parole possono molto sul corpo: non si limitano ad eccitarlo o ad inibirlo, possono arrivare ad estasiarlo e a reprimerlo, possono crearlo e distruggerlo. Che il corpo sia qualcosa che si vede – nei Vangeli, il Cristo risorto indica la ferita al costato, trafitto dalla lancia di Longino, all'incredulo Tommaso – e che tutti gli uomini abbiano un corpo è un vantaggio di non trascurabile portata per poter argomentare. Possiamo dire: “guarda, ecco di cosa stiamo parlando!” e sperare di essere capiti e sostenuti dalle evidenze empiriche. A conti fatti, l'isteria è il malanno vittoriano che ha permesso a tutti noi di conoscerci meglio e di portarci in una nuova era di consapevolezza sul mondo e noi stessi: Freud ha mostrato dove e come il verbo può farsi carne, iniziando così a svelare il piccolo segreto dei sacerdoti di ogni epoca 1 2 Freud, Sigmund, Intoduzione alla psicoanalisi, a cura di Roberto Finelli e Paolo Vinci, traduzione di Irene Castiglia, Newton Compton Editori, 2010, ISBN 978-88-541-1681-8 Husserl, Edmund G. A., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di Enzo Paci, Il Saggiatore Tascabili, 2008, ISBN 978-88-565-0033-2 attraverso quella che noi oggi potremmo anche chiamare retroingengeria di una struttura dinamica tripartita, Ego-Super Ego-Es. E così sotto gli abiti, l'ethos, indossati dai popoli educati delle chiese cristiane si agita fin dai primi giorni di vita un pulsante animale erotico, carico di pulsioni e passioni da esprimere attraverso il corpo, incestuoso cacciatore di piaceri, che può essere persino assetato di sangue umano e di violenza per la violenza. Tutte inclinazioni che, se non amministrate in tempo, l'autorità considera e stabilisce nocive alla salute della comunità che dirige. Nietzsche identificò l'Es nel dionisiaco, ma già per altre strade le cultura asiatiche ed europee l'avevano codificato nel drago, quello che San Giorgio, l'eroe culturale raffigurato nell'iconografia cristiana, trafigge con la lancia. Nell'Apocalisse il drago giunge ad essere un avatar dell'Anticristo. Grazie al pionieristico lavoro di Freud a poco a poco abbiamo scoperto che soltanto quando indossiamo una maschera siamo noi e senza siamo infinito. Siamo nulla. La doppia identità, questo tratto peculiare dei supereroi moderni, che si devono celare perché straordinari, ci appartiene costitutivamente: scavare nel linguaggio e nei suoi simboli stratificati e frammentati ha fatto emergere l'Es, l'Olimpo delle forze metafisiche intelligenti – Eros, Thanatos, il Perturbante, das Ding – che occasionalmente escono dalle fessure della maschera a dare forma e senso al mondo di cui facciamo esperienza. I tempi sono cambiati, da allora abbiamo spaccato l'atomo, trovandoci dentro tutto un mondo, e cambiato lessico. Le nostre parole sono quelle meno romantiche delle neuroscienze cognitive e ora diciamo configurazioni cerebrali, memorie espresse adattivamente e conservate filogeneticamente; oppure diciamo in termini cognitivistici script. Nonostante ciò ancora ci fanno raffigurare nella mente e rappresentare con il corpo inquietanti mostri provenienti da altri luoghi non-storici. L'Es non è solo il rimosso personale, ma il rimosso potenziale. 0.2 Cosa c'è sotto e cosa c'è sopra? Ammettendo che sapere di non sapere è pur sempre consapevolezza, è ancora bizzarro ai nostri cari vecchi occhi materialisti che qualcosa come un inconsistente ed estemporaneo discorso, un flatus vocis, possa tutto questo. Altrettanto bizzarro è che durante l'epoca dell'ateismo integralista, quello dell'uccisione di Dio, così tante voci atee ci indichino di guardare verso il cielo per comprendere la terra e verso la terra per comprendere il cielo. Questo è anche il caso di un altro patrono del pensiero contemporaneo, quel Marx maestro del sospetto – o come si diceva nel XIX secolo, dell'impostura – che ci ha rivelato la struttura di dominio delle società e quali sono gli strumenti con cui la classe al potere riproduce le disuguaglianze attraverso il possesso dei mezzi di produzione. Con l'assassinio di Dio, il garante