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© Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité Articoli/1 Lo straniero come paradosso ermeneutico Claudio Ciancio Articolo sottoposto a peer-review. Ricevuto il 01/04/2014. Accettato il 26/02/2015. The experience of meeting the stranger highlights how every human relationship consists of a dialectics of identity and otherness. Reducing one to the other means making the relationship among men impossible. The only viable way is a hermeneutical way different from Gadamer’s one. That way recognizes the principle of transcendence as the principle that at the same time testifies the irreducible otherness of every person and his possible communion with other persons. *** 1. L’ermeneutica e l’esperienza dell’incontro con lo straniero Nell’attuale contesto di confronto e anche di scontro fra le culture l’ermeneutica è messa alla prova e da questa prova mi sembra che provenga una conferma ma anche l’istanza di un approfondimento e persino di una parziale correzione. La superiorità dell’approccio ermeneutico al problema dell’interculturalità risulta evidente dal confronto con le altre posizioni prevalenti. La prima di queste posizioni è quella che afferma, almeno per alcuni universi culturali, l’incompatibilità reciproca, incompatibilità che rende inevitabile lo scontro di civiltà o può evitarlo solo con politiche isolazioniste, che però nell’attuale contesto di globalizzazione non sembrano praticabili. Le alternative più plausibili a questa posizione estrema sembrano essere quella dell’assimilazione, che è però una variante meno violenta di quella dello scontro, o quella che possiamo chiamare modello dicotomico, che distingue e separa ciò che accomuna e ciò che resta irriducibilmente diverso. Vi sarebbero cioè aspetti universali, su cui si potrebbe fondare l’accordo e la convivenza, e aspetti legati invece alla specificità delle tradizioni culturali che andrebbero lasciati sopravvivere nel loro aspetto esteriore e folclorico, ma sterilizzati ed emarginati nei loro aspetti profondi e potenzialmente conflittuali. Ora, se pur è vero che la convivenza richiede la pattuizione e l’osservanza di regole comuni, tuttavia la sterilizzazione degli aspetti specifici dei patrimoni culturali è una negazione del 17 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité loro valore e dell’importanza del loro apporto e si configura di fatto anch’essa come una riproposizione del modello dell’incompatibilità. Rispetto a questi modelli la superiorità di quello ermeneutico sta nella sua capacità di utilizzare le disposizioni specifiche di una cultura come possibili vie di accesso alla comprensione di altre culture senza una preventiva opera di riduzione e presupponendo, sia pure al limite, un’universale comunicabilità. Il vantaggio di questo modello sarebbe la possibilità del riconoscimento reciproco delle culture nella loro irriducibilità ma non incompatibilità, e una reciproca fecondazione che consente di far emergere in ogni cultura possibilità inedite, che, senza il confronto con altre culture, non si sarebbero configurate. Certo questo modello sembra peccare di un eccesso di ottimismo, come se non facesse i conti con l’insuperabile tendenza conflittuale che l’alterità come estraneità porta con sé. E in effetti credo che l’esperienza dell’incontro con lo straniero metta, se non in crisi, almeno in difficoltà il modello ermeneutico e specialmente quello gadameriano. Come ci può infatti essere quella fusione degli orizzonti, che è il presupposto della comprensione, quando manca qualsiasi continuità della tradizione? La relazione con lo straniero, con la persona di lingua, costume, cultura e religione diversi e lontani dai nostri, sembra avere una sua specificità, che non consiste semplicemente nel manifestare una più accentuata differenza. Diversamente dalle relazioni con la famiglia o con la propria cerchia sociale o con coloro che appartengono alla propria tradizione culturale, la relazione con lo straniero prende le mosse dall’estraneità, non è cioè esperienza di una familiarità talvolta interrotta o difficile, ma anzitutto esperienza di estraneità. Di fronte allo straniero siamo immediatamente a disagio, angosciati