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MORALE A + B UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO APPUNTI DAL CORSO DELLA PROF. ENZO COCCO MODULO A - IL VIAGGIO Sia nel viaggio (movimento verso un altro luogo non dislochiamo la nostra persona, dislochiamo anche il modo di pensare nostro. Il viaggio è una esperienza che ci mette in contatto con l’altro e con noi stessi. Il viaggio ha a che fare con la soggettività. Il viaggio ci mette in contatto con l’altro da noi. Ci possono essere dei viaggi avventurosi che non presuppongono la dislocazione) sia nel rapporto con lo straniero (lo straniero lo pensiamo sempre come la figura che dall’esterno giunge, colui che è extra ordinario, che sta fuori dalla nostra vita comune senza accorgerci che c’è una stranierità in noi, tutta la parte che non conosciamo di noi ci è straniera). Perché Voltaire? Filosofo dell’illuminismo. Nell’illuminismo capita qualcosa di particolare. Nei racconti che leggeremo di Voltaire i protagonisti sono tutti stranieri che giungono per raccontare chi sono i francesi. Viaggio, stranieri che viaggiano, scoperta di sé, rapporto con lo straniero (rapporto dell’altro con sé e rapporto di sé con sé). La luce in filosofia è sempre vista come la verità. L’epoca dei lumi è forse una delle poche epoche che si è giudicata e si è giudicata come l’epoca dei lumi (la fiaccola della ragione). Gli illuministi hanno consapevolezza delle tenebre. Diderot e Voltaire sanno che oltre ad esserci un punto di luce (flambé) ce n’è un’altra (torcia), la differenza tra i due è che le fiaccole che si accendono e si spengono. Gli illuministi hanno la consapevolezza che la verità non sia un possesso (c’è un filo sottilissimo tra ragione e follia, dialogo tra democrito e ippocrate). 1761 il filosofo ignorante – Voltaire richiama Socrate. Il 56esimo dubbio di questo libro scrive “in quest’epoca che è l’aurora della ragione” dice che è l’AURORA della ragione (giorno e notte, luce e ombra sono compresenti, nessuno prevale sull’altro). Discorso sul crepuscolo (quello della sera e quello del mattino). Qui ci dice che la ragione non è un possesso ma è una tensione. L’età della luce dura poco e l’età della barbarie dura secoli (discorso di dalambere in capo all’enciclopedia). La conquista della ragione è come la conquista dell’amore, non basta innamorarsi un giorno e basta, bisogna coltivarlo giorno per giorno. Così è anche la ragione. Non basta essere intelligenti una sola volta per esserlo sempre (sono sempre di più le cose che non sappiamo di quelle che sappiamo). Il cammino è così lungo e accidentato che ammette infinite soste e solo intraviste mete. Coappartenenza dei contrari. I contrari sono due cose separate ma sono legati ad un unico capo. - Li possiamo pensare nella loro esclusività (c’è l’uno e non c’è l’altro), li pensiamo separati; Li possiamo pensare come “una volta c’è l’uno e una volta c’è l’altro”; Li possiamo pensare “quando c’è l’uno, c’è paradossalmente anche l’altro” (come se fosse l’ombra). La passeggiata è la mobilità del pensiero. Il viaggio è una metafora nata in occidente, nell’aurora della cultura occidentale (che è l’odissea, la figura è Odisseo). La figura del viaggio e, di rimando, la figura di Odisseo sono figure che finiscono o che in vari tempi sono state reinvestite? Sono state reinvestita nel tempo, basti pensare il cambiamento che c’è tra l’Ulisse di Omero e quella di Joyce, passando per quella di Dante. La figura si arricchiva di tratti culturali. La figura è generale ma si arricchisce di particolarità. In Dante, la figura di Odisseo si trasforma, fa l’alto volo, si carica della tracotanza umana. Un racconto di un viaggio è anche Moby Dick che inizia dicendo “chiamatemi Israele”. Il viaggio è una figura utilizzata per parlare di due cose: - “il movimento del soggetto”; “il percorso della ragione”. In occidente, il viaggio è diventato una metafora dell’esistenza dell’uomo, per dire delle sue ansie, dei suoi desideri, delle proprie bonacce, dei propri naufragi. La figura del viaggio è diventata nel corso del tempo il modo attraverso il quale la soggettività occidentale si è raccontata. La figura del porto possiamo concepirla dentro una metafora di un viaggio marino, della navigazione. La figura dello scoglio possiamo concepirla dentro una metafora di un viaggio marino, della navigazione. Hans Blumenberg scrisse “Paradigmi per una metaforologia” dove divideva “metafore assolute” (es. viaggio) da “metafore derivate” (es. porto, scoglio…). L’occidente, terra del tramonto, ha pensato al viaggio come metafora del movimento del soggetto, movimento dell’io che attraverso il viaggio si racconta, dice di sé, dice chi è (raccontando le sue vittorie e le sue sconfitte, le sue mete e le sue soste, le sue speranze e le sue disperazioni). Il viaggio è una metafora esistenziale, una metafora attraverso la quale possiamo capire qualcosa di quell’autore, il significato della vita di quel personaggio che racconta il proprio viaggio. Quando si parla di movimento ci riferiamo, ovviamente, al movimento interiore, spirituale, parliamo di trasformazione, cambiamento. Il viaggio ha una tripartizione al suo interno: PARTENZA ARRIVO RITORNO Il fatto che a volte non ci sia ritorno è significativo e, nel momento in cui ci sia, non è detto che sia definitivo. Il viaggio, si è detto, è anche la rappresentazione dei percorsi della ragione, il movimento della razionalità. Questo spiega come in filosofia ci sia una diffusa tradizione della metaforica del viaggio, soprattutto del viaggio marino. Platone, ad esempio, parla di “seconda navigazione”. Nel discorso nautico, la prima navigazione era la navigazione fatta con le vele (le navi si muovevano grazie al vento, elemento naturale). La seconda navigazione era la navigazione fatta con i remi (le navi si muovevano grazie alla forza degli uomini, elemento spirituale). In questo caso la metaforica del viaggio marino serve per spiegare i percorsi della ragione. Anche Locke quando deve esprimere il proprio metodo filosofico ricorre ad una metafora marina. Per raccontare il suo metodo dice che bisogna “bordeggiare” (per non perdere di vista la terra, le cose così come sono) con sonde e scandagli (perché il pericolo che la ragione corre è quello di fare naufragio). Le caratteristiche della figura: - Particolarità: nasce in quel tempo e deve dire di quel tempo; Universalità: può dire anche di un altro tempo. PAUL NIZAN Paul Nizan scrive Aden Arabie, un’opera che parla di un viaggio. Lì diventerà comunista capendo che l’oppressione dell’uomo sull’uomo non è solamente nel luogo di partenza, nelle civiltà avanzate. Egli parte pensando di poter trovare l’altro e invece trova le stesse cose da dove viene. “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita” Per Nizan il viaggio porta verso il medesimo e sempre uguale, cosa che pensava già Baudelaire in “Le voyage”, poesia che chiude “Les fleurs du mal”. Il viaggio, per Baudelaire, inizia con una lacerazione, con una separazione (il cuore gonfio di rancori e desideri amari). I veri viaggiatori sono coloro che non hanno una meta (ma i veri viaggiatori partono per partire; cuori leggeri, s’allontanano come palloni). Il viandante è colui che non crede nella meta. Per molti, il non esserci la meta può essere una cosa triste. In realtà, dice Baudelaire, se la meta non c’è può, invece, essere dappertutto. Ciò significa relativizzare l’assoluto. Lo stesso discorso lo si può fare con l’amore: c’è chi crede nell’assoluto e quindi in un unico amore, anzi nell’amore. Chi relativizza l’assoluto è convinto che l’assoluto possa trovarsi dappertutto, quindi non si cerca l’amore ma un amore. Abbiamo tre diverse visioni del tempo: - Il tempo orizzontale: il tempo della caducità (questo è anche il tempo dell’assoluto); Il tempo verticale: il tempo della storia; Il tempo circolare: il tempo della natura (questa è la visione della relativizzazione dell’assoluto). Ora, Nizan dice: ci mettiamo in viaggio perché amiamo essere laddove non siamo. Il viaggio era per noi come il vaso di Pandora (utilizza questa metafora per elencare i motivi per cui si viaggia). Dentro cosa c’era? C’erano: la libertà (è anche un male perché liberarsi è anche esporsi. Decidere di partire per liberarsi vuol dire che vengo da una schiavitù), il disinteresse, l’avventura, la pienezza (decido di partire perché mi sento vuoto), la pace (decido di partire perché il mio cuore è in guerra, è dibattuto), la gioia, il consenso di tutti, la soddisfazione di sé (decido di partire perché sono insoddisfatto). Il viaggio è quel che manca, si parte per riempire un vuoto. CURIOSITÀ: Anche Ugo Foscolo parla del vaso di Pandora e al suo interno inserisce anche la speranza, nonostante quel vaso sia il contenitore di tutti i mali del mondo. In realtà, però, la speranza non è altro che la presa di coscienza della disperazione (coappartenenza dei contrari). Guy de Mauntpassant dice che il viaggio non è solo un andare verso un altrove ma è anche andare verso l’altro, o meglio l’altra parte di te che in quel momento non combacia con la parte di te che in quel momento è. Il viaggio è una specie di porta per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno. Un viaggio può essere buono o cattivo ma lo si scopre soltanto alla fine. In Platone si dice che amore è figlio della “povertà” (penìa: la mancanza) e di “espediente” (poros: abbondanza). L’amore si cerca da una mancanza. Il desiderio ha il punto di partenza nella mancanza. Lo stesso punto sta nella filosofia, ci si muove tra ignoranza e sapienza. Per cercare la filosofia, però, non possiamo essere completamente ignoranti né tanto meno completamente sapienti. La filosofia è un movimento verso l’orizzonte perché non giungeremo mai al punto della massima sapienza. La filosofia, dice Platone, è come un uomo che dorme sulle soglie (la soglia rende possibile il passaggio, permette il passaggio da di dentro al di fuori e viceversa). Ci sono due pericoli nei quali la filosofia non deve incappare: - Il primo elemento che deve evitare la filosofia è il “naufragio” perché verrebbe meno il senso del suo andare; Il secondo elemento che deve evitare la filosofia è pensare che il porto sia la fine del suo viaggio. Il porto si giunge ma dal porto si riparte. Una filosofia che si ferma non è più filosofia. Alcuni momenti e alcune dimensioni della figura del viaggio: - La scena aurorale, che per l’occidente è l’Odissea (l’eroe multiforme che tanto vagò). Ulisse ha errato per trovarsi. L’identità è mutevole, l’interpretazione dell’identità è nella storia (nella nostra storia). L’identità mutevole di un uomo sono i suoi viaggi. Quando Ulisse arriva nell’isola dei Feaci fu accolto e poi gli venne chiesto “ma tu chi sei?” e lui rispose “è difficile da spiegare, o mia regina, dall’inizio alla fine”. Ulisse risponde così perché noi siamo la nostra storia, i nostri viaggi e noi possiamo dire di noi solo alla fine del nostro viaggio (Ulisse da ora iniziava a viaggiare). L’Odissea è un viaggio ma è soprattutto un viaggio insulare. Ciò che tocca Ulisse sono isole, e ogni isola ha una particolarità, ogni isola è se stessa e altra da sé, ogni isola è ambigua. Odisseo ogni volta che approda su un’isola approda su uno spazio ambiguo che è contemporaneamente lo spazio della sua ambiguità. L’esperienza che va facendo Odisseo è l’esperienza della propria duplicità, è il confronto con una parte di sé oscura (lui è sposato con Penelope però arriva sull’isola di Ogigia e fa i conti con la seduzione, con la passione; con Circe fa l’esperienza della magia, non della razionalità). Ulisse è diventato quel che è diventato perché ha conosciuto la parte nascosta di sé, lui che vuole la patria ha imparato la propria stranierità. Ulisse ha sempre Itaca negli occhi ma è sempre tentato dall’altro da Itaca. Un altro viaggio importante dell’antichità è quello di Solone, raccontato da Erodoto. - Si racconta che Solone fu invitato dallo stesso Creso nella sua capitale, Sardi, accolto come ospite ateniese sia per la sua saggezza sia per i suoi viaggi. Dopo una visita alla città e al palazzo, estremamente ricchi e sfarzosi, fu chiamato in udienza dal re. Nonostante l’estrema opulenza dell’ambiente, Solone non si emozionò particolarmente, e pertanto il re dispose di fargli visitare la camera del tesoro, di nuovo senza esito. Creso chiese allora a Solone se conoscesse qualcuno al mondo più felice di lui e Solone rispose: “Noi giudichiamo felice colui al quale la divinità ha protratto fino al termine la prosperità; ma stimar beato uno che ancor vive e rischia nella vita è malsicuro e privo di valore come la proclamazione e la corona di uno che stia ancora gareggiando”. L’uomo che non è mai nato o che, una volta nato, se ne vada presto, questo è l’uomo felice, perché la vita è sofferenza. La stessa sapienza è felicità e dolore insieme. Tutti e due questi viaggi, l’uno narrato da Omero e l’altro da Erodoto, ci fanno capire chi siamo. L’animo degli uomini assomiglia al caleidoscopio: tutti gli uomini hanno pochi materiali però hanno la possibilità di combinarli in svariati modi e a seconda della combinazione diventano tutte persone diverse. Noi siamo la nostra storia per quello che facciamo nel tempo che capiamo solo quando, al termine, lo raccontiamo. DA PLATONE AL VIAGGIO MEDIEVALE. Nel mondo greco il viaggio è metafora di conoscenza, il viaggio medievale è cammino verso la conoscenza ma soprattutto cammino verso la salvezza. C’è una differenza tra meta ed esilio. - Il concetto dell’esilio dice della difficoltà di un popolo di trovare la propria meta. Il luogo proprio del viaggio medievale è il deserto (dove non ci sono punti di riferimento), nel deserto non si va dritti ma si erra. Il viaggiatore medievale è soprattutto viator (colui che va), è pellegrino (colui che va per campi, che sceglie soprattutto una strada fuori mano, quella non battuta da altri). Un esempio lampante di viaggio medievale è quello di Dante: viaggio che fa da una selva all’altra (la prima è la selva oscura, l’altra è la foresta “spessa e viva”, ovvero il paradiso terrestre). Il viaggio è dal basso verso l’alto, è un’ascesi. La foresta è il luogo in cui ci si perde. Non è solo il viaggio di Dante ma è il viaggio del mondo medievale. Il deserto medievale parla dell’errante viaggio dell’uomo in un luogo non illuminato dalla grazia divina, dove