dell'ordine medioevale, ci siamo permessi l'ipostatizzazione dell'economia attraverso il paradigma del materialismo storico: Marx ci ha indicato chiaramente dove guardare per capire dove siamo. Dovevamo guardare verso l'alto, sì, ma non così tanto. Dovevamo guardare abbastanza in alto così da poter capire perché abbiamo intorno quello che abbiamo, ossia per capire perché siamo quello che siamo. L'opus marxiano ha aperto nuovi orizzonti, orizzonti di senso che abbiamo fatto nostri e non ce lo sogneremo nemmeno di prescindere dall'imponente risultato raggiunto dal filosofo di Treviri. Se il pensiero di Marx era rimasto sedotto dalla rivoluzione industriale e dall'allora recente scienza economica tanto da esaurire qualsiasi altra sfumatura dell'esistenza umana non dovrebbe essere ridimensionato il suo valore filosofico? Niente affatto! Cosa c'è sotto l'economia se non l'essere? 0.3 La fenomenologia Husserl e la sua Phänonenologie ci hanno aperto gli occhi in un altro senso, hanno codificato il metodo con cui porre il nostro sguardo in modo tale da poter riuscirsi a guardare per così per come è vissuto. Cedendo alle lusinghe del che cosa appare, Husserl si chiede quale sia l'essere dell'apparire e concluse che l'apparire è il modo dell'essere. E questo è una sorta di scacco alle grandi strutture di senso, quei sistemi universali – Lyotard li chiamerà «metanarrazioni3» – ai quali siamo educati, al contempo uno scacco alla tendenza solipsistica della prima filosofia moderna degli empiristi inglesi e in special modo di Cartesio. Quello della fenomenologia è un progetto in certa misura vicino a quello di Kant – a sua volta ispirato dal lavoro di Hume –, ma Husserl, al contrario e più radicalmente delle critiche kantiane – che invece approfondì Natorp –, non presuppone forme pure sintetiche e immutabili già esistenti in noi, dal cui elenco e combinazione si spiegherebbe l'organizzazione della nostra esperienza, bensì domanda direttamente alla coscienza vivente al livello in cui sorge il senso, senza mediazioni. Quel livello che Kant aveva trascurato, per Husserl diventa il Grund su cui costruire l'edificio fenomenologico: un piano trascendentale, per così dire, onnipresente sia dentro che fuori incarnato nella logica matematica. Eppure il fondamento metafisico della fenomenologia appare ai nostri occhi, oggi, scivoloso, sdrucciolevole. Non solo in aperto contrasto con il biologismo e soprattutto con lo pscicologismo – diventando figlio parricida di Brentano –, il fenomenologo della prima ora ricorre ad un piano trascendentale dell'essere che, come il mondo alla rovescia hegeliano, legittima le grandi strutture del pensiero come già appartenenti al Real e necessarie al cosmo, cosmo di cui la fatticità è per cui ipostaticamente determinata, il fenomenologo, liberato con l'esercizio dell'epoché dalle intenzioni naturali potrà descrivere la sua produzione noetica e noematica in perfetta sintonia con la ratio divina. Bene, ma per costruirlo non dovrà pur parlare da qualche posto? E per farlo non può che rivolgersi alle strutture di senso che cerca di spiegare facendo un po' come Münchhausen si leva dalle sabbie 3 Lyotard, Jean-François, La condizione postmoderna, Gianfranco Feltrinelli Editore Milano, 2012, ISBN 978-88-0709006-6 mobili tirandosi su dal codino? Heidegger, che le vicende narrano suo pupillo e a sua volta figlio parricida, concentra il suo progetto di «distruzione della storia dell'ontologia occidentale» più o meno esplicitamente da questa posizione, il Dasein, e non dalla Bewußtsein di Husserl, esserci che pone domande sull'essere dell'ente in generale nella fatticità del proprio esserci. Le riserve sono ancora molte: possiamo risolvere in qualche modo l'impasse della fenomenologia spiegando a noi stessi che la fenomenologia, con il suo guardare verso e dalla trascendenza, al pensiero mentre pensa il mondo, non è già un qualcosa che facciamo e non è per nulla apodittico e fondamentale come può sembrare? È vero che i sintetici apriori kantiani non sono né causa necessaria né sufficiente al darsi del pensiero, però non è che già questo corpo, questa materia vivente, dalla forma particolare, da cui emerge la coscienza, anch'essa vivente, sia l'ingresso dal quale il pensiero può fare fenomenologia? Può tout court filosofare? Sembra che l'assolutizzazione del pensiero sia l'emancipazione da parte della fenomenologia dalla filosofia classica, eppure qualcosa non quadra. Il discorso fenomenologico, che pone all'essere speciali tipi di oggetti, - per dirla con Heidegger – non è già qualcosa e non niente? 