dall’imprevedibile o almeno diffidenti. Questa reazione non va trascurata o banalizzata, non può essere attribuita moralisticamente a un deficit etico o illuministicamente a un deficit culturale. È una reazione che rivela qualcosa di importante, e cioè che l’alterità dell’altro è irriducibile e assolutamente indisponibile, portatrice di un modello culturale che ci disorienta e che mette in discussione il nostro. Quando si considerano poco rilevanti le differenze, allora ciò che costituisce lo specifico dell’altro, la sua cultura, la sua religione, finisce per essere svilito proprio da questa apparente apertura a lui. Occorre invece riconoscere che l’incontro è difficile e lo è precisamente perché le differenze sono importanti. In un certo senso si deve dire che è meglio ingigantirle piuttosto che assottigliarle. Per passare dallo scontro a una forma di incontro non banale e superficiale, occorre che la relazione con l’altro allo stesso tempo non sia ridotta, per far prevalere i momenti di identità, e non sia dissolta, per far prevalere i momenti di alterità. Ma com’è possibile ciò? Cercherò di mostrare che lo è soltanto se, paradossalmente, l›alterità è costitutiva dell›identità di ogni soggetto umano singolo o collettivo. Se infatti vi è un momento di alterità costitutivo della stessa identità, allora si potrà trovare la possibilità di convergenza con l›altro proprio a partire da quella comune esperienza di alterità. Ora questa costitutiva esperienza 18 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité di alterità si dà precisamente in quell›aspetto della cultura che più di ogni altro sembra oggi rendere inevitabile lo scontro, vale a dire nell’esperienza religiosa. Per lo più si pensa che l’incontro fra culture diverse diventi possibile solo se le religioni si secolarizzano, nel senso di ridursi a un nocciolo razionale condivisibile da tutti gli uomini all’identico modo. Ma non è così. Si dovrà invece fare in modo che esse siano più fedeli a se stesse, e cioè a quella verità trascendente (ecco qui la dimensione di alterità!) che è propria di tutte le religioni in modo più o meno chiaro e lineare. L’esperienza religiosa non è l’ostacolo maggiore all’incontro con lo straniero, ma quella che può renderlo possibile, perché l’esperienza di Dio è, almeno nelle religioni monoteistiche, la più profonda e radicale esperienza dell’Altro. 2. L’essere straniero nell’esperienza biblica Vediamo meglio questo paradossale costituirsi dell’identità religiosa come esperienza dell’alterità nella religione biblica. Si pensi anzitutto a come si esprime la vocazione del padre della fede, Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria» (Gn 12, 1): abbandona dunque le tue radici, la tua identità; anzi Dio gli cambia persino il nome (da Abram a Abraham). E la condizione di straniero caratterizza i discendenti di Abramo fino all’Egitto e all’esperienza del deserto. E pensiamo poi allo stesso patto di alleanza, che è sancito con la consegna della legge. Il suo forte contenuto etico ne fa un’esperienza di alterità e di trascendenza: la Torah sancisce un’alleanza che non ha lo scopo di avvicinare gli uomini a Dio facendoli entrare nella sfera del sacro; la legge interrompe il soddisfacimento del desiderio e la fusionalità, pone dei limiti, rende invalicabile il confine che ci separa dall’altro e ne impone il rispetto. Si pensi infine all’attenzione e all’accoglienza dello straniero che la legge comanda, spesso associandolo alla vedova e all’orfano: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Es 22, 20). Ancora di più dice un passo del Levitico (19, 34), che va al di là della semplice tolleranza per identificare lo straniero con il prossimo (non più il lontano ma il vicino), con colui che è come noi: «Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto». In ambedue i casi si sottolinea l’uguaglianza di esperienza fra stranieri e Israeliti: la condizione di forestiero è parte essenziale della vicenda di questi ultimi. E il Salmo 38 lo dice espressamente: «Io sono un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri». Abbiamo qui dunque una dimensione di alterità che è costitutiva dell’identità e proprio per questo rende possibile una relazione con l’altro, che non