le notti sono fredde e i giorni sono torridi. Nel periodo medievale fare un viaggio nei luoghi santi era un luogo per reimpossessarsi dell’innocenza perduta ma, ovviamente, non tutti potevano permetterselo. Per questo motivo furono costruite delle chiese come dei labirinti dove al centro vi era il Cristo redentore. I pellegrini percorrevano il labirinto in ginocchio per provare dolore. “Questi labirinti rappresentano il cammino simbolico dell’uomo verso Dio e spesso il centro de labirinto rappresentava la “città di Dio”. La funzione del labirinto è quella di essere un simbolo del pellegrinaggio o del cammino di espiazione: spesso veniva percorso durante la preghiera e aveva la validità di un pellegrinaggio per chi non poteva intraprendere un vero viaggio. La lunghezza e la tortuosità del percorso alludevano alle difficoltà che si possono incontrare seguendo il cammino spirituale.” Il dialogo è la cosa più semplice e allo stesso tempo più difficile, questo perché c’è il pericolo che uno dei due interlocutori non faccia passi verso l’altro. Mettersi in viaggio è anche perdere certezze ma per essere quel che si è si deve perdere anche quel che si era. Se mantengo le mie certezze non è possibile l’incontro con l’altro. Il “buon selvaggio” o il “cattivo selvaggio” è un oggetto di creazione dal momento in cui io non disloco, in questo caso vedrò l’altro sempre giudicandolo secondo il mio metro. I sensi ingannano, non possono dare la verità secondo Platone. Si possono raccontare i movimenti della ragione attraverso la metafora del viaggio (guardare il Fedone). È una via di ascesa (il mito della caverna). MONTAIGNE Montaigne rappresenta una ragione in movimento, è una ragione errabonda (una ragione scettica). Ne “I saggi” Montaigne scrive: “I miei pensieri e il mio giudizio procedono a tastoni (mi muovo nell’oscurità, quando giungo da qualche parte ci devo giungere pian piano. La verità non è una dimensione aprioristica) tentennando, vacillando ed inciampando (per sapere le cose devo andare ma il mio cammino non è mai un cammino dritto. Molte volte sono più i tentativi che facciamo più che le mete che raggiungiamo. La scienza stessa procede per ipotesi ed errori). E quando sono andato più avanti che ho potuto non mi sono sentito per nulla soddisfatto. Vedo altre terre più in là, confuse, come in una nebbia che non riesco a penetrare (il che vuol dire che ci sono sempre tante cose nuove da scoprire). BACONE Egli ce l’ha con gli scettici e quindi con il viaggio errabondo. Il viaggio della scienza che Bacone fa ha bisogno di direzionalità ed orientamento. Perciò la differenza affiora nel fatto che essi (gli scettici) non sperando in alcun rimedio desistono dalla meta. Noi invece (chi si fa portavoce di un sapere scientifico), affermando l’esistenza di una nuova strada (Bacone parla di “beni luciferi” che portano luce e “beni fruttiferi” che portano frutti), cerchiamo di correggere gli errori dei sensi e della mente. Bacone parla di una foresta, termine che troviamo anche in Cartesio ne “Il discorso sul metodo”. Due sono le metafore che quest’ultimo utilizza: la metafora edificatoria e la metafora marina (metafora di viaggio). La prima è quella di costruire una nuova città (scegliere una via diversa), lui immagina la filosofia come una città, se volge lo sguardo al passato vede una bellissima città fatta di bellissimi palazzi, uno diverso dall’altro. Questa è la città del mondo antico, in un palazzo c’è Platone, in un altro c’è Aristotele. È una città in cui non hai un ordine, hai pensieri che stanno un accanto all’altro. CARTESIO Cartesio invece vuole essere un architetto che partendo da un principio costruisce una città, non vuole affidarsi al pensiero degli altri ma vuole trovarli da sé. Per fare ciò deve passare attraverso il dubbio. Il cogito è la pietra su cui poter riiniziare a costruire la città (questa è la metafora edificatoria). Il dubbio potrebbe essere visto come “il viaggio” per dimenticarsi di quei palazzi belli e suggestivi della città antica. Viaggiare serve a perdere certezze. Appena l’età mi permise di uscire dalla sudditanza dei miei precettori (Platone, Aristotele …) abbandonai completamente lo studio delle lettere. Ho nel gran libro del mondo impiegai il resto della mia giovinezza a viaggiare (permette di aprirsi al nuovo, di trovare l’imprevisto, di mettere alla prova le conoscenze). Ogni nuovo cammino ha anche un negativo perché il viaggio ha imprevisti, contiene insidie. Impiegando troppo tempo in viaggio alla fine si diventa stranieri nel proprio paese (il vero senso del viaggio è nel ritorno, riprendendo anche Platone) e quando si è troppo curiosi delle cose del secolo scorso si è troppo ignoranti delle cose che si trovano in questo. Nel metodo bisogna avere un filum labirinti (perché altrimenti la foresta diventa un labirinto) imitando in ciò i viaggiatori i quali se si trovano smarriti in una foresta non debbono aggirarsi di qua e di là e tantomeno fermarsi, ma camminare sempre nella stessa direzione perché giungeranno prima o poi in un posto più ospitale della fitta foresta. Questo è quello che è passato come “regole della morale provvisoria”. Cartesio ci ha lasciato delle regole di comportamento che possano guidare le nostre scelte quando siamo incerti e dubitiamo di conoscere la verità e che ci siano di aiuto per vivere una vita saggia. La prima legge è “rispettare le leggi e le tradizioni del proprio Paese”; la seconda legge è “farsi guidare fermamente dalla ragione”; la terza legge è “modificare i propri desideri piuttosto che l’ordine delle cose del mondo”. BLAISE PASCAL Nello stesso periodo in cui Cartesio ha spiegato il movimento della ragione c’è un altro autore: Blaise Pascal. Egli era giansenista e scrisse l’opera “I pensieri” dove affronta i problemi della miseria e della grandezza dell’uomo. Parla del viaggio nella dimensione morale dell’uomo. “Noi navighiamo in un vasto mare (vasto perché è infinito, dove non ci sono punti di riferimento, tende a farti perdere), sempre incerti (sempre, perché non c’è un momento di pace quando siamo guidati dalle passioni) e instabili, sballottati da un capo all’altro (è il mare della nostra vita, il mare di viaggiatori mossi dalle passioni e dai desideri. Qui c’è un rinvio ad una immagine di Lucrezio nel “De rerum natura” di una nave sballottata dalle onde osservata da una persona che la sta guardando e la trova soave. Le passioni sono come le onde in un mare tempestoso. Quando Lucrezio parla di questo uomo che sta guardando lo pone sulla terra ferma, la quale raffigura la ragione. È soave perché si trova nel luogo della ragione). Qualunque scoglio, a cui pensiamo di attaccarci e restare saldi, viene meno e ci abbandona e, se l’inseguiamo sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna (parla dell’uomo che insegue i desideri e che non smette mai di desiderare. Il desiderio è inappagabile. Si desidera quando c’è una mancanza. La nostra vita trascorre avendo continuamente bisogno di ciò che ci manca. Il desiderio ha una cattiva infinità). Per noi nulla si ferma, questa è la naturale inclinazione (ogni volta che cerchiamo la felicità ci mettiamo in cammino e ogni volta che siamo in cammino non siamo alla meta). […] Desideriamo ardentemente (il desiderio è fuoco e il fuoco quando c’è è sempre in movimento) trovare un assetto stabile e una base ultima per edificarvi una torre che si levi sempre fino all’infinito, ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra si apre in abissi. […] Quando talvolta mi sono messo a considerare le agitazioni degli uomini e i pericoli e le pene a cui si espongono, nella Corte, in guerra, donde nascono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso malvagie, eccetera, ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una sola causa, dal non saper restare tranquilli nella propria camera (la felicità è una coloritura dell’anima, la troviamo a seconda di quello che siamo). Un uomo che possiede a sufficienza per ben vivere, se sapesse starsene a cassa sua con piacere, non la lascerebbe per andare per mare (visitare una città straniera o andare a cercare del pepe) o andare ad assediare una piazzaforte. Non si comprerebbe una carica nell’esercito a così caro prezzo (per andare ogni anno a farsi ferire o ammazzare) se non si trovasse insopportabile non muoversi dalla città; e non si cercherebbero le conversazioni e lo svago dei giochi se si riuscisse a restare a casa propria con piacere.” Pascal sa che le passioni ci allontanano da Dio e ha usato la metafora del viaggio in maniera esistenziale, per raccontare la vita degli uomini, la condizione umana, non per raccontare come la ragione è e come si muove. Sulla questione esistenziale più importante la ragione è fuori gioco. “Il cuore, e non la ragione, sente Dio. ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione.” Per Pascal l’uomo è un enigma che, invece di cercare di capirsi, s’impegna in ogni modo di evitare l’incontro con se stesso, di perdersi nelle cose. L’uom non sopporta di trovarsi da solo con se stesso, davanti al proprio mistero e alla propria miseria. Cerca in ogni modo la fuga da se stesso. Cerca l’impegno in attività che lo distraggano dal rapporto diretto con se stesso, che lo liberino dalla presenza di se stesso. Cerca distrazioni. Pascal parla di divertissement, parola francese che deriva dal verbo de-vertere, che significa distogliere, allontanare l’attenzione da qualcosa. “Nulla è così insopportabile all’uomo come essere in pieno riposo, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazione. Egli sente allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno dal fondo della sua anima il tedio, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione. […] L’unico bene degli uomini sta, dunque, nell’essere distolti dal pensare alla loro condizione o da un’occupazione o da qualche passione piacevole e nuova che li assorba, o dal giuoco, dalla caccia, da qualche spettacolo attraente: insomma da quel che si chiama divertissement.” Montaigne e Pascal hanno in comune l’idea che la condizione umana sia esposta sul vuoto, sul precipizio. Mentre, però, Montaigne cerca di vincere la vertigine guardando i limiti umani, facendo come i conciatetti che si abituano a muoversi esposti al pericolo e trovano sicurezza in questa loro abitudine, Pascal non vuole distogliere lo sguardo dall’abisso. Pascal non sa che farsene della serenità di Montaigne, fatta di abitudine a muoversi nell’incertezza. Lui vuole certezze assolute. E pensa di poterle trovare esponendo i limiti umani sull’abisso dell’infinito. Se Montaigne trova la serenità nell’accettazione dei limiti umani, Pascal vede nella miseria stessa il rinvio a una condizione di felicità e di perfezione perduta: “Tutte queste stesse miserie provano la sua grandezza: sono miserie di gran signore, di re spodestato”. Il divertissement e la ricerca insaziabile della stima e della gloria sono sintomi dell’incapacità d’accettarsi: non piacendosi, non riuscendo a stare con se stesso, l’uomo cerca di perdersi nelle cose o, almeno, di piacere agli altri. Riuscendo a piacere agli altri può illudersi di piacersi. JOHN LOCKE L’opera più importante di Locke è “Il saggio sull’intelletto umano”. In Locke non c’è più l’errare del viaggio perché il pilota deve viaggiare sempre con le carte nautiche e con le bussole, per orientarsi e permettergli di non perdersi. La prima cosa che Locke dice nell’introduzione de “Il saggio sull’intelletto umano” è di dover scoprire cosa l’intelletto umano è e cosa può o non può conoscere (ciò che farà anche Kant). La verità è solo ciò che si trova nella luce dell’esperienza, la metafisica si trova invece nell’oscurità. Locke mette in contrapposizione “bordeggiare” e “navigare nel vasto mare dell’Essere”. Le verità di Locke non sono Verità, sono verità che vanno per errori e non di certo per assoluti. “Il mio proposito è innalzare un edificio (sta costruendo, metafora edificatoria) che sia uniforme e coerente, almeno nei limiti (la ragione non ha limiti, l’osservazione invece si), in cui mi aiuteranno la mia osservazione e la mia esperienza (differenza con Cartesio, non vi è introspezione. Locke si basa anche su fattori esterni: osservazione ed esperienza) e che non poggerà su fondamenta chieste in elemosina (non si basa su Platone, Aristotele ecc…) […] il filosofo che non ispeziona il proprio intelletto, che non esamina i poteri dell’intelletto, che non esamina a cosa siano adatti quei poteri lascia in libertà i nostri pensieri nel vasto oceano dell’Essere (l’Essere ontologico, quello metafisico. La metafisica non ci appartiene perché l’intelletto non può coglierla). VOLTAIRE Invece, contro Pascal e a favore di Locke è Voltaire. Parla di un viaggio sperimentale (che procede per esperimenti). Nel capitolo III del “Trattato di metafisica” di Voltaire troviamo: “La vera filosofia (quindi ne esiste anche una falsa) consiste nel sapersi arrestare dove è necessario arrestarsi (non sorpassare i limiti della nostra conoscenza e della nostra natura perché non possiamo cogliere l’incomprensibile) e nel non camminare mai altrimenti che con una guida sicura (i falsi filosofi sono come i bambini che scappano dalla mano della mamma e se ne vanno dove non devono andare). Ci resta abbastanza (anche con una filosofia che si arresta ai limiti abbiamo tanto da esplorare, dobbiamo sperimentare tutta la lunghezza del nostro orizzonte) terreno da percorrere senza attraversare spazi immaginari. Accontentiamoci (siamo contenti delle cose che possiamo conoscere, non diventiamo infelici per le cose che non potremmo conoscere. Saremmo infelici per un fantasma, per una cosa che non c’è. Bisogna accontentarsi dei propri limiti, deve esserci un equilibrio tra bisogno e possibilità), dunque, di sapere grazie all’esperienza suffragata dal ragionamento (la ragione deve avere un legame con l’esperienza).” Voltaire ne “Il filosofo ignorante” è tale perché gli mancherà sempre della conoscenza, motivo per il quale continuerà sempre a cercare: “Dopo tanto sfortunato vagabondare, stanco, estenuato e vergognoso di aver cercato tante verità e trovato tante chimere, tornai al padre come il figliol prodigo, a Locke.” In questo passo Voltaire ammette di aver sbagliato a cercare di parlare di metafisica, accorgendosi quindi di dover ritornare a studiare le cose concrete sugli insegnamenti