Accademia di Belle Arti di Carrara
Diploma accademico di II livello
Scuola di Net Art & Culture Digitali
Prof. Domenico Quaranta
ABICERE
Tesi di Irene Scanavacca
Matr. AMB146
Relatore prof. Alessandro Romanini
A.A. 2020/2021
3° sessione: febbraio 2022
Indice
Introduzione...............................................................................9
Il non-gusto..............................................................................13
Abicere: il Disgusto nell’Arte..................................................20
La tangibilità del Disgusto.......................................................46
Sacer: disgusto e santificazione...............................................56
Il (dis)gusto per l’osceno.........................................................60
Post-porno: il potere della riappropriazione dei corpi.............68
L’ultima controcultura.............................................................74
Conclusione.............................................................................81
Che nobile cosa è la pittura che ci fa ammirare ciò che, nella realtà,
ci ripugnerebbe!
Jean Clair, De Immundo, 2005
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Introduzione
Scrivere una storia del “reale” disgusto – delle sue diverse forme costanti
e variabili, della sua intensità – e dei suoi rimandi oggettuali, delle de- e
resensibilizzazioni, dei suoi modelli naturali e culturali – incontra difficoltà quasi insormontabili. I dati più significativi sul disgusto hanno fatto
soltanto una breve comparsa negli archivi della cultura e di norma non
trovano una degna registrazione; di più: la loro comunicazione sarebbe
rifiutata in quanto indegna, indecente e abominevole. Quei pochi ricercatori che oggi si occupano di disgusto hanno dunque cura di scusarsi per
il loro oggetto di studio.
Winfried Menninghaus, Disgusto. Teoria e storia di una sensazione forte,
1999
Ci sono molte cose che ci fanno provare disgusto, anche se non per tutti
sono le stesse. L’emozione del disgusto è fortemente corporea ed è universale, ma non lo è ciò che la stimola. Il disgusto, differenza di altre
emozioni, ha sempre suscitato scarso interesse nel mondo della scienza,
ma è a partire dal naturalista Charles Robert Darwin (1809 – 1882) che la
psicologia moderna ha iniziato ad interessarsene. Con queste parole ci dà
un esempio della relatività della nostra idea di cosa sia disgustoso:
Il termine disgusto indica qualcosa che ha un sapore sgradevole e nauseante […] E’ curioso vedere quanto facilmente susciti questa sensazione
qualsiasi cosa insolita nell’aspetto, nell’odore e nella natura rispetto al
nostro cibo ordinario. Nella Terra del Fuoco un indigeno toccò con un
dito la carne fredda conservata che stavo mangiando e, sentendola tenera
manifestò estremo disgusto; allo stesso tempo io fui molto disgustato dal
fatto che il mio pasto fosse stato toccato da un selvaggio nudo, benché le
sue mani non sembrassero sporche.
Charles Robert Darwin, 1872
Possiamo notare come nella cultura occidentale la maggioranza degli ani9
mali venga considerata disgustosa: gli insetti, i rettili, gli anfibi e gran
parte di mammiferi non vengono mangiati.
Lo psicologo americano Paul Rozin, nato nel 1936, è considerato il padre
del disgusto proprio perché analizza in modo approfondito questa emozione. Nelle sue ricerche, afferma che gli oggetti che provocano questa
emozione sono variabili da cultura a cultura più che da soggetto a soggetto, anche se alcuni umori corporei – feci, urina, muco e sangue – provocano la stessa repulsione in (quasi) tutti gli esseri umani. Ritiene anche
che l’oggetto scatenante di questa emozione sia quasi sempre di origine
animale: che sia vivo (ad esempio uno scarafaggio), la parte di un corpo
(un arto amputato) o pezzi di origine animale (budella, umori). Insieme ad
altri ricercatori, Rozin individua e classifica diversi tipi di disgusto:
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Il Core Disgust: legato all’aspetto psico-evoluzionistico originario, ha
a che fare con il cibo che l’uomo mangia e con il suo rifiuto a causa,
per esempio, del suo odore sgradevole. E’ una sorta di protezione dalla
contaminazione orale da cibo, animali e prodotti corporei.
L’Animal Reminder Disgust: riguarda la difesa da oggetti disgustosi
alla vista ed al tatto. E’ una sorta di dilatazione del disgusto orale agli
altri sistemi sensoriali, riguarda oggetti della morte, dell’igiene e in
generale ciò che riguarda la superficie corporea, come ad esempio il
sangue.
Il Contamination Disgust: si intendono le reazioni di disgusto determinate dall’inadeguatezza dei comportamenti sessuali rispetto alle
norme che regolano la società.
L’Interpersonal Disgust: si riferisce al contatto di qualsiasi tipo con
soggetti ritenuti fonti di contaminazione o sgradevoli, come per esempio persone malate o assassini.
Il Moral Disgust: il disgusto morale, che emerge quando avvengono
infrazioni o reati morali e sociali, in presenza di azioni brutali e disumane. Eventi disgustosi che, anche se diversi, dipendono dal tipo di
cultura dei popoli.
nel cibo, e quindi nella selezione degli animali che vengono mangiati: per
esempio, la carne di maiale nella cultura occidentale è sfruttata per la produzione di svariati alimenti, mentre per i musulmani mangiarla è proibito
e disgustoso. Alcuni teorici, come Ortner nel 1973, spiegano questo fatto
col desiderio dell’uomo di accentuare la sua differenza con gli animali, ribadendo la propria appartenenza al genere umano e non a quello bestiale.
Infatti, gli esseri umani tendono a credere che si diventa ciò che si mangia
e ciò con cui si viene a contatto, quindi mangiare animali o entrare in contatto con i loro umori, implica diventare un po’ animali. Questo non accade con le verdure e le piante in generale, perché la distanza che percepiamo dalle piante è nettamente maggiore rispetto a quella che percepiamo
dagli animali. A prova di questa teoria, ci sarebbe il fatto che il disgusto
aumenterebbe nel caso in cui ci si trovasse a mangiare un animale che di
solito viene considerato domestico o più simile all’uomo, come, sempre
nella cultura occidentale, i gatti, i cani e le scimmie. Ortner fa notare che
solo un umore del corpo umano non suscita disgusto: le lacrime. Infatti,
le lacrime sono un umore esclusivamente umano, dato che gli animali non
piangono.
Rozin afferma che si inizia a provare disgusto da piccolissimi, e inizialmente è strettamente legato al rifiuto di sapori e/o odori che non si gradiscono, ma col passare del tempo questa emozione può assumere anche
un significato psicologico, ovvero tutto ciò che è sporco, abietto e ripugnante, comprese persone, valori e pensieri. In alcuni casi, si può provare
disgusto anche per sé stessi, come confessa Kafka (che analizzerò più
avanti) quando racconta in una lettera al padre il disgusto per il proprio
corpo, quando doveva denudarsi in piscina o nel bagno del mikveh, il bagno rituale ebraico purificatorio:
[…] Già ero schiacciato dalla tua nuda fisicità. Ricordo ad esempio come,
frequentemente, ci spogliavamo insieme in cabina. Io magro, debole, sottile, tu forte, alto, massiccio. Già in cabina mi sentivo miserabile, e non
solo di fronte a te, ma di fronte a tutto il mondo. […]
Franz Kafka, Lettera al padre, 1919
Il disgustoso sembra essere quindi, in alcune sue accezioni, definito culturalmente. Come abbiamo visto, spesso questa emozione la riscontriamo
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La ricerca che ho svolto affronta il tema del disgusto dal punto di vista ar11
tistico e filosofico nel corso dei secoli. Analizzando le opere di artisti, registi, scrittori e filosofi, vedremo come l’immedesimazione in determinate
situazioni, la vicinanza, il livello di rischio che l’oggetto ripugnante può
provocare e la consapevolezza di ciò che è realmente, siano determinanti
per definire cosa è ritenuto disgustoso e cosa no.
Il disgusto riesce a suscitare al contempo attrazione e repulsione, e questo
suo aspetto ambivalente e sublime mi ha sempre incuriosita ed affascinata. Per questo ho deciso di approfondire questo tema, sperando che possa
essere utile a capire che non sempre, provare disgusto, è un male.
Il non-gusto
Fluidi organici, umori corporei.
Sangue, sperma, escrementi, vomito.
Vermi, ratti, scarafaggi, mosche.
Sporcizia.
Corpi obesi, corpi anoressici, corpi deformi.
Corpi mutilati, corpi malati, corpi morti.
Putrefazione.
Degrado.
Perché proviamo disgusto? Se ci troviamo di fronte ad un’opera d’arte
che ci provoca questo sentimento, come reagiamo? E’ giusto definirla disgustosa?
Il sentimento di disgusto accomuna tutti gli esseri umani sotto alcuni punti
di vista: siamo stati educati alla sopravvivenza imparando a ripudiare gli
umori corporei, alcuni tipi di odori “cattivi”, la putrefazione, l’inguardabile, ciò che riteniamo immondizia, associando tutto questo alle malattie,
al male, alla morte, quindi alla fine della vita, qualcosa di brutto, triste e
disgustoso.
E se invece proprio la morte fosse un inizio? La fine di qualcosa che conosciamo e riteniamo bello, che è inevitabilmente l’inizio di qualcos’altro?
Se il processo di putrefazione dei corpi non fosse ritenuto disgustoso, in
quanto obbligato rito di passaggio per alimentare una nuova vita e quindi
riportare l’individuo al concetto di bellezza?
Ci sono molte cose, situazioni, persone, oggetti e sentimenti ritenuti sgradevoli, abietti: anche il sesso e la pornografia vengono spesso ritenuti
osceni e a tratti disgustosi: una rivista pornografica, un atto osceno in
luogo pubblico, sono tutti riconducibili al senso di disgusto provato nello
spettatore, se non completamente immedesimato o facente parte dell’azio12
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ne/situazione stessa.
Ciò che piace, ciò che è bello, spesso è fine a se stesso, relativo, e si può
definire come tale - di gusto - solo grazie al senso di disgusto.
E allora, cos’è davvero il disgusto?
disgusto s. m. [comp. di dis-1 e gusto]. – 1. a. Sensazione sgradevole al
gusto, ripugnanza fisica per cibi, bevande, ecc.: prese la medicina con
visibile d.; si dice spec. di cose che prima piacevano: l’abuso di certe
pietanze genera d.; m’è venuto il d. dell’alcol, delle sigarette. b. fig. Repulsione, fastidio, senso di stanchezza o di ripugnanza: assistevo con d. a
quella scena brutale; il suo cinismo mi ispira d.; sentire o provare d. della
volgarità. 2. non com. dispiacere, causa di dispiacere: mi ha dato troppi
d.; appena arrivati e accomodati nel nuovo paese, Renzo ci trovò de’ d.
bell’e preparati (Manzoni).
disgustóso agg. [der. di disgusto]. – Che disgusta, che ispira vivo disgusto
(in senso proprio e fig.): sapore, odore, cibo d.; ha una faccia d.; discorsi
d.; fu una scena veramente d.; è di un’ipocrisia disgustosa.
Il disgusto è una sensazione provata principalmente dagli esseri umani,
associata ad un senso di rifiuto e ripugnanza; può manifestarsi anche tramite reazioni fisiche come la nausea o il vomito, fino ad arrivare – nei casi
più estremi – allo svenimento.
Nel 1852 Karl Rosenkranz, allievo di Hegel, nell’Estetica del brutto, lo
definisce come la deformazione delle forme in seguito a putrefazione fisica o morale. Disgustosi sono prodotti della natura organica (sudore,
escrementi, vomito, catarro, saliva, alito pesante, ulcerazioni, cadaveri in
putrefazione), mai della natura inorganica (tranne la sporcizia). Disgustosi ci appaiono stagni pieni di piante marce e corpi in putrefazione, e
gli animali che lì si nutrono: topi, vermi, ratti, rospi, scarafaggi. Il cattivo
odore potenzia il disgusto.
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In ambito scientifico il disgusto è considerato anche una reazione istintiva
che si manifesta in presenza di alcuni odori, sapori e alla vista di determinate cose con, come conseguenza, il desiderio di allontanarsi da queste.
Anche nel sociale si può manifestare questa sensazione tramite il disgusto
morale, riferito a comportamenti, idee o persone con le quali non vogliamo avere alcun tipo di contatto fisico e/o verbale. Lothar Penning, uno studioso tedesco che nel 1984 si era occupato degli aspetti socio-scientifici
e storico-culturali del disgusto, lo definisce come un meccanismo sociale
che media culturalmente e pedagogicamente, sfruttando principalmente
la sensazione primitiva del riflesso faringeo (conato) per proteggere l’identità sociale pre-razionalmente acquisita.
In psicologia la sensibilità estrema al disgusto viene definita idiosincrasia: nel linguaggio comune viene usata per indicare una forte ripugnanza,
incompatibilità per situazioni, persone, oggetti.
Sotto l’aspetto filosofico il tema viene affrontato fin dai tempi dell’antica
Grecia: uno dei primi fu Platone, il quale nel Parmenide chiede a Socrate
se concepisse un’idea per le cose repellenti come i peli, i rifiuti, la sporcizia, gli escrementi, gli umori e tutto ciò che è più spregevole e senza alcun
valore, ma queste realtà non partecipano a nessuna idea, esistono solo così
come ci appaiono. Non ci sono idee di queste cose. In un altro suo dialogo,
nella Repubblica, quando parla di conflitti della ragione e del desiderio,
lascia intendere come l’orrore sia esattamente ciò che è desiderabile:
Leonzio, figlio di Aglaione, mentre saliva dal Pireo sotto il muro settentrionale dal lato esterno, si accorse di alcuni cadaveri distesi ai piedi
del boia. E provava desiderio di vedere, ma insieme non tollerava quello
spettacolo e ne distoglieva lo sguardo. Per un poco lottò con se stesso e
si coperse gli occhi, poi, vinto dal desiderio, li spalancò, accorse presso
i cadaveri esclamando: “Eccoveli, sciagurati, saziatevi di questo bello
spettacolo”. – L’ho sentito raccontare anch’io, rispose. – Ora, conclusi,
questo racconto significa che talvolta l’impulso dell’animo contrasta con
i desidèri: si tratta di cose tra loro diverse. – Sí, significa questo, ammise.
Platone, La Repubblica, libro IV
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Abbiamo allora forse bisogno di nutrirci di ciò che è brutto, abietto e
disgustoso? Quest’ultimo può diventare una categoria estetica vicina al
sublime?
In epoca moderna il concetto di sublime assume importanza nella riflessione estetica europea del XVIII secolo: la nozione di sublime viene per la
prima volta distinta da quella di bello: secondo lo scrittore inglese Joseph
Addison, questo sentimento è l’espressione di un orrore piacevole. Anche
il filosofo Edmund Burke nell’opera del 1757 Ricerca sull’origine delle
idee del sublime e del bello, scrive:
[…] per verificare la sublimità di un’immagine non bisogna osservare se
diventi meschina, quando è associata con idee meschine, bensì se, quando
è unita a immagini di conveniente, grandezza, l’intera composizione si
regga dignitosamente. Le cose che sono terribili sono sempre grandiose,
ma quando le cose posseggono qualità spiacevoli, o tali da costituire un
certo pericolo, un pericolo però facilmente superabile, sono semplicemente odiose, come i rospi e i ragni. [...] Ma sebbene la bruttezza sia l’opposto
della bellezza, non è l’opposto della proporzione e della attitudine. Poiché
è possibile che una cosa sia molto brutta pur con certe proporzioni e con
una perfetta attitudine a determinati scopi. Parimenti ritengo che la bruttezza abbia un certo rapporto con l’idea di sublime. Ma non insinuerei
affatto che la bruttezza per se stessa sia un’idea di sublime, a meno che
non sia unita a qualità tali da eccitare un forte terrore.
Edmund Burke, Ricerca sull’origine delle idee del sublime e del bello,
1757
Secondo Burke, vedere nel sublime un “orrore gradevole” è una conseguenza del fatto che la percezione dell’individuo di un pericolo – come
il terribile e l’informe – è fortemente legata alla consapevolezza della distanza che separa l’oggetto dal pericolo: se quest’ultimo è facilmente superabile, non sarà altro che odioso, disgustoso.
E’ però dal 1764, grazie ad Immanuel Kant che si matura il pensiero filosofico sul sublime: nelle sue opere Osservazioni sul sentimento del bello
e del sublime e Critica del giudizio riconosce l’idea di grandezza della
sublimità, definendolo come ciò che è assolutamente grande e al di là
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di ogni comparazione; è sublime ciò che per il fatto di poterlo anche
solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei
sensi. Se il bello, in quanto fondato sul libero gioco di immaginazione e
intelletto, esprime l’accordo ed il proporzionamento delle nostre facoltà conoscitive, al contrario ciò che fonda il sentimento del sublime è il
contrasto delle facoltà che partecipano alla determinazione del giudizio,
ovvero l’immaginazione e la ragione. Il bello mantiene l’animo in una
contemplazione statica, mentre il sublime ne induce un suo movimento.
Kant definisce ciò che è sublime come ciò che piace immediatamente per
la sua opposizione all’interesse dei sensi.