0.4 Die Olympische Götter Per aprire un inciso piuttosto lungo e più generale, quella che oggi conosciamo come Germania – oppure per alcuni dei nomi che seguiranno, Prussia e impero Austro-ungarico –, pur non essendo particolarmente montuosa, ha dato al mondo degli uomini che raramente hanno raggiunto delle vette dello spirito così elevate: raramente l'uomo ha raggiunto così spesso quei posti del mondo dove l'aria è talmente rarefatta da riuscir a perdere il lume della ragione, anche per quegli illuministi per cui la fiaccola del Lumen è l'unico oggetto luminoso nel buio silenzio del reale. Leibniz (16461716), Kant (1724-1804), Goethe (1749-1832), Schiller (1759-1805), Schleiermacher (1768-1834), Hegel (1770-1831), Schelling (1775-1854), Gauss (1777-1855), von Clausewitz (1780-1831), Schopenhauer (1788-1860), Marx (1818-1883), Riemann (1826-1866), Wundt (1832, 1920), Dilthey (1833-1911), Brentano (1838-1917), Boltzmann (1944-1906), Nietzsche (1844-1900), Cantor (1845-1918), Frege (1848-1925), Natorp (1854-1924), Freud (1856-1939), Planck (18581947), Husserl (1859-1938), Hilbert (1862-1943), Weber (1864-1920), Warburg (1866-1929), Scheler (1874-1928), Cassirer (1874-1945), Jung (1875-1961), Einstein (1879-1955), Werheimer (1881-1973), Schrödinger (1887-1961), Schmitt (1888-1985), Wittgenstein (1889-1951), Heidegger (1889-1976), Benjamin (1892-1940), Plessner (1892-1985), Fromm (1900-1980), Gadamer (19002002), Heisenberg (1901-1976), Adorno (1903-1969), Gehlen (1904-1976), Gödel (1906-1978). Lungi dall'essere completa la lista, è limitata ad alcuni dei nomi più decisivi per il corso della storia del pensiero contemporaneo. Però ogni nome presente ha fondato una scuola di pensiero, ogni nome è il nome di un profeta, un uomo così vicino al divino da annunciare una via da percorrere, aprendo nuovi orizzonti della comprensione e attuazione della realtà in cui oggi siamo gettati. Credo che però tra i molti nomi mancanti ne manchi uno, molto importante per la nostra situazione attuale, il nome di quello che mi piace definire «l'angelo del Novecento»: John von Neumann (1903-1957), quell'ebreo ungherese nato come János Lajos Neumann, bambino prodigio, studente di Einstein a Berlino, emigrato negli Stati Uniti d'America durante il nazismo. Lì, negli USA, fonda quasi in un'impresa solitaria tutto ciò che è attuale e contemporaneo: noi viviamo ancora l'epoca von Neumann. Tra le innumerevoli scoperte, invenzioni, produzioni del fisico-matematico-stratega occorre almeno citare la Teoria dell'informazione (con Shannon e il patrono della cibernetica Wiener), la Teoria dei giochi e del comportamento economico (con Morgenstern), l'architettura del computer a transistor, il missile balistico intercontinentale che servirà a produrre il missile per i viaggi spaziali, gli automi cellulari prodromi delle biotecnologie. Essendo un membro del team del progetto Manhattan, espostosi alle radiazioni della bomba H sulle isole Marshall, muore di un tumore alle ossa. Dicevo, noi viviamo tutt'ora l'epoca von Neumann, non siamo ancora entrati nell'epoca successiva, quella, per usare un modo d'esprimersi à la McLuhan, «quantica»: noi mediamente siamo, viviamo, il pensiero moderno-tecnico-industriale come orizzonte anche oggi, paradossalmente per l'epoca della ragione, in modo irrazionale. Con una metafora che non rende la portata, ma almeno forse l'idea, questo Paese, la Germania, sta alla contemporaneità come l'Emilia-Romagna de noantri sta all'Italia fascista, produttrice sia del Fascismo che della Resistenza, veleno ed antidoto a seconda dei punti di vista, la Germania è il luogo in cui le straordinarie contorsioni dell'Occidente hanno contribuito a dare forma direttamente e indirettamente all'attualità, che assomiglia ad una rincorsa disperata verso una catastrofica autodistruzione, esattamente come fu la hýbris del prometeico von Neumann. 