di Locke. Il viaggio illuministico non è un viaggio teleologicamente indirizzato ma è una ricerca, è la dimensione dell’errare. Quando sei durante la ricerca, sei in cammino e se sei in cammino non sai già la meta, vai verso una meta. Qui esistono le vie, la pluralità della dimensione dell’andare. La via si fa facendo, non è già fatta. MARCHESE D’ARGENS Era conosciuto da Voltaire. Scrisse “Le lettere giudaiche”, “Le lettere cinesi” e “Le lettere cabalistiche”. Le lettere giudaiche parlano degli ebrei che viaggiano in tutto il mondo e in questi viaggi si scambiano le lettere contenenti le descrizioni dei luoghi visitati. Sono tutti viaggiatori senza sosta, viaggiano continuamente. Per questi autori viaggiare consente di raccogliere nuovi dati. Queste opere hanno una struttura epistolare, dialogica. La ragione che emerge da un’opera di lettere è una ragione sperimentale dato che le lettere sono uno scambio di opinioni. L’incontro con l’alterità permette di modificare il giudizio che da “assoluto” si fa “probabile”. Tutto ciò annulla lo “spirito di sistema” e fa nascere uno “spirito sistematico”. - Lo spirito di sistema è tipicamente della metafisica (pensando al sistema di Hegel); Lo spirito sistematico non ha la pretesa di avere uno sguardo totalizzante ma ogni volta, attraverso l’esperimento, cerca di inglobare quello che cambia. Questo l’aveva già accennato Montesquieu ne “Le lettere persiane” dove narra dei primi persiani ad uscire dal loro paese per apprendere, per andare con fatica in cerca della saggezza. Il viaggio per Montesquieu, per il Marchese D’Argens e Voltaire è un viaggio che diventa esperienza dello stupore e del dubbio, è un movimento di indebolimento delle proprie conoscenze e delle proprie abitudini mentali. Il viaggio è un doppio sguardo, uno sguardo strabico, perché un occhio è su di noi e un occhio sull’altro. Nel viaggio si conosce e si è conosciuti, si misura e si è misurati, in un gioco allo specchio che frantuma l’immagine di noi stessi e delle nostre credenze. Il viaggio insegna a mettere in dubbio ogni cosa che appaia come vera e ad avere quell’arte della distanza di cui aveva parlato Locke nell’introduzione del saggio sull’intelletto umano: In Locke l’autonomia della ragione si coniuga con la coscienza dei suoi limiti. La ragione deve dire la sua in ogni campo dell’attività umana ma, prima di tutto, deve dirla sui propri poteri. Ragione a tutto campo, ma non assoluta. L’uomo ha solo la ragione per orientarsi nell’esistenza ma, proprio per questo, deve farne un uso consapevole nei suoi limiti. L’indagine preliminare dei limiti della ragione non è facile. Scrive Locke: “L’intelletto, come l’occhio, ci fa vedere e percepire tutte le cose, ma non si accorge di se stesso; e il porlo ad una certa distanza e farne il suo proprio oggetto richiedono arte e cure […] è di somma utilità al marinaio di conoscere la lunghezza della sua fune, anche se con essa non può scandagliare tutte le profondità dell’oceano. È bene che egli sappia che è abbastanza lunga per raggiungere il fondo in quei luoghi che sono necessari per dirigere il suo viaggio e per avvisarlo delle secche che potrebbero rovinarlo. Il nostro compito qui non è di conoscere tutte le cose, ma solo quelle che concernono la nostra condotta. Se possiamo scoprire quelle misure mediante le quali una creatura razionale, posta nello stato in cui l’uomo si trova in questo mondo, può e deve governare le sue opinioni e le azioni che ne dipendono, non dobbiamo turbarci se altre cose sfuggono alla nostra conoscenza”. La profondità dell’oceano, che lo scandaglio del marinaio non può misurare, rappresenta la profondità dei problemi metafisici tradizionali. Per Locke, il problema principale della filosofia non è quello dell’essere, bensì quello dei poteri del nostro intelletto. Locke abbandona l’ontologia agli abissi insondabili degli oceani metafisici e promuove la filosofia come gnoseologia, come teoria della conoscenza. Avvia un’impostazione della filosofia destinata a imporsi con successo nel mondo anglosassone. La filosofia deve diventare arte della distanza. Nel viaggio prendo distanza da me stesso. L’arte della distanza si impara conoscendo l’altro. “Quando i filosofi di questi ultimi tempi hanno iniziato a scoprire la verità hanno imparato a lavorare sulle memorie dei viaggiatori. Locke, per abbattere le fondamenta del sistema delle idee innate, Bayle per strappare la benda fatale dei pregiudizi. Cartesio e Gassendi e Newton hanno tratto profitto dalla conoscenza dei costumi dei popoli. Imparare a dubitare delle cose dubbie guidati dalla ragione e dal buon senso, questo è il significato del viaggio.” Il Marchese D’Argens costruisce una geografia dei lumi (divide le nazioni su cui risplende il buon senso e la ragione da quelle dove queste sono manchevoli e mancanti. Due sono le grandi nazioni nella geografia dei lumi: l’Inghilterra e l’Olanda. Italia, Spagna, Portogallo e altre sono le nazioni dove non risplende il lume). Nasce così la topologia della luce e delle tenebre. Voyage nell’encyplopédie: (Gram.) Trasporto della propria persona da un luogo all’altro VOYAGE, s. m. (Gram.) transport de sa personne d'un lieu où l'on est dans un autre assez éloigné. On fait le voyage d'Italie. On fait un voyage à Paris. Il faut tous faire une fois le grand voyage. Allez avant le tems de votre départ déposer dans votre tombeau la provision de votre voyage. (Educazione) I grandi uomini dell’antichità hanno giudicato che non ci fosse nessuna scuola migliore di quella dei viaggi; il viaggio è apprendimento di vite e dove si trova continuamente qualche nuova lezione in questo grande libro del mondo dove il mutamento d’aria e l’esercizio sono profittevoli non solo al corpo ma anche allo spirito. VOYAGE, (Education.) les grands hommes de l'antiquité ont jugé qu'il n'y avoit de meilleure école de la vie que celle des voyages; école où l'on apprend la diversité de tant d'autres vies, où l'on trouve sans cesse quelque nouvelle leçon dans ce grand livre du monde; & où le changement d'air avec l'exercice sont profitables au corps & à l'esprit. Les beaux génies de la Grece & de Rome en firent leur étude, & y employoient plusieurs années. Diodore de Sicile met à la tête de sa liste des voyageurs illustres, Homere, Lycurgue, Solon, Pythagore, Démocrite, Eudoxe & Platon. Strabon nous apprend qu'on montra long - tems en Egypte le logis où ces deux derniers demeurerent ensemble pour profiter de la conversation des prêtres de cette contrée, qui possédoient seuls les sciences contemplatives. I viaggi erano detti grand tour (viaggi lunghi che potevano fare solo i rampolli della nobiltà). Erano usati per vedere il mondo, le opere d’arte, i modi di comandare. Goethe sarà il primo a non viaggiare più nella forma del grand tour ma farà un viaggio guidato dal bisogno di ritrovarsi. I viaggi negli stati civilizzati (il tutto deriva dall’etimologia del termine polire: rendere una superficie liscia, levigata, priva di qualsiasi asperità; eliminare qualsiasi imperfezione o inesattezza, rifinire, perfezionare) servono a stare nel mondo conoscendo le vite degli altri. Viaggiare è come sfogliare un libro. Il viaggio insegna l’arte di stare al mondo, questo è il viaggio illuministico. Il viaggio serve a tirar fuori ciò che abbiamo dentro, l’uomo nel viaggio si educa. Valore culturale del viaggio. Nel viaggio io coltivo me stesso. Sviluppo del germe che l’uomo ha in sé. Il fatto che il viaggio illuministico sia un viaggio dei limiti non è detto che sia un viaggio limitato. Il viaggio dei limiti ci permette di continuare a viaggiare (è un viaggio illimitato). Il viaggio illuministico, abbiamo detto, deve bordeggiare la spiaggia. L’oceano tenebroso è una figura per indicare la metafisica e quello che rischia è il naufragio. Kant parla dell’isola fenomenica: la ragione può arrivare alla verità solamente sull’isola fenomenica (sulla dimensione dell’esperienza). Se va oltre questa isola vi è un mare tempestoso. Se la ragione lascia l’isola del fenomeno si perderà nel noumeno. VOLTAIRE – LE LETTERE INGLESI Il 10 Giugno 1734 il Parlamento di Parigi pronuncia una sentenza contro un libro “scandaloso, contrario alla Religione, ai buoni costumi e al rispetto dovuto ai Poteri”. Questo libro è “Le lettere filosofiche” di Voltaire (inizialmente chiamate “Lettere inglesi”). Per evitare l’imprigionamento scappa volontariamente in Inghilterra “una nazione di filosofi” dove “si pensa liberamente e valorosamente, senza essere trattenuti da servili paure”. Qui scrive “Le lettere inglesi”: sono 24 lettere in cui racconta i costumi, la politica, il commercio, la letteratura, la filosofia inglese. L’esperienza inglese, da sola, non era sufficiente e andava messa in rapporto con la realtà francese, dato che Le Lettere inglesi non pretendono di essere una cronaca del suo viaggio, ma hanno il compito di evidenziare le cose assurde e anacronistiche generate molto spesso dai principi imperanti nella società aristocratica dell’epoca. Voltarie nel 1734 fece un viaggio reale, non metaforico. Da un viaggio spaziale però l’ha fatto diventare un viaggio spirituale. A Londra compie esperienze decisive per la sua formazione, già orientata dall’incontro giovanile con la cultura libertina: conosce un sistema politico e sociale molto più dinamico e libero di quello francese; verifica il potere dell’opinione pubblica, ancora latente in Francia, e si rende conto di quanto sia importante tenerne conto per le battaglie culturali e politiche; familiarizza con una filosofia che ha in Bacone, in Locke e in Newton i suoi modelli. Le lettere filosofiche sono delle lettere scritte da voltaire per raccontare la civiltà e la cultura inglese misurando l’Inghilterra e misurando contemporaneamente la Francia. Ciò che può sembrare un racconto di uno sguardo sull’altro (l’Inghilterra) non è altro che uno sguardo sulla Francia. Per questo vennero messe al rogo, perché apriva la battaglia culturale che farà di lui l’esponente più famoso e più autorevole del movimento illuminista francese. Il viaggio diventa un viaggio di un osservatore strabico, con un occhio vede l’Inghilterra e con l’altro vede la Francia. Da una parte valorizza l’Inghilterra e dall’altra svalorizza la Francia. Le prime sette lettere affrontano questioni religiose da diverse prospettive, come per esempio la purezza dei costumi. Le prime quattro riguardano i Quaccheri (una sorta di setta che sta in Inghilterra). Essi sono elogiati da Voltaire non tanto per il loro entusiasmo, quanto perché la semplicità dei loro costumi, la loro sincerità, il loro pacifismo e il loro disinteresse permettevano loro di evidenziare l’assenza di queste virtù nelle altre congregazioni religiose. Una parola che fuoriesce è “curiosità” che per Voltaire è “giusta”. Perché la curiosità ti permette di conoscere (viaggio della conoscenza). Di queste lettere, la pagina più celebre è quella che, nella VI lettera, illustra la Borsa di Londra, sottolineando il legame tra la tolleranza religiosa e la libertà economica che caratterizza quella nazione e che a lui sembra il fondamento di una convivenza civile esemplare. “Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le nazioni. Là, l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta; là, il presbiteriano si fida dell’anabattista, e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero. Uscendo da queste libere e pacifiche riunioni, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; questo va a farsi battezzar in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; quello fa tagliare il prepuzio di suo figlio e fa mormorare sul bambino parole ebraiche che non comprende; altri vanno nella loro chiesa col cappello in testa ad attendere l’ispirazione divina, e tutto sono contenti.” In questo passo si vede perfettamente la tolleranza che si trova in Inghilterra, contrapponendola all’intolleranza presente in Francia. È da ricordare che in Francia ci fu la strage degli Ugonotti (notte di San Bartolomeo). Sulle questioni di ordine politico, per Voltaire il commerciante è il vero motore del mondo moderno, e il suo ruolo è temuto da una nobiltà oziosa che sa solo adulare senza contribuire minimamente all’utilità comune e alla felicità collettiva. L’XI lettera tratta dell’inoculazione del vaiolo, una malattia che giunse quasi a uccidere Voltaire. Qualsiasi progresso scientifico significa per Voltaire un nuovo trionfo dell’uomo emancipato da una concezione opprimente e paternalistica, provvidenzialistica e teocentrica. Parliamo di un’epoca in cui la scienza progrediva a un ritmo prodigioso. Non sono certo i conquistatori come Alessandro Magno o Cesare a scandire la storia dell’umanità, ma coloro che usano il loro ingegno per illuminare se stessi e gli altri: gli scienziati e i filosofi, questi sì, a condizione di rifiutare le vane speculazioni che non portano da nessuna parte, le materie astratte, ciò che è indimostrabile e inutile. È assurdo sottilizzare intorno a questioni su cui nessuno può sapere qualcosa più degli altri. Queste lettere parlano anche di filosofia. Voltaire parla bene dei filosofi empiristi inglesi (Newton e Locke) e parla male di Cartesio, filosofo della metafisica. Nella lettera XIII, Locke è lo “spirito più saggio, più metodico, logico e coerente”, è colui che “ha chiarito all’uomo la ragione umana, come un eccellente anatomista spiega i meccanismi del corpo umano”; Cartesio, invece, “nato per scoprire gli errori dell’antichità, per poi sostituirvi i propri” è “spinto da quello spirito sistematico che acceca gli uomini migliori”. La lettera XIV è dedicata a “due grandi uomini”, Cartesio e Newton, “molto diversi nei loro comportamenti, nel loro destino e nella loro filosofia”. Voltaire, nonostante la forte anglofilia, riconosce a Cartesio il grande merito di aver avviato quella che è adesso la sua battaglia per il trionfo della ragione. L’ultima lettera è dedicata a Pascal. In essa, Voltaire critica alcuni dei suoi Pensieri. In Pascal abbiamo una visione teologica, in Voltaire abbiamo una visione antropologica. L’uomo è miserevole per Pascal in quanto appena è stato creato ha peccato, è decaduto ed è diventato “miserevole”. La grandezza per Pascal è il fatto che l’uomo proviene comunque da Dio. “Mi sembra che, in generale, l’animo con cui Pascal scrisse i Pensieri fosse di mostrare l’uomo sotto una luce odiosa. Si