Significativamente, davvero poca attenzione viene data al disgustoso nella
storia dell’estetica da Kant a Jean Claire. Ciò dimostra che per quanto
sanguinosa sia stata la storia dell’Europa, in particolare nel XX secolo,
rimaniamo in larga misura uomini e donne dell’Illuminismo nelle nostre
filosofie dell’arte. L’estetica stessa è stata considerata come parte di ciò
che Santayana designa come la Tradizione Signorile, in cui il disgustoso,
perché innominabile, non era menzionato, e l’arte era considerata logicamente incapace di offendere: se offendeva, non era dopotutto arte. Così
l’arte stessa continuò a conformarsi agli imperativi illuministi, dedicati
alla produzione della bellezza. Ciò che inizialmente era così rivoltante per
gli spettatori dell’Arte Moderna […] era che essa stessa offendeva, non
che rappresentasse cose offensive.
Arthur C. Danto, discorso con Jean Clair @Fondazione Nexus, Tilburg,
2000
L’arte e l’estetica sono particolarmente efficaci nel trasmettere valori morali, ma solo se non vengono sottomesse alle priorità etiche. A differenza
del brutto, il disgusto non è incluso in ambito estetico, ma è considerato il
sentimento che serve per indicare ciò che non deve essere rappresentato.
Secondo il filosofo tedesco del XVIII secolo, Moses Mendelssohn, l’arte
è un tratto peculiare dell’uomo, unico essere vivente che può percepire
la bellezza – e dunque l’arte – in quanto essere razionale: il disgusto è
quindi una forma di difesa e rifiuto contro ciò che non può essere assimilato e rielaborato dall’uomo, nella sua finitezza. Il disgusto, tuttavia, ha
anche delle caratteristiche morali: è una reazione istintiva, universalmente
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condivisa nel modo di percepirla, ma i cui contenuti variano nell’aspetto
culturale. Nel dialogo silenzioso (come lo definì N. Hinske) tra Mendelssohn e Kant, nel dibattito sul disgusto, vengono definiti il disgusto fisico
ed estetico, Ekel, e il disgusto riferito alla riluttanza morale, Abscheu. Per
entrambi i filosofi il nesso tra le due declinazioni del disgusto è fondato
sul concetto di perfezione estetica e morale. Questo sentimento agisce
sul concetto di rappresentazione: nella sfera estetica ne traccia i limiti, in
quella morale può servire come strumento per allontanarsi dal male.
Questo è stato il pensiero principale sul disgusto fino alle avanguardie
storiche, come si legge negli scritti del francese Jean Claire Duchamp e
la fine dell’arte, dove identifica la fine dell’arte come la fine del gusto.
Nasce una nuova categoria estetica fatta di repulsione, abiezione, orrore
e disgusto, dove queste prendono il posto precedentemente occupato dal
gusto, ribaltando e cambiando le concezioni estetiche esistite fino a quel
momento; nel periodo Illuminista, il gusto era la categoria dominante che
diede vita alla disciplina dell’estetica, connesso al concetto di piacere: è
il sentimento che ci provoca alla sua vista. Esistevano (ed esistono ancora
oggi, seppur differenti) standard di gusto e di conseguenza l’educazione all’estetica: il gusto non era ciò che l’individuo preferiva, ma ciò che
chiunque dovrebbe preferire. Secondo Kant, affermare che qualcosa è bello non significa predire che tutti gli altri lo troveranno tale, ma affermare
che tutti dovrebbero trovarlo così.
Il disgusto, sostiene inoltre Kolnai – ed è questo a nostro avviso uno dei
punti decisivi del discorso – non è mai legato all’inorganico, all’inanimato, il materiale disgustoso è sempre biologico, anche quello provocato
da “oggetti” morali nasconde una profonda somiglianza con il risveglio
causato da materiali organici, mostra sempre una particolare combinazione di vita e di morte. Infatti, profondamente legato al corpo, il disgusto
consiste propriamente in un surplus di vita, “un più-di-vita” abitato però
dalla non-vita, dalla morte, scrive esplicitamente Kolnai, in un eccesso di
vitalità organica, una “vitalità abortiva” che si annida e si propaga oltre
ogni limite […] Tutto ciò che è fisicamente disgustoso, osserva Kolnai,
striscia infatti come i rettili, secerne, si insinua, si estende in ogni dove.
In questo senso il disgusto non è che vita esagerata, ridondante e recalcitrante ad ogni regola e ad ogni forma, vita cieca, abnorme, aberrante, vita
disperata, vita però corrotta, quindi vita impregnata di morte che lotta
contro ogni determinazione formale, che contamina e confonde tutto con
tutto. […] Rimane comunque il fatto che il disgusto è un sentimento duplice, profondamente ambivalente, che respinge ed attrae, ripugna e seduce
allo stesso tempo. È anche per questo che secondo Kolnai esso non può
essere ricondotto esclusivamente a categorie di tipo estetico, ma finisce
anche sempre per coinvolgere forme della vita etica, sollevando persino la
necessità di quella che egli chiama “un’etica del disgusto”.
Giuseppe Patella, Tra abiezione e disgusto, in Horti Hesperidum, 2016
Nel capitolo successivo cercherò di capire come oggi il disgusto sia diventato una categoria privilegiata nel mondo dell’Arte.
Nel 1929 il filosofo ungherese Aurel Thomas Kolnai pubblicò un saggio
sulle sensazioni ostili, Il Disgusto, dove indaga questo sentimento mostrandone la natura, gli oggetti, le regole ed il senso, portando così chiarezza su un fenomeno del tutto inesplorato. Definisce il disgusto come
una reazione di difesa istintiva, anche se non sempre ciò che è disgustoso
è pericoloso: un verme o uno scarafaggio possono essere considerati disgustosi ma non sono pericolosi, mentre altri molto pericolosi, come un
leone o una tigre non risultano disgustosi. Kolnai distingue due diversi tipi
di cose disgustose: quelle che lo sono per natura e quelle che lo diventano
in determinate situazioni; da un lato, quindi, questo sentimento è insito
nell’uomo, e dall’altro si manifesta solo in certe circostanze. In un articolo
del 2016 su Horti Hesperidum. Giuseppe Patella scrive in merito al testo
di Kolnai:
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Abicere: il Disgusto nell’Arte
La pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe aver
a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva. [...]Volevo far sì che la pittura servisse ai miei scopi e volevo allontanarmi dal suo lato fisico. A me interessavano le idee,
non soltanto i prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della
mente. […] Volevo far sì che la pittura servisse ai miei scopi e volevo allontanarmi dal suo lato fisico. A me interessavano le idee, non soltanto i
prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della mente […] Di
fatto fino a cento anni fa tutta la pittura era stata letteraria o religiosa:
era stata tutta al servizio della mente. Durante il secolo scorso questa
caratteristica si era persa poco a poco. Quanto più fascino sensuale offriva un quadro - quanto più era animale - tanto più era apprezzato. La
pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe aver a
che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere
puramente visiva […] Per approccio retinico intendo il piacere estetico
che dipende quasi esclusivamente dalla sensibilità della retina senza alcuna interpretazione ausiliaria. Gli ultimi cento anni sono stati retinici.
Sono stati retinici perfino i cubisti. I surrealisti hanno tentato di liberarsi
da questo e anche i dadaisti, da principio. […] Io ero talmente conscio
dell’aspetto retinico della pittura che, personalmente, volevo trovare un
altro filone da esplorare.
Marcel Duchamp, sulla pittura, n.d.
Secondo Kant, ciò che suscita disgusto (Ekel) non può essere rappresentato secondo natura senza distruggere ogni soddisfazione estetica: la rappresentazione di una sostanza disgustosa ci provoca lo stesso effetto che
ha su di noi la presentazione stessa di quella sostanza. In poche parole,
lo scopo dell’arte è la produzione di piacere – quello che Duchamp due
secoli dopo definisce come piacere retinico - in chi ne usufruisce, e solo
una mente d’artista perversa si adopererebbe a rappresentare il disgustoso,
che secondo le leggi della natura non può produrre piacere in un normale
spettatore. Chi prova piacere alla vista di ciò che gli spettatori “normali”
trovano disgustoso, potremmo dire che ha “gusti particolari”, ma gli artisti
di cui tratterà anche Jean Claire in De Immundo non hanno nessun pub20
blico speciale: il loro scopo è esattamente provocare sensazioni negative
o di disgusto attraverso la loro arte, che sono le stesse contro cui si sviluppa il pensiero di Kant. Jean Claire definisce questo come perversione
dell’arte: se il gusto per il disgustoso diventasse normale, gli artisti non vi
troverebbero più alcun valore, è quindi fondamentale per i loro scopi che
il disgustoso rimanga tale, senza che il pubblico impari a trovarlo bello o
a trarne piacere.
Dopo il romanticismo, è il cinismo che ormai dominerà il rapporto con
l’orrore. E’ la “maniera indifferente e cinica” di una carogna - “dal ventre pieno di esalazioni” - di offrirsi, che qualificherà tutta una produzione
moderna che, da Marcel Duchamp agli esempi più recenti, mette in mostra
l’orrore e l’abiezione senza il ritegno e la distanza che l’ironia romantica
ancora vi riponeva.
Jean Claire, De Immundo, 2005
Kant invece, non prende mai in considerazione l’idea che l’arte possa avere una lettura diversa e superiore alla mera produzione di bellezza, come
se questa fosse il fine stesso dell’arte e ciò che ne giustifica la sua esistenza, non interrogandosi mai su quale possa essere lo scopo del disgusto in
un’opera e, nel caso quest’ultima tenda proprio a suscitarlo, viene considerata in contrasto con se stessa.
Nel 1925, il filosofo francese Georges Bataille entra in possesso di una fotografia che ritrae un giovane ragazzo cinese torturato e fatto a pezzi, ma
con un’espressione d’estasi incomprensibile sul volto. Questa fotografia
fa provare a Bataille una sorta di attrazione che lo induce a riflettere sulle
differenze tra affascinante e ripugnante, puro e immondo, erotico e sacro,
gradevole e disgustoso: ne darà l’esempio migliore nel romanzo erotico
Histoire de l’œil (Storia dell’occhio), pubblicato nel 1928, dove racconta
le bizzarre perversioni sessuali di una coppia di giovani amanti. Per lui,
l’immondo diventa un’esperienza metafisica assoluta.
Dieci anni dopo, nel 1938, Jean-Paul Sartre pubblicò La Nausea, dove
riflette sulle ragioni della propria esistenza e del mondo che lo circonda, esperienziando appunto la nausea, il sentimento che lo invade quando
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scopre l’assurdità della realtà, e che il mondo e l’esistenza non hanno un
senso. Tutto questo gli provoca disgusto; per gli uomini, buffi manichini
inautentici, e per le cose, gratuite e ingiustificabili. Descrive attentamente
gli umori corporei e gli effetti della bile nera, definendo tutto questo come
la qualità rivelatrice dell’essere. Questo romanzo diventerà un riferimento per la letteratura francese del dopoguerra, per tutto ciò che è disgustoso,
fluido, appiccicoso.
Tutto è gratuito, questo giardino, questa città e io stesso. Quando capita
di accorgersene, viene il voltastomaco e tutto comincia ad oscillare; ecco
la Nausea.
fase necessaria alla formazione della propria identità. Per lei l’abietto è un
non-oggetto, perché si forma nelle fasi più arcaiche del processo di significazione del soggetto, prima dell’acquisizione del linguaggio, in quella
fase in cui l’individuo, che ancora non è individuo, lotta per l’autonomia
e la separazione dalla madre. Questa separazione non è mai del tutto acquisita. L’abietto ritorna incarnandosi in persone o situazioni che suscitano nell’individuo sentimenti ambivalenti, di rifiuto, disgusto, orrore, ma
anche piacere ed attrazione. Per lei, l’abiezione è soprattutto ambiguità:
non è l’assenza di pulizia o di salute a rendere abietto ma quel che turba
un’identità, un sistema, un ordine. Quel che non rispetta i limiti, i posti, le
regole. L’intermedio, l’ambiguo, il misto.
Jean-Paul Sartre, La Nausea, 1938
Charles Baudelaire ridefinì il concetto di bellezza, racchiudendo nel suo
significato tutto ciò che è terribilmente attraente ed allo stesso tempo angosciante, un po’ come la vista dei cadaveri per Leonzio o la fotografia del
ragazzo torturato per Bataille. Baudelaire scrisse anche che verrà un tempo in cui non soltanto la bellezza sarà dimenticata, ma in cui il mostruoso
stesso sarà celebrato come bellezza:
Il mondo sta finendo. L’umanità è decrepita. Un Barnum dell’avvenire
mostra agli uomini degradati della sua epoca una bella donna dei tempi
antichi artificialmente conservata. “Eh! Cosa!” dicono “l’umanità ha potuto essere così bella?”. Io dico che non è vero. L’umanità degradata si
ammirerebbe e chiamerebbe la bellezza bruttezza.
Dato che non ho mai tagliato i legami con la letteratura, è emerso che la
letteratura della fine del XIX secolo e di tutto il XX secolo – e qui mi riferisco alla letteratura dell’avanguardia, alla letteratura sperimentale – […]
cerca di penetrare nelle nostre profondità. Ebbene questa è una letteratura che tratta della crisi. Del momento catastrofico nell’essere umano. Per
esempio si riscontrano molti elementi depressivi in Mallarmé o vicini alla
psicosi in Artaud. Si osserva una conoscenza estremamente acuta della
perversione in Bataille e altri. Mi sono spinta il più possibile in questa
direzione senza minimamente patologizzare la letteratura, ma cercando
di mostrare che essa non è un decoro, ma che sonda in profondità e che
costruisce un sapere profondo della vita psichica.
Julia Kristeva, intervista ad una radio svizzera, n.d.
La sua riflessione viene adottata oggi in numerose discipline, dalla sociologia alla critica letteraria, dalla critica d’arte allo studio dei mass media.
Charles Baudelaire, La Belgique déshabillée, 1986
Il concetto di abietto è posto al centro di un ormai classico saggio di Julia
Kristeva pubblicato nel 1980, Pouvoirs de l’horreur. Essai sur l’abjection
(Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione). A partire dall’opera di Sigmund Freud e Jacques Lacan, Kristeva sviluppa il concetto di abiezione in psicoanalisi evocando i fluidi corporei (vomito, pus, escrementi) e
l’immagine del cadavere, sottolineando come anche l’abiezione sia una
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Dopo aver esaminato una serie di riflessioni filosofiche sul tema, farò un
quadro generale degli artisti più influenti di questo filone disgustoso.
Nato nel 1925, l’austriaco Otto Muehl, è stato uno dei performer più provocatori, violenti e spietatamente erotici della storia della body art. Nelle
sue opere fa uso di più generi espressivi, sperimentando i materiali, gli
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oggetti e riprendendo il concetto di ready-made, che rivisita in maniera
oltraggiosa: gli oggetti perdono il loro ruolo nativo, acquistano un nuovo
valore espressivo e durante le performance sono messi in condizione di
relazionarsi con i corpi, che subiscono maltrattamenti di varia natura e
mutano il più delle volte in un’orgia fisica, dove non mancano pratiche
sessuali molto violente. La sua arte vuole superare i tabù imposti dalla
società, è una vera e propria guerra aperta contro la pittura ed i processi
artistici tradizionali. Muehl, a proposito della sua arte, diceva:
La mia opera è pittura rappresentar, è auto-terapia resa visibile con cibi,
materiali commestibili. Essa agisce come psicosi determinata dalla mescolanza di corpi umani, oggetti, materiali. Tutto è pianificato. Tutto può
essere impiegato come materiale e come sostanza. Il colore non come colorante ma come pastella, liquido, polvere. L’uovo non come uovo ma come
sostanza vischiosa. Vengano sfruttate le associazioni che si ricollegano a
determinati materiali sia per la loro forma sia per il loro significato o per
il loro impiego usuale. […] Marmellata, cadaveri, macchine asfaltatrici.
Gli eventi si creano, i materiali penetrano nella realtà, il valore comune
non ha più senso, la marmellata diventa sangue, tutto diventa simbolo per
un altro evento.
Otto Muehl, Manifesto, Vienna, 1965
A Vienna, nel 1963, eseguì la sua prima azione, la Deturpazione di una
Venere, che lui stesso descrisse in questo modo:
Ho già pronta una tinozza come quella usata dai muratori per mescolare
la calce. Questa tinozza è tutto; letto, bara, pozzo, immagine, fogna, grembo. Al suo interno la vittima viene tagliata, sommersa seppellita. Credo
che niente abbia senso se non viene sacrificato, distrutto, smembrato, bruciato, trafitto, tormentato, molestato, torturato, massacrato, divorato, lacerato, tagliato, impiccato, pugnalato, distrutto o annientato. Dobbiamo
batterci per distruggere l’umanità, per distruggere l’arte...
Muehl gettava vernice e spazzatura sul corpo di una donna su uno sfondo
di rifiuti uniti come in un collage, sostituendo l’atto del dipingere con una
performance psicodrammatica che infrangeva i tabù legati al sesso e alle
pulsioni violente da esso generate:
Proprio perché vivo in un mondo tecnologicamente avanzato a volte sento
il bisogno di rotolarmi nel fango come un maiale. Ogni superficie pulita
mi spinge a sporcarla di vita vissuta. Ci cammino sopra a quattro zampe
spargendo sporcizia ovunque, fino a coprire ogni cosa… quando sono in
calore sciolgo i freni e getto tutto il fetore della mia anima sulla faccia
della gente. In questo modo porto la redenzione ai miei contemporanei e
a tutte le generazioni future.