0.5 Le porte regali Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937), fisico, matematico, critico d'arte, filosofo, sacerdote ortodosso prima, durante e dopo la Rivoluzione d'Ottobre del 1917, un uomo di cultura nel senso ottocentesco del termine, in fine giustiziato nel 1937 dall'esercito comunista dopo cinque anni di lavori forzati, ci lasciò queste parole scritte in un saggio sull'icona ortodossa intorno al 1914. Saggio tradotto in italiano da Elémire Zolla, sessant'anni dopo, nel 1974, con il titolo Le porte regali. In questo saggio forse possiamo trovare la più illuminante e lucida descrizione della metafisica della volontà di volontà: Se la pittura ad olio [dell'icona ortodossa] è una manifestazione della sensibilità, l'incisione [dell'acquaforte protestante] si basa sulla razionalità, essa costruisce l'immagine degli elementi senza avere con gli elementi dell'oggetto nulla in comune – a partire dalle combinazioni razionali 'sì' o 'no'. L'incisione è lo schema dell'immagine costruito in base alle sole leggi della logica; l'identità, la contraddizione, il terzo escluso ed in questo senso ha un nesso profondo con la filosofia tedesca: nei due casi il fine è trarre ovvero dedurre schemi dalla realtà grazie ad alcune affermazioni e negazioni prive di realtà sia spirituale sia sensibile, cioè di creare tutto da nulla. […] L'incisione è, ripeto, una creazione ex novo dell'immagine, da princìpi del tutto diversi da ciò che essa è nella percezione sensibile, in modo che l'immagine sia intesa del tutto razionalmente in ciascuna delle sue parti, in modo che tutta la sua struttura, incluse le ombre, vale a dire che non nasce soltanto da una qualità dell'immagine, ma anche dal rapporto con le cose circostanti – in una parola, che essa sia tutta smembrata nella serie delle suddivisioni, nella serie delle circoscrizioni dello spazio, e in modo che al di sopra di questi atti razionali e dei loro rapporti reciproci, nell'immagine non ci sia niente4. Il saggio di Florenskij è particolarmente denso, riporta e rende conto di concetti epistemologici, teologici, antropologici, storiografici, artistici, politologici, psicologici, sociologici, tecnologici. D'altro canto è però facile scorgere una trama logica, che è essenzialmente una metafora, per cui l'uomo e il suo sguardo cadono sull'immagine che hanno prodotto e da quel momento si influenzano circolarmente autoponendosi nel mondo storico come esserci. L'icona, che sta nella nostra metafora alla metafisica, non solo rappresenta l'ordine visibile, rappresenta anche quello invisibile, ossia l'ordine in tutta la sua totalità. Questo accade poiché ogni immagine è metafisica, ogni εἶδος è µετά τα Φυσικά, quindi tutto il λόγος è oltre la Φύσις. Il positivismo scientista, spogliandosi di tutte le «pastoie metafisiche» – e con questo si intendevano le dottrine cattoliche e, in generale, dell'ancien régime pre-rivoluzionario – si autoconvinse di non essere una metafisica. Con questo scacco verso se stesso, il pensiero crollò in un sonno profondo sorvegliato dalla tecnica e dall'utile. Il positivismo, scordandosi che ogni ente positivo, ossia che è posto in qualche luogo, anzitutto «è», precipita in una ingenuità epistemologica che nominiamo appunto «realismo ingenuo». Il positivismo confuse cioè il mondo con la percezione e la percezione con il mondo, la rappresentazione con la realtà e la realtà con la rappresentazione. Come riuscì in questo? Ci riuscì sostenendo una assurda rappresentazione nonmetafisica del reale, assurda in quanto la rappresentazione – ossia ogni εἶδος – è µετά τα Φυσικά. Ma la metafisica non avrebbe senso, non avrebbe verità logica, in quanto non si riferirebbe a qualcosa di empirico, a portata