accanisce a dipingerci come se fossimo tutti cattivi e infelici. Scrive contro la natura umana all’incirca come contro i gesuiti: imputa all’essenza della nostra natura quanto appartiene soltanto ad alcuni uomini; con eloquenza scaglia ingiurie contro il genere umano. Io oso prendere le difese dell’umanità contro questo sublime misantropo; oso sostenere che non siamo né così cattivi né così felici come dice lui”. La battaglia illuminista è incompatibile con il pessimismo antropologico giansenista di Pascal. “L’uomo non è un enigma […]. L’uomo sembra essere al suo posto nella natura, superiore agli animali, cui assomiglia per quanto riguarda gli organi; inferiore ad altri esseri cui probabilmente assomiglia a causa del pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, composto di male e di bene, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni”. Pascal è, del resto, un autore con il quale Voltaire si è misurato presto: nelle giovanili Annotazioni su Pascal egli respinge la condanna pascaliana dell’amor proprio e del divertissement. Sono le passioni che Pascal condanna a spingere l’uomo ad agire e a realizzarsi in questo mondo. Voltaire si oppone a quel distacco dalle cose tanto caro a Pascal. “La nostra condizione è precisamente quella di pensare agli oggetti esterni con i quali abbiamo un rapporto necessario. È falso che si possa distogliere un uomo dal pensare alla condizione umana; giacché a qualsiasi cosa egli applichi il suo spirito, l’applica a qualcosa che si connette alla condizione umana. Pensare a sé, facendo astrazione dalle cose naturali, è non pensare a niente: io dico assolutamente niente, si badi bene”. Per Pascal la ricerca di Dio esige il distacco dal mondo, per Voltaire l’idea di Dio impegna l’uomo a realizzare in questo mondo l’ordine della ragione. Sono importanti due letterati per Voltaire: Swift, autore di Le avventure di Gulliver (dal cui incontro nascerà l’opera “Micromega” dove parla della duplicità dell’uomo, basta vedere già il nome Micro/mega) e Shakespeare. Le avventure di Gulliver influenzarono e ispirarono Micromega. Di Shakespeare ammira l’ingegno pieno di forza e fecondità, la sua naturalezza e sublimità, ma critica il suo disprezzo delle regole. In Voltaire abbiamo una doppia natura (Micromega/antropologico, ci rifacciamo alla sua natura, l’uomo per natura è fatto di ragione e passione, per natura nasce contraddittorio), così come l’abbiamo anche in Pascal (l’uomo è miserevole perché è decaduto ma è anche superiore in quanto proviene da Dio/teologico). Voltaire dice “sarebbe contraddittorio se l’uomo non avesse queste contraddizioni”. L’ultima lettera sembra fuori luogo perché non si riferisce all’Inghilterra, ma contiene un dialogo critico con Blaise Pascal, che Voltaire considera un nemico mortale a causa del suo fanatismo religioso. Pascal era il campione del movimento cattolico chiamato giansenismo (il giansenismo affermava che la grazia di Dio sceglieva le persone da salvare, tesi che limita oltremodo la libertà umana e che solo per questo Voltaire considerava esecrabile). XXV lettera, sembra una devianza in queste lettere inglesi. Qui si parla di un francese, cioè Pascal, e di un’opera francese, “I pensieri”. La XXV lettera si chiama “Il mio piccolo anti-Pascal”. “Giugno 1733, non vi è guerriero così ben armato che non si possa trafiggere per difetto di corazza (Voltaire ritiene Pascal molto valido). Del resto, lo prenderò con precauzione e criticherò solo le parti che non saranno così legate alla nostra santa religione affinché non si possa strappare la pelle di Pascal senza far sanguinare il cristianesimo (Pascal è, per Voltaire, il simbolo della religione. Si tratta di una battaglia contro la religione, non proprio contro Pascal). Pascal era difficile da battere perché oltre ad essere un teologo era anche un matematico e quindi utilizzava una logica ben fondata. Fin dall’inizio Voltaire, attraverso le prime quattro lettere (di impronta religiosa) e quest’ultima lettera, non vuole combattere la religione ma vuole combattere la degenerazione del cristianesimo. Nel luglio 1733 c’è un’altra lettera in cui Voltaire parla sempre di Pascal. Dice: Pascal (e quindi la religione) ha torto quando porta attacchi all’umanità (quando, cioè, la religione attacca le passioni dell’uomo). Voltaire si poneva il compito di negare i pensieri di fondo di Pascal. Per Voltaire ci sono tre pregiudizi di fondo nella logica di Pascal: - Bisogna “credere” senza alcun dubbio al peccato originale e alla decaduta dell’uomo attraverso la fede; Bisogna credervi tanto più che la ragione è assolutamente impotente a mostrarci la natura umana; Solo la rivelazione può dare conto e dirci ciò. L’uomo per Pascal vive in una condizione miserevole per via del peccato originale. Pascal guarda all’uomo come una cosa tristissima e per questo ha bisogno di divertissement, ovvero ha bisogno di distogliere lo sguardo dalla sua condizione. Il divertissement, proprio perché è distrarsi, non è superare la propria condizione. Il divertissement è come mettere la testa sotto la sabbia. Per Voltaire, Pascal toglie la dimensione umana all’uomo. Pascal toglie la felicità all’uomo, pur sapendo che l’uomo vuole essere felice. Per Pascal non esiste una felicità passeggera ma esiste solo una felicità eterna che è la salvezza e si trova in Dio. Per Pascal non si dà comprensione dell’uomo sul piano naturale o semplicemente razionale: l’uomo, diviso fra opposte tendenze e smarrito in un universo incomprensibile, riceve soltanto dalla fede la rivelazione circa il suo essere ed il suo destino. Voltaire, invece, dice che la felicità dell’uomo è proprio quella fuggevole, quella legata alla dimensione umana. Per Voltaire noi possiamo spiegarci l’uomo anche indipendentemente dal ricorso alla religione. Con lui abbiamo una visione antropologica: la pacifica consapevolezza dei limiti dell’uomo e sull’accettazione della condizione umana (diversa dalla visione teologica che vede una perfezione e non accetta la condizione limitata degli uomini). Il dialogo fra i due è impossibile perché Voltaire è una specie di Anti-Pascal. Al linguaggio patetico e magniloquente di Pascal, Voltaire contrappone la sua visione semplicistica e pragmatica dell’esistenza umana. Secondo Pascal l’uomo è un enigma inesplicabile, un oceano di contraddizioni, mentre Voltaire risponde che è solo “un miscuglio di bene e male, di piacere e dolore, dotato di passioni per agire e di ragione per governare le proprie azioni. Se l’uomo fosse perfetto, sarebbe Dio”. In realtà, non si tratta di una polemica fra un credente e un non credente, ma tra un pensatore che rinuncia alla ragione per una presunta causa superiore e un filosofo che ritiene che la ragione sia la guida fondamentale dell’azione e mai un preambolo del mistero. Secondo Voltaire bisogna accettare l’uomo così com’è, cercando di migliorarlo secondo le norme di una morale naturale, senza tentare di indagare che cosa ci sia nell’aldilà. La XXV lettera è strutturata con i commenti di Voltaire per ogni passo di Pascal. Remarque XXVIII “Si immagini un numero di uomini in catene e tutti quanti condannati a morte, di cui alcuni ogni giorno vengono sgozzati e gli altri che guardano coloro i quali vengono sgozzati. Vedendo quelli che vengono sgozzati, vedono la propria posizione in quella dei propri simili e si reputano, l’uno con l’altro, con dolore e senza speranza attendendo a loro volta che cosa è capitato agli altri, capiti anche a loro.” Questa è l’immagine della condizione degli uomini di Pascal: il mondo è una prigione. Vi è l’immagine di una prigione perché devono scontare la pena di una colpa, ovvero il peccato originale dopo aver disubbidito a Dio. La risposta di Voltaire alla visione della condizione degli uomini di Pascal è: “Questo paragone non è giusto. Degli infelici sventurati incatenati che si sgozzano uno dopo l’altro sono infelici, ma non solamente perché soffrono ma anche perché soffrono quello che gli altri non soffrono. Il destino naturale di un uomo non è né di essere incatenato né di essere sgozzato. Tutti gli uomini sono fatti come gli animali e le piante, per crescere, per vivere un certo tempo, per procreare e conoscere i propri simili e poi morire. […] Di tutti gli animali, l’uomo è il più perfetto ed è anche il più felice, quello che vive più a lungo. Quindi invece di stupirci e di lamentarci della nostra sventura e della brevità della nostra vita, noi dobbiamo stupirci e dobbiamo felicitarci della nostra felicità.” Voltaire dice che è inutile pretendere di avere felicità infinita se abbiamo dei limiti. Voltaire passa da una visione pessimistica a una visione “relativamente” ottimistica. Non ragiona da religioso ma ragiona da filosofo. Prende consapevolezza della condizione umana. L’immagine di felicità che ha Voltaire è quella di una felicità tutta umana: la felicità fugace che l’uomo può trovare in questo mondo senza negare la propria natura umana. L’uomo può trovare la felicità in questo mondo. “Senza negare o umiliare la sua natura sensibile.” “L’uomo deve scegliere tra la varietà delle sue potenzialità (l’abitudine è la tomba della felicità)”. La natura umana gode di piaceri sensibili e piaceri dell’anima. Non bisogna negare i piaceri solo perché sono brevi. La felicità non è soltanto un vento che ci prende alle spalle, la felicità è anche una costruzione. La felicità proviene dall’uomo. La felicità può giungere all’improvviso ma si costruisce anche. La felicità dipende anche dalle capacità dell’uomo. Risposta di Voltaire alla condizione umana secondo Pascal: “Considerare il mondo come un carcere e tutti gli uomini come criminali in attesa dell’esecuzione è da fanatici (fanatismo è una parola chiave. Pascal viene tacciato di essere un fanatico devoto). Credere che il mondo sia un luogo di delizie è il sogno di sibarita (è sbagliata anche questa immagine perché noi sappiamo che il mondo è un luogo dove dolore e piacere sono compresenti. Ci sono momenti in cui è bello cercare il piacere ma che dentro questo si apre anche uno spazio per il dolore). Ritenere che la terra, gli uomini, gli animali siano ciò che devono essere nell’ordine della provvidenza è da uomini saggi. La saggezza di Voltaire sta nel fatto di dire che la felicità dell’uomo sia possibile. Per Pascal l’uomo è inquieto perché è sempre in uno stato di mancanza. È annoiato perché realizzato un piacere è come se ti prendesse un languore: quando la felicità diventa abitudinario diventa languore. La felicità, paradossalmente, può essere la sorgente della noia. “La felicità è fatta di piccoli istanti, di momenti.” Per Voltaire abbiamo: - Piacere: dura un attimo. Dire che un uomo che ha piacere è un uomo completamente felice è dire un’esattezza perché la felicità. Geometricamente il piacere è un punto; - Bonheur: Bonheur significa “Buona fortuna”. Però abbiamo anche una “Buon’ora” che tratta di un determinato momento, buona fortuna invece è misurata su una lunga vita. Felicité: ha più durata del Bon heur. Per Voltaire l’uomo non è un enigma (a differenza di Pascal). Pascal ritiene che l’uomo viva in una sorta di dimensione isolata (ricorda il passo dell’uomo che sa stare da solo in una stanza). Voltaire dice a proposito: “Quanto a me se considero Parigi o Londra non vedo alcun motivo per cadere in quella disperazione di cui parla Pascal. Vedo una città popolosa, ricca, civile, dove gli uomini sono felici per quanto lo consenta la natura umana (la nostra felicità è fatta di piaceri e di dolori, di gioie e di tristezza. All’uomo si chiede di vivere in mezzo agli altri. La felicità, in questo caso, è una felicità sociale, un bon heur social. A differenza di Pascal che vedeva la felicità nell’isolamento dell’uomo che sa stare con se stesso. La felicità è una dimensione fuggevole, che sta nel tempo. Ogni cosa che sta nel tempo è destinata ad essere e poi scomparire. La felicità assoluta non è che un’illusione).” Questo è il punto finale de “Le Lettere filosofiche” e diventa il punto d’inizio de “Il mondano”. VOLTAIRE - IL MONDANO Il luogo per cercare la felicità, si è detto, è la città. È lì che si trova lo spirito di relazione tra le persone. Lettera a Sideville, 25 settembre 1736 (vedere) Parla di una devozione verso Newton (perché non usa cause teologiche per spiegare l’ordine del mondo). Utilizza Newton proprio per metterlo contro Pascal (il Dio di Newton è il Dio naturale). Voltaire non è ateo, segue la religione naturale. Il mondano è tipo chiesa dove si fa sacrificio ad una divinità (Newton) e ad altre cappelle subalterne. Il mondano è la descrizione di Parigi. Ne “Il mondano” si esprime la dimensione della filosofia di vivere la città. Il mondano è colui che vive nel mondo. Abbiamo un’immagine della “Filosofia della storia” quando Voltaire vede l’interpretazione di Pascal come una decadenza. La concezione filosofica giudaico-cristiana vede la storia come un momento di innocenza, un momento di decadenza e un momento di redenzione. Ogni filosofia della storia affonda le radici in una concezione giudaico-cristiana, affonda le radici in un principio. La storia, per Pascal, si muove dal meglio al peggio: questa è la filosofia di chi cerca “i tempi andati”, come diceva Voltaire. Voltaire invece ringrazia la saggia natura che, per il suo bene, lo ha fatto nascere in quella età tanto screditata dai teologi (riferimento a Pascal). Per voltaire l’età dell’oro non è nel passato ma nel futuro. Abbiamo una filosofia della storia diversa, opposta. Immagine della storia progressista. Per Voltaire viviamo in un momento felice, a differenza di Pascal che dice di vivere un momento infelice. Per Voltaire la redenzione è già avvenuta. Voltaire chiama il suo tempo “profano” contrapponendolo al tempo “santo” degli altri. “Questo tempo profano è fatto per i miei costumi. Io amo il lusso e la mollezza, le arti, il gusto, gli ornamenti. Ogni onesto uomo ha tali sentimenti (non il religioso ma l’onesto uomo, quello della borghesia commerciale) è dolcissimo, per il mio cuore così immondo (fa autoironia perché i teologi avrebbero potuto dirgli di avere un cuore immondo) vedere l’abbondanza, che è madre delle arti e delle fortunate attività a portarci bisogni e piaceri nuovi (l’abbondanza porta piaceri nuovi e avere piaceri è avere l’animo in agitazione. Il movimento rischia di trovare abitudine e noia. L’abitudine ammazza