Otto Muehl, Der Psycho-Physische Naturalismus “Das Intrem”, 1963
Otto Muehl, Descrizione di Deturpazione di una Venere, 1963
Agli inizi degli anni sessanta nacque il gruppo più dissacrante verso i tabù
e le leggi morali imposte dalla società – sesso, cibo, umori – è il gruppo
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degli Azionisti Viennesi, che praticano una sorta di riappropriazione del
corpo, liberando gli istinti repressi con azioni forti che colpiscono gli spettatori. Di questo gruppo facevano parte artisti come Hermann Nitsch con
gli interventi di carattere rituale, Günter Brus che integra alle sue azioni
l’ingestione di umori e l’uso di sangue, Rudolf Schwarzkogler con la sua
serie di azioni di disalineazione sessuale che lo portano alla castrazione,
ed il già citato Otto Muehl. La prima azione, Aktion 1, di questo gruppo
fu quella del 1962 in cui Nitsch, aiutato da Muehl e con indosso una tunica bianca, si fece legare al muro tramite degli anelli di corda, a braccia
aperte - simile a come era stato crocifisso Cristo – e si fece cospargere di
sangue. Questa azione la ripropose anche durante alcune performances
che facevano parte de Il Teatro delle Orge e dei Misteri, ne Castello di
Prinzendorf, in Austria, di cui era proprietario.
Gli Azionisti Viennesi scannavano animali morti e si cospargevano del
loro sangue e delle loro interiora. La morte ed il sacrificio erano gli aspetti
caratteristici delle loro performances. Gli artisti volevano suscitare nel
pubblico shock e disgusto. Lo scopo era quello di arrivare ad una catarsi
(dal greco kátharsis): nella Grecia Antica, l’intento della tragedia era proprio la purificazione degli spettatori dagli aspetti negativi della vita, grazie
alla messinscena della morte e del dolore.
Nella psicoanalisi, il metodo catartico utilizzato da Joseph Breuer e dopo
da Freud, consisteva nel portare alla luce traumi subiti dal paziente, chiusi
nell’inconscio.
In un’intervista Nitsch osserva:
È solo passando attraverso i più bassi istinti dell’uomo che può avvenire
la catarsi. Quando squartiamo un animale, sentiamo le sue viscere calde,
beviamo il suo sangue, ritorniamo in contatto con qualcosa di primitivo
che ci appartiene. È in questi momenti che esce fuori la nostra natura, che
non è né buona né cattiva, è semplicemente il nostro istinto. Può essere
anche violento, ma la violenza fa parte del mondo ed è meglio esorcizzarla
in un rito collettivo che reprimerla. Viviamo in una forma di depressione
latente, siamo anestetizzati. Le mie Azioni sono un modo per avvicinare
la vita alla morte ed è da questa esperienza che usciamo più forti. Ecco
perché la gente che partecipa mi ringrazia.
Hermann Nitsch, intervista per XL Repubblica, 2012
Nel 1971, Otto Muehl abbandonò la scena artistica per dedicarsi completamente ad una comune fondata da lui, dove veniva praticata una sessualità libera e senza inibizioni e a proposito della quale disse:
Tutto merita di essere esposto, anche lo stupro e l’assassinio. Il coito, la
tortura e l’annientamento dell’uomo e dell’animale sono l’unico dramma
che valga la pena di essere visto. L’assassinio fa parte integrante della
sessualità. Gli animali domestici serviranno da sostituti. Intendo commettere un assassinio perfetto su una capra, che servirà da sostituto a una
donna. Nei miei film a venire, gli umani saranno massacrati. Massacrare
gli umani non deve restare un monopolio di stato. Sarà presto un obbligo
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etico saccheggiare le banche e abbattere a caso uno storpio.
Otto Muehl citato da Jean Clair, in De Immundo, 2005
Il fenomeno dell’Abject Art (arte dell’abiezione) è stato consacrato con
una mostra storica presentata al Whitney Museum di New York nel 1993,
intitolata Abject Art: Repulsion and Desire, curata da Craig Houser, Simon Taylor, Leslie C. Jones, che ha fatto la fortuna del termine e dato
ampia risonanza ad artisti come Helen Chadwick, Paul McCarthy, Robert
Gober, Carolee Schneemann, Kiki Smith, Cindy Sherman, Sarah Lucas,
Damien Hirst, Jake e Dinos Chapman, e molti altri.
Il termine abicere (dal latino abiectus) significa gettare lontano da sé, buttare via: da qua l’idea di abietto, rifiuto. L’arte dell’abiezione sarebbe lo
stato di un’arte del rifiuto, di ciò che rimane dopo che tutto è andato buttato. Ci si interessa al corpo ed a i suoi umori: sudore, lacrime, unghie,
escrementi, sangue. Ma abicere vuol dire anche rifiutare, rinunciare ad
ogni autorità, abbandonare, disfarsi di qualcosa. In poche parole, racchiude tutto ciò che ha a che fare con il degrado e la degradazione. L’abiezione
è una categoria diventata centrale per comprendere alcune delle espressioni più potenti dell’arte oggi. Il termine ha cominciato a circolare nel
mondo dell’arte in seguito alla pubblicazione del libro di Julia Kristeva,
Pouvoirs de l’horreur. Essai sur l’abjection (Poteri dell’orrore. Saggio
sull’abiezione), in cui il concetto di abiezione viene costruito in relazione
al corpo e alle sue alterazioni, al decadimento, al cadavere e alla morte.
Kristeva descrive l’abiezione come il disgusto per un cibo, per una cosa
sudicia, per un rifiuto, per la spazzatura. Spasmi e vomito, che mi proteggono. Repulsione e conati che mi allontanano e mi distolgono dalla
sozzura, dalla cloaca, dall’immondo. Abiezione è lo stato di repulsione e
di rifiuto che colpisce l’uomo quando si trova a contatto con qualcosa che
gli si oppone e lo minaccia: è il fenomeno dell’allontanare, del gettare via
tutti gli elementi potenzialmente pericolosi, indesiderati e fastidiosi della
vita (rifiuti, scarti, insetti, escrementi…), e il relativo senso di disgusto
che ne deriva.
pelli, urina, sperma, saliva, sangue, escrementi, pus: tutti umori del corpo,
materiali organici espulsi da esso, rigettati. Possiamo definirli elementi
abietti. Perché gli artisti dovrebbero scegliere umori corporei come materiali fondamentali per la creazione delle loro opere? E perché mai dovrebbero finire in un museo, messi lì per poter essere guardati da un pubblico?
Cercherò di capirlo esaminando alcuni degli artisti più influenti di questa
corrente, in ordine non cronologico.
Andres Serrano, classe 1950, è un fotografo statunitense diventato famoso
per le sue immagini che ritraggono cadaveri, in cui utilizza spesso fluidi
ed umori del corpo come sperma, sangue e latte materno. Le sue opere sono molto controverse e provocatorie. In Blood Cross (1985) e Milk
Cross (1987), Serrano fa gocciolare da croci di plexiglass fluidi corporei,
rispettivamente sangue e latte. Una delle sue fotografie più famose è senza
dubbio Piss Christ (Cristo di piscio), scattata nel 1987: un piccolo crocifisso di plastica è immerso in un bicchiere pieno di urina dell’artista, che
afferma che in questi lavori l’uso dei liquidi corporali è analogo a quello
della chiesa con il sangue e il corpo di Cristo. Quando venne esposta nel
1989, suscitò un grande scandalo in tutti gli Stati Uniti, tanto da essere
portata come oggetto di dibattito in senato: non sorprende che l’opera fu
accusata di blasfemia e oscenità. In opposizione, i difensori dell’opera, la
definirono come pensiero ed espressione della società contemporanea nei
confronti dei valori che Cristo rappresenta. Verrà deturpata irrimediabilmente da parte di quattro giovani cattolici quando, durante l’esposizione I
Believe in Miracles ad Avignone, in Francia, il 17 aprile 2011 ne ruppero
il vetro protettivo.
Dalla fine del Novecento molti artisti scelgono di usare unghie, peli, ca28
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Non mi sono mai definito fotografo. Ho studiato pittura e scultura e mi
vedo come un artista con la macchina fotografica. Ho imparato tutto quello che so sull’arte da Marcel Duchamp che mi ha insegnato che tutto,
inclusa una fotografia, può essere un’opera d’arte.
Andres Serrano, biografia nel suo sito personale
Orlan, pseudonimo di Mireille Suzanne Francette Porte, è un’artista francese nata nel 1947 che nel 1964 iniziò il suo percorso da performer. Dal
1986 al 1993 si sottopose a varie operazioni di chirurgia plastica, tutte
documentate da video che poi rese pubblici. In questa serie di operazioni
ricerca una deformazione del proprio volto facendosi impiantare anche
protesi facciali come le corna, cercando di contrastare l’idea di bellezza
conforme imposta alle donne nei secoli. Conserva anche i resti organici
prodotti dalle operazioni, che inserì in dei contenitori da lei chiamati reliquiari, come se il corpo dell’artista fosse in qualche modo paragonabile alle reliquie dei santi. Parlerò del dualismo disgusto/santificazione più
avanti.
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L’italiano Piero Manzoni è famoso per aver messo in 90 barattoli di latta
numerati i suoi escrementi, come il cibo del supermercato, nel 1961. Il
titolo dell’opera è Merda d’artista, e sulle confezioni c’è un’etichetta tradotta in quattro lingue diverse (italiano, inglese, francese e tedesco) con
scritto “Merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale.
Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961” con la firma dell’artista. L’opera è l’unione del paradosso e della provocazione: Manzoni stabilisce un
costo per ogni scatoletta che equivale al peso dell’oro zecchino e non prevede che il fruitore dell’opera ne conosca il contenuto se non aprendola e
quindi distruggendo sia l’opera che il suo valore. Quando si dice trasformare la merda in oro. Quest’opera può essere considerata figlia dei concetti di derisione e di sfida al sistema dell’arte contemporanea che il padre
del dadaismo, Marcel Duchamp, aveva inaugurato quasi cinquant’anni
prima con i ready-made.
Vorrei che tutti gli artisti vendessero le loro impronte digitali, o che si facessero delle competizioni per vedere chi riesce a fare la linea più lunga,
o che tutti vendessero la loro merda in scatola (l’impronta è l’unico segno della personalità che si possa ammettere: se i collezionisti desiderano
qualche cosa di intimo, veramente personale dell’artista, ecco a loro la
merda).
Lettera di Piero Manzoni a Ben Vautier, 1961
Possiamo affermare che quest’opera vuole ironizzare sul valore commerciale dell’arte e sulla sacralizzazione degli artisti, e lo fa in una maniera
ritenuta ancora oggi disgustosa.
Se i peli, gli odori e gli umori sono ossessivamente respinti nella vita quotidiana, essi prosperano, nella maniera più vistosa, in quei momenti particolari che sono le manifestazioni artistiche.
Jean Clair, De Immundo, 2005
Precious Liquids di Louise Bourgeois è un’opera esposta a Venezia nel
1992 che esplora le meccaniche dei fluidi corporei – lacrime, urina, sperma, sangue, saliva – posti in alcune boccette di vetro appese al letto, in
risposta a forti emozioni: la maternità è suggerita dal liquido sul letto; il
cappotto, appeso in modo da rimandare ad una forma fallica, simboleggia
l’autorità paterna. La scritta incisa sulla fascia di metallo: “L’arte è garanzia di sanità mentale” rivela il pensiero guida dell’artista.
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Cindy Sherman è un’artista americana nata nel 1954, che trasforma il suo
aspetto fisico in modi grotteschi con abiti e trucco, combattendo i canoni
estetici tradizionali, per poi immortalarsi in scatti fotografici. Le sue opere
ritraggono bambole gonfiabili in posizioni o situazioni erotiche, clown
tristi, paurosi, volti ricoperti di insetti, anche se il soggetto reale è sempre
lei: rendono visibile l’assurdità del quotidiano, inscenando situazioni in
cui gli spettatori possono percepire gli stereotipi sessuali senza che se ne
rendano conto e per le quali non possono provare altro che disgusto. Il suo
volto diventa il manifesto dell’anti-selfie, che rifiuta ogni narcisismo. Uno
dei suoi scatti la ritrae con capelli di zucchero filato ed altri dolciumi che,
sistemati in quella maniera così esagerata, ricordando molto la chirurgia
estetica mal risucita, riescono anch’essi a risultare disgustosi. Molte di
queste opere sono state caricate sul suo profilo instagram (@cindysherman), dove possiamo notare che non si trasforma più solamente con il
trucco, ma anche sfruttando l’AR dei filtri presenti sui social network.
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Fin dagli anni settanta, Robert Gober ha esplorato sessualità, religione,
politica e intimità nelle sue sculture, usando cera d’api e peli umani. Rappresenta oggetti domestici, della vita quotidiana o parti del corpo sottoposte a processi di metamorfosi. Un’opera importante del 1991 è senza
dubbio Untitled: un calco iperrealistico in cera della gamba dell’artista,
con tanto di calzino e scarpa, ricoperta minuziosamente di veri peli umani
e sulla quale sorge una candela. La gamba è in terra e sporge dal muro. La
scena che si presenta allo spettatore è decisamente sconvolgente. L’artista
ha ricordato la sua ispirazione con questo aneddoto:
Ero su questo minuscolo aeroplano seduto accanto a questo bell’uomo
d’affari, e i suoi pantaloni erano tirati sopra i suoi calzini, e in questo
momento sono rimasto trafitto dalla sua gamba.
Robert Grober, a proposito dell’opera Untitled, n.d.
Un’altra opera famosa ricoperta di peli, ma ben più datata (1936), è la
Colazione in pelliccia di Meret Oppenheim. Molti artisti surrealisti ne
rimasero incantati, tanto che André Breton decise di esporla alla prima
mostra surrealista dedicata agli oggetti: al momento della presentazione
al pubblico, l’oggetto fu assaltato da teorie, desideri e paure. Era la stessa
epoca di Freud, e quindi era inevitabile l’interpretazione sessuale: la tazzina ricordava una vagina, il cucchiaino una forma fallica, il tutto ricoperto
da pelo pubico. Alcuni provarono disagio nel vedere un oggetto raffinato
tramutato in qualcosa di disgustoso e grottesco, ad altri, al pensiero di dover avvicinare il cucchiaino peloso alla bocca, venivano in mente sensazioni sgradevoli; ci furono persone a cui vennero addirittura conati di vomito. Come il critico d’arte Will Gompertz scrive nel suo libro What are
looking at? del 2012: due materiali incompatibili sono stati messi insieme
per creare un recipiente che crea disagio. La pelliccia è piacevole al tatto,
ma disgustosa quando si appoggia alla bocca. Vorresti bere dalla tazza e
mangiare dal cucchiaino – questo è il loro scopo – ma la sensazione della
pelliccia è rivoltante. È esasperante.
L’effetto dell’incontro con una parte del corpo inspiegabilmente mozzata
in un contesto museale è inquietante, a tratti malinconico e, per Gober, profondamente radicato in crisi di mortalità, in particolare quella dell’AIDS.
Mentre le associazioni falliche della candela sporgente sono innegabili,
l’opera indica il senso del tempo che scorre e dei corpi che si sciolgono.
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Matteo Ingrao si definisce creatore di irsute e peculiari sculture pseudo-umane. E’ uno scultore contemporaneo belga, autodidatta, che sperimenta e
mostra la pelle umana in tutte le sue forme, focalizzandosi particolarmente sulle sue irregolarità e alterazioni. Le sue sculture di silicone si ispirano
alle origini primitive e selvagge dell’uomo ed alla deformazione umana
– la sindrome dell’ipertricosi è un tema ricorrente nei suoi lavori. Le sue
opere suscitano nel pubblico il desiderio di toccarle, ma allo stesso tempo
abiezione e disagio.
I capelli sono il tocco finale che dà vita all’intero pezzo di silicone. Non
credo sia difficile creare disagio in quanto esiste un’avversione universale
per i capelli nella società odierna. In una società in cui c’è una tendenza
verso - e la normalizzazione - del pulito e liscio, i peli del corpo evocano immagini di sudiciume, ferocia e maleodorante. Un pezzo realistico
di pelle di silicone da solo crea confusione nella mente dello spettatore e
i capelli veri, una volta inseriti nel modo più naturale possibile, aggiungono un disturbo rispetto alle norme accettate. Tendo anche a idratare e
bagnare i capelli in quanto sembra aumentare il disgusto.
Intervista di Katharina Lina a Matteo Ingrao, per Infringe Magazine
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L’inglese Damien Hirst è nato nel 1965 a Bristol ed è tra i più celebri
artisti contemporanei. E’ l’esponente principale degli Young British Artists (YBA), un gruppo di artisti affermatosi negli anni novanta per i loro
contenuti controversi e coinvolgenti. La sua ricerca artistica si incentra su
temi come la morte in modo particolarmente originale e provocatorio: la
fragilità della vita e l’inevitabilità della morte sono il punto di partenza
del contrasto che anima la sua ispirazione, realizzando opere i cui pareri
sono sempre discordanti. Questi suoi interrogativi e riflessioni sul connubio vita/morte sono stati influenzati dalla visita che fece all’obitorio di
Leeds nel 1981, quando era ancora ragazzo. Nelle sue opere usa spesso
carcasse di animali morti, imbalsamati o immersi in formaldeide.