dell'esperienza. La rappresentazione non sarebbe a portata della 4 Florenskij, Pavel Aleksandrovič, Le porte regali. Saggio sull'icona, traduzione di Elémire Zolla, Adelphi, 2012, ISBN 978-88-459-0195-9, pp. 115-117 percezione. Senza nessun dio che se stesso, il pensiero positivista indirizzato dalla ratio utilitarista – che poi , in una parola sola è quello che chiamiamo «industria» –, diede il via al dominio incondizionato della Φύσις, della natura – uomo-macchina res extensa compreso –; diede cioè inizio al dominio della totalità dell'ente al fine del dominio della totalità dell'ente facendosi essenza e voce della totalità dell'ente, cioè espressione dell'essere stesso che reclama la sua totalità. 0.6 Che cos'è metafisica? Questo cosa significa e come è possibile? Heidegger ci ha rivelato molto sulla metafisica, la disciplina che insegna al corpo di questo spazio come disporre il pensiero. Lo fa illuminando – e illuminare, ci ha spiegato Husserl, è sempre adombrare – la struttura fondamentale che accomuna tutte le cose che sono, cioè l'essere, e sulla quale, quella struttura fondamentale, progettare l'esistenza su e attraverso quella che è la legittimazione ultima dell'ordine delle cose. L'Erlebnis, termine con cui il suo maestro Husserl designava l'esperienza vissuta, è qualcosa che dobbiamo poiché la nostra inautenticità di animali razionali è essenziale, siamo dejetti (geworfen); siamo situati nei modi che ci danno l'esperienza vissuta, l'Erlebnis. Da molto più tempo sappiamo che la metafisica è anzitutto una ontologia, l'ontologia è la prima filiazione della metafisica5; la metafisica pone gli enti, τά ὄντα, al pensiero attraverso la comprensione della struttura fondamentale dell'essere come tale, ὄντος. Di seguito Heidegger suggerisce che il discorso da cui si originano tutti i discorsi possibili è innanzitutto una onto-teologia6, l'essenza della metafisica è «onto-teo-logica». Per cui ogni rappresentazione, ogni εἶδος, da cui εἴδωλον, ha una essenza ὄντος-θεός-λογική. Se la metafisica pensa l'ente guardando al suo fondamento che è comune a ogni ente in quanto tale, allora essa è una logica intesa come ontologica. Se invece la metafisica pensa l'ente in quanto tale nella sua totalità, cioè guardando all'ente supremo che dà fondazione a ogni cosa, allora essa è una logica intesa come teo-logica7. La metafisica non è solo e soltanto teo-logica, però è il luogo in cui la divinità si è mostrata all'uomo. L'objectum, il ϕαινόµενον, della risposta alla domanda fondamentale che apre l'Aperto è «Θεος» – l'enigmatico motore immobile, o l'ermetico fuoco fermo – , in quanto la domanda fondamentale è la domanda che pone la metafisica sull'ἀρχή della Φύσις, che appunto si trova nell'oltre della Φύσις, µετά τα Φυσικά. È la domanda sulla causa prima che, essendo prima, è causa sui, necessaria e sufficiente in sé e per sé a tutto l'ordine dell'ente nella sua totalità. 5 6 7 Aristotele, Metafisica, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, 2000, ISBN 978-88-452-9001-5 Heidegger, Martin, Identità e differenza, a cura di Giovanni Guirisatti, Adelphi, 2009, ISBN 978-88-459-2449-1 Ibidem, p. 93 Nell'Aperto, in quella Lichtung che è anche Nichtung8, si svela, si rivela, ricordiamo, riconosciamo la θεῖον, la divinità. Eppure di questa ἀλήθεια vi è ancora la «differenza»: causa sui «è» causa mea e con la differenza me ne tengo a debita distanza. Con la differenza appunto il sub-jectum si separa dall'ob-jectum, forse perché lì la divinità – spogliatici di tutto per giungervi al cospetto – ci desertifica: la divinità è il silenzio, un silenzio così assordante da poterci annientare. In quest'epoca, che a prima vista potrebbe dirsi atea e nichilista ne siamo controintuitivamente così vicini da non doverla più cercare. Dico a prima vista, perché in cima ad ogni piramide c'è sempre un sacerdote con indosso la maschera di Giano, a stretto ed intimo contatto con la voce del silenzio. 