sia una semplice negazione né dell’identità propria né di quella dell’altro. Si tratta qui certo di un’alterità etnica e territoriale, che tuttavia si lega strettamente all’esperienza religiosa. Nel Nuovo Testamento, poi, mentre perde rilievo la definizione etnica e politica di straniero, diventa centrale la condizione esistenziale di straniero propria del cristiano. Come l’ebreo si sentiva esule e straniero lontano da Gerusalemme, 19 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité così il cristiano si sente esule e straniero rispetto alla nuova Gerusalemme. Nella prima Lettera di Pietro i cristiani sono definiti «pellegrini e ospiti sulla terra» (2, 11) e nella Lettera agli Ebrei si pongono in continuità la fede dei patriarchi e quella dei cristiani dicendo che tutti i credenti «ora aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste» (11, 16). Senza cadere nell’interpretazione dualistica ed evasiva che molta spiritualità cristiana ha conferito a questa estensione dell’esperienza di estraneità, occorre riconoscere che è costitutiva dell’esperienza cristiana questa tensione verso l’Altro, verso la novità radicale, anche se questa relazione con l’Altro (con l’Infinito) entra in conflitto (a causa della condizione di peccato) con la relazione (altrettanto costitutiva) che abbiamo con noi stessi e con il mondo. Non si può perciò definire il cristianesimo come una religione della familiarità, delle radici, dell’identità. E nemmeno lo si può definire una religione dell’interiorità, che è un altro modo per accentuare il momento dell’identità. Quando dice che la verità abita in noi (in interiore homine) e che Dio è più intimo a noi di quanto noi lo siamo a noi stessi, Agostino evidenzia una differenza fra l’intimità di Dio e la nostra intimità e le due intimità entrano in tensione, una tensione paradossale perché sono due dimensioni del medesimo soggetto, cioè di noi stessi. Il cristianesimo non è una religione della conciliazione: non concilia né con se stessi né con le proprie radici né con la ragione né con l’ordine sociale e politico. Il cristianesimo è sempre anche essenzialmente tensione, contraddizione, estraniazione, differenza, perché è sempre anche attesa del futuro escatologico. Questa esperienza religiosa come esperienza di trascendenza sembra essere la condizione fondamentale della possibilità di incontro con lo straniero, proprio perché attraverso di essa l’io si scopre nella sua identità paradossalmente costituito da un’alterità. Lo straniero diventa riconoscibile e relazionabile all’io perché già abita in lui: lo straniero non ci confronta semplicemente con ciò che è fuori di noi ma con ciò che già è in noi. Perché allora le religioni aggravano in molti casi la difficoltà di incontro con lo straniero e favoriscono lo scontro di civiltà? Perché in molti casi tradiscono la loro costitutiva relazione con la trascendenza e si secolarizzano nel senso che diventano potenze mondane identitarie, ma in questo modo, per la loro grande forza spirituale che esercitano, producono effetti rovinosi: corruptio optimi pessima. 3. Ribaltamento del rapporto familiarità-estraneità Il paradosso che definisce la relazione con lo straniero, come relazione che è resa possibile precisamente da ciò che sembra impedirla, è quello di un’alterità che può avvicinare. Ma il paradosso si ripropone simmetricamente riguardo ai rapporti di familiarità, che sono fondati, come cercherò di mostrare, su una vicinanza che diventa alterità. La relazione di familiarità è anzitutto una relazione rassicurante. Non a caso la xenofobia, soprattutto oggi, fa leva proprio sul richiamo alla sicurezza: lo straniero è come tale un potenziale attentatore alla nostra sicurezza. La paura 20 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité che nasce dall’insicurezza trova conforto quando individua la sua causa nel volto dello straniero, nei suoi abiti, nei suoi costumi e nella sua religione, invece che in complessi fattori, economici, sociali e culturali. Si ha bisogno di spiegazioni semplici, perché la stessa semplicità della spiegazione è rassicurante, e si ha bisogno di capri espiatori facilmente identificabili; mentre invece le spiegazioni complesse, difficili da comprendere, che