la passione. Il mondano è colui che vive i piaceri del mondo, rincorre le cose per trovare piacere). Ah, che buon tempo questa età del ferro (la concezione della storia secondo Esiodo va per periodi a seconda dei metalli. Voltaire ha capovolto ancora l’asse della storia. Criticare Esiodo è criticare la visione della storia di Pascal. Per Esiodo il tempo del ferro era un tempo cattivo. L’età dell’oro per Voltaire sta dopo, nel futuro).” La felicità per Voltaire si raggiunge attraverso i piaceri. Plaisir: Felicità che dura un attimo. Dimensioni dell’animo umano in cui l’uomo è felice ma lo è solo per un momento. Un momento che viene ma che con la stessa velocità se ne va via. È un istante. Bon heure / Bon heur: Buona ora / Buona fortuna. Dura un po’ più del plaisir. Non è, però, uno stato o una condizione. Anche il bon heure, che dura più del plaisir, è nel tempo. Non è assoluto. Finirà più tardi ma finirà. Felicité: è più lunga del bon heure. La stessa felicité non dura per sempre. Dura di più ma non per sempre. Tutto il mondano è giocato su un’idea di felicità per plaisir. Il mondano è chi sa vivere freneticamente la propria esistenza abbandonandosi continuamente a diversi e infiniti plaisir. Rimpiangerà chi vuole il bel tempo andato e l’età dell’oro e il regno d’Astrea, e i bei giorni di Saturno e di Rea, e il paradiso di Adamo e di Eva (tutti coloro che cercheranno l’età dell’oro o dell’innocenza sarà preso da rimpianto perché una visione della storia di questo genere è una visione della storia che non può non prevedere una decadenza); io ringrazio (non Dio) la saggia natura che nascer benevolmente mi fece nell’epoca tanto denigrata dai mesti criticoni (discorso squisitamente antropologico): questo tempo profano (lo mette in contrasto con il tempo di Pascal) mi si addice (ricorda un autore latino: Ovidio. Ovidio nell’Ars amatoria aveva detto “amino gli altri i tempi antichi, io ringrazio di essere nato solo oggi. Il tempo presente è fatto per i miei costumi”. Voltaire prende interamente l’affermazione di Ovidio). Adoro il lusso e anche la mollezza, le arti d’ogni specie, ogni piacevolezza, il decoro, il gusto, gli ornamenti: il gentiluomo si nutre di tali sentimenti. Dolce è pel mio cuore immondo veder tutt’intorno l’abbondanza madre dell’Arti e dell’Opere benfatte, arrecarci dalla sua doviziosa fonte nuovi bisogni e nuovi piaceri. L’oro della terra e i tesori dei mari, gli esseri che abitano nel vento, tutto serve al lusso, alla voluttà del mondo, ah quant’è felice quest’Età del ferro! Il superfluo, cosa molto necessaria, ha congiunto l’uno e l’altro Emisfero. Non vedete gli agili velieri che da Texel, da Londra, da Bordeaux, partono in cerca, per un felice scambio, di nuovi beni alle fonti del Gange nati, mentre in lontananza, vindici dei musulmani, i vini di Francia ubriacano i sultani? Tutti i verbi che Voltaire utilizza in questa opera sono verbi di movimento. Il mondano ha una casa bella, con una collezione di belle arti, ha delle raffinatissime tele, giardini, acque saltellanti. Il mondano corre verso l’incontro con altre persone, va a cena fuori, va al teatro, va in un altro luogo, si incontra la sera, buoni vini. Questa è la vita del mondano. Continuamente alla ricerca di nuovi, continui, diversi piaceri. Nel 700 l’attività dell’uomo è tesa a cercare la propria felicità. Quando non la ottiene è affetto da due tipi di mali dell’animo: l’inquietudine e la noia. 1738 – Voltaire scrive un’altra opera: Discorsi in versi sull’uomo Sette discorsi, ognuno dei quali ha un tema. L’attenzione è rivolta alla visione antropologica dell’uomo, non uomo come creatura di Dio. Epistole sulla felicità. Ci permettono di capire chi è l’autore a cui Voltaire si rifà (Alexander Pope) quando scrive questi discorsi. Alexander Pope era un autore inglese che scrisse “Il saggio sull’uomo” e aveva trattato la questione e il tema anche della felicità. Ogni essere è un anello della catena umana, ogni anello ha una posizione in questa catena. Qual è la posizione dell’uomo in questa catena? È una posizione intermedia, non è Dio, non è nemmeno una bestia, non è la grandezza, non è la miseria. Occupa un posto ben preciso dentro questa catena. Scegliere la dimensione della catena dell’essere comporta il fatto che quella miseria e grandezza a cui ricorreva Pascal non ha più bisogno di essere richiamata. L’uomo è meno grande di Dio e più grande della bestia. Non c’è più ricorso alla teologia per spiegare la dimensione dell’uomo. Ogni cosa è parte del tutto, le parti in uno stupendo insieme. L’universo è un insieme stupendo, un’armonia perfetta perché ogni cosa ha il proprio posto, è collocata al posto giusto, ogni cosa ha con l’altra cosa una ragione d’essere. La natura non mostra intervalli e non mostra vuoti. L’amor proprio per i religiosi è un elemento negativo, infatti viene chiamato anche egoismo. Quando i religiosi criticano l’amor proprio stanno criticando una forma di pensiero che è uguale ad egoismo. Nel caso di Voltaire e di Pope, il concetto di amor proprio è uno sprone a cercare la felicità, è un valore positivo. Anche Il discorso in versi sull’uomo viene utilizzato da Voltaire per screditare Pascal. Il precedente titolo per quest’opera era “Epistole sulla felicità”. Sono 7 discorsi, ogni discorso affronta una tematica. Tutti quanti i discorsi danno luogo alla tematica dell’idea della felicità. A questa idea rimandano tutti i discorsi e fanno riferimenti a questa tematica in una maniera particolare (indicare volta per volta, e da punti di vista diversi, la realizzabilità della felicità). Il tema della felicità, per tutto il XVIII secolo, è una sorta di ossessione perché rispetto al 600 è venuto a mancare l’impianto teologico che faceva coincidere la felicità con la salvezza. “Gli uomini sono fatti per essere felici”. La meta per la felicità non è sempre la stessa. Diversi autori hanno vie diverse per la felicità. In Voltaire, però, vediamo diverse vie della felicità. Nello stesso autore, quindi, ci sono diverse vie della felicità. Vi è un mutamento della felicità. Il primo discorso ha un titolo “Sull’uguaglianza delle condizioni dell’uomo”. La felicità non è legata ad una condizione dell’uomo. Non è detto che un uomo ricco sia automaticamente felice. Ci può essere un re infelice. Gli attori della nostra felicità non siamo altri che noi. Non sono né la condizione né gli altri. “Gli uomini sono uguali dinanzi alla felicità. Si dice che prima del vaso portato a Pandora noi fossimo tutti uguali. Lo siamo ancora. Avere gli stessi diritti alla felicità (la felicità non è più una occasionalità ma è un diritto che tocca all’uomo. È anche un dovere per l’uomo essere felice): è questa, per noi, la sola e perfetta uguaglianza.” La felicità non sta nelle cose esteriori e nelle cose che abbiamo. La felicità non è avere. Si è felici. La felicità riguarda l’essere, riguarda quello che tu sei dentro. La felicità è una condizione che possiamo dire “stato dell’anima” piuttosto che il riflesso di condizioni esteriori. Si può essere felici anche in condizioni ritenute svantaggiose e si può essere infelici in condizioni ritenute vantaggiose. La felicità non può essere assoluta (cioè totale e che di fatto escluda la possibilità di essere infelici). La felicità di un essere imperfetto, quale l’uomo, va cercata in tutti i tempi, in tutti i luoghi. La felicità è simile al fuoco. La felicità deve essere cercata da qualche parte per Voltaire: dove devo cercare la mia felicità? E la seconda cosa, dove posso “trovare” la mia felicità? Il cercare non rende automatico il trovarla. La felicità la si può trovare in ogni luogo (ogni luogo può essere quello giusto), in tutti i tempi (non c’è un tempo per la felicità, si può essere felici da giovani, da anziani), nell’intera natura l’importante però è sapere che da nessuna parte la troveremo tutta intera (mescolanza di felicità e infelicità). Non sarà mai una felicità assoluta, intera ma sarà parziale ed effimera. Dappertutto la troveremo con misura (l’adeguamento tra desiderio e possibilità, misura significa moderazione). la felicità ovunque è passeggera (fuggevole, c’è e poi non c’è, appare e poi scompare). È simile al fuoco che però non brucia, non è un fuoco violento che consuma subito le cose (le passioni in questo senso). Il fuoco della felicità è un fuoco dolce, un dolce calore. Questo calore si insinua (contrario di irrompere) segretamente in qualsiasi elemento e dimensione del nostro animo. Ricominciamo sempre da capo la vita come se fosse la prima volta. L’uomo ha sempre cercato le stesse cose fin dal principio, magari in maniera diversa. Quando Voltaire dice che la felicità va cercata in tutti i tempi, si riferisce anche ai tempi della storia (filosofia della storia). In questo senso non esiste una sola età dell’oro. Il secondo discorso descrive l’incontro tra Voltaire e l’angelo (un incontro in cui l’angelo deve spiegare le cose finali della vita e del mondo). Ha per tema la libertà. “L’uomo è libero nelle proprie azioni o è determinato?” questa è la domanda che si pone Voltaire. “L’uomo è libero di cercare e trovare la felicità?”. Se dico che la felicità è casuale sto dicendo che la felicità non dipende da me. Siamo noi che creiamo la nostra felicità o ci arriva dall’esterno? La fortuna viene raffigurata come una donna bendata perché la fortuna è cieca, arriva senza distribuire il tutto equamente. La fortuna non sceglie con oculatezza, non sceglie ad occhi aperti, coglie a caso. L’uomo non ha la capacità e la possibilità di avere le risposte finali così come Dio. L’uomo segue la propria ragione, è sempre combattuto, abbraccia il crimine nonostante ami la virtù. Genesi ci dice che l’uomo è il re del mondo. Questo re del mondo non è sempre libero ma sembra essere uno schiavo. Voltaire in questo discorso continua a parlare della limitatezza dell’uomo. La verità che è data all’uomo è una parziale verità. La verità è prospettiva e interpretazione. Il messaggio finale dell’angelo in questo discorso è “Sii felice - e mi ha detto quanto basta”. Così finisce il secondo discorso. Questa scena del dialogo con l’angelo la rivedremo poi anche in Zadig ma in maniera diversa. Tema dell’invidia: l’invidia è un ostacolo alla felicità. L’invidia significa farsi prendere da un’agitazione interiore, chi invidia non è contento di sé. La felicità di Voltaire dice contentezza del sé, quiete, riposo. Quindi l’invidia è l’elemento negativo, l’ostacolo al poter essere felici. Il terzo discorso, per viam negationis, ci dice di non essere schiavo dei propri vizi (discorso sull’invidia). Il quarto discorso indica, in positivo, la via per la buona felicità. Quarto di sette discorsi, si dispone quindi nel mezzo (il che vuol dire che è centrale). L’importanza di questo discorso è il fatto che è medio fra gli altri e poi è espresso il modo per essere felici. In questo quarto discorso voltaire si allontana dal piacere ma indica un’altra idea di felicità. Nel quarto discorso si intuisce qual è la felicità già dal titolo: “Sulla moderazione in tutto. Nello studio, nell’ambizione”. L’uomo dei discorsi è un uomo diverso da quello de “Il mondano”. Il desiderio è infinito. Voltaire, qui, si accorge della cattiva infinità del desiderio. Il desiderio ci fa essere continuamente agitati, in continuo movimento. Voltaire ha la capacità di tornare, volta per volta, sui suoi passi. Vediamo cos’è la moderazione. Abbiamo una moderazione teoretica, una moderazione dei piaceri. La dimensione metafisica è inaccessibile, cercare di farlo è “non trovare risposte”, è errare. L’uomo deve accontentarsi, moderare la propria sete di sapere. Bisogna assolutamente limitare i desideri umani. Quando non vengono moderati diventano un vizio e i desideri diventano i padroni dell’uomo e lo assoggettano (l’uomo schiavo dei propri desideri ed essere sempre desiderosi rende infelici). Confronto tra il mondano e il quarto discorso. Nel mondano si parla di andare verso tutti i piaceri. C’è un tono eccessivo, ebro. Nel quarto discorso si legge: “Voi che portate tra le mura di Parigi (la città il luogo in cui l’uomo è contento) tutti i tipi di eccessi di Sibari (città dedita a tutti i vizi e al lusso. Voltaire sta criticando la sregolatezza. Prima i piaceri arricchivano l’io, adesso i piaceri snervano, cioè rilassano e indeboliscono l’io) che immersi nel lusso nutrite nella vostra anima un’eterna ebrezza (cercare continuamente i piaceri è come essere ubriachi). Io dico a questi insensati (privi di senno, quindi pazzi scatenati) che devono imparare l’arte di conoscerlo e quella di gioirlo (imparare a conoscere cos’è un piacere, soprattutto che è fuggevole e momentaneo. Devi saperlo godere, come vale per ogni sentimento e dimensione dell’anima)”. La gioia è un esercizio, una costruzione, una cosa che si impara volta per volta. Bon heur philosophique, è composta da varie componenti: - L’amore; Lo studio; La calma interiore; La contentezza di sé; La dimensione della virtù (intende per virtù la Beneficenza: capacità di fare del bene agli altri). La felicità per essere completa deve proiettarsi anche sugli altri, non si può essere felici individualmente. Per Voltaire l’eremita è un sant’uomo ma non è virtuoso in quanto si isola e non può fare del bene agli altri. Abbiamo visto l’ideale della felicità che trova in Voltaire una sua ragione di vita. I racconti filosofici rendono pallido questo ideale, a partire da Zadig. Zadig è una messa in crisi di molte dimensioni dell’idea di felicità di Voltaire. Zadig è in un certo modo l’affievolirsi dell’ideale di felicità. Zadig è consapevolezza, è il racconto delle disillusioni, delle abnegazioni di fronte all’ideale di felicità. Con Zadig entra in crisi quell’ideale di felicità che si trova ne “Il discorso in versi sull’uomo”. ZADIG Importante nella lettura è il fatto che Zadig fosse moderato, generoso, rendeva servizi anche agli ingrati (virtù della beneficenza). Soprattutto, rispettava il debole della gente (quindi riconosceva anche la propria debolezza). “Pensava” di essere felice, questa è la cosa più importante. Non basta avere un ideale, perché questo ideale non si può solo pensare, perché questo ideale può non realizzarsi. Il viaggio di Zadig farà entrare in crisi questo ideale, Zadig è la decostruzione di questo ideale, è la dimostrazione che anche chi pratica un certo ideale non è detto che questo ideale sia fuori dal tempo. Zadig ha tutte le capacità che Voltaire scrisse nei versi sull’uomo per poter essere felici. L’impossibilità della felicità può esserci per due motivi: - Ostacoli soggettivi o interiori; Ostacoli oggettivi o esteriori. Zadig dimostra che la realtà molte volte può essere limitativa dei nostri desideri. Il tempo ha un ruolo importante nel racconto di Zadig. Il tempo si incarica di distruggere le certezze trasformandole in dubbio e si incarica di cambiare le illusioni in delusioni. In Zadig vi è un cammino che non è quello dell’incanto e della conferma, è quello del disincanto e della disillusione. Zadig amava Semira, un nome che richiama alla mente “Semiramide” (una donna di facili costumi). Provava per lei un affetto solido e virtuoso. All’entrata di Orcano vediamo l’invidia (in questo caso ostacolo esteriore). Zadig si era illuso di poter essere felice. Lui è in una perenne delusione (qui ritorna “pensava di essere felice”). Si accorgerà che Semira non è fedele come appare e sposa Azora. Nel secondo paragrafo parla del tradimento di Azora. Zadig ha sperimentato che uno dei capisaldi della felicità. Nel terzo capitolo: Zadig fa esperienza (verificare la bontà di un’ipotesi, di un’idea) che il primo mese di matrimonio è la luna di miele (dolce) e che il secondo è la luna di assenzio (amaro). L’inizio è sempre dolce e alla fine c’è l’amarezza che sopravviene (questo ha sperimentato, che la dolcezza di un amore non è dolcezza per sempre). Già Lucrezio nel De Rerum Natura parlava, attraverso l’immagine del miele (dolcezza) e dell’assenzio (amarezza), della sua poesia. Zadig volge le spalle alla via della felicità nell’amore, ora cerca la felicità nello studio della natura. Questa è la seconda dimensione per la costituzione della felicità di Sileì. Zadig, anche nello studio della natura, “cercò di essere felice” ma anche questa volta sarà costretto a voltare le spalle a questa strada. Alla fine, si legge infatti: “E quanto è difficile essere felici in questa vita!”