La sua prima opera realizzata con un animale, diventata anche il manifesto
della sua poetica, è stata la criticatissima The physical impossibility of death in the mind of someone living (L’impossibilità fisica della morte nella
mente di un essere vivente), del 1991: Hirst comprò per 6000 dollari uno
squalo tigre lungo quattro metri da un pescatore australiano, che provvide
a catturarlo, imballarlo e spedirlo all’artista, il quale usò 848 litri di formaldeide in 200 siringhe per imbalsamarlo. Fu esposto per la prima volta
nel 1992 alla Galleria Saatchi di Londra, durante la prima di una serie di
esposizioni degli YBA. Lo squalo tigre, se incontrato vivo mentre siamo
in mare, ci spaventa. Morto ed imbalsamato, invece, possiamo guardarlo,
osservarlo senza pericolo. Questo può ricondurre al pensiero di Burke di
cui ho scritto nel capitolo precedente, al suo concetto di sublime e del pericolo, che tratta nel suo testo Ricerca sull’origine delle idee del sublime
e del bello: lo squalo, da morto, non è pericoloso, per cui non si prova
alcun sentimento di sublimazione nei suoi confronti, e non rimane quindi
altro che una sensazione di disgusto e di repulsione nello spettatore che si
trova ad osservare l’opera, poiché è consapevole di non essere soggetto a
nessun rischio. Il sublime è comunque presente in questa opera e lo si può
ritrovare nella brutalità della morte: non è l’eternità dello squalo a farci
effetto, ma il paragone di essa con la nostra mortalità: tutti moriremo, tutti
saremo bloccati in quell’attimo post mortem, come lo squalo. Quest’opera
negli anni successivi verrà inserita in una serie, di cui fanno parte anche
capre, maiali, mucche – tutti in immersi in formaldeide, tutti con lo stesso significato. Più tardi realizza un altro squalo, esattamente identico al
primo, e lo vende per un prezzo più alto dell’originale, confermando che
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l’opera non è la scultura fisica (lo squalo), ma lo shock dell’essere messi
di fronte alla morte.
In un’intervista di Liam Gillick nel 1990, disse:
Non vedo l’ora di arrivare ad avere una posizione in cui posso realizzare
della brutta arte e farla franca. Al momento se facessi certe cose le persone le guarderebbero, farebbero le loro considerazioni e poi direbbero “Ma
vaffanculo!” Ma dopo un po’ puoi farla franca con queste cose.
Damien Hirst, intervista di Liam Gillick, 1990
Nel 2010, venti anni dopo questa affermazione, commentò a proposito:
Marc Quinn, londinese nato nel 1954, è anche lui membro degli YBA.
Tra le sue opere vorrei soffermarmi su Self (Sé), una scultura della testa dell’artista realizzata con 4,5 litri del suo sangue congelato, prelevato
dal suo corpo nell’arco di cinque anni. La descrive come un momento
congelato in supporto vitale, ed è mantenuta in cautelata refrigerazione,
ricordando allo spettatore la fragilità dell’esistenza. Realizza una nuova
versione di quest’opera ogni cinque anni, ognuna documentata dalla trasformazione e dall’inevitabile deterioramento della condizione fisica di
Quinn.
L’opera, fino al momento in cui non ci viene detto di quale materiale sia
fatta, non ci provoca disgusto: è una semplice raffigurazione iperrealistica, un autoritratto dell’artista: è la consapevolezza del materiale a renderci
disgustati da ciò che abbiamo davanti.
Non penso che succeda davvero. Persino una cattiva idea diventa una
buona idea. Credo nella libertà, volevo essere nella condizione di fare di
tutto, questo è il senso di quell’affermazione. Malgrado avessi avuto l’idea di realizzare una gigantesco pezzo di cacca in bronzo lungo quaranta
piedi e di intitolarlo “Senza titolo – numero 2”.
Damien Hirst in Art is childish and childlike, di Elizabeth Day, 2010
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L’artista praghese Jana Sterbak (1955), che dal 1968 vive in Canada, è
nota per la realizzazione di opere con la carne cruda, ed è considerata
una delle maggiori esponenti dell’indagine corporale contemporanea. La
sua indagine si basa sul corpo inteso come gabbia, prigione, ed usa forme
d’arte come performance, installazioni, video e fotografie. Le sue installazioni sono sculture realizzate con metalli o carne animale, cruda e maleodorante. Una delle sue opere più importanti è del 1987 ed è intitolata
Vanitas: Flesh Dress for an Albino anorexic, un vestito fatto di carne bovina disidratata e muscoli, cuciti su una base di fil di ferro. Quest’opera
è potente per più sensi (vista ed olfatto), e inutile dire che la sensazione
a prima vista è di disgusto nauseante ed abiezione. E’ una metafora che
mette in scena quel che resta dopo un’apertura verso l’Altro, che ci ha resi
vulnerabili, ci ha strappato via la pelle, facendoci mostrare per quello che
siamo veramente, per quel che resta: non siamo altro che la nostra carne.
Carne come simbolo dell’eros, ma anche della morte e della putrefazione.
Voglio farvi sentire come mi sento io; c’è del filo spinato attorno alla mia
testa e alla mia pelle graffia la mia carne all’interno.
Jana Sterbak, n.d.
Un’altra opera simile è Chair Apollinaire, del 1996: una poltrona rivestita
di carne cruda, sempre con la solita struttura di fil di ferro. Anche questa
assume il solito significato metaforico di Vanitas.
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L’opera più controversa dell’italo-americano Vito Acconci (1940 – 2017)
è sicuramente Seedbed, una performance eseguita per la prima volta alla
Sonnabend Gallery di New York nel 1972: una rampa di legno si estendeva per tutta la larghezza della stanza, scendendo obliquamente verso
il centro del pavimento. Il pubblico camminava sopra a questa rampa in
uno spazio vuoto. L’artista, nascosto tra la rampa ed il pavimento, si masturbava e rendeva pubblici i suoi godimenti e le sie fantasie tramite degli
altoparlanti all’interno della stanza.
In questa leggendaria scultura/performance Acconci giaceva sotto una
rampa costruita nella Sonnabend Gallery. Nel corso di tre settimane si è
masturbato otto ore al giorno mormorando cose come “Mi stai spingendo
la fica in bocca” o “ Mi stai ficcando il cazzo nel culo.” Non solo l’intervento architettonico fa presagire gran parte del suo lavoro successivo, ma
tutte le fissazioni di Acconci convergono in questo, lo sfintere spirituale
della sua arte. In Seedbed, Acconci è il produttore e il riceve il piacere del
lavoro. È contemporaneamente pubblico e privato, lascia segni ma lascia
poco indietro e dimostra un’ultra consapevolezza del suo spettatore mentre si trova in uno stato di semi-trance.
Jerry Saltz parla dell’opera Seedbed di Vito Acconci, n.d.
L’opera verrà interpretata anche da Marina Abramovic, nel 2005, al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, nella sua Seven Easy Pieces.
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La tangibilità del Disgusto
Date queste considerazioni, esplorerò alcune opere non tangibili, per cercare di capire quale delle due teorie sia più appropriata nei confronti del
disgusto.
Durante la stesura di questa tesi, dovendo produrre anche un elaborato
artistico con gli strumenti che ho acquisito nel mio percorso di studi, ed
essendo la maggior parte di essi virtuali, mi sono soffermata sull’impossibilità dei miei strumenti di produrre qualcosa che provochi disgusto:
essendo l’opera virtuale e di conseguenza non tangibile, come può questa
trasmettere senso di disgusto e di repulsione negli occhi di uno spettatore?
Ho così ricercato l’esperienza virtuale e non tangibile di questo sentimento, soffermandomi sul concetto di Kant che ho già citato nel primo capitolo, il quale dice che la rappresentazione di un qualcosa di disgustoso ci
provoca lo stesso effetto che ha su di noi la presentazione stessa di quel
qualcosa: è il principio del concetto che riprende e capovolge Magritte nel
1928, con la sua opera Ceci n’est pas une pipe (Questa non è una pipa), il
quale vuole comunicare che la raffigurazione o l’immagine di un qualsiasi
oggetto, in questo caso la pipa, non deve essere confusa con l’oggetto
stesso, quello reale e tangibile. Quest’opera mette in discussione il concetto di rappresentazione: nessuno potrà mai utilizzare la pipa raffigurata
nel quadro, non uscirà mai del fumo da questa. La nostra ragione è quindi
spesso sbagliata, e ci fa comodo dire che quella è una pipa perchè ci semplifica la vita e, quindi, la realtà.
Jon Rafman, nato nel 1981, è un artista canadese che concentra il suo
lavoro sull’impatto socio-esistenziale ed emotivo della tecnologia nell’arte contemporanea. Nel 2016 presenta in anteprima alla galleria Sprüth
Magers di Berlino il suo lungometraggio animato Dream Journal, interamente realizzato al computer in grafica 3D. Nel film, ispirato ai suoi sogni
e incubi, accadono episodi improbabili, grotteschi e ripugnanti. Rafman
esplora gli effetti della tecnologia e di Internet sulla psiche umana, definendo il suo processo di lavorazione come una forma di costruzione del
mondo, cercando di creare una visione – riproposta in chiave moderna
- simile ai quadri dell’artista fiammingo rinascimentale, Hieronymus Bosch, portando alla luce il nostro attuale inferno. Durante la visione del lungometraggio sono presenti scene grottesche in ambienti distopici, come
assassinii, zoofilia, mostri, figure antropomorfe come teste mozzate con
le ali di pipistrello, donne-macchine, uomini col corpo di foca, e ancora
oggetti ricoperti di insetti, persone che fanno i propri bisogni di fronte
ad un pubblico disgustato, messe sataniche, e molto altro. Il film, con la
grafica volutamente grossolana, simile a quella di un videogioco, porta lo
spettatore in uno scenario onirico ma anche perverso, in qualche modo
familiare, che induce ad un confronto delle stranezze dell’artista con le
proprie, pur suscitando sentimenti disturbanti, d’angoscia e di disgusto.
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Nel 1972, il re del trash, il regista John Waters realizza uno dei suoi più
grandi capolavori, un’opera considerata tuttora avanti nel tempo: Pink
Flamingos (il fenicottero rosa nella cultura, soprattutto quella americana,
è l’oggetto simbolo del cattivo gusto). La protagonista del flm è Babs
Johnson (Divine, un personaggio di cui scriverò più avanti), una grassa
Drag Queen, orgogliosa di detenere il titolo ufficiale di persona più disgustosa del mondo. Una coppia di amanti pervertiti, Raymond e Connie
Marble, pensano di meritarsi quel titolo di schifo assoluto più di lei, e per
accaparrarselo iniziano a rapire ragazze che segregano nella cantina, per
farle fecondare da Channing, il domestico, i cui figli vengono in seguito
venduti a coppie lesbiche. Coi soldi ricavati mandano avanti il loro pornoshop, e finanziano lo spaccio di eroina nelle scuole elementari del quartiere. Quando i Marble decidono di sfidare Babs e la sua famiglia - composta
da una madre infantile e dipendente dalle uova, un figlio che si rivela un
maniaco sessuale, Crackers, e una strana compagna di viaggio di nome
Cotton - scoppia una lite folle tra le due famiglie, che si combattono in
ogni modo possibile il titolo, all’insegna di violenza, disgusto e oscenità.
Credo che fondamentalmente i miei genitori abbiano un ottimo gusto nella
vita reale, e che quindi questa cosa sul cattivo gusto sia stata una reazione
contro il fatto che continuavano a dirmi di avere buon gusto e cose del
genere; io credo che per apprezzare il cattivo gusto sia necessario avere
del buon gusto, quindi penso che i miei genitori mi abbiano senz’altro
insegnato il buon gusto, cosa che mi ha reso estremamente più facile valutare e produrre umorismo sul cattivo gusto. […] Ho messo tutta questa
roba in Pink Flamingos perché avevo soltanto dodicimila dollari con cui
realizzare il film e dovevo inserirci delle cose che avrebbero spinto la gente ad andare a vederlo. Inoltre ho pensato che la gente dice sempre: «ma
va a mangiare merda», e così ho pensato di farlo vedere. Questa è stata
l’unica differenza, in effetti la gente ha sempre usato espressioni del genere. Inoltre, sapevo che sarebbe stato il primo e l’ultimo esempio nella
storia cinematografica, che nessun altro avrebbe osato ripetere una cosa
del genere, e che non era mai stato fatto prima. Però volevo che, una volta
uscita dal cinema, alla gente rimanesse come ultima immagine proprio
questa: dovevano ricordarsela; è come una di quelle battute pubblicitarie
memorabili. [...] L’intera cosa è sempre stata uno scherzo.
Il principe degli schifosi. Intervista a John Waters,
condotta da Vito Zagarrio a Baltimore, dicembre 1982
Il fine della pellicola è scioccare lo spettatore spingendosi oltre i limiti
del pudore e del disgusto, usufruendo di tutto quello che è riprovevole e
di dubbia morale, finendo per sembrare un’estremizzazione all’opposto
della società di oggi. Qualsiasi cosa venga mostrata nel film - cannibalismo, stupro, coprofagia e pornografa - è senza censura e, anzi, mostrata
dettagliatamente. Questo porta il film ad essere una geniale e provocante commedia grottesca e piena di eccessi, considerata “il film queer più
importante di tutti i tempi”. In Italia non è stato distribuito, ma nel 2006
qualche anima buona ha caricato su YouTube una versione sottotitolata
in italiano. In Svizzera e in Australia, come anche in alcune province del
Canada e della Norvegia, fu bannato al momento della sua distribuzione.
In ambito letterario, lo scrittore boemo Franz Kafka (1883 – 1924) attraverso i suoi romanzi fa entrare lo spettatore in un’atmosfera diversa,
perturbante, che mette in scena il suo dramma personale ma anche quello
dell’individuo moderno, lasciandoci navigare tra finzione ed autobiogra48
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fia. Una sorta di piacere per il perverso ed il ripugnante entra a far parte
dei suoi romanzi senza che il lettore se ne accorga, rimanendo invisibile
e non tematizzabile: l’illeggibilità del ripugnante, anche se esposto alla
vista, permette a Kafka di far gustare innocentemente al lettore un inferno
dei sensi.
Poco prima della pubblicazione de La Metamorfosi, nel 1915, l’autore
inviò una lettera all’editore cercando di convincerlo a non raffigurare l’uomo-scarafaggio, Gregor Samsa:
Non lo scarafaggio, soprattutto non lo scarafaggio! […] sulla base della
mia conoscenza naturalmente più corretta del racconto, la prego di non
disegnarlo […] l’insetto in sé stesso non può essere disegnato. Ma non
può neanche essere mostrato da lontano.
Come suggerisce la difficoltà di artisti, illustratori e registi nel fare una
trasposizione visiva dall’universo dei romanzi e dei racconti, l’irrappresentabilità dello scarafaggio de La metamorfosi è comune a molte immagini e situazioni kafkiane. La scrittura di Kafka costruisce la visione
dei suoi oggetti attraverso uno stile di sottrazione alla vista e ai sensi di
ciò che descrive; tutto ciò non è casuale, ma si costruisce intorno ad uno
specifico tipo di rappresentazione: tutto ciò che, come lo scarafaggio, appartiene all’ambito del disgustoso, dell’osceno, del perverso.
Il ripugnante nelle sue opere non è mai il tema centrale, anche se descrive
e propone ossessivamente e di continuo riferimenti a processi alimentari
disgustosi, sessualità perverse, corpi degradati, mutilati, ambienti sporchi
e nauseanti. La scrittura di Kafka è in grado di trasformare l’osceno e il
disgustoso in qualcosa, che anche se liberamente esibiti, rimangono intangibili.
Franz Kafka, lettera all’editore de La Metamorfosi, 1915 ca.
Dovrei poter inventare parole capaci di soffiare il fetore di cadavere in
una direzione di modo che non arrivi subito in faccia a me e al lettore.
Franz Kafka, Diari (1910 – 1923), 1949
Questa capacità di disperdere il “fetore” di una rappresentazione è ciò
che il tedesco Winfried Menninghaus, nel capitolo dedicato a Kafka del
suo trattato Ekel. Theorie und Geschichte einer starken Empfindung (Disgusto. Teoria e storia di una sensazione forte), del 1999, definisce come
radicale desincronizzazione del contenuto effettivo dell’azione e degli effetti inerenti alla rappresentazione. Con il metodo di contestualizzazione
e stilizzazione, Kafka è in grado di posticipare l’effetto estetico delle sue
rappresentazioni disgustose, e di rendere quasi invisibile l’esibizione di
pratiche e oggetti abietti. Questo metodo di scrittura è ciò che lo studioso
tedesco Friedrich Beissner definisce prospettiva narrativa univoca, ovvero, la sovrapposizione tra la coscienza narrativa in terza persona e la
prospettiva del protagonista: se questo non si cura delle oscenità che lo
circondano ed i lettori conoscono solo quello che il protagonista percepisce, allora saranno anche loro portati a trascurare il “fetore” del racconto.
Ne Un Digiunatore l’autore descrive il corpo degradato di un digiunatore,
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rinchiuso in una gabbia piena di paglia putrida in cui reprime a fatica il
vomito, ma questo disgusto è addolcito dal fatto che il racconto sia narrato
dal punto di vista del digiunatore, il quale enfatizza il suo essere un artista
incompreso, sublime. Possiamo affermare quindi, che romanzi di Kafka
presentano esplicitamente situazioni ripugnanti, ma che vengono sublimate dal punto di vista assoluto dei vari protagonisti.
guanto, tutto il mondo sarebbe disgustato. E’ bizzarro. Non siamo ancora
capaci di accettarci nella nostra globalità.