0.7 Πόλεµος e λόγος sono la stessa cosa L'impresa eccezionale di Sein und Zeit non si concluse in quanto, stando ad Heidegger, il pensiero non si lasciava dire9, sono finite le parole. Eppure la scelta della distruzione dell'Ur-Spache della metafisica occidentale come metodo può già svelarci, rendere manifesta una verità: o si tratta di un abbaglio oppure sin dal primo θαῦµα della storia dell'Occidente – tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone sentenziò Whitehead – ci siamo rinchiusi in una regione dell'essere e non riusciamo a pensarlo bene. Essenzialmente noi parliamo nella lingua, dentro alle strutture della lingua. Poi parliamo con la lingua, sia come mezzo sia, come dativo "parlare a", come fine. Parliamo con la lingua alla lingua per domandare al linguaggio e autorizzarci così ad essere, in un continuo processo di comprensione e legittimazione. La lingua, il codice linguistico, è modo d'essere del linguaggio umano, modo che De Saussure10 espone come «insieme di differenze», ma modo in cui rendiamo manifesta la nostra essenza. Il filosofo di Meßkirch ha un'altra formula per riferirsi al sistema di differenze linguistico. Analizzando la grammatica e l'etimologia della parola 'essere', sulle orme del Pòlemos eracliteo – che è padre di tutte le cose – spiega che πόλεµος e λόγος sono la stessa cosa11: l'esprimersi attraverso il contrasto non annienta l'unità, anzi la raccoglie in una forma. Il contrasto non è l'opposto dell'unione, dell'unità, anzi ne sarebbe la forma propria, sarebbe cioè la forma in cui si manifesta l'unità dell'essere. D'altronde decostruendo il πόλεµος, che noi designiamo come 'contrasto' – come quello tra sfondofigura della Gestalt –, scopriamo il latino 'contra', che può essere una contrazione di 'con-trahere', 8 9 Agamben, Giorgio, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, 2002, ISBN 88-339-1372-4 Heidegger, Martin, Lettera sull'«umanismo», a cura di Franco Volpi, Adelphi Edizioni, 2011, ISBN 978-8-84591142-2, p. 52 10 Saussure, Ferdinand De, Corso di linguistica generale, a cura di Tullio De Mauro, Laterza, 2012, ISBN 978-88420-2116-2 11 Heidegger, Martin, Introduzione alla metafisica, traduzione di Giuseppe Masi, Mursia editore, 1986, ISBN 978-88425-9291-4, p. 72 significa tirare insieme. Perciò tirare-insieme non è disintegrare, ma tutto l'opposto. Il contro è anche nell'incontro, dove persino gli opposti arrivano ad unirsi. Il contrasto, il πόλεµος, diventa così la forma di partecipazione, di posizione di una µηρός nell'όλος. Quindi il contrasto che tira insieme è la casa della condivisione e della comunicazione, lo spazio della µέθεξις, del con-tatto e dunque del senso tout court. Se la fenomenologia ha ragione e se Heidegger, con la sua analitica esistenziale, hanno ragione e «il linguaggio è la casa dell'essere», il recupero della parola è il modo con cui possiamo realizzarci... qualsiasi cosa significhi divenire reali, forse non lo sappiamo davvero o non ce lo ricordiamo. 0.8 Il discorso dell'ordine Noi, in quanto «noi», viviamo nel nostro ordine. Quest'ordine ci dà giustamente ordine, ossia ci ordina, ci posiziona in un posto di quest'ordine ponendoci di fronte ad un orizzonte di riferimenti predisposto dall'ordine. Eppure le società secolari occidentali contemporanee non differiscono da un punto di vista architettonico da nessuna delle comunità finora esistite. Nell'ordine si danno sempre le stesse figure dell'ordine, con le stesse aree di competenza e posizioni, poiché il cuore dell'uomo rimane pressoché ed essenzialmente sempre identico nonostante le svolte storiche di cui abbiamo notizia. Il cuore dell'uomo è il luogo in cui nessuna macchina antropologica è riuscita a mettere mano per alterarlo direttamente nel suo battito. In breve, nel sæculum, il regno secolare diventato lo Stato moderno, la metafisica si è inizialmente ritirata nella fisica meccanicistica, azione che permette silenziosamente di rifondarsi e produrre da sé tutta l'ontologia a capo dell'ordine moderno, il cosiddetto «naturalismo». L'ontologia naturalista permette di sostenere l'impianto industriale anche attraverso una nuova antropologia meccanicista. La teologia, di cui