individuano cause e responsabilità diffuse rendono sfuggente la minaccia e, anziché liberarne, provocano angoscia. Rassicurante è invece chi, in quanto familiare, immediatamente conferma la nostra identità: è un altro nel quale troviamo una variazione di noi stessi o del quale almeno possiamo comprendere e prevedere gli atteggiamenti. Ma è facile vedere come questa familiarità sia, nel migliore dei casi, povera e riduttiva, e come il senso di sicurezza possa degenerare in disinteresse e in noia. Quando dall’altra persona non c’è più da attendersi nulla di nuovo, l’interesse per lei si spegne, allo stesso modo in cui si spegne l’interesse per la vita quando ci si può attendere soltanto una ripetizione del già vissuto, e ciò anche nel caso in cui la nostra vita sembri felice. Quando i gesti e le reazioni diventano scontati, abitudinari, la vita si spegne: l’abitudine, come ripetizione dell’identico, mentre appare rassicurante, diventa immagine ed anzi anticipazione del rigor mortis. Molte relazioni umane si estinguono per questa ragione, perché dall’altro non ci si aspetta più nulla di nuovo, ma solo la ripetizione delle stesse cose e delle stesse parole. C’è una pagina straordinaria dei Diari di Max Frisch, che illustra bene questo rischio in riferimento all’esperienza dell’amore. Ne riporto qualche passaggio: «È degno di nota il fatto che proprio della persona che amiamo non possiamo dire affatto come ella sia. La amiamo semplicemente. [...] L›amore libera da qualsivoglia immagine. [...] La nostra convinzione di conoscere l›altro è la fine dell›amore; [...] poiché il nostro amore è al termine, poiché ha esaurito la sua forza, è per questo che la persona per noi è finita. [...] “Tu non sei”, dice il deluso o la delusa, “chi ritenevo che tu fossi”. E chi ritenevano che fosse? Un mistero, quale la persona sempre è, un enigma, ed è ciò che non abbiamo più la forza di sopportare. Ci facciamo allora un’immagine. In ciò sta l’assenza di amore, il tradimento»1. Il passo ricorda il divieto biblico di farci immagini: farci un’immagine è pretendere di sottoporre l’alterità infinita al nostro sguardo abbracciante e penetrante. Le patologie della famiglia, della comunità o dell’amicizia hanno che fare con questa distorsione, cioè con il prevalere del principio di assimilazione, che si esercita anzitutto come pretesa di conoscere l’altro e che conduce d’altra parte a respingerlo nella misura in cui egli si sottrae all’assimilazione o almeno alla prevedibilità del comportamento. In termini psicologici si parla della mancanza del terzo (l’altro irriducibile), mancanza che produce rapporti duali in cui l’uno mangia l’altro, lo assimila, e, quando non ci riesce più, giunge a distruggerlo (come ben sappiamo dalla cronaca quotidiana). La causa della crisi della famiglia va ricercata non esclusivamente ma certo anche M. Frisch, Die Tagebücher 1946-49, in Gesammelte Werke, 2, Frankfurt/Main 1976, pp. 369370. 1 21 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité in questa distorsione psicologica e morale, per la quale si cerca di far prevalere il principio dell’identità su quello dell’alterità. Queste osservazioni, ovviamente, non vanno spinte fino a proporre la semplice sostituzione dell’alterità all’identità, una sostituzione che non risolverebbe il problema, perché produrrebbe soltanto una non relazione. Al contrario si tratta di pensare una relazione nella quale l’identità cresce parallelamente al crescere dell’alterità, l’assimilazione cresce parallelamente al crescere della dissimilazione. E la condizione di possibilità di questa paradossale coincidenza è quella che abbiamo detto e cioè la presenza nell’identità, come suo principio costitutivo, della stessa alterità. Solo perché in me stesso riconosco la presenza di una vera alterità, posso incontrare l’altro senza con ciò semplicemente negare me stesso e senza negare l’altro. Il mancato riconoscimento di questa presenza dell’alterità nell’identità, come produce la disgregazione dei rapporti famigliari, amicali e sociali, così pure rende impossibile o fallimentare l’incontro con lo straniero. Invece che incontrare si cercherà di catturare e assimilare l’altro; ma questo è impossibile: quel che se ne assimila e cattura