David Cronemberg, Cahiers du cinèma, 1989
Un altro canadese, classe 1943, è il regista David Cronemberg, colui che
ha portato fino all’estremo la riflessione sul corpo e le sue mutazioni. Una
delle cose che colpiscono lo spettatore e che si ripete in quasi tutti i suoi
film è l’inconsueta ed intensa sporcizia dei set: si ha la sensazione che
quegli spazi utilizzati per le riprese dei film siano stati precedentemente
vissuti, consumati, usati. Sembra che qualcuno ci abbia sudato, scopato,
lavorato, depositato i suoi umori, i suoi escrementi. I suoi luoghi sono
esattamente l’opposto degli interni asettici ed impersonali che si trovano
in altri film o serie televisive. Il curatore e professore italiano Gianni Canova, nel libro dedicato al regista, scrive appunto che non è questione di
realismo, beninteso: paradossalmente, nella società del genocidio degli
odori e dei sapori, del trionfo del deodorante sotto ogni ascella e del brillantante in ogni cucina, le scene di una qualsiasi puntata di Beautiful o
il set del più insulso ed edulcorato dei film italiani sono infinitamente più
realistici (cioè falsi, ma squallidamente verosimili) del più “realistico”
dei film di Cronemberg.
Cronemberg non imita il reale, non riproduce il mondo così com’è o come
pensiamo che sia, ma progetta mondi, luoghi e storie che non sono, ma
che potrebbero essere. Contamina gli opposti – l’uomo e la macchina, il
reale e il virtuale, il maschile e il femminile, il sano e il malato. Sempre
Canova, a proposito del regista, scrive una riflessione che io non avrei
saputo dire con parole migliori:
Mi interessano molto i documentari sull’interno dei corpi. Mi sembra
strano che quando si apre un corpo umano per la maggior parte delle
persone sia ripugnante. Perché? Siete voi, sono io! Come potete trovare
ripugnante il vostro stesso corpo? E’ ciò che voi siete! Abbiamo bisogno
di una nuova estetica per l’interno dei corpi. Quando si trova bella una
donna, non si pensa che alla superficie... ma se la si rigirasse come un
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Un giorno bisognerà pur decidersi a classificare i cineasti anche in base
al tono materico prevalente nelle loro visioni, o alla sensazione immediata
(tattile gustativa e olfattiva, oltre che audio-visiva) che le loro immagini
trasmettono al sistema percettivo dello spettatore. Allora, accanto ai cineasti del patinato e del luccicante (la maggioranza di quelli che hanno
lavorato e prodotto negli anni Ottanta), accanto ai poeti del fiammeggiante (David Lynch) o del bagnato-caliginoso (Ridley Scott), del polveroso
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(Clint Eastwood) o del porcellanato (James Ivory), bisognerà riconoscere
in Cronemberg uno dei pochi che hanno lavorato soprattutto sull’unto e
sul sudato, sull’appiccicaticcio e sul vischioso, sull’umido e sul carnoso.
Può sembrare paradossale in un cineasta noto anche per lo scrupolo e
per la tensione con cui riflette e lavora sulle tecnologie e sui feticci della
società dell’immateriale (dal video al computer alla realtà virtuale), ma la
grandezza del regista canadese sta proprio nell’aver ritrasformato il nuovo verbo tecnologico in carne, cioè nell’aver – appunto – corporeizzato la
tecnologia: e non solo perché le capsule del teletrasporto di The Fly (La
mosca) sono ovaie metalliche e cavità uterine elettroniche, perché gli attrezzi ginecologici dei gemelli Mantle in Dead Ringers (Inseparabili) sono
perfidamente ergonomici e per ciò stesso “organici”, perché lo schermo
televisivo di Videodrome è molle, caldo e invitante come due rosse carnose
labbra di donna o perché le macchine per scrivere di Naked Lunch (Il pasto nudo) sono a tutti gli effetti dei corpi animali parlanti. No, non è solo
questo. La pan-corporeizzazione attuata da Cronemberg va molto più in
là: e sta nel fatto che Cronemberg riesce a trattare (e a farci vedere) qualsiasi cosa, dal più banale degli oggetti alla più comune camera da letto,
come se fossero organismi viventi. Cioè come corpi organici segnati dagli
stessi processi metabolici, idraulici, patologici e soprattutto dinamici del
corpo umano.
Gianni Canova, David Cronemberg, 1993
Cronemberg quindi tratta la materia come un essere, perché è consapevole
che ogni immagine di questa, in quanto corpo, è instabile, metamorfica ed
effimera. A differenza di altri registi, i quali si limitano a mostrare o decorare, lui penetra dentro all’immagine seguendone il flusso e la mutazione,
mostrando un’immagine che invecchia, che decade, si rovina.
E’ interessante vedere film come Videodrome (1982) dove il regista presenta una profonda riflessione sul rapporto del cinema con gli altri media
e con il corpo degli spettatori: Cronemberg riflette sul consumo tossico
delle immagini visive e televisive, e delle modificazioni fisiche che queste
stanno svolgendo sull’apparato percettivo umano. Ormai siamo abituati
a considerare la videocamera come una capsula di informazioni che tendiamo sempre a credere vera, dando fiducia alle immagini che vediamo
come se fossero i nostri stessi sensi. Lo scrittore Serge Grünberg scrive a
proposito del film La zona morta (1983):
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Presi dalla narrazione e dall’aspetto patetico del personaggio di Johnny,
non dubitiamo mai delle sue visioni. Quando egli decide di assassinare il
candidato, noi lo seguiamo totalmente, sperando che il colpo del suo fucile fracassi il cranio di questo pericoloso paranoico. Certo, noi sappiamo
dal versante “naturalista” del film che questo individuo mediocre è un
dermagogo. Ma che cosa sappiamo delle visioni di Johnny? Che cosa ci
fa pensare che siano vere? Molto semplicemente crediamo alle immagini
e siamo da tempo contaminati dal virus hollywoodiano […] che ci spinge
a trasformarci in giudici e a decidere della vita e della morte dei personaggi.
Serge Grünberg, Cahiers du cinéma, n.d.
Significa quindi che, nonostante il regista illustri le visioni di Johnny
come soggettive, lo spettatore è portato ad immedesimarsi ritenendo queste visioni oggettive e vere, dal momento che alcune delle immagini del
film – le visioni – si sono rivelate effettivamente vere: era davvero rotto il
ghiaccio dove Chris doveva pattinare, aveva davvero preso fuoco la casa
dell’infermiera.
Per Cronemberg, l’unica realtà è quella che percepiamo con i nostri sensi,
anche se nella nostra epoca, l’epoca delle immagini virali, non basta più
la percezione, ma dobbiamo interrogarci sul senso di questa: cosa vediamo quando guardiamo un film? Con gli occhi di chi, stiamo percependo
il mondo raccontato nel film? Queste sono le domande il punto focale di
tutto il cinema di Cronemberg, in particolar modo Videodrome e La zona
morta.
Credo che queste visioni cinematografiche e letterarie siano sufficienti per
poter concludere la riflessione presumendo che, ciò che innesca l’emozione di disgusto non sia la sua tangibilità o meno, bensì la possibilità
d’immedesimazione dell’essere umano stesso all’interno di una situazione, come ad esempio un racconto o una narrazione.
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Sacer: disgusto e santificazione
La reliquia è ciò che resta quando non c’è più nulla. Denti, ossa, peli,
capelli sono ciò che sopravvive alla putrefazione del corpo e vengono
definiti appunto, reliquie, perché sono il “marchio” di un’identità che non
esiste più: un capello, secoli o millenni dopo che il corpo è tornato alla
polvere, può ancora dare tante informazioni sulla persona che lo portava,
per esempio cosa mangiava, o di cosa è morto. Le reliquie sono la testimonianza, in un certo modo – e a differenza della carne - dell’eternità
dell’esistenza dell’individuo.
Generalmente sono conosciute e sacralizzate le reliquie religiose perché
sono considerate tracce fisiche e materiali dell’incarnazione di Dio, o resti
di parti del corpo di santi o martiri. Il contatto visivo con questi oggetti,
ma soprattutto lo sfioramento o addirittura il bacio di essi dovrebbe permettere di farsi trasmettere la carica sacrale che contengono. Uno degli
elementi più frequenti tra le reliquie è il sangue, l’umore nobile per eccellenza, sede della vita, e ciò che Cristo ha versato per noi; l’ampolla col
sangue di San Gennaro a Napoli è solo una delle tante reliquie di sangue in
giro per l’Europa. Gli altri umori sono invece considerati semplici secrezioni - saliva, sperma, bile - ed escrezioni - lacrime, urina, muco, feci – del
corpo, che non potrebbero mai essere sacralizzati in reliquie.
Un esempio di reliquiario è l’autoritratto fatto del sangue congelato
dell’artista che ho citato più indietro, Marc Quinn. Ma nel capitolo sul disgusto nell’arte, ho parlato anche di artisti come Orlan, che conserva i suoi
resti organici dalle operazioni chirurgiche e li inserisce in contenitori che
definisce reliquiari – come se il suo corpo fosse paragonabile alle reliquie
dei santi, o di Manzoni che considera il vero valore simbolico di un’opera
risieda nel rapporto con il corpo dell’artista – è lui che viene sacralizzato
dal mercato. Molti artisti giocano su questa ambiguità legata alla reliquia
e alla sua gerarchia, servendosi dei loro umori e dei loro escrementi per
produrre opere d’arte. Anche l’opera di Louise Bourgeois, Precious Liquids, è un reliquiario con cui rende omaggio agli umori corporei, che
venera, come venera il suo corpo: il corpo della donna secerne per natura.
A proposito della Bourgeois, Jean Claire scrive:
La donna è umida in notevole grado. Piange spesso, urina frequentemente, ha le sue perdite, i mestrui, le sue schiume, i suoi flussi. […] E se “sbava” e lascia uscire dei vapori, è proprio perché, come la Mona Lisa di Duchamp, ha il culo e il sesso vicino, suo “locatario”, posti su un braciere.
La donna crea l’informe. Per lo meno agli occhi del fantasma maschile. E’
caos, apertura, tenebra, umidità; ma crea anche il bambino. Come collegare il bambino e l’informe? La vita e la morte? Il sessuale e l’anale? La
donna può farlo, così sembra, e un’artista donna, come Louise Bourgeois,
meglio dell’uomo artista.
Jean Claire, De Immundo, 2005
Si può fare della merda una reliquia? Si può dichiararla “preziosa” come
Louise Bourgeois dichiara preziose le secrezioni conservate nei suoi flaconi? Lo scopo ultimo dell’arte “satanocratica” di oggi, nel senso in cui
l’intendeva Panofsky nel 1940, consisterebbe nel rendere questo residuo,
che, con imbarazzo, uno lascia dietro a sé, un frammento corporale da
trattenere, da conservare, da onorare, da amare, da adorare? Possiamo,
dell’escremento che abbiamo rigettato, scostato, di questo “non-noi”,
fare un oggetto che abbiamo amato e che conserveremo come si conserva
un “cadavere amato”?
Jean Clair, De Immundo, 2005
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Piero Manzoni attribuisce all’artista e al suo corpo un valore sacro, non
solo con la sua Merda d’Artista, ma anche con Fiato d’Artista (palloncini
gonfiati col suo fiato, sigillati e fermati su una base di legno), o le Impronte, o le firme sulle persone, alludendo sempre al culto delle reliquie:
In un progetto precedente intendevo produrre fiale di “sangue d’artista””,
inoltre “nel ’61 ho cominciato a firmare, per esporle, persone. A queste
mie opere, do una “carta di autenticità”. Sempre nel gennaio del ’61 ho
costruito la prima “base magica”: qualunque persona, qualsiasi oggetto
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vi fosse sopra era, finché vi restava, un’opera d’arte.
Piero Manzoni, Alcune realizzazioni - Alcuni esperimenti - Alcuni progetti, 1962
Nel 1917 il teologo Rudolf Otto pubblica la prima edizione di Das Heilige
(Il Sacro), unanimemente riconosciuto come un classico della saggistica
religiosa che ha considerevolmente influenzato il Novecento. Il libro offre
una fenomenologia dell’esperienza religiosa portando alle dimensioni costruttive di quest’ultima: il senso del mistero che caratterizza il rapporto
dell’uomo col divino, che lui definisce il numinoso. Questo rappresenta
la duplice esperienza del totalmente altro, che da un lato intimorisce e
respinge (tremendum) e dall’altro affascina ed attrae (fascinosum). Otto
scrive che è sacer ciò che in un essere vivente o in un oggetto appartiene contemporaneamente al mondo del sacro e a quello dell’osceno, della
consacrazione e della censura, del tabù e dell’intoccabile, del riserbo e
del rifiuto. Nel sacer si mescola la santificazione e il disgusto, ovvero
la venerazione e l’orrore. Mundus e immundus. Il mundus è il mondo, il
puro, il pulito; l’immondo è lo sporco, l’impuro. Questo mescolamento tra
sacro e impuro fu definito come concetto di tabù qualche anno prima dello
scritto di Otto, più precisamente nel 1905, dal filosofo Wilhelm Wundt.
Nel 1912 anche Sigmund Freud pubblicherà un’opera la quale tratta questi temi, intitolata Totem und Tabu: Einige Übereinstimmungen im Seelenleben der Wilden und der Neurotiker (Totem e tabù: somiglianze tra vita
mentale dei selvaggi e dei nevrotici). Totem, in etnologia, sono uno o più
individui (solitamente di specie animale, ma anche piante o fenomeni naturali) che un gruppo umano considera sacro, il proprio spirito protettivo;
tabù invece deriva dalla parola polinesiana tapu, un termine che significa
“proibito”. Per Antoine Meillet ed Alfred Ernout, che nel 1932 scrivono
il Dictionnaire étymologique de la langue latine (Dizionario etimologico
della lingua latina), il sacer designa chi o che cosa non può essere toccato
senza essere macchiato o senza macchiare: proprio da qui possiamo capirne il duplice significato di sacro o di maledetto.
Il fatto che gli artisti inizino a conservare le loro unghie, i peli, i denti,
i capelli e via dicendo, presentandole la maggior parte delle volte come
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reliquie - pur non essendo altro che rifiuti organici di alcuni individui – e
che questi resti vengano conservati per lo più in luoghi isolati e particolari
come i musei e le gallerie d’arte, sembra indurre ad una sorta di ritorno
alla credenza di una forza primitiva e magica, che si cerca di controllare
tramite i resti organici, le reliquie.
Anche il movimento surrealista, seppur diversamente, comincia ad adottare e alimentarsi di questa parola così ambigua. Gli artisti del surrealismo, tramite i loro riti “occulti” che rivelano luoghi oscuri e impenetrabili
come le sequenze di sogni, la scrittura automatica, la graforrea e i giochi
come i Cadavre Exquis, si avvicinano al sentimento di numinoso di cui
dà la definizione Rudolf Otto proprio in quegli anni. L’artista surrealista
diventa in qualche modo un nuovo tipo di sacerdos, a servizio del sacer,
consacrato alle potenze misteriose e sconosciute. André Breton, uno dei
principali esponenti surrealisti, fu onorato con l’appellativo di “papa”.
Come possiamo notare, anche se in diversa forma, la sacralizzazione
dell’artista si manifesta spesso nella storia dell’arte. Nel caso della conservazione di umori e resti organici come reliquie artistiche, dal momento
che vengono elevate al sacro - o più precisamente al sacer – portano un
inevitabile diminuendo del disgusto rivolto a questi oggetti.
E’ forse legittimo che il passaggio da semplice oggetto ad oggetto sacro, e
quindi l’attribuzione a questo di un valore divino, inneschi minore disgusto in chi guarda? Poniamo di sottoporre una persona religiosa alla vista
di un dito mozzato, questa proverà orrore e disgusto. Se il dito mozzato è
però quello di San Giovanni Battista, con cui battezzò Gesù, potrà andarlo
a visitare al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Così come un fanatico dell’arte si schifa di fronte l’immagine di un umore qualunque, allo
stesso tempo si meraviglierà nell’ammirare i Precious Liquids di Louise
Bourgeois, o Self di Marc Quinn.
Si può osservare che non solo, come abbiamo visto prima, il disgusto è
variabile a seconda della variazione d’immedesimazione dello spettatore,
ma che varia anche dal momento che questo viene a conoscenza dell’appartenenza di un umore o un resto ad un determinato artista.
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Il (dis)gusto per l’osceno
Volevo cambiare la mia identità e dapprima ebbi l’idea di prendere un
nome ebraico. Io ero cattolico e questo passaggio di religione significava
già un cambiamento. Ma non trovai ne ssun nome ebraico che mi piacesse,
o che colpisse la mia immaginazione, e improvvisamente ebbi l’idea: perché non cambiare di sesso? […] Da qui viene il nome Rrose Sélavy. Oggi
suona abbastanza bene, perché anche i nomi cambiano col tempo, ma nel
1920 era un nome sciocco. La doppia “R” ha a che fare con il quadro
di Picabia “Oeil Cacodylate” esposto nel cabaret La Boeuf sur le Toit e
che Picabia chiedeva a tutti gli amici di firmare. Credo di aver scritto Pi
Qu’habilla Rrose Sèlavy.