non doveva rimanere assolutamente nessuna traccia, si ritirò perciò totalmente nella politica. La politica, però, non riferendosi pubblicamente a nessuna divinità trascendente se non alla Nazione ed alla sovranità secolare – che sostanzialmente rappresenta un'astrazione della figura regale premoderna – si è dovuta sostenere da sé il suo proprio discorso in nome dei nuovi valori illuministici rivendicati dalla Rivoluzione Francese. La sovranità statuale delle repubbliche democratiche dovrebbe essere quindi in mano al popolo, come appunto lascia intendere démos (popolo) e kratos (potere). Stante le premesse, il popolo dovrebbe essere al contempo ordinatore (soggetto) e subordinato (oggetto) all'ordine del suo proprio volere, orientandosi negli spazi da occupare creati dal discorso della fisica. Quando guardo fuori da casa mia dovrei vedere persone del popolo come me che si ordinano da sé attraverso il sistema democratico e volti a trasformare i luoghi fisici di cui si occupano. Però non vedo ovviamente questa libertà e Machiavelli, il cui speculum principis dovrebbe essere oggi rivolto a noi in quanto i prìncipi e princìpi di questo ordine, consiglia sempre bene quando suggerisce di osservare per quello che è e non per quello che dovrebbe essere. La conoscenza della storia, l'osservazione e il buon senso sono gli unici aiutanti di questa impresa che è comprendere in realtà dove siamo finiti. O dove siamo sempre stati, perché in tutto ciò sembra sempre sfuggire come la fisica non sia il Grund su cui poggia il castello, das Schloß, del Diritto e di come quindi non sia la fisica la garanzia della legittimità del Diritto, ma la sua fondazione sia µετά τα Φυσικά; o di come la fisica non possa dare risposta alla domanda prima, giacché ancora possiamo chiedere, come fece Leibniz, Porquoy il y a plustôt quelque chose que rien?12 [Perché l'ente e non piuttosto il niente?] e lo scienziato fisico, sorridendo, risponderebbe che niente non c'è. Il niente è µετά τα Φυσικά, appunto. Eppure questa domanda, questo tentativo di apprensione, è così δεινόν (predominante) da uscire da ogni δίϰη (ordine): nessun fisico fu così arrogante o disinibito dallo stordimento del suo oggetto da poter mettere in questione la totalità dell'ente la cui incontestabile δίϰη va pazientemente a domandare. Domandando, appunto, come ente tra gli enti, il fisico perciò dice “io sono ente”, sono una determinazione, una specie di questa totalità. Il filosofo, invece, che si identifica nella totalità scoprendosi e svelandosi, dice solamente “io sono” e, non essendo qualche specie, quindi può chiedersi per quale ragione «è». Ed in quell'istante in cui lo chiede è già fuori dall'ordine. È extra-ordinario. 0.9 Il sacro e la biopolitica Affermare che il pensiero del Novecento si sia sviluppato intorno al θαῦµα dell'arbitrarietà dell'ordine può essere una chiave di lettura per molta della letteratura di questo secolo. Cosa sarà mai cambiato dal sæculum dello Pseudo-Dionigi a quello di Bataille, se non che Dio è morto – e non ci fa più paura? Eppure qualcosa non torna poiché da dove la chiesa si ritirava subentrava prontamente la nascente società: questo, a nostro modo ingenuo di vedere, era come dire che il sacro si ritirasse attraverso il processo di secolarizzazione. Sarebbe persino sembrato che tutto divenisse profano, ma si trattava solamente di un problema prospettico: le categorie «chiesa» e «cristiano» potevano venire usate dai funzionari dell'ordine medievale come usiamo oggi «società» ed «individuo». Il fatto è che la scristianizzazione non era un sinonimo di desacralizzazione, tutt'altro, ma era una ri-sacralizzazione su nuovi princìpi totalitari. Come ben presto si poté vedere. Le scienze umane del Novecento hanno teso alla riappropriazione del «sacro», lo strumento d'ingiunzione dell'autorità contestata, e la rinascita della teologia politica con Schmitt ci ha messo in guardia sul considerare la secolarizzazione una desacralizzazione, poiché il sacro, questa categoria 12 Leibniz, Gottfried W. von, Monadologia, a cura di Salvatore