non è lui stesso, l’altro sfugge alla presa. Come chi vuole afferrare Dio si ritrova con un idolo, così chi vuole impadronirsi di un uomo può giungere anche a imprigionarlo, a soggiogarlo e persino a ucciderlo, ma in questi modi non si impossessa della sua alterità, perché lo riduce alla misura dei suoi poteri e si lascia perciò sfuggire ciò che egli propriamente è. 4. L’universalità trascendente L’unilateralità dei principi di identità e di alterità dovrà essere superata, non però in una mediazione che dia luogo a un’identità più ricca, ma in un principio di unità capace di reggere e tenere in comunicazione i due principi dell’identità e dell’alterità evitando la riduzione dell’uno all’altro e quindi l’impossibilità della relazione. Questo principio, che fonda allo stesso tempo l’alterità costitutiva di ogni identità e l’identità costitutiva di ogni alterità, è la trascendenza. La condizione ultima di possibilità di incontro, di comunicazione e di fecondazione reciproca fra le diverse identità, personali e culturali, è che vi sia una partecipazione comune degli uomini, per quanto turbata e nascosta, all’unica verità trascendente. L’incontro infatti avviene e la relazione si istituisce a condizione che le diverse identità siano riconosciute nella loro reciproca irriducibilità ma non incompatibilità. E ciò è possibile appunto soltanto se possono essere riportate a un comune principio di differente livello ontologico. Ogni finito è altro non semplicemente nella sua particolarità, ma in quanto quella particolarità è portatrice di un’infinità (che è poi l’infinità della libertà), che rende impossibile ogni mediazione con altre analoghe finitezze, ogni risoluzione in una superiore identità, e che tuttavia accomuna ad ogni altra analoga finitezza essendo la sorgente inesauribile di tutte. Ogni finito è altro in modo irriducibile in quanto è costituito dalla trascendenza, da quell’infinità 22 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité e inesauribilità da cui scaturisce e che fa sì che non possa essere determinato e conosciuto senza rivelare sempre nuove inesauribili profondità. L’alterità di questo finito-infinito rispetto agli altri finiti-infiniti non nasce dalla relazione con essi, ma dall’alterità trascendente (dell’infinito) da cui è costituito e che conferisce alla sua particolarità una profondità infinita, tale da impedire ogni mediazione e risoluzione in un’identità superiore. D’altra parte questa medesima alterità trascendente è ciò che rende possibile affermare l’unità (un’unità della comunicazione e non della mediazione) dei finiti-infiniti, di modo che proprio ciò che radicalizza l’alterità è ciò che fonda l’unità. Il nesso di irriducibilità e compatibilità si scioglie quando prevalga o una visione relativistica o al contrario una visione assolutistica della verità. Per i relativisti non vi è propriamente nessuna verità, ma allora nessuna prospettiva merita di essere presa sul serio, sono tutte indifferenti. Certo da questo punto di vista non si fa la guerra all’altro motivandola con un presunto superiore possesso della verità, ma nemmeno si valorizza la prospettiva dell’altro. Per gli assolutisti della verità invece non resta che la distruzione della prospettiva altrui (considerata falsa) o l’integrazione nella propria (considerata l’unica vera). Al relativismo si dovrebbe invece sostituire il prospettivismo ermeneutico e l’alternativa fra integrazione e distruzione dovrebbe essere sostituita dalla fecondazione reciproca. La verità trascendente è principio di universalità, perché le molteplici identità culturali e religiose possono essere viste come punti di vista (magari mescolati con errori) sull’unica verità e come tali capaci di riconoscersi reciprocamente senza peraltro integrarsi. Riconoscimento reciproco significa non soltanto rispetto, ma anche fecondazione reciproca, perché l’incontro con l’altro può non tanto aggiungere pezzi alla nostra identità o stravolgerla, quanto piuttosto fare in modo che questa sviluppi meglio potenzialità, che restavano nascoste e implicite, e che proprio l’incontro con l’altro fa emergere e può far emergere in quanto proviene dalla comune verità trascendente. Incontrare lo straniero significa allora apprendere anche su se stessi, imparare a conoscere e ad approfondire la propria identità, abituandosi a non irrigidirla, ma piuttosto a considerarla un’identità vivente e mobile, come identità che non sta in rapporto soltanto con se stessa, un’identità che non è autoreferenziale, ma un’identità che sta in rapporto con una verità che la costituisce ma anche la trascende, abbracciando altre identità e mettendo in comunicazione con esse. Lo straniero ci è maestro perché, più che coloro che ci sono familiari, ci aiuta a incontrare la nostra identità e a renderla vivente. Ma, anzitutto, incontrare lo straniero significa fare un’esperienza di trascendenza, di oltrepassamento verso il totalmente Altro, verso quella verità che è la fondamentale condizione dell’incontro. E poiché nell’incontro con lo straniero siamo sollecitati a esplorare le vie di una comunione nell’alterità, allora lo straniero ci è maestro anche in un altro senso, nel senso che è proprio questa esperienza estrema dell’incontro con lui la via attraverso la quale possiamo guadagnare un rapporto più autentico con chi ci è più vicino e familiare. La relazione con lo straniero, con colui di cui non 23 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité si comprende la mentalità, la cultura, i costumi e anche la lingua, non fa che evidenziare un carattere proprio e costitutivo di ogni relazione: l’eccezionalità del rapporto con lo straniero non è poi così eccezionale. Essa c’insegna a riconoscere l’alterità irriducibile al di sotto di ogni affinità, a riconoscere lo straniero anche in chi ci è più familiare. La familiarità, se è una familiarità nella libertà, non è infatti reciproca trasparenza fino alla fusione. La fusione priva della libertà, che viene completamente soffocata dall’appartenenza e dall’identificazione. Se la relazione di familiarità ha un vantaggio, è quello di presupporre la possibilità della comunione per fondare su di essa l’accoglienza dell’alterità, ma questo vantaggio è pagato con il rischio di dissolvere l’alterità. Potremmo allora esprimere il paradosso che regge tutta la questione anche in questi termini: non si tratta tanto di rendere lo straniero più familiare, quanto piuttosto di rendere il familiare più straniero. Ciò che avvicina non va trascurato o addirittura negato, ma deve essere oltrepassato per ritrovare l’irriducibile alterità proprio in ciò che più avvicina. Si tratterà di mettere in luce le differenti declinazioni che ciascuno offre degli stessi elementi comuni: lingua, orizzonte culturale, religione, famiglia. E in questa forma, nella quale appaiono anche le differenze irriducibili, gli elementi comuni non saranno uguaglianze ma piuttosto convergenze e armonizzazioni che indicano l’unità possibile, unità della comunione (della pluralità dei diversi) e non della conformità. L’incontro con lo straniero sollecita allora una profonda revisione dei rapporti di familiarità, che rende attenti all’alterità irriducibile, così come, d’altra parte, le esperienze di familiarità sollecitano la ricerca della comunione nell’estraneità. 5. Trasformazione dell’ermeneutica in ermeneutica della trascendenza e del paradosso Questo riconoscimento dell’alterità né riduttivo né escludente può trovare giustificazione filosofica solo in una prospettiva ermeneutica. E tuttavia il pensiero ermeneutico prevalente, se giustifica la compatibilità e l’incontro dialogico fra le molteplici prospettive sulla verità, non sembra misurarsi adeguatamente con la dimensione dell’alterità considerata nella sua irriducibilità ultima. Il limite dell’ermeneutica, soprattutto gadameriana, è quello dell’inclusività, anche se riconosce le fratture, le interruzioni della comunicazione. Ma non si tratta solo di riconoscere un limite della comprensione; si tratta piuttosto di recuperare la dimensione qualitativa dell’interruzione. Si tratta cioè di considerare l’interruzione della comunicazione non come caso-limite e come un limite progressivamente erodibile, come fa Gadamer quando a questo proposito scrive che «fra gli uomini sarebbe necessario un dialogo infinito»2. Gadamer pensa che l’ermeneutica debba «servire a eliminare la separazione e l’estraneità tra io e tu»3, e che il suo motivo centrale sia «quello del superamento dell’estraneità H.G. Gadamer, ‘E tuttavia: potenza della volontà “buona” ‘, in «Aut-aut», CCXVII-CCXVIII, 1987, pp. 62-63. 