Man Ray che ritraeva di Duchamp in una posa aggraziata, elegantemente
vestito di pelliccia, con un cappello a motivi geometrici, nelle vesti di una
donna; si può considerare il primo ready-made vivente, che ridefinì la figura stessa dell’artista come individuo unico e maschile, portando ad una
contaminazione dei ruoli, dei linguaggi e delle rappresentazioni. Grazie
principalmente a queste due opere, Duchamp diventa l’origine della messa in discussione dell’identità sessuale, da cui deriveranno i primi gender
studies.
Marcel Duchamp a proposito di Rrose Sélavy, n.d.
Quando Marcel Duchamp nel 1917 presentò alla Society of Indipendent
Artists la sua Fontana - un orinatoio capovolto – firmata Mr. Mutt, non sapeva che dopo poco sarebbe diventato l’artista più provocatorio di sempre.
Scoppiò una rivoluzione del pensiero artistico grazie ai suoi ready-made,
che stravolsero il modo di approcciarsi all’arte da lì in poi. Questo nuovo modo di fare arte si propone di reinventare oggetti comuni, e perché
questi possano diventare opere d’arte, devono essere decontestualizzati,
astratti dalla loro realtà e dalla funzione legata ad essi. Questa astrazione
riflette sul capovolgimento della realtà che circonda questi oggetti. I critici del tempo fecero fatica a capire e ad accettare la genialità di Duchamp,
autore di svariate opere tra cui anche dipinti, che però non privilegiava
perché fermamente convinto che la vera arte fosse nella materia tangibile,
non in una rappresentazione di questa. Un’opera che però è ancora oggi
molto famosa è il quadro intitolato L.H.O.O.Q., conosciuto anche come
Gioconda con i baffi, ma il cui vero titolo era Elle a chaud au cul, che in
italiano vuol dire “Lei ha caldo al culo”, espressione francese che esprime
eccitazione. Nel 1921 creò un suo alter-ego femminile, Rrose Sélavy che
se pronunciato velocemente, in francese risulterebbe “Eros c’est la vie”,
letteralmente “eros: così è la vita”, oppure anche “Arroser la vie”, “brindare alla vita”. Questo personaggio esisteva solo grazie ad uno scatto di
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Un altro artista che gioca con il cambio di genere, di cui ho già parlato
analizzando l’opera Seedbed è Vito Acconci, che definisce il suo corpo
come luogo di avvenimenti misurabili con le sensazioni. Con Conversions, un’azione realizzata in due versioni - una nel 1970 e l’altra nel 1971
– l’artista si brucia i peli del petto, nasconde il pene tra le cosce, si tira i capezzoli, sperimentando la possibilità di passare dal maschile al femminile.
Ed è proprio con gli interventi di Vito Acconci e Jan Wilson del 1969
a New York che viene usato per la prima volta il termine Body Art, che
da questo momento in poi verrà usato per definire tutte le diverse forme
di espressione del corpo. La critica e curatrice italiana – ahimè da poco
scomparsa – Lea Vergine (1936 – 2020) dividerà, alla fine degli anni Sessanta, l’attività artistica legata al corpo in quattro categorie principali: il
sadomasochismo, il travestitismo, l’inversione dei ruoli ed infine la maschera e la smorfia.
I gender studies (o studi di genere) si occupano dell’identità di genere e
della sua relazione con la biologia sessuale dell’individuo, influenzata da
fattori socio-culturali, educativi e psicologici. Iniziati negli anni cinquanta, studiano la distinzione tra identità di genere (come si sente l’individuo,
se uomo, donna, entrambi o nessuno) ed orientamento sessuale (attrazione
verso uno dei due sessi, entrambi, o nessuno).
La filosofa americana Judith Butler, femminista e gender fluidist, in alcuni suoi studi sull’analisi e la teoria della performatività del genere, fa
notare che il modo in cui il nostro sesso viene rappresentato nella società
è solo un’interpretazione di norme e convenzioni che pensiamo però siano
fatti naturali; il genere, che sia esso maschile o femminile, è solo un atto
performativo e non qualcosa che fa parte della nostra natura; per lei, le
identità di genere sono quindi delle performance, alcune consapevoli (che
lei chiama atti corporei sovversivi) che svelano la natura inautentica del
genere: il termine Drag, ovvero generalmente un uomo che si maschera
da donna in maniera molto eccentrica, bizzarra e a volte parodistica, svolge proprio questa funzione. Dunque, quando una Drag si esibisce, mostra
che l’identità di genere si “crea”, la persona che le dà vita si sdoppia e
tale individuo riesce ad entrare in una o più categorie di genere definite.
Da qui deriva anche la teoria Queer (queer significa eccentrico, strano,
bizzarro), sempre di Judith Butler, che afferma la transitività dei generi e
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mette in discussione la stabilità dell’identità e delle politiche a essa legate.
Se l’identità non è fissa, non può più essere etichettata o categorizzata e di
conseguenza, un singolo aspetto di una persona non può essere sufficiente
a definirla. Questo termine viene adottato per indicare la nuova strategia
che si afferma principalmente negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta,
in seguito alle battaglie per i diritti civili degli omosessuali, alla diffusione
dell’AIDS e al dibattito femminista sulla pornografia.
Stiamo vivendo in un’epoca che, anche se da un lato sembra evolversi
positivamente nei confronti di questi temi – si prenda d’esempio la televisione che, negli ultimi anni, sta inserendo sempre più personaggi con una
sessualità o un’identità di genere esplicitamente diverse: in programmi
come Uomini e Donne ci sono stati ospiti dichiaratamente transessuali,
nella settantaduesima edizione del Festival di Sanremo (2022) appare
Drusilla Foer, un personaggio inventato ed interpretato dall’attore italiano
Gianluca Gori, paragonato all’alter-ego di Duchamp, Rrose Sélavy, solo
per fare due esempi – ci lascia assistere ad episodi come quello dei miserabili applausi e delle urla di felicità di alcuni senatori italiani dopo la
bocciatura del decreto DDL Zan il 27 ottobre 2021. La proposta di legge
prende il nome dal suo relatore, Alessandro Zan, e avrebbe dovuto portare
a misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza
per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità. Tristemente, ancora oggi, disgusta più
il l’inclusione che la discriminazione.
Ma in fondo, c’è davvero qualcuno che coincide col proprio corpo? Francesca Alfano Miglietti, nel suo libro Identità mutanti (2008) scrive che
bisognerebbe avere la possibilità di modificare il proprio corpo a seconda
della moltitudine di identità che la mente produce, bisognerebbe avere
la possibilità di non lasciarsi riconoscere, creando un mondo di corpi in
continua mutazione: una nuova era, in cui il corpo non è più una dichiarazione di appartenenza ad una razza o ad un tipo di sessualità.
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[…] Transgender sono milioni di creature che hanno coscientemente rifiutato la fissità imposta da un modello bipolare di gender che serve a
definire i ruoli sociali ed economici di dominatore e dominata. […] Transgender è essere coscienti, e tanto basta, di aver messo in crisi un processo
do controllo sociale operato sui nostri corpi, sia sulla carne (il sex) che
sullo spirito (il gender).
Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti, 2008
Nel capitolo La tangibilità del Disgusto ho parlato del film Pink Flamingos di John Waters, la cui protagonista è Divine, pseudonimo di Harris
Glenn Milstead (1945 – 1988), un attore e cantante statunitense, noto per
la sua attività di drag queen. Milstead faceva parte - nei panni di Divine
- di un gruppo di attori, i Dreamlanders, che apparvero in molti dei primi
film di John Waters, come Pink Flamingos, Female trouble, Hairspray,
Polyester. Divine fu il nome che le venne dato da Waters, ispirato ad un
personaggio di Nostra signora dei fiori. Era un personaggio Camp che
recitava ruoli particolari spingendosi estremamente oltre i limiti, come ad
esempio scene in cui viene violentata da un’aragosta gigante o fa sesso
con se stessa. In Pink Flamingos arrivò a mangiare escrementi di un cane
appena defecati su un marciapiede.
L’arte del Camp fa sicuramente parte della cultura Kitsch, ma viene spesso confusa con questo stile romantico. L’uso della parola Camp apparve nel 1909 per descrivere un comportamento appariscente, esagerato e
teatrale. Celebra il banale ed il superficiale, inducendo una reazione di
disgusto negli spettatori. L’estetica Camp è stata resa popolare da registi
come George e Mike Kuchar, Jack Smith e John Waters, il quale associa
alle personalità del Camp diverse drag queen e celebrità come Dame Edna
Everage, RuPaul, Liberace, Paul Lynde e la già citata Divine, che nel sito
ufficiale viene descritta come un’indomabile icona della cultura queer,
[…] il cui alter ego era rude, volgare e oltraggioso: una figura gioiosamente autodeterminata e profondamente liberatoria.
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Il filosofo e sociologo contemporaneo sloveno Slavoj Žižek afferma nel
suo libro Il Trash Sublime che nel campo dell’arte e della sessualità la
perversione non è più sovversiva, perché gli eccessi e gli shock sono diventati parte del sistema stesso, che si nutre di questi per riprodursi. Un
po’ come ha narrato nei suoi film John Waters: l’attrazione per il disgusto. Nel postmoderno, quindi, secondo lui l’eccesso trasgressivo perde il
valore scioccante ed è completamente integrato nel mercato dell’arte; fa
notare anche come il sottile confine tra il bello sublime e lo spazio escrementizio (il trash, i rifiuti) stia scomparendo, fino a diventare una paradossale identità degli opposti: l’arte moderna produce sempre più opere
escrementizie come feci e corpi in putrefazione, esibite al fine di riempire
l’identità artistica del sublime luogo vuoto della Cosa. Žižek dice che:
[…] se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello
– ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla
dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso,
quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto
che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani;
perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che
questo stesso luogo “avrà luogo”.
Slavoj Žižek, Il Trash Sublime, 2013
è un osso”: la nostra prima reazione a “lo spirito è un osso” di Hegel è
“ma questa è un’affermazione senza senso – lo spirito... è l’esatto opposto
dell’inerzia di un teschio, quest’oggetto morto! - tuttavia, proprio questa
consapevolezza della profonda incongruenza fra lo “spirito” e “l’osso”
è “lo Spirito”, la sua radicale negatività... Sulla stessa linea, la nostra
prima reazione nel vedere le feci nel Luogo sublime, è chiedere indignati
“e questa sarebbe arte?” - ma è esattamente questa reazione negativa,
quest’esperienza di radicale incongruenza fra l’oggetto e il Luogo che
occupa, che ci rende consapevoli della specificità di questo Luogo.
Slavoj Žižek, The Fragile Absolute, Verso, Londra, 2000
Per il filosofo, il paradosso di tutto questo è che soltanto un elemento che
è completamente fuori luogo (escrementi, rifiuti) può reggere il vuoto di
un luogo vuoto. In altre parole, dal momento in cui questo elemento “eccedente” si trovasse nel posto giusto, non ci sarebbe più nessun Luogo
puro: l’esposizione di un oggetto in qualità di opera d’arte dimostra che
l’arte non si basa sulle qualità dell’opera d’arte, ma sullo spazio che questa occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche la più disgustosa, anche un
escremento o un umore, se si trova nel Luogo giusto, diventa arte. Torna
in mente qui il pensiero di Jean Claire: se il gusto per il brutto e per il
disgustoso diventasse normale non susciterebbe più scalpore, e gli artisti
non troverebbero valore nel creare opere oscene o abiette.
In altre parole, l’arte tradizionale aveva una cornice simbolica efficace
– come per esempio quella religiosa – mentre l’arte moderna vive in un
mondo dove il simbolico tramonta, e quindi dove i tentativi, anche i più
perturbanti, sono destinati a provocare un contesto, nella speranza che
viva ancora il simbolico: per questo, quando un’opera contemporanea subisce una censura, si percepisce spesso una sorta di soddisfazione, come
se l’opera avesse soddisfatto il suo scopo comunicativo, dimostrando che
esiste ancora un ordine simbolico a cui ci si può ancora contrapporre.
Continua affermando:
[…] la logica di esporre un oggetto escrementizio nel Luogo sublime è
simile al modo in cui funziona il giudizio infinito hegeliano “lo spirito
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Post-porno
Ad essere considerato ripugnante, fa notare Menninghaus nel suo libro
Ekel (Disgusto), è per esempio, il corpo di una dea che il filosofo Johann
Gottfried Herder definisce come donna colossale. Scrive Herder:
Che i miei occhi non si fissino sulla sua statura come se questa fosse la caratteristica visiva principale, altrimenti perdo di vista la regina degli dei,
la più splendida delle dee: vedo altrimenti una donna colossale. [...] I miei
occhi cedono quando devono posarsi su ciò che è terribile e l’ammirazione che io provavo si trasforma in una sorta di orribile consapevolezza, di
terrore e di disgusto.
pornografìa s. f. [dal fr. pornographie, der. dal greco πόρνη, “prostituta”,
e γραϕία, “scritto”]. – 1. Trattazione o rappresentazione (attraverso scritti,
disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti
osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore: 2. ant. Scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione.
Valentine aka Fluida Wolf, autrice del libro Post-porno, si definisce una
drag-bitch. Nata a Londra nel 1984, è una transfemminista, antifascista
ed attivista post-porno. Nel suo libro si interroga su quali corpi siano
degni di provare e provocare piacere, quali possano essere desiderabili.
La risposta è che è la pornografia, quella mainstream e convenzionale, a
decidere quali sessualità siano socialmente accettate e quali no, quali sono
i soggetti degni di rappresentazione e quindi sessualmente desiderabili.
L’attivista queer e filosofo spagnolo Paul B. Preciado afferma:
Herder, in Disgusto di Winfried Menninghaus, 1999
Queste descrizioni di cui Menninghaus si serve a sostegno della sua tesi,
rendono bene l’idea di quanto il tema del disgusto sia legato a quello della
carnalità. In questo caso, il legame riguarda la carne femminile, specialmente quella avvizzita o sovrabbondante, ma può essere più generalmente
inteso come la carnalità umana, poiché sua parte costitutiva tanto quanto
quella spirituale. L’aspetto è ciò che risulta difficile da accettare per l’uomo, ed è proprio intorno al rifiuto del corpo che ruota il disgusto, perché
questo riduce l’uomo allo stesso livello degli animali: è proprio il corpo
che dimostra l’inarrestabile caducità della vita e la fragilità della condizione umana: l’uomo muore, e il suo corpo si decompone come il corpo
di qualsiasi altro essere vivente, nonostante il suo pensiero lo elevi e lo
avvicini all’eternità del divino.
Non è quindi soltanto l’anatomia del corpo a determinare il disgusto, ma
anche la sua storia: ferite, segni, malattie, vecchiaia, morte e conseguente
putrefazione. Parlando di carne e di corpi, oltre all’inevitabile passare del
tempo, si può prendere in considerazione il tema della pornografia come
oggetto di gusto e disgusto.
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La pornografia è una potente tecnologia di produzione di genere e sessualità. Per dirla rapidamente: la pornografia dominante sta all’eterosessualità come la pubblicità sta alla cultura del consumo di massa: un
linguaggio che crea e normalizza modelli di mascolinità e femminilità,
generando scenari utopici scritti per soddisfare l’occhio eterosessuale
maschile. Questo è sicuramente il compito dell pornografia dominante:
fabbricare soggetti sessuali docili... facendoci credere che il piacere sessuale “sia quello”.
Intervista a Paul B. Preciado, Parole de Queer, n.d.
Post-porno è un termine coniato nel 1990 dall’artista olandese Wink van
Kempen per uno show di Annie Sprinkle, Post Porn Modernist, anche se
le sperimentazioni a riguardo nascono già negli anni Ottanta. Post-porno
indica un altro tipo di porno, un fenomeno fluido che sfugge a definizioni e categorizzazioni, il cui obiettivo è distruggere l’immaginario della
pornografia tradizionale - sempre più spesso maschilista, razzista e discriminante nei confronti delle persone con disabilità – dando voce e dignità sessuale a tutti questi soggetti che generalmente vengono emarginati,
esclusi o umiliati.
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Una delle più importanti attiviste di questo mondo è l’americana Annie
Sprinkle, sessuologa, artista e sex worker, che definisce così il concetto di
Post-porno:
Definire il post-porno è un esercizio tanto assurdo come cercare di dare
una spiegazione chiara, generale e molto al di sopra della sessualità di
ogni persona. Sono l* stess* protagonist* che scelgono di definire il loro
attivismo “postporno”, partendo da se stess*, narrandosi dall’interno,
raccontando il proprio corpo e i propri desideri.
li, le prostitute, i disabili, i corpi deformi, grassi, mutilati, malati etc. La
centralità di questi corpi vuole proporre nuovi immaginari e nuove rappresentazioni che escono dagli usi, dai tabù e dai canoni estetici imposti.
La pornografia che propone il post-porno è sperimentale, autoprodotta ed
autodistribuita principalmente in festival e iniziative autogestite, che nei
primi anni del nuovo secolo si sono espansi più che altro in Spagna. L’evento però che viene considerato come uno dei momenti fondanti della
produzione spagnola fu la Maratòn post-porno, nel 2003, coordinata da
Paul B. Preciado al MACBA (Museo di Arte Contemporanea di Barcellona).
Annie Sprinkle, Manifesto Post-porno, n.d.