. L’infelicità è la malattia dell’anima e del corpo. L’immagine del “libro che Dio ci ha messo sotto gli occhi” è un’immagine forte dell’occidente. Il capitolo “Il cane e il cavallo” è molto interessante. Zadig sta dando la descrizione precisa del cane della regina anche se non l’ha mai visto. Lo stesso accade col cavallo del re. A questo punto Zadig fu incolpato di aver rubato questi due animali. Zadig, di fronte all’assemblea, giustifica il suo sapere degli animali perché si era dedicato allo studio del libro della natura (che si studia senza tralasciare nessun dettaglio). Voltaire ha sperimentato due vie per la felicità: l’amore e lo studio. Alla fine, conclude con “com’è difficile essere felici in questa vita”. Questa frase intende la possibilità. Avrebbe potuto usare l’aggettivo “impossibile” ma in questo caso sarebbe stato totalmente negativo. La felicità è legata alla dimensione umana (imperfetta) e imperfetto è il modo di essere felici. L’uomo può essere felice, ma può esserlo solo se ci sono determinate situazioni. Zadig ha la possibilità di essere felice ma Voltaire sta mettendo l’accento sugli atteggiamenti esteriori e oggettivi. Qui è il destino che ha a che fare con la dimensione esteriore. Nel quarto paragrafo Zadig volle consolarsi dalla filosofia e dall’amicizia, per i mali che la sorte gli aveva procurato. Si rifugia nella vita dei “dotti” e crede che questa gli possa portare la felicità. Nel passo “Egli maledisse i dotti, e non volle più vivere che in buona compagnia”, Zadig intende vivere con le persone di mondo. La gente di mondo con le quali Zadig vuole vivere sono i mondani, che vivono rincorrendo i piaceri del mondo. L’invidia è un elemento esteriore e ostacolativo della felicità (com’è scritto nel terzo discorso in versi). “Zadig cominciò a credere che non fosse difficile essere felice”, sembra essere un ritorno al primo paragrafo. Vi è la compresenza di un ottimismo e un pessimismo che più che essere elementi oggettivi diventano elementi prospettici. Voltaire dice che molte volte siamo portati a cogliere una diversa valutazione delle cose a seconda dell’esperienza che stiamo facendo. L’esperienza è prospettica e interpretativa, non ha nessuna forma di oggettività. Pessimismo e ottimismo non vanno visti, in Voltaire, cronologicamente. Non viene prima l’uno e poi l’altro. Stanno nello stesso spazio, uno accanto all’altro (topologicamente). Il libro di Giobbe è un libro che ha a che fare col male, Zadig è un libro che ha a che fare col male. Zadig è un uomo buono e dovrebbe essere premiato. La stessa cosa succede a Giobbe, uomo fedele a Dio, che dovrebbe essere premiato quando invece subisce solo tanti mali. Il libro di Giobbe nasce da una scommessa tra il diavolo e Dio. Secondo il diavolo, Giobbe era fedele a Dio solo per i beni che quest’ultimo gli aveva dato. Alla fine, Giobbe viene ripagato di tutti i dolori che ha passato. Giobbe ci aiuta a capire Zadig. Nel racconto di Giobbe ci sono vittime innocenti (alcune gridano vendetta). Alle vittime innocenti guarderà Voltaire quando scriverà il poema sul disastro di Lisbona (forse già in Zadig inizia a serpeggiare un’idea del genere, soprattutto quando affronta la doppia questione tra il non negare l’esistenza di Dio e il non negare l’esistenza del male). Quiete e persecuzione diventano i poli della vita di Zadig. È un movimento dialettico che porta continuamente dall’io al mondo e dal mondo all’io. Zadig ripensa alla condizione della felicità. Il destino sembra essere all’origine della felicità. Il problema che attanaglia Voltaire è: “è possibile trovare la felicità su questa terra?”. Questo è quel che impersona Zadig. Paragrafo 17: I combattimenti Paragrafo 18: L’eremita In questo passo sono importanti sicuramente: l’incapacità di Zadig di leggere nel “libro dei destini”; “mi sembrate molto addolorato/talvolta ho profuso sentimenti di consolazione nell’animo degli infelici”. Zadig si trova in uno stato della disperazione. Zadig è infelice. L’angelo (l’eremita) interviene per consolare Zadig ma anche per un motivo provvidenziale (deve impedirgli di pensare che il male prospera nel mondo e che non c’è nessuna provvidenza che giustifichi il male nel mondo). L’angelo interviene, quindi, per portare la consolazione perché Zadig vede prosperare i cattivi e perseguitati i buoni. Zadig non riesce a leggere nel libro dei destini perché quello è il libro della onniscienza divina. Lì c’è scritto tutto il passato, il presente e il futuro. L’eremita gli spiega che gli uomini spiegano senza conoscere le cose divine. Il dialogo tra l’angelo e Zadig, a differenza del discorso in versi, si conclude diversamente. Da una parte si legge “sii felice”, qui l’incontro finisce in un altro modo: Zadig dice “ma…”. Quel “ma…” vuol significare il fatto che Zadig è dubbioso delle spiegazioni dell’angelo Gesrad (l’eremita). Quel “ma…” è la contestazione ad un angelo che non ha più parole. Zadig è insoddisfatto. Voltaire, con Zadig, non è più tanto disponibile ad ascoltare la voce dell’angelo perché la realtà del male si è fatta cocente e ineliminabile. Il problema del male e la presenza di Dio è una questione che inquieta Voltaire. Lui non vuole rinunciare all’idea della libertà dell’uomo (riferimento al libro dei destini). Zadig è equilibrio tra esistenza di Dio e esistenza del male. Il 1° Novembre 1755 (il giorno di tutti i santi) un terremoto scuote la terra di Lisbona e colpisce la sua casa di Lisbona. Questa casa aveva un nome: Le Delizie. Voltaire gli dà questo nome perché lo ritiene un luogo di tranquillità e prosperità (una sorta di paradiso). Voltaire non partecipa direttamente al terremoto, partecipa attraverso i racconti degli inviati e in modo immaginativo. Il giardino è l’altro luogo, una sorta di utopia ed è anche eutopia (a place of ideal well-being). Il giardino è il tentativo di sostituire un’estate gloriosa al tempo del nostro scontento. La notizia del terremoto di Lisbona raggiunge Voltaire in quello che lui chiama rifugio delizioso. Il terremoto ebbe una forte influenza su molti pensatori europei dell’Illuminismo, che dibatterono nell’ambito della cosiddetta filosofia del disastro. Più di uno di essi menzionò o fece allusione a questo avvenimento in loro scritti, in particolare Voltaire in Candido e nel Poema sul disastro di Lisbona. Il carattere apparentemente arbitrario con cui persone furono risparmiate o uccide dal terremoto fu utilizzato da Voltaire per screditare il concetto di “miglior mondo possibile”, espresso da Leibniz. Il terremoto di Lisbona fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana. Voltaire si sente come l’uomo che osserva il naufragio, è triste per quel che vede ma contemporaneamente è felice di essere ad una distanza di sicurezza (nel senso che è vivo). La maggior parte dei morti ci furono nelle chiese. Il terremoto di Lisbona fu il primo terremoto “raccontato”. Arrivarono in Portogallo persone da altri paesi per raccontare ciò che vedevano. Voltaire invia una lettera al suo amico Tronchin: qui Voltaire prende le distanze da Leibniz. Davanti al terremoto di Lisbona, Voltaire inizia a vedere il mondo in modo molto più oscuro e lo compara col gioco d’azzardo dove si può vincere ma si può anche perdere. Passa dalla fisica alla metafisica. Il terremoto (fisico) diventa per Voltaire una riflessione metafisica, diventa il problema della vita degli uomini, sul male, su Dio. 28 novembre 1755 Se Pope fosse stato a Lisbona avrebbe osato dire “tutto è bene”? 2 dicembre 1755 In un tempo in cui c’è il terremoto e gli uomini di notte hanno paura nel proprio letto sia l’ottimismo (Leibniz) e sia il “tutto è bene” (Pope) sono ridotti a mal partito. Agli occhi di Voltaire queste affermazioni sembrano oltraggiose. Fa, dunque, una critica all’ottimismo di Pope e di Leibniz. Invia una lettera in cui dice che bisogna valutare con molta attenzione il male e i mali che colpiscono i popoli e bisogna farlo in una maniera utile e cristiana (cristiano non è una parola religiosa ma intende “quelli che hanno sofferto mali e disgrazie). IL POEMA SUL DISASTRO DI LISBONA Importante da sapere è che Voltaire pubblica contemporaneamente sia Il poema sulla legge naturale, sia Il poema sul disastro di Lisbona. Sono due poemi speculari, uno ottimista (quello sulla legge naturale che si rifaceva a Pope) e uno pessimista (quello su Lisbona che si rifaceva a Bayle). In Candide troviamo il personaggio di Bayle che ne sa più di tutti. Il poema sulla legge naturale è un “testamento religioso”, il poema su Lisbona viene chiamato anche “lamentazione di Geremia”. Il 1° novembre 1755 Lisbona fu sconvolta da un terribile terremoto che fece circa trentamila vittime. La notizia suscitò molta impressione in tutta Europa. Quello che dette una risonanza infinitamente superiore al disastro di Lisbona fu che in questa occasione, in pieno secolo di “filosofia dei Lumi”, il re dei philosophes, Voltaire, con l’immediata pubblicazione del Poema sul disastro di Lisbona (già redatto praticamente alla fine di novembre), lanciò una sorta di proclama contro i sostenitori di teorie giustificazioniste e consolatorie sui mali del mondo. Il bersaglio erano i fautori delle teodicee tradizionali e, naturalmente, in primo luogo la teologia cristiana di cui si era fatto vessillifero di Leibniz teorizzando che tutto è bene in questo nostro mondo, da lui perciò definito come il migliore dei mondi possibili. “L’autore si erge contro gli abusi che si sono potuti fare dell’antico assioma tutto è bene. Egli adotta questa triste e più antica verità, riconosciuta da tutti, che c’è del male sulla terra e confessa che l’espressione tutto è bene, presa in un senso assoluto e senza la speranza di un futuro, non è che un insulto ai dolori della nostra vita.” In effetti, il Poema rappresenta la prima vigorosa denuncia pubblica contro l’infondato e indimostrabile ottimismo della teodicea in materia di male fisico. C’è da dire che il razionalismo e la teologia avevano cercato di spiegare in vari modi l’esistenza del male, ma in ogni caso avevano tentato di presentarlo come una realtà negativa, come una semplice privazione di un bene più grande; realtà negativa voluta o almeno permessa da Dio perché l’uomo, cosciente e libero, potesse superarla ed attingere così un bene liberamente scelto. Il poema voltairiano riprenderà tutte le argomentazioni di Bayle e sarà un testo appassionato in difesa degli umili e dei sofferenti, oggetto della cieca furia distruttrice della natura e della congenita violenza di tutte le creature. Ma quello che fa del Poema sul disastro di Lisbona un fatto originale è che esso rappresentò una sorta di manifesto nei confronti dell’autorità ecclesiastica che, in stretto connubio con il potere politico, aveva inteso stabilire per tutti e in nome di tutti l’interpretazione autentica del bene e del male. La tesi sostenuta da Voltaire è semplice: il male nel mondo non può essere opera di Dio, perché in tal caso non sarebbe un Dio buono e giusto, né può essere opera di altri, perché in tal caso non sarebbe un Dio onnipotente. Eppure, il male esiste e ci dobbiamo fare i conti. Ma che il male appaia tale agli umani e che sia invece parte del bene universale, tesi ricorrente in certa teodicea e fulcro del pensiero leibniziano, è uno stravolgimento della realtà in quanto ne nega la sofferenza ed è un insulto a coloro uomini, donne, vecchi e bambini – che, senza alcuna colpa, sono stati schiacciati a Lisbona dalle pareti delle loro stesse case o sono stati, in generale, vittime delle leggi di natura. E se il Poema terminava ancora con una parola di speranza, Voltaire scriverà poco dopo il Candide, l’opera considerata il suo capolavoro letterario, in cui il suo pessimismo diverrà totale (i temi del poema saranno infatti ripresi nel Candide). Il male è rappresentato in tutte le sue manifestazioni possibili lungo l’avventura umana di Candide, così da rappresentare la più efficace denuncia del tutto è bene leibniziano, questa “filosofia crudele sotto un nome consolatorio” com’ebbe a scrivere in una lettera del 18 febbraio 1756. La famosa conclusione di Candido (coltiviamo dunque il nostro giardino) non è un’attenuazione di quel pessimismo: al contrario, è la soluzione disperata di un uomo disincantato che tuttavia non vuole deporre le armi; un uomo cui resta soltanto la sua battaglia terrena: quella