3 H.G. Gadamer, Verità e metodo 2, trad. di R. Dottori, Milano 1995, p. 78. 2 24 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité e dell’appropriazione dell’estraneo»4. Ma si tratta piuttosto di pensare la radice dell’incomunicabilità ultima come la condizione anche della comunicazione e della familiarità. L’estraneità, la non comunicazione, la non comprensione, il restare estranei, non è una distanza che si possa progressivamente erodere ma, come dicevo, un momento costituivo della stessa familiarità. L’ermeneutica deve allora assumere la forma di una dialettica paradossale e ciò grazie proprio all’esperienza dell’incontro con lo straniero. Al definirsi di questa esperienza nella forma di una dialettica paradossale conduce la recente e brillante analisi di Umberto Curi in Straniero. Muovendo dall’analisi della duplicità dello Unheimlich freudiano risale alle radici indoeuropee del concetto di ospite come dono e minaccia5 analizzando in particolare la Xenia greca e l’ambiguità dei termini hostis e hospes. Interessante nell’analisi di Curi è il fatto che l’insuperabile ambiguità strutturale dello straniero sia declinata ricorrendo al mito platonico di Eros e alla pratica greca del symbolon. Le due tessere del symbolon rinviano a un’unità originaria nella quale non v’era duplicità ma unità6. Analogamente l’Eros del Simposio, intermedio tra Penia e Poros, è costitutivamente duplice7, una duplicità che rinvia al mito dell’androgino, per il quale solo mettendo insieme le due parti divise si può ricostituire l’intero dal quale gli uomini provengono8. Seguendo questi modelli classici, si dovrà pensare che l’identità si costituisce solo attraverso la relazione con l’altro9, in quanto esso è la parte a noi mancante. In questo senso Curi può affermare l’imprescindibilità del rapporto con lo straniero dicendo che il confine tra il medesimo e l’altro è problematico, che ogni forma di identità del sé è intaccata10 e che lo straniero è più prossimo a me di me stesso11. Questo modello ha molti punti di contatto con quello che intendo proporre, il modello cioè del paradosso ermeneutico, che tuttavia riesce a giustificare meglio quegli aspetti. Nel modello proposto da Curi la dimensione di alterità del rapporto con lo straniero è allo stesso tempo assolutizzata e ridotta. Assolutizzata perché diventa un rapporto di semplice esteriorità (le due metà stanno una accanto all’altro senza aver nulla in comune); ridotto perché risolvibile, almeno idealmente, in una perfetta superiore unità (le due metà combaciano). Anche Derrida ha sostenuto una radicale alterità affermando, nel corso di un confronto con Gadamer, che vi è un’interruzione, un’irriducibile intervallo, che condiziona ogni possibile comprendere: «ci si può domandare se la condizione del Verstehen, invece di essere il continuum del rapporto, […] non sia piuttosto l’interruzione del rapporto, un certo rapporto di interruzione, la sospensione di Ivi, p. 253. U. Curi, Straniero, Milano 2010, p. 12. 6 Ivi, p. 66. 7 Ivi, p. 92. 8 Ivi, p. 96. 9 Ivi, p. 139. 10 Ivi, p. 149. 11 Ivi, p. 16. 4 5 25 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité qualsiasi mediazione?»12. Questa insuperabile interruzione dà luogo in Derrida a una strategia del compromesso, peraltro più presente nel primo Derrida, che prende le distanze dalla radicalità di Levinas per affermare l’inevitabilità di una mediazione con l’altro, che pure non può non essere segnata da una certa violenza. Ma è possibile anche un altro esito, quello a cui conduce ad esempio lo Straniero di Camus. Meursault attraversa la società come straniero, straniero non tanto per lingua o cultura o religione, ma piuttosto come esistenzialmente straniero, estraneo alla morte della madre, all’amore di Maria, all’uccisione dell’arabo, alla sua propria morte, come a ogni condizione di vita. C’è «un’indifferenza del mondo», che peraltro, svuotando ogni speranza, genera alla fine un certo senso di felicità. Del resto il tema della rivolta, centrale nel pensiero di Camus, implica non solo resistenza ma anche adeguamento, un imparare a vivere e a