Cariati, Bompiani, 2001, ISBN 978-88-452-9090-9 fino a poco prima ad appannaggio dell'élite politica ecclesiastica, non è di dominio di una egemonia teocratica. Lo stesso concetto di «secolarizzazione» inganna: si rifà direttamente alla concezione cristiana di sæculum e cælum, ossia i due regni separati e governati rispettivamente dagli uomini e da Dio. Considerare la secolarizzazione una desacralizzazione significa ingarbugliarsi con le categorie dei discorsi pubblicizzati dalla stessa autorità di cui ci si intendeva liberare. Ciò che è stato fatto, al limite, è stato di assorbire il cælum nel sæculum. Portato in auge dalla ricerca di Foucault, l'ideale panottico dell'architettura del sæculum moderno non è una invenzione di Bentham ma una trasformazione di una archetipo di dispositivo di sorveglianza totale. Il panottico era già stato implementato dalle autorità politiche premoderne con altri strumenti, che, guarda caso, facevano tutti leva originariamente sul sacro. L'opera di Foucault, già di per sé monumentale per originalità, fa fare un balzo fondamentale alla teoria politica moderna con l'introduzione del concetto di «biopolitica». Emersa da un cambiamento dell'antropologia giuridica moderna – cambiamento per cui si è passati da «corpo utile» a «essere vivente» – la biopolitica è la continuazione dell'azione politica attuata volontariamente alla sfera biologica, che, come il detersivo Omo dei Miti d'oggi di Barthes, mette in riga le fibre più profonde. 0.10 Il corpo e l'infinito In un certo senso si sta per chiudere un anello, siamo cioè molto vicini a comprendere questo strano fatto per cui questo corpo che siamo parli e parlando crea il mondo che abita esprimendolo e pensandolo. La chiusura di questo anello ci lascerà probabilmente smarriti e turbati. Chi siamo? Dove siamo? Questa operazione che voglio qui fare ha spesso avuto conseguenze infami, che spero non sussistano. Corporizzare la parola, l'abbiamo visto, può portare all'inflizione del cilicio o alla chirurgia estetica compulsiva, può portare all'anoressia nervosa o a disturbi autolesionistici, come può portare, con il discorso della razza – di questi odiosi corpi inferiori –, ai lager e all'apartheid. È rischioso, ma non parlare di corpi è come negare il principio della parola, cioè colui che la pronuncia, il corpo che parla, che prende la parola. Esso è la dimensione pubblica del nostro esserci, nonché la determinante di queste dimensioni, il santuario dove dimora ψυχή: il corpo è la sua rocca e façade. Per svolgere questo compito sarà opportuno cercare alcuni strumenti del pensiero antico sepolti sotto le macerie del pensiero moderno che, come Freud ebbe l'occasione di affermare per Pompei che si preservò proprio perché sepolta, possono porci in quello spazio entro il quale avere una prospettiva e un orizzonte forse più autentica ed intuitiva dell'uomo e del suo mondo, dell'uomo e della sua posizione nel cosmo. L'operazione non finisce con l'estrazione e la ripulitura, ma procede con l'affilatura per mezzo dei contemporanei strumenti fisici e bio-socio-psico-logici. Fluidificare il pensiero antico vuol dire, in primo luogo, far rivivere il sacro e gli dei; riattualizzare il mito e il rito; ridestare il culto e il simbolo; ripristinare il pensiero dei sacrifici e dei sacramenti. Vuol dire avvicinare il cielo alla terra dopo averli di nuovo separati, ovviamente ricordando cosa fece Galilei per noi, senza lasciarlo sedimentare; vuol dire tornare a parlare in un modo religioso dell'unità e delle gerarchie dell'essere dopo il loro scadimento nell'occulto, nel nascosto, nell'invisibile. Tutti i filosofi sanno che affinché ci sia trascendenza da dove osservare il cosmo è necessario un corpo immanente che sia posto in qualche dove e in qualche quando come base di questa esperienza, come un punto che si apre verso l'infinito. Sembrerà sconcertante ma il corpo è questo mistero che già da sempre appartiene a due ordini, il finito e l'infinito: il minuscolo segreto del corpo potrebbe essere che l'infinito è infinito per il finito.