di Voltaire a Ferney, il suo piccolo regno, rappresenta la rigorosa scelta di un laico che “sa di non sapere” e che quindi deve costruire la sua filosofia entro i confini di questo terreno. Che, fuor di metafora, è quello della ragione. ANALISI DEL POEMA SUL DISASTRO DI LISBONA Questo è l’attacco, non di un uomo felice ma, di un uomo triste per gli altri uomini. La condizione dei mortali è quella di vivere disastri. Nel primo verso Voltaire utilizza il termine “mortali” per sottolineare la finitezza dell’essenza dell’uomo. Le parole non sono usate a caso. Malheureux è l’esatto contrario del bonheur. C’è un grido, da parte di Voltaire, non c’è più il “ma…” al volo dell’angelo che troviamo in Zadig. C’è un grido davanti al male che sembra non avere spiegazione alcuna. L’ottimismo per Voltaire è disperante. L’ottimismo ti toglie la capacità di guardare in faccia il male, di guardare in faccia il dolore e di prenderne consapevolezza. Alexander Pope sosteneva che “tutto ciò che è, è giusto” o, in modo più conciso, “tutto è buono”. Ma, nel 1755, la città di Lisbona venne distrutta da un terremoto e Voltaire, che amava Pope ma ne era esasperato, compose il “Poema sul disastro di Lisbona” per spiegare che no, non tutto è buono. Il poema demoliva l’ottimismo idiota convinto che tutto sia buono nel qui ed ora. Demoliva anche il fatalismo idiota che sostiene che tutto sia buono, se non nel qui e ora, almeno alla luce dell’eternità. E infine demoliva la credenza che la storia si conformi alla legge morale e che le persone ottengano ciò che meritano e che allora tutto sia buono da un punto di vista morale. Il poema era anche un modo per riconoscere che il male esiste e, essendo male, non ha logica. Era, insomma, un appello alla compassione. Una difesa della speranza – non perché la speranza sia, per necessità, realistica, ma perché si rivela essere una necessità dell’essere umano. Voltaire descrisse gli abitanti di Lisbona, schiacciati dalle macerie di marmo, mentre chiedevano al Cielo di salvarli. E disprezzava chi sorrideva di questi gesti. Voltaire era grande perché aveva capito che, al mondo, il controllo delle cose non dipende da niente e da nessuno, ed è una cosa tremenda. Aveva anche capito che, tuttavia, c’è la necessità di pensare che dipenda da qualcuno, o da qualcosa. E si infuriava con chi, come il grande Alexander Pope, non riusciva a cogliere e articolare queste verità contraddittorie, umane e inumane. La fede nell’ottimismo e nel progresso dell’umanità garantito da Dio era stata espressa da Leibniz nei Saggi di teodicea del 1710. Un’esaltazione dell’ottimismo cosmico si ritrova successivamente in Alexander Pope. Ancora sostenitore in un primo momento dell’ottimismo leibniziano è Voltaire che, durante il suo soggiorno forzato a Londra dal 1726 al 1728, aveva conosciuto personalmente Pope che ricorda con stima nelle sue Lettere filosofiche redatte al suo ritorno in Francia quando condivide l’ottimismo dei pensatori inglesi e critica invece il pessimismo di Pascal. Nel poema Le mondain del 1736 contesta ogni pratica ascetica o solo ispirata alla frugalità e alla semplicità sostenuta dai puritani e cattolici ed esalta invece il materiale gusto di vivere e la non rinuncia a godere sino in fondo quanto la vita può offrire. La sua opinione cambia radicalmente dopo l’evento del terremoto di Lisbona, quando comincia a dubitare dell’esistenza del male come scelta provvidenziale di Dio. During the early Enlightenment, the common belief was that the world had been designed by a God (and not necessarily the Christian God). This view was known as deism, and most major thinkers believed it. (This includes Voltaire – commonly misidentified with atheism). In the 18th centuries in fact, it was sensible to believe in deism. The watchmaker analogy, which was popularized during this period, argued that the universe was like a watch: mechanical, regular, and containing dozens of moving pieces. When the concept of a mechanical universe merged with earlier Christian concepts of god-like benevolence and omnipotence, thinkers – Leibniz most famously – argued that if the universe was created by an all-powerful, all-benevolent god, then it must be perfect as it was. And it must be necessarily perfect. Otherwise, how could the supreme being be either all-powerful or allbenevolent? To solve a question of logical impossibility, Leibniz and others posited logical necessity – the world is the best it possibly can be. Human suffering was the result of human ignorance; we simply couldn’t see the universe as god could. Pope went all-in on this optimism in his Essay on Man. He encapsulated the principle in this single line of verse: Whatever is, is right. Voltaire – a deist like Pope and Leibniz – clearly accepted the doctrine of philosophical optimism in the early period of his life. He was so influenced by the work that in 1738, Voltaire published Discours en Vers sur l’Homme, which literally translates to “Discourse in Verse on Man”. But over time, Voltaire’s opinion of optimism began to sour. In 1755, a massive earthquake destroyed Lisbon – the resultant fires and tsunami wiped out the city almost entirely. The estimates of the death toll reached as high as one-hundred thousand dead. The problem of evil had become palpable. He realized that the Essay on Man was too optimistic: this world could not be the best possible world. In 1759, Voltaire published Candide, which satirizes the notion of optimism. Voltaire’s adaptation of Pope’s maxim would read: Whatever is, can be made better. Tra il poema sul disastro di Lisbona e Candide abbiamo stesso argomento ma diverso genere letterario. Quando Voltaire ha scritto il poema aveva una esigenza, c’era il grido, c’era il dolore. I versi gli permettevano di esprimere tutto questo nel migliore dei modi. Quando scrive Candide, invece, dà al racconto filosofico un’ironia sulfurea (quell’ironia che c’è in Candide è diversa da quella di cui si serve Voltaire di solito, qui invece è amara, è come un volto di un uomo che, atteggiato al sorriso, ha un fondo amaro). Tra queste due opere c’è un romanzo che può funzionare da anello di congiunzione. Questo racconto è “Storia dei viaggi di Scarmentado scritti da lui stesso”. È una storia, ed è uno dei pochi racconti in cui il personaggio scrive in prima persona (vi è un processo di identificazione tra Voltaire e il personaggio che racconta). Scarmentado è, in un certo senso, Voltaire. Voltaire racconta di Scarmentado ma fa una sorta di autobiografia romanzata di quel momento. È il 1756, il momento in cui ha iniziato a scrivere il Saggio sui costumi. Il cosmo visitato da Scarmentado è allora intriso di tirannia e violenza e del resto nel suo Essai sur les moeurs, apparso in quello stesso anno 1756, Voltaire si esprime con l’amarezza di chi – ripercorrendo la storia del XVII secolo – vi vede “le debolezze punite, ma i grandi crimini premiati” (richiamo anche a Zadig), mentre “l’universo è una vasta sena di brigantaggio abbandonata alla fortuna”. Si sente in queste parole l’eco di alcune affermazioni di Bayle, il quale nel suo Dictionnaire sostiene, alla voce “Manichei”, che “la storia non è altro che una raccolta dei delitti e delle disgrazie del genere umano”, anche se Voltaire mostra una leggerezza e un distacco ironico che sono sconosciuti al cupo pessimismo di Bayle. Il clima di questo racconto filosofico è particolare. Si sprigiona un senso di disgusto, demoralizzazione, orrore, scoraggiamento (sentimenti medusei, pietrificano l’animo delle persone che sono prese da questi sentimenti). Il viaggio di Scarmentado è un resoconto dell’attraversamento delle lande desolate del globo terrestre. In Scarmentado è come se Voltaire desse ragione a Rousseau sull’esistenza del male. Scarmentado significa colui che ha imparato a proprie spese, colui che è stato corretto (durante il proprio viaggio) e castigato. In istruito, corretto e castigato (così in ordine) è evidenziata tutta la storia di Scarmentado. Troviamo uno spostamento spaziale (nacqui nella città di Candia) e anche uno spostamento temporale (nel 1600). Il distacco temporale c’è perché vuole universalizzare la condizione dell’uomo. La storia ci fa vedere sempre la stessa situazione. All’età di quindici anni viene mandato a studiare a Roma, sperando di imparare tutte le verità attraverso lo studio delle categorie di Aristotele (è ironico). In tutto il racconto si vedono le esperienze di viaggi che ha fatto in posti disparati dell’Europa. In tutti questi luoghi vede sempre le stesse scene. L’uomo cerca la lotta, la sopraffazione, la dimensione di costruire. Scarmentado non vive ma sopravvive. Nel racconto di Zadig troviamo elementi di alternative, in Scarmentado non troviamo alternative (ogni esperienza che fa è una riconferma dell’esperienza precedente). Nel racconto di Scarmentado ciò che viene a mancare, rispetto alle opere precedenti, è la possibilità ottimistica che c’era invece in Zadig. Nel poema sul disastro di Lisbona si è manifestata la realtà del male, ingiustificato (non trova nessuna giustificazione nemmeno metafisica). Nella parte finale del poema, Voltaire aveva cercato di modificare la formula di Alexander Pope dicendo “tutto è bene oggi, ecco la nostra illusione”. Nel poema, quindi, abbiamo il bene come un’illusione (“accorrete, filosofi illusi”), a differenza che in Zadig o in Micromegas. Il desiderio è una maniera di non vedere le cose così come sono, a volte è una sorta di visione da una prospettiva sbagliata. Alla fine del poema ci sono due parole che ci fanno pensare: “illusione” e “speranza”. Queste due parole spezzano quell’equilibrio che Voltaire ha sempre cercato. Candide è la riaffermazione di questa consapevolezza sia di illusione che di speranza. Ciò che ha di diverso dal poema è il fatto che Candide è la presa d’atto che quella speranza e quella illusione siano oramai rapportabili nel tempo. Candide è un viaggio. Questo viaggio ha un inizio e una fine. Sia all’inizio che alla fine c’è una figura: il giardino. Da un giardino inizia il viaggio di Candide e ad un giardino giunge il viaggio. Un’unica figura ma non un unico significato. Non c’è equivalenza. Giardino di Westfalia, e poi il giardino di Agropontide. Il primo giardino può essere assimilato al giardino edenico, il paradiso terrestre (un luogo in cui si vive bene, un giardino di delizie dove c’è innocenza e felicità). Sarà un viaggio di allontanamento dal giardino edenico. Candide è un nome che designa una personalità, è candido perché è ingenuo, innocente, la dimensione fiduciosa della vita, una dimensione di affidamento (si affida). Presa di Voltaire contro Leibniz quando parla male di Pangloss (Voltaire vuole dimostrare la vanità dell’ottimismo razionalista leibniziano e della teoria del migliore dei mondi possibili). Candide viene cacciato dal giardino edenico del castello di Westfalia è la colpa di aver ceduto al corteggiamento di Cunegonda. Candido è una genesi parodistica. Vediamo una sorta di Genesi parodistica, una condizione paradisiaca, colpa, punizione, dolore. Voltaire sembra avere in mente anche Milton (ha scritto Il paradiso perduto, dov’è raccontata la cacciata attraverso le parole del diavolo). In Candido vi è un ritorno a Pascal (parlando del peccato originale), ma non una adesione a Pascal. La cosa interessante è che Voltaire, e qui sta l’adesione a Pascal, vuole dirci che viviamo in un recinto e che da quel giardino dobbiamo, prima o poi, prendere congedo. Una volta usciti da quel recinto la vita si farà dura. Nel mondo, sta dicendo Voltaire attraverso il racconto, ci entri già con un male morale e un male fisico. La condizione del mondo descritta in Candide è questa. La caduta diventa un precipitare in una storia di degenerazione e guerre. Guerra tra Bulgari ed Abari (capitolo 3, capoverso 2). Descrizione dell’orrore della guerra. In questo momento sembra difficile pensare ad un ritorno al paradiso terrestre. Questo viaggio (quello di Candide) erode poco alla volta le più improbabili convinzioni. Dice Candide “è proprio vero che bisogna viaggiare” (solo facendoci stranieri a noi stessi possiamo conoscerci, solo incontrare stranieri possiamo imparare). Il viaggio è l’incontro con lo straniero, soprattutto farci noi stranieri a noi stessi, per avere una conoscenza che non ci sarebbe mai data. Il viaggio mostra l’inconsistenza di una fantasiosa filosofia dogmatica, dimostra che non sempre tutto è necessariamente concatenato. Durante il viaggio Candide perde ad un certo punto la propria guida, la perde ma non ne sente più la mancanza. Ne trova subito una nuova che è Martin (che è un manicheo). Dietro Martin c’è Bayle (non accetta la teoria angelica di Leibniz, quindi troviamo la critica della teodicea di Leibniz). Martin è l’esatto contrario di Pangloss. Leibniz (Pangloss) è ottimista, è sempre convinto del bene; Bayle (Martin) è sempre convinto del male, dell’esistenza di un Dio del Male in opposizione al Dio del Bene: provvidenzialismo contro manicheismo. Eldorado è l’utopia che viene attraversata e non ci si può vivere. È il luogo del desiderio, della speranza. Martin rivendica il proprio manicheismo dicendo: “dando un’occhiata a questo globo ritendo che Dio l’abbia lasciato ad un Dio del Male”. L’uomo ha il male fisico e il male morale, questa è la domanda che Candido rivolge a tutti i suoi interlocutori. Martin è convinto che il male fisico opprime l’uomo ma è ancora più convinto che il male morale lo opprima ancor di più. Martin è convinto che il mondo è stato creato solo per farci disperare. I mali del mondo non sono un’ombra su un quadro luminoso, sono proprio una sostanza (una condizione ineliminabile dal mondo). Pangloss: alla fine del viaggio si rende conto di aver sempre sofferto ma che, dicendo che tutto andava bene, non se n’era mai accorto. Martin: l’uomo è nato per vivere unicamente nell’affanno, nell’inquietudine (siamo alla perenne ricerca di qualche cosa) e nella noia. La posizione di Candide sta nel buonsenso, che con pazienza si rimette all’opera del vivere dopo ogni disavventura e che, dopo vari preannunci ironici o allusici, a Pangloss esaltante “il migliore dei mondi possibili” onde sarebbero concatenati fra loro gli sciaguratissimi avvenimenti vissuti dai protagonisti, finisce con l’opporre il richiamo sommesso e modesto, ma risolutivo, alla necessità di coltivare