morire, una lucida accettazione della finitezza quale essa è, senza evasioni o compromessi. Le posizioni di Camus, Derrida e Curi in modi diversi propongono un’alterità assolutamente irriducibile, con la quale però ci si può conciliare. Ma questa conciliazione resta del tutto estrinseca, e, proprio perché estrinseca, sta sotto il segno dell’ambiguità: è la conciliazione dell’indifferenza in Camus, quella del compromesso e della riduzione del conflitto in Derrida, o è quella della giustapposizione di parti combacianti in Curi, una giustapposizione nella quale si passa da una mera esteriorità a una risoluzione dell’alterità in una superiore unità in cui essa scompare. Alterità e identità diventano compatibili senza ridursi o addirittura annullarsi, solo se, come dicevo, il principio di unità è allo stesso tempo principio che accomuna e che separa o, meglio, che accomuna nel separare e separa nell’accomunare, principio di unità proprio nell’essere assoluta alterità, principio trascendente costitutivo di ogni finitezza libera, che fa di ogni finito un finito-infinito. Tornando conclusivamente all’ermeneutica, riconosceremo ad essa la capacità di giustificare un’universalità non riduttiva, così come riconosceremo alle filosofie dell’alterità il merito di stabilire un limite invalicabile alla mediazione, aggiungendo però che ambedue non fondano la possibilità dell’incontro con l’altro, quando non riconoscano la verità trascendente come radice che mette in comunione separando e separa mettendo in comunione. In un’ermeneutica della trascendenza si può pensare la compatibilità fra l’essere plurale e l’unità dell’essere, perché solo in essa si pensa la pluralità come pluralità di irriducibili (uomini, religioni, culture, opere e, più in generale, interpretazioni), che sono ciascuno manifestazione dell’unico essere inesauribile. Il riconoscimento dell’alterità esige quel rapporto ermeneutico nel quale la congenialità e il processo di comprensione giungono al loro apice quando si spalancano nuove inesauribili, ed anzi insondabili, dimensioni ed ogni J. Derrida (1987), ‘Buone volontà di potenza (Una risposta a Hans-Georg Gadamer)’, in «Autaut», CCXVII-CCXVIII, 1987, p. 60. 12 26 © Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 20, 2016 (I) - Herméneutique et interculturalité momento di assimilazione (di ciò che riconosciamo riconducendolo al già noto) è attraversato da un contrario movimento di dissimilazione, per cui, quanto più approfondiamo la conoscenza, tanto più diventa smisurato quel che non sappiamo, più afferriamo e più la presa ci sfugge, più ci familiarizziamo e più restiamo sorpresi, più troviamo somiglianze e più aumentano le differenze. Proprio perché conosco meglio lo straniero, so che nel suo fondo egli resta inconoscibile. Conoscere è sempre riportare a un universale, ma l’universale ermeneutico non è un universale oggettivabile, perché vive soltanto nelle sue particolari e irriducibili declinazioni, fra le quali si può riconoscere soltanto, per così dire, una certa aria di famiglia. Se dunque conosco lo straniero in ciò che gli è più proprio, ho una conoscenza che certo non è soltanto negativa o particolare, ma tuttavia apre a un’inesauribilità di contenuto. Un’ermeneutica della trascendenza è un’ermeneutica che si orienta verso un pensiero del paradosso, che tiene insieme dialetticamente, senza mescolanze né sintesi compiute, due movimenti contrari. Una comprensione autentica dell’altro ci avvicina - ripeto - a lui proprio nel mostrarcene l’alterità irriducibile, e in tale alterità irriducibile l’altro si mantiene in una lontananza estrema; l’alterità inesauribile è contenuta soltanto in ciò che comprendiamo, e però vi è contenuta solo nella forma di ciò che eccede la comprensione. Tra familiarità ed estraneità, tra identità e alterità, tra comprensione e inafferrabilità vi è dunque un rapporto di unità e opposizione, nel quale i due termini si sostengono reciprocamente. A questa dialetticità paradossale l’ermeneutica è indirizzata proprio quando esce dal tranquillo alveo della tradizione per prendere sul serio la drammatica difficoltà dell’incontro con lo straniero. Claudio Ciancio, Università del Piemonte Orientale * claudio.ciancio@fastwebnet.it 27