La post-pornografia quindi mette in discussione e combatte l’immaginario
sessuale mainstream, promuovendo la diversità dei desideri, delle pratiche e dei corpi. Rivendica il diritto al piacere, rende visibile ciò che
di solito viene escluso dal mondo del porno, rivendicando la pornografia
come strumento di liberazione, esplorazione ed espressione artistica. Fluida Wolf nel suo libro scrive:
Per anni ci è stato fornito un unico immaginario sessuale che ha avuto un
imponente e drammatico effetto culturale stabilendo il limite delle nostre
possibilità, ingabbiando corpi e portando a desideri indotti; la pornografia mainstream è un dispositivo di potere culturale, sociale e politico facile
da smascherare ma difficilissimo da smantellare, per la sua capacità di
radicarsi e sedimentarsi. Quali sono i corpi degni di provare e provocare piacere? Quali sono i corpi desiderabili e quelli che hanno dignità
sessuale? Quali corpi vengono rappresentati e quali sono esclusi dalla
rappresentazione sessuale o trattati come soggetti passivi della rappresentazione? Quali sono le pratiche ammissibili e quali non, e su quali basi
vengono stabilite?
Valentine aka Fluida Wolf, Post-porno, 2020
Post-porno sono tutti quei corpi che sono sempre stati rappresentati come
oggetti abietti e che adesso vengono messi al centro della rappresentazione diventando soggetti: sono i gay, le lesbiche, i trans, gli intersessua70
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Dal 2007 al 2015, sempre a Barcellona, è esistito un festival completamente autogestito e autofinanziato, che veniva ospitato prima al centro
sociale occupato Magdalenes (oggi sgomberato), poi all’Hangar e che
dopo si è spostato in Messico e successivamente in Ecuador, organizzato
da Diana J. Torres aka Pornoterrorista e Lucìa Egaña Rojas. Il nome del
festival era Muestra Marrana. Renueva tu imaginario Pornogràfico, dove
“marrana” vuol dire scrofa, maiala, che viene usato in senso dispregiativo
nella lingua spagnola, come in quella italiana. Lo scopo delle due organizzatrici era proprio modificare il senso del termine, da dispregiativo a
positivo: durante i giorni del festival, chiunque veniva accolto ed avevano
tutti la libertà di poter essere e scoprire se stessi, partecipando a workshop, mostre ed esperienze. Era il ritrovo dei corpi grassi e desideranti,
l’evento in cui potersi liberare delle proprie fantasie BDSM e feticismi,
il ritrovo degli emarginati sessuali creativi, la festa delle cagne trash, il
luogo in cui stracciare tutte le etichette di genere o crearne delle nuove, la
celebrazione della freakness, scrive ancora Fluida Wolf. Il festival era un
miscuglio di arte, politica, festa, droga, tecnologie, esperienze, giochi ed
autogestione, dove per una volta le marginalità venivano messe al centro
non come oggetti abietti e passivi, ma come generatori di controcultura,
liberi di sperimentare e di riappropriarsi dei corpi e dei desideri. La Muestra Marrana era un’umanità diversa composta da mostri, freak, cagne,
gli indesiderabili, i corpi abietti, che rivendicava e celebrava l’anormalità,
i desideri perversi e gli stili indecenti.
Il cortometraggio Manifesto Gordx (Manifesto Grassx) di Costanza Álvarez aka Missogina e Samuel Hidalgo, girato nel 2012 in Cile, è il manifesto dell’attivismo grasso: nel corto si vedono dei corpi grassi, dei quali
non si capisce dove inizia uno e dove finisce l’altro. Le riprese mostrano
da vicino ogni piega dei corpi, ogni deformazione, cicatrice, smagliatura
e una voce in sottofondo recita:
Il nostro corpo, il primo nemico […]
Ecco le mie pieghe, qui sono i miei rotoli, questo è il mio corpo, quello
inappropriato,
quello che apparentemente nessuno vuole scoparsi, questo corpo malato
[…] perché non basta distruggere il genere se non si fa anche saltare la
normatività dei corpi
[…] Parliamo, noi, le grassi pelose, fetidi, le brutti, froci iperfemminili,
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quellx che non si vedono nei porno, se non come feticci, le camioniste, le
sciattone,
quelle che ruttano a tavola, ripugnanti, perturbanti, eccessivi, mai zitti né
impeccabili.
[…] vogliamo che i desideri si disimparino e che il nostro corpo si trasformi in potenza di desiderio per il semplice fatto di essere corpo.
Parliamo per le grasse che ancora sono nello spazio del silenzio,
della vergogna, dello scherzo [...]
Manifesto Gordx, Costanza Álvarez e Samuel Hidalgo, 2012
Credo che sia importante sottolineare che lo scopo del post-porno non è
necessariamente portare lo spettatore o chi ne usufruisce all’eccitazione,
è quello invece di rappresentare corpi, pratiche, atmosfere e scenari; per
questo spesso i performer di questa controcultura ci fanno provare sentimenti ed emozioni come il fastidio, il ribrezzo, il disgusto, cercando di
esplorare le parti più profondamente nascoste delle persone, che altrimenti non avrebbero modo di essere scoperte.
Un altro esempio di post-porno è la produzione prolifica dell’artista genderqueer americana, fondatrice di Trouble Films, Courtney Trouble: nei
suoi lavori mostra corpi transessuali, corpi grassi (tra cui, molto spesso, il
suo), corpi disabili. La Trouble non definisce la sua produzione post-pornografica, ma fu comunque ospite d’eccezione alla prima Muestra Marrana del Messico.
A causa delle continue censure, è molto difficile trovare materiale post-pornografico sul web: il poco materiale che si può trovare su internet è quello
che ancora non è stato censurato, per questo l’unico modo per godere di
questi prodotti rimane ancora la partecipazione a festival ed eventi. Anche
in Italia negli ultimi anni si sono affermati festival come il Fish&Chips
Film Festival di Torino e l’Hacker Porn Film Festival di Roma.
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L’ultima controcultura
Dopo aver parlato di come il mondo del post-porno - ma soprattutto i suoi
eventi - siano luoghi liberi da ogni inibizione, inclusivi e aperti a tutti, in
cui si mischia arte, politica, droga, tecnologia ed autogestione, dove le
marginalità vengono messe al centro diventando generatori di controculture, è probabile che a qualche lettore siano venuti in mente i free party
e la scena rave. Effettivamente, questi due mondi sono più vicini di quel
che si pensi.
In seguito, un excursus di quello che si intende per questa controcultura,
che Tobia D’Onofrio, autore del libro Rave New World, definisce come
l’ultima controcultura.
Il termine rave risale al dialetto scozzese del 1300, ed indicava un particolare stato d’animo entusiasmato, esaltato e delirante. Nella cultura comune il termine è sempre stato sotto la lente del giudizio: fare un rave party
presuppone di trovarsi in una situazione illegale di caos completo, dove le
protagoniste assolute sono le droghe sintetiche. Da un lato, questa visione
è decisamente realistica, anche perché durante i rave l’uso delle droghe è
una cosa abbastanza comune, ma il fenomeno non si limita solo a questa
caratteristica. La cultura Rave è diversa da tutte le subculture esistite fino
ad ora, perché la sua etica è aperta ed inclusiva: non ci sono regole da
seguire sul modo di vestire o sugli ideali personali, tutto convive in totale
libertà. Il muro di casse (o sound system) tipico dei free party, per la prima volta unisce vari tipi di persone dalle più diverse culture e ceti sociali
in una danza comune, al ritmo della stessa musica; non importa se sei un
punk, hippie, senzatetto, studente, lavoratore: i rave party sono per tutti.
A differenza delle discoteche a pagamento, nei free party non esistono
biglietti da pagare, non ci sono bodyguard all’ingresso che badano al vestiario e il dj non è il protagonista della serata: lo è la gente stessa, che
balla al ritmo di musica. Il raver è l’unico protagonista. Non c’è alcun
fine, nessuno scopo, ma solamente una totale libertà d’espressione condivisa. Uno spazio liberato. Una TAZ (Zona Temporaneamente Autonoma),
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come scriveva nel 1990 il filosofo Hakim Bey nell’omonimo libro TAZ,
Zone Temporaneamente Autonome, definendole una guerriglia silente che
avrebbe distrutto le convenzioni sociali, per poi riformare una nuova società in un nuovo luogo e in un nuovo tempo.
Queste feste producono dei non-luoghi, delle bolle esterne alla realtà di
tutti i giorni dove non ci sono regole, se non il rispetto del prossimo e del
luogo che le ospita. Quando si partecipa ad un rave party si entra in una
realtà diversa, in una sorta di parco dei divertimenti, un circo i cui protagonisti sono gli stessi corpi danzanti a ritmo di musica dai suoni industriali, circondati da giocolieri, performer, autoproduzioni, luci, installazioni,
striscioni e sculture.
Tutto partiva da un flyer con immagini cyber o psichedeliche, adesivi o
volantini sparsi nelle città, poi, con l’arrivo di internet le informazioni
iniziarono a fare anche un passaparola lì, fino allo svelamento del luogo
della festa, in genere intorno alle 23 della stessa sera. Tuttora, il metodo
di diffusione delle informazioni sui party non è molto diverso, se non per
il fatto che si tende ad inviarle tramite chat crittografate come Telegram o
applicazioni simili.
Attraverso la nostra estetica e il nostro ardente impegno nelle politiche
della gioia e del desiderio, intendiamo creare uno spazio di carnevale in
cui tutte le regole vengono rotte e ogni cosa è possibile. Cercheremo di
dissolvere tutte le barriere tra arte e politica, partecipanti e spettatori,
sogno e azione.
Infernal Noise Brigade, n.d.
I primissimi segni di questa nuova controcultura li abbiamo già negli anni
Settanta nei party edonisti chiamati The Loft che David Mancuso (uno dei
primi deejay della storia) organizzava a Broadway, New York: queste feste private si rivolgevano prevalentemente ad un pubblico afroamericano
e omosessuale ed erano momenti di incontro, abbandono sciamanico alla
musica dei deejay e sperimentazione artistica. Il sound system del The
Loft è considerato uno tra i migliori di sempre: fu innovativo, incentrato
75
sulla potenza dei bassi, ispirata al dub giamaicano. La cultura Rave vera
e propria nasce però a cavallo tra gli anni ottanta e novanta in Inghilterra
con l’esigenza di affermare una zona diversa, fuori dalle dinamiche economiche, governative e istituzionali imposte: anche l’uso (consapevole)
di droghe era consentito. I party inizialmente si raggiungevano con macchine e motorini e si tornava a casa una volta finita la festa, fino all’arrivo
dei traveller, nomadi che vivevano (e vivono) in camper e furgoni camperizzati, coloro che fecero conoscere la scena rave nel resto d’Europa e che
cambiarono per sempre la concezione di rave party: una cosa era tornare a
casa, un’altra era invece vivere come nomadi, sui furgoni che trasportavano i traveller da una festa all’altra: non c’era più differenza tra accamparsi
e fare una festa. La più famosa ed influente tribe di raver, prima tra tutte
ad adottare questo stile di vita, fu la crew degli Spiral Tribe, che con il
loro stile di vita nomade portarono a far conoscere la scena rave in tutta
Europa.
Ai free party si può trovare quasi ogni tipo di droga, ad eccezione - solitamente - dell’eroina (in alcune feste si trovano i cartelli con disegnato
una siringa e il divieto, che incriminano l’uso di questa sostanza perché
pericolosa e letale). L’uso di droghe, specialmente dell’ecstasy, permette
di entrare in uno stato di trance, quasi come se si uscisse dal proprio corpo
per entrare in connessione con l’ambiente, le persone e la musica che ci
circonda. L’ecstasy fu una sostanza molto utilizzata per ricercare questo
tipo di sensazioni, perché unisce, fa provare empatia e sembra di essere
connessi perfettamente col prossimo.
Negli anni novanta iniziarono i primi Teknival: vere e proprie città transitorie, vaganti, popolate da nomadi dall’identità mutante, non appartenenti
a nessun gruppo preesistente, spesso dall’aspetto ermafrodita per le loro
estreme body art e modifications tramite tatuaggi e piercing (che rimandano a qualche antica tribù primitiva) legando così anche la cultura omosessuale e rompendo gli stereotipi uomo/donna. Non si accettavano i gusti
prestabiliti, ma si creava uno stile personale grazie al proprio ingegno e
al DIY (Do It Yourself, in italiano autoproduzione) - come insegnava la
cultura Punk - e tutto era lecito.
I free party invitano a ballare dimenticandosi per quel frangente di tempo
76
tutte le costruzioni mentali che ci condizionano quotidianamente. La fusione del singolo individuo con la folla serve a superare i propri limiti
individuali, come scrive Freud nel 1921: la folla produce sull’individuo
isolato un’impressione di potenza illimitata e di pericolo invincibile.
La danza è l’espressione dello stato di trance, in cui predominano movimenti liberi, spensierati. La fusione della folla in un’unica cosa, che diventa essa stessa protagonista, fatta da giocolieri, artisti, musicisti, dj, ballerini e semplici corpi danzanti, mescolati a tutto ciò che ognuno di loro
produce (striscioni, visual, oggettistica, sculture, musica, giochi), pare
quasi un enorme circo autogestito, una sorta di Opera d’Arte Totale wagneriana selvaggia, moderna, reale, non spettacolare, dove l’insieme e la
simbiosi sono il vero punto di forza del movimento: realtà completamente
diverse tra loro ma che, coesistendo nello stesso momento e nello stesso
luogo, generano uno spettacolo al di fuori di ogni aspettativa, una sorta di
unione di tutte le arti, un universo parallelo temporaneo e libero in cui non
ci sono regole.
Questa nuova controcultura, forse figliastra degli ideali Punk (come il rifiuto delle autorità, del denaro, della cultura, delle ideologie, dell’identità
e del sesso ruolizzante), che per definizione ha già in sé un significato dispregiativo come teppista, omosessuale, prostituta . continua a diffondersi
in tutto il mondo con messaggi forti, unendo persone dai più diversi stili
di vita per ballare tutti insieme al ritmo della stessa musica, come se fosse
una danza folkloristica mondiale. Una anti-Babylon mutante e nomade
sempre pronta a connettere persone di ogni luogo e specie, un’opera d’arte
totale di cui ognuno di noi, se vuole può farne parte.
Questo mondo libero e meraviglioso viene costantemente represso, come
se chi abitasse questi non-luoghi temporanei fosse considerato feccia composta da tossici, emarginati sporchi, brutti, abietti, disgustosi. In realtà
abbiamo visto che questi free party sono molto di più: sono l’ultima controcultura, l’ultimo tentativo di inclusione aperto veramente a chiunque.
Negli anni si è creato un immaginario di icone e ambienti ben definito tra
chi partecipa a queste feste: alieni, insetti, teschi, tatuaggi, piercing, modificazioni corporee, estetica cyberpunk, industrial e tribal sono solo parte
dei simboli e dell’estetica che hanno permesso alle persone di esprimersi
77
e che oggi dominano questa cultura, elementi che per natura vengono ritenuti abietti. Credo che ci sia una volontà inconscia di creare disgusto
in quelle persone che restano effettivamente disgustate da questo mondo,
forse perché troppo pieno di diversità e, come sappiamo, la diversità fa
paura.
Il nostro stato emotivo è l’estasi. Il nostro nutrimento è l’amore.
La nostra dipendenza è la tecnologia. La nostra religione è la musica.
La nostra moneta è la conoscenza. La nostra politica è nessuna.
La nostra società è un’utopia che sappiamo non sarà mai.
Potete odiarci. Potete ignorarci. Potete non capirci.
Potete essere inconsapevoli della nostra esistenza.
Possiamo solo sperare che non ci giudichiate, perché noi non vi giudicheremo mai.
Non siamo criminali. Non siamo disillusi. Non siamo dipendenti dalla droga.
Non siamo dei bambini inconsapevoli.
Noi siamo un villaggio tribale, globale, di massa, che non dipende dalla
legge fatta dall’uomo, dallo spazio e dal tempo stesso.
Noi siamo un’unità. L’unità.
Noi siamo stati plasmati dal suono.
Da molto lontano, il temporalesco, echeggiante e smorzato battito era
simile a quello del cuore di una madre che tranquillizza un bambino nel
suo ventre di acciaio, calcestruzzo e fili elettrici.
Noi siamo stati allevati in questo ventre, e qui, nel calore, nell’umidità
e nell’oscurità di esso, siamo giunti ad accettare che siamo tutti uguali.
Non solo per l’oscurità e per noi stessi, ma per la vera musica che batte
dentro di noi e passa attraverso le nostre anime: siamo tutti uguali.
[…] Ci spinge a girarsi verso la persona vicino a noi per stringere le mani
e sollevarle, condividendo la gioia incontrollabile che proviamo creando
questo magico cerchio che può, almeno per una notte, proteggerci dagli
orrori, dalle atrocità e dall’inquinamento del mondo che sta di fuori.
[…] Continuiamo ad ammassare i nostri corpi nei clubs, nei depositi e
negli edifici che voi avete abbandonato e lasciato senza alcuna ragione,
e gli riportiamo vita per una notte. Una vita forte, deflagrante, che pulsa,
nella sua più pura, più intensa, nella più edonistica forma. In questi spazi
improvvisati, noi cerchiamo di liberarci dal peso dell’incertezza di un futuro che voi non siete stati capaci di stabilizzare e assicurarci.