il giardino del loro approdo. Bisogna coltivare il proprio giardino assume due diversi significati in Voltaire: 1. Bisogna distruggere l’infame: tutta la perversione della religione, l’intolleranza, il fanatismo; 2. Bisogna coltivare il “mio” giardino (lo usa soprattutto quando è stanco): come luogo di rifugio per mantenere fuori da quel recinto il male che pressa e che bussa e che cerca di entrare anche nel recinto dell’anima. Le disavventure di Candido e degli altri personaggi del libro non sono che variazioni sul tema della compresenza nel mondo del bene e del male. Di tutte le forme di violenza con cui Candido deve misurarsi, quella forse più sconvolgente gli si presenta in una piantagione di zucchero della Guiana Olandese: lì Candide scopre la schiavitù. L’ipocrisia occidentale che ogni domenica fa predicare nelle chiese che “tutti, bianchi e neri, siamo figli d’Adamo” non riesce più a giustificare le teorie del maestro Pangloss e fa dire a Candide: “O Pangloss! Questa abominazione tu non l’avevi prevista! Non c’è rimedio, bisognerà per forza ch’io rinneghi il tuo ottimismo”. Nella scena conclusiva del romanzo, le domande fondamentali sul bene e il male e sul libero arbitrio sono rimaste tutte senza risposta; in più, dopo tante disavventure ed emozioni, Candide e gli altri protagonisti si trovano a fare i conti con la noia e l’incertezza, per le quali non sembra esserci rimedio. L’uscita da questa impasse è affidata da Voltaire al saggio derviscio e al buon vecchio, entrambi musulmani. Il derviscio nega valore a tutte le domande poste via via dai vari personaggi, sulle quali lascia calare la scure del silenzio (“tacere” è la sua risposta); il vecchio oppone alle contraddizioni della metafisica sei-settecentesca la semplicità di una vita senza dottrina ma anche senza “tre mali grandissimi: noia, vizio e bisogno”. Così all’incorreggibile Pangloss – che si ostina a ripetere ottusamente che questo è “il migliore dei mondi possibili” – Candide può finalmente opporre la saggezza che consiste nel lavorare senza discutere, sintetizzata in una delle formule più celebri della cultura occidentale: “bisogna coltivare il nostro giardino”. In conclusione, possiamo dire che per Voltaire la ragione e la critica filosofica sono necessarie ma non sufficienti a trovare il senso della vita e le ragioni della convivenza civile. A Candide sono servite soprattutto a demolire miti e superstizioni, a sgomberare il terreno dalle illusioni antropocentriche incarnate dal patetico ottimismo di Pangloss, e a convincerlo del fatto che l’infinito fluire della vita non può essere incasellato in formule astratte e precostituite. Ammesso che la vita abbia un senso, a ciascuno è richiesto di scoprirlo con i propri mezzi e seguendo con umiltà un percorso personale: nell’immagine del giardino da coltivare la parola forse più importante è il possessivo “nostro”. Il giardino rappresenta lo spazio interiore, le nostre qualità interiori. A Candide viene consigliato di coltivare il proprio giardino in senso quasi egoistico ovvero in mezzo alle avversità ma anche alle pretese di tutti ed è riferito alla vita piena di insidie, cattiverie e sfortune del giovane personaggio ingenuo volteriano. Dentro Voltaire come altri illuministi cresceva il seme dell’universalismo umanitario, in tempo di rivoluzione dove nobiltà e aristocrazia venivano combattuti nel loro egoismo dalla classe borghese non ancora ufficialmente riconosciuta liberale, liberista o, in relazione alla crescita del successivo proletariato collegato alla rivoluzione industriale, socialista. MODULO B – LO STRANIERO Questo libro non contiene riferimenti al presente ma ci può aiutare a pensare e riguardare il rapporto di una società che, come la nostra, pone chiunque in una dimensione che è quella della multiculturalità. Lo straniero non è più quello che giunge da lontano, lo straniero è anche colui che vive accanto a noi. Abbiamo due parole che sembrano uguali ma non lo sono: - Multiculturalismo: la parola ci dice della topologia delle culture, parliamo di spazialità dove più culture vivono insieme nello stesso luogo. Interculturalismo: la parola di ci dice dei rapporti tra le culture. Quindi, all’interno del multiculturalismo abbiamo l’interculturalismo. Quando parliamo di interculturalismo si introduce automaticamente il concetto di “dialogo” per conoscere l’altro. Per porsi il problema dello straniero Umberto Curi fa dell’etimologia (interrogazione del significato delle parole), fa filosofia, fa letteratura, interroga la psicanalisi, interroga la storia (dell’ospitalità greca) ma anche la bibbia, la sua dimensione di vecchio e nuovo testamento. Una domanda su uno straniero è una domanda su noi stessi, in noi abita una stranierità, c’è una parte oscura, enigmatica, e abissale, che nessuno di noi riuscirà in fondo a cogliere perché non solo non siamo capaci di ispezionare il nostro cuore, ma anche perché molte volte non vogliamo vedere quel che c’è dentro di noi perché siamo fermati dalle passioni. Lo straniero ci riguarda da un punto di vista politico ma soprattutto morale (ci permette di interrogare noi stessi su ciò che siamo e anche su quello che non vorremmo essere). Curi fa un’operazione molto particolare: si serve di autori, poeti, scritti di poesie, filosofi, psicanalisti per approfondirli e fare un’opera di avvicinamento a cosa egli intende per straniero. Straniero è tutto ciò che non è noto, per questo il titolo del libro non ha l’articolo determinativo. Il libro non si chiama “Lo straniero” ma “Straniero”, forse proprio per non indirizzare il termine a qualcuno esterno ma anche a noi. Il libro inizia con un poemetto di Baudelaire (spleen per Baudelaire è la malinconia al massimo grado, ne “I fiori del male” ci sono quattro poesie al riguardo. Lo spleen è una condizione dell’animo che spingeva a gesti estremi. Oggi lo spleen lo chiameremmo mania depressiva. È una condizione dell’anima uggiosa). ANALISI DEL POEMETTO DI BAUDELAIRE Il poemetto “Lo straniero” di Baudelaire ci aiuta a capire perché Curi ci dice “come un enigma ci viene incontro lo straniero”. La prima cosa che l’interrogante coglie nell’altro è il suo essere enigmatico (vedi Baudelaire, primo verso). Stare davanti ad uno straniero è come stare davanti ad un enigma (perché è qualcosa di difficile da decifrare). L’enigma in Grecia era come una rete gettata sulla mente e l’intelligenza delle persone. Lo straniero è un enigma, ci sta difronte come un uomo enigmatico, come qualche cosa che ha bisogno di essere sciolto e specificato, è qualcosa che ci pone un’interrogazione (“Chi sei?” “Perché giungi?” “Come giungi?” “Con quali intensioni giungi?”). Viene chiesto chi ama di più perché di solito si capisce chi siamo vedendo chi amiamo. La risposta è che non ha né padre, né madre, né sorella, né fratello. Ciò vuol dire che non ha una famiglia, non ha legami, non ha affetti e sentimenti, è un derelitto, è un uomo solo. Lo straniero si fa avanti per perdita, per solitudine. Non ha patria, è sradicato nei sentimenti e nella dimensione di appartenenza ad un luogo. Lo straniero avrebbe bisogno della bellezza. L’oro quantifica i rapporti con gli altri, non li rende qualitativamente umani. L’oro è l’abbassamento contabile delle passioni e degli affetti con le persone. Perché “straordinario straniero”? Perché è fuori dal comune, fuori dalle mie visioni, fuori dalla ordinarietà del mio modo di pensare. Lo straniero è colui che viene a interrompere la catena di valori, pensieri e credenze dentro il quale io sono. È lo straordinario che, paradossalmente, non è solo altro dalla mia ordinarietà ma disegna la mia ordinarietà. La straordinarietà si misura a vicenda, io con la mia ordinarietà misuro la sua straordinarietà e lui con la sua straordinarietà misura la mia ordinarietà. Baudelaire alla fine intende lo straniero come il poeta (è colui che non ama il denaro, che non ha amici, né famiglia). Dice “amo le nuvole, le nuvole che passano”: qualcosa di così evanescente. Le riflessioni che Curi fa è che lo straniero è un enigma che pone: 1. Interrogazione: per trovare una specificazione (però le domande implicano anche una dimensione di inquietudine. Non è semplice curiosità. L’inquietudine, davanti allo straniero, non passa perché lo straniero è inconoscibile e irrisolvibile. Il rapporto con lo straniero non è mai un rapporto “sicuro” ma è sempre “insicuro”. Il problema è che essendo insicuro porta con sé una minaccia (per questo ci rende inquieti). Ciò che ci rende insicuri è qualcosa che ci minaccia. Interrogando lo straniero, contemporaneamente egli ci interroga. Tra l’inizio e la fine del poemetto dell’introduzione siamo di fronte ad una metamorfosi. Assistiamo ad una mutazione della identità perché, da enigma, lo straniero si è fatto straordinario. Straordinario e straniero producono “stupore”. I greci avevano nominato “meraviglia” qualcosa che ci genera meraviglia. Lo stupore ha un doppio versante: - Può essere ammirazione; Può essere anche così insolito che quello stupore può essere accompagnato da un brivido, quello è uno stupore ma al contempo un timore. Questo è il fascino dell’ignoto (e quindi lo straniero): stupore e timore. Curi fa l’esempio di Polifemo che rende Ulisse stupito e lo porta ad interrogarlo. La filosofia nasce dalla meraviglia e, come dice Aristotele, non è dare risposte ma avere domande. Il filosofo è come il navigante che ha nello sguardo la linea dell’orizzonte e ha l’illusione di fare un passo che di avvicinarsi di un passo all’orizzonte, cioè di ridurre la propria distanza di un passo dall’orizzonte. Ma questa è soltanto un’illusione, questa è la filosofia. Quel che accade con lo straniero è la stessa cosa che accade nell’amore. L’amore è una promessa ed è una minaccia. La promessa è quella di poter essere finalmente ciò che desideriamo essere, la minaccia è quello di non poter essere più quello che siamo (nella passione amorosa si dice “stai fuori di testa”, ed è consegnare la propria vita nelle mani dell’altro). Cambiamento di prospettiva della lettura del poemetto di Baudelaire. Il fatto di essere fuori dall’ordinario (straordinario e meraviglioso) è dato dalla sua ambivalenza (dimensione ambivalente delle cose che ci interrogano e che noi interroghiamo). I primi due paragrafi dell’introduzione sono dedicati a Baudelaire. Il primo grande concetto è il rapporto tra lo straniero (alterità) e l’io (identità). Extra – ordinario è l’alterità che arriva nell’ordinarietà dell’individuo. Curi, nel commento a Baudelaire presenta l’altro come colui che viene ed è contemporaneamente minaccia e dono. L’identità non è qualcosa che resta ferma nel tempo. La nostra identità cambia. L’identità è un gioco interpretativo che si fa alla fine di un’esperienza. Quel che Curi vuole dirci è che lo straniero è ambiguo. Gioco tra identità e alterità. Di Freud tratta di un argomento situo nel libro “Al di là del principio di piacere”. Questo episodio che Curi racconta è il famoso episodio del gioco del rocchetto. Il bambino di cui parla Freud ha un anno e mezzo. All’interno del testo si capisce anche di una sintomatologia facciale del bambino, a seconda delle esclamazioni del bambino. Duplice è il ruolo di Freud in quanto lui è sia analista che nonno. Il bimbo, nel gioco, dice “via” e “qui” (lontananza e vicinanza). Freud scopre che con questo gioco il bambino affrontava un trauma (quello della separazione dalla madre). La madre di Ernst doveva affidare il bambino per fare degli impegni. La prima volta che il bambino ha visto la madre assente ha subito un trauma. Ernst, allora, ha cercato in un certo qual modo di elaborare una struttura simbolica che gli consenta di non subire l’allontanamento ma di governarlo. Il bimbo diventa attore dell’esperienza dolorosa. Questo gioco è ambivalente (il vicino ha già, dentro di sé, la lontananza). Se il gioco si ripete continuamente il vicino è già lontano e il lontano è già il presupposto del vicino. La dinamica dell’allontanamento e dell’avvicinamento, concepiti come momenti opposti e quindi anche incompatibili, è solo apparente, perché ciò con cui si ha a che fare è sempre comunque un lontano/vicino e un vicino/lontano, un “via!” che è insieme anche un “qui”, una sparizione che è anche ricomparsa. Lo straniero è lontano ma è anche vicino. È quanto di più distante ma è anche quanto di più prossimo. La mia distanza dallo straniero è anche la mia vicinanza. Risulta che il rapporto tra vicino e lontano, tra interno ed esterno, tra prossimo e remoto, tra domestico e “non a casa” non è assimilabile a una alternativa sulla base della quale un termine possa escludere l’altro. Lo straniero è talmente presso di me da essere più prossimo a me di me stesso. Che egli è “qui”, anche quando pretendo di averlo mandato “via”. Nel quarto paragrafo dell’introduzione c’è una riflessione sul concetto di “ospitalità” partendo da Derrida. L’ospitalità è un concetto incondizionale (non può dipendere dalle condizioni) mentre la legislazione deve fare i conti con la realtà. L’ospitalità non si può quindi condizionare attraverso la legge. Altro è, insomma, l’ospitalità, in se stessa irriducibile ai condizionamenti della politica e perfino dell’etica. Extra-comunitari è una parola che ci permette già di capire il significato che si da allo straniero. La paura è ritrattiva, è chiudente, oppositiva, respingente (non a caso molte politiche utilizzano la paura per fare azioni xenofobe). Non bisogna farsi guidare dalla paura ma prendersi cura della paura – non limitandosi semplicemente a censurarne le manifestazioni né, ancor meno, ad alimentarla al solo scopo di trarne profitto in termini politici. Se appropriatamente curata, e non strumentalmente utilizzata, quella paura può diventare un elemento essenziale nella costruzione di una relazione di ospitalità, in quanto rende chiara fin dall’inizio la natura intrinsecamente ambivalente di quella relazione. Nelle antiche carte geografiche, “Hic sunt leones” (qui ci sono i leoni) era la denominazione con la quale venivano indicate le terre ignote o poco esplorate dell’Africa e dell’Asia, ancora avvolte dal mistero. Quella scritta, sopravvissuta fino a che l’esplorazione dell’Africa non fu portata a compimento, segnalava che il territorio, benché sconosciuto, conteneva una minaccia. Ma l’attrazione per le risorse e i tesori presenti in quelle zone del mondo