Noi cerchiamo di abbandonare le nostre inibizioni, e liberarci dalle manette e dalle restrizioni che avete messo in noi per la pace del vostro pensiero.
Noi cerchiamo di riscrivere il programma che avete cercato di indottrinar78
ci sin dal primo momento che siamo nati. Programma che ci dice di cibarci dal brillante cucchiaio d’argento col quale tentate di nutrirci, anziché
lasciare che ci nutriamo da soli, con le nostre stesse mani capaci.
Programma che ci dice anche di chiudere le nostre menti, invece di aprirle.
[…] Il nostro nemico è l’ignoranza. La nostra arma l’informazione. Il nostro crimine è violare e sfidare qualsiasi legge che voi sentite aver bisogno
di utilizzare per porre fine all’atto di celebrare la nostra esistenza.
[…] Non avete accesso a questo interruttore, non importa quello che pensate. La musica non si fermerà mai. Il battito del cuore non si spegnerà
mai.
Il party non finirà mai.
Sono un raver, e questo è il mio manifesto.
WorldWide Raver’s Manifesto, 2000
Un gruppo ormai noto di controcultura, e proveniente dalla scena punk
londinese è la Mutoid Waste Company, nomadi che costruiscono macchine riciclando detriti industriali, rifiuti ferrosi, tracce di fine millennio. Il
gruppo nasce a Londra nel 1983 dall’incontro tra un artista meccanico e
un meccanico artista. La loro è una filosofia di vita basata sulla spazzatura, una sorta di filosofia da Mad Max: usano i più disparati oggetti e attrezzi e se mancano dei pezzi li costruiscono con i rottami. Montando, smontando e saldando, organizzano rave, costruiscono allestimenti, macchine
per spettacoli, attrezzature per parchi-gioco, spettacoli per mangiafuoco,
performance, scenografie, mostri meccanici. Le loro sculture-macchine si
muovono, sputano fuoco, emettono versi sintetici, e tutto è costruito coi
rifiuti, con gli scarti, e con ciò che gli altri gettano via.
Noi vogliamo cambiare la relazione tra uomo/macchina, viviamo per questa idea della mutazione dei nostri veicoli e della nostra arte; l’idea è di
rappresentare sempre qualcosa che si lascia trasformare, niente è finito
per sempre e la natura delle cose commerciabili è solo pattume, se tu non
riesci a lavorare e intervenire sopra queste cose avrai solo pattume.
Mutoid Waste Company, n.d.
79
Conclusione
Questo è il tesoro dell’abietto, del buttato via, visto attraverso lo sguardo
straordinario di un universo che ingloba uomini e cose nel solito destino.
E’ l’opposizione all’essere buttati via quando non si funziona più.
Dopo aver esaminato dal punto di vista filosofico e psicologico il disgusto
e ciò che lo genera, me ne sono occupata dal punto di vista artistico.
Nei vari capitoli, abbiamo potuto vedere come questo sentimento sia stato
poco considerato per diversi secoli, a differenza di altri: nell’Antica Grecia, in un dialogo tra Platone e Socrate, si legge che non esistono idee per
tutto ciò che è disgustoso, e quindi non ci sono forme ideali specifiche per
poterlo rappresentare. Fino alla metà dell’Ottocento era raro trovare trattati al riguardo, fino alla pubblicazione, nel 1852, dell’Estetica del brutto
di Rosenkranz, il quale spiega come la causa del disgusto sia solitamente
di natura organica, ad eccezione della sporcizia e dei rifiuti, che possono
invece essere inorganici. Questo pensiero viene ripreso anche nel 1929 da
Aurel Thomas Kolnai, nel suo trattato Il Disgusto, dove alludendo all’ambito oggettuale dice che:
Il disgusto non si riferisce mai all’inorganico, a ciò che è privo di vita (con
l’eccezione dello “sporco”); angoscia e dispiacere non prevedono questa
condizione. L’odio e persino il disprezzo respingono il cerchio ancor più
verso il “basso”; a tal proposito, nonstante il suo univoco riferimento alla
sfera etica, il disprezzo ha di mira una classe di tipi di comportamenti a
cui, nel suo senso primario, l’odio non può riferirsi. Un pensiero sciocco
può suscitare disprezzo, oppure imbarazzo, ma certo non disgusto; ciò
che in quanto “innocuo” non può in generale spaventare, può però essere
disgustoso.
Aurel Thomas Kolnai, Il Disgusto, 1929
Elencando le varie classificazioni del disgusto di Paul Rozin, si deduce
che non solo un umore corporeo o un corpo contaminante possono essere
ritenuti ripugnanti, ma che il disgusto può emergere anche in ambito morale o sociale.
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Mi sono poi interrogata sul perché si provi questa emozione, osservando che accomuna tutti gli esseri umani, anche se ciò che disgusta non è
uguale per tutti: alcune culture mangiano insetti mentre altre non li ingerirebbero mai, per esempio. Questo sentimento è nato e si è evoluto come
reazione istintiva per la sopravvivenza, come viene definito da Kolnai nel
suo trattato, il quale però fa notare che non sempre ciò che è disgustoso è
pericoloso e viceversa. Su questa linea viene analizzato anche da Edmund
Burke, che differenzia il disgustoso dal sublime: definendo quest’ultimo
come orrore gradevole, osserva come la differenza tra i due sentimenti sia
determinata dalla grandezza del pericolo a cui si è esposti.
duce la stessa sedia nella stessa posizione; a destra, sempre appeso alla
parete, si trova un pannello che riporta la definizione del termine sedia,
tratto da un dizionario di lingua inglese. Kosuth con questa installazione
riflette sul concetto di realtà e rappresentazione. Alla domanda che molti
si posero se fosse o meno un’opera d’arte, lui rispose che fare arte significa creare significato: in quel caso, l’artista riflette sul significato di sedia,
proponendone diverse rappresentazioni.
Il disgusto può essere generato sia attraverso un contatto diretto, come
accade per opere d’arte come Seedbed di Vito Acconci o la Deturpazione
di una Venere di Otto Muehl, che in modi diversi colpiscono e traumatizzano l’osservatore, sia in un modo meno tangibile, come accade leggendo
le opere di Kafka o guardando un film di Cronemberg, quindi ciò che
innesca questa emozione non è la sua tangibilità, ma la possibilità di immedesimazione dell’uomo all’interno di una situazione.
Ho analizzato la sorprendente e sottile differenza tra il disgusto e la santificazione, tra un oggetto abietto e una reliquia, riprendendo la definizione di
sacer di Rudolf Otto: è sacer tutto ciò che appartiene contemporaneamente al mondo del sacro e dell’osceno, che mescolando santificazione e disgusto venerano la causa dell’orrore. E’ così che il significato del sangue,
di un dente, di un organo o una parte del corpo diventa determinante, tanto
da cambiare la reazione dei credenti: un dito mozzato, se preso esclusivamente come tale, può suscitare ribrezzo alla vista, ma dal momento che
si viene a sapere che tale dito è appartenuto al corpo di un santo, ecco
che questo diventa reliquia, e non fa più così ribrezzo; Così come nella
religione, anche nell’arte ci sono esempi di umori e parti del corpo che,
presentati e conservati in luoghi di culto e d’ammirazione come i Musei
(che equivale alla Chiesa per i Cristiani) inducono a vederli come reliquie.
Da ciò si deduce che sono importanti sia la presentazione che la rappresentazione degli oggetti: per fare un esempio, l’opera di Joseph Kosuth
del 1965, One and Three Chairs (Una e tre sedie): è un’installazione che
prevede una sedia in legno pieghevole disposta contro una parete bianca;
a sinistra, sulla parete, è appesa un’immagine in bianco e nero che ripro82
Ipotizzando che il soggetto non sia più una sedia, la cui definizione è:
sèdia (ant. sièda) s. f. [der. del v. sedere]. – 1. a. Mobile su cui può sedersi
una sola persona (detto anche, specialmente nell’uso toscano, seggiola),
costituito da un piano orizzontale (sedile) appoggiato su quattro gambe,
e da una spalliera; forma e materiali variano secondo le epoche e gli stili.
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Ma un oggetto organico, una parte del corpo di essere vivente, come per
esempio il cervello, la cui definizione invece è:
cervèllo s. m. [lat. cerĕbĕllum, dim. di cerĕbrum «cervello»] (pl. -i; in alcune locuz. anche le cervella). - 1. In anatomia, la parte anteriore dell’encefalo, costituita dagli emisferi cerebrali, la regione talamica e l’ipotalamo, più sviluppata nell’uomo che negli altri animali; di forma ovoidale,
ha una superficie segnata da una profonda scissura interemisferica e dalle
solcature che delimitano i lobi (in numero di 5: frontale, parietale, temporale, occipitale e limbico) e le circonvoluzioni; vi sono rappresentate le due sostanze nervose fondamentali: la sostanza grigia in superficie
(corteccia cerebrale), e internamente la sostanza bianca, che costituisce il
centro ovale. È sede delle attività psichiche, motorie, sensitive e sensoriali, e ogni emisfero presiede ai movimenti volontarî della metà opposta del
corpo, dato che le fibre nervose che lo fanno comunicare con il midollo
spinale si incrociano all’altezza del midollo allungato.
Avremmo quindi, al posto della sedia di legno un cervello vero, alla sua
sinistra, un’immagine in bianco e nero che riproduce lo stesso cervello
nella stessa posizione e, a destra, un cartello con la definizione di cervello,
che però ipotizziamo non sia quella che ho appena citato, ma la definizione di reliquia, ottenendo questo:
cervèllo s. m. [lat. cerĕbĕllum, dim. di cerĕbrum «cervello»] (pl. -i; in alcune locuz. anche le cervella). - 1. letter. Ciò che rimane di qualche cosa,
in particolare, i resti di persona morta. 2. In senso religioso, resti corporali, oggetti d’uso, prodotti o tracce di personaggi d’importanza religiosa, o
attribuiti a essi, custoditi in luoghi sacri e venerati nel culto; in particolare,
nella tradizione cristiana, i resti mortali del corpo (o il sangue custodito
in ampolle) dei martiri della fede, gli strumenti del loro martirio e quelli
della passione di Gesù, o il corpo di un santo.
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In questo modo, avremmo presentato un cervello, che può suscitare disgusto, e rappresentato una reliquia, che può invece suscitare venerazione.
Un’opera a primo impatto quindi potrebbe disgustare lo spettatore, ma
leggendone la definizione, cambierebbe il significato assunto dall’oggetto, innalzandosi a reliquia, quindi qualcosa di sacro e non più ripugnante.
Questo tipo di ragionamento, ovvero il duplice significato che può assumere qualcuno o qualcosa, è sempre più frequente nell’arte contemporanea, tanto da aver sviluppato una vera e propria corrente, quella dell’Arte Concettuale. Per questo rimangono importanti entrambi gli aspetti di
un’opera (presentazione e rappresentazione), il cui connubio può far assumere significati diversi e caratterizzanti dell’opera stessa.
Infine ho affrontato, negli ultimi capitoli, il disgusto per il corpo e per il
diverso, analizzando controculture e correnti come il Post-porno, per trattare il superamento dei tabù attraverso la rappresentazione ed il riscatto
di tutti quei corpi che sono sempre stati ritenuti come abietti e non desiderabili.
Il disgusto è un sentimento ambiguo, generato da diversi fattori, sia esterni che interni all’uomo, e che si prova quando si ha la consapevolezza di
ciò che si ha davanti: non si prova disgusto se degli escrementi sulla terra
vengono scambiati per la terra stessa, si proverà invece calpestandoli ed
accorgendosi che non erano terra, ma feci.
Questo sentimento può variare col variare del contesto: un pesce rosso
all’interno di un acquario non genera nessun sentimento di ripudio o di
abiezione, ma se prendiamo come esempio l’opera di Marco Evaristti del
2000, Helena, che consiste in un’installazione in cui dei pesci rossi vivi
sono messi all’interno di frullatori funzionanti e riempiti d’acqua, potremmo disgustarci. Anche se in entrambi i casi ciò che vediamo rappresentato
non è altro che un normalissimo pesce rosso che continua la sua esistenza,
è la differenza di contesto che fa emergere in noi questa emozione; l’idea
di un pesce all’interno di una vasca piena d’acqua è il normale ordine delle cose, mentre un pesce all’interno di un frullatore ci spinge ad immaginare la possibilità di avviarlo. L’idea che si crea nella nostra mente grazie
al frullatore, ci porta ad immaginare una scena rivoltante.
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si può parlare di un’aberrazione per la dimensione della vita umana a cui
abbiamo riservato questa riflessione. In essa vi è piuttosto qualcosa che
in sé ha senso e legittimità, qualcosa che, se lasciato libero di operare
incontrollatamente, ci precluderebbe l’accesso a tante delle cose di valore
della vita e ci impedirebbe di compiere molte opere nobili. Per questo il
disgusto richiede d’essere sottoposto a ripetuti esami, di essere continuamente raffinato, di essere portato alla luce con forza.
Riassumendo, questa emozione può essere generata dalla consapevolezza,
ovvero dalla presa di coscienza di ciò che ci troviamo davanti, dall’immaginazione di quello che ciò potrebbe diventare e dal contesto socio-culturale al quale apparteniamo.
Concludo con una poesia di Franz Werfel, il quale esprime l’idea che il
disgusto, come l’angoscia, possano essere superati. Nella sua prospettiva,
presenta come reale ciò che è disgustoso: alla vista del fiume di carogne,
Cristo e i suoi discepoli vengono sopraffatti da un senso di disgusto soffocante; egli però, annunciatore di un amore che non conosce limiti, implora
suo Padre, Dio, di concedergli un amore che sia più forte del disgusto – più
forte di questo, ma non al posto di questo. Diventato partecipe di questo
amore, Cristo si addentra nel brulichìo di cadaveri e carogne compiendo
un miracolo: un profumo di rose annuncia così la vittoria dell’amore sul
disgusto, anche se le forme ripugnanti non mutano in figure attraenti che
ne smentiscono l’abiezione. A proposito di ciò, Kolnai conclude che non
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Perché, orrore, davanti a noi colava
Selvaggiamente ammassato
Un fiume di carogne
Su cui danzava il sole.
[…]
Mi chiamavo amore e anche io, adesso,
Faccia alla più
mostruosa legge
Soffoco di conati
[…]
Padre mio, anche se sei
Mio padre,
Lasciami amare questo essere marcito,
Lasciami nella carogna leggere la tua pietà:
C’è ancora amore, dove c’è disgusto?!
[…]
Si piegò, furiosamente, in basso e seppellì
Le mani sotto vermi e parassiti:
Ed ecco, di rose si staccò un profumo,
Un profumo intenso, da quel biancore.
[…]
Egli però riempì ì suoi capelli
Con una piccola carogna e si ornò il capo di vermi
[…]
E trovandosi egli in così buio giorno,
Si aprirono montagne, leoni piansero
Alle sue ginocchia.
Franz Werfel, Gesù e la via delle carogne, n.d.
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Indice delle Immagini
1. Otto Muehl, Deturpazione di Venere, Trieste, 1978, foto di Mario Sillani
2. Hermann Nitsch, Aktion 1, Vienna, 1962, foto di Richard Niederbacher
3. Andres Serrano, Piss Christ, 1987
4. Orlan, copertina di Strip-tease: tout sur ma vie, tout sur mon art, 2021
5. Piero Manzoni, Merda d’Artista, 1961
6. Louise Bourgeois, Precious Liquids, Centre Pompidou, Paris, 1992
7. Cindy Sherman, n.d.
8. Robert Gober, Untitled, 1991
9. Meret Oppenheim, Colazione in pelliccia, 1936
10. Matteo Ingrao, serie per Infringe Magazine, 2020
11. Damien Hirst, The physical impossibility of death in the mind of someone living,
1991
12. Marc Quinn, Self, 1991/1996/2001/2006
13. Jana Sterbak. Vanitas: Flesh Dress for an Albino anorexic, 1987
14. Vito Acconci, Seedbed, Sonnabend Gallery, New York, 1972
15. René Magritte, Ceci n’est pas une pipe. 1928
16. Jon Rafman, Dream Journal, 2016
17. John Waters, Pink Flamingos, 1982
18. Franz Kafka, La Metamorfosi, 1915
19. David Cronemberg, Videodrome, 1982
20. Marcel Duchamp, Rrose Selavy, 1925, foto di Man Ray
21. Divine, in Pink Flamingos by John Waters, 1982
22. Locandina di open call, Muestra Marrana 7, 2015
23. Mutoid Waste Company, Glastonbury, 1987
24. Joseph Kosuth, One and Three Chairs, 1965
25. Marco Evaristti, Helena, 2000
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Bibliografia
Sitografia
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. Jean Clair, De Immundo, Milano, Abscondita, 2016
. Valentine aka Fluida Wolf, Post Porno – corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli
immaginari sessuali, Torino, Eris, 2020
. Dario Fo, L’Osceno è Sacro – La scienza dello scurrile poetico, a cura di Franca Rame,
Parma, Ugo Guanda Editore, 2010
. Tobia D’Onofrio, Rave New World – l’ultima controcultura, Milano, Agenzia X, 2018
. Umberto Eco, Storia della Bruttezza, Milano, Bompiani, 2016
. Filippo Contesi, Il Disgusto: tra arte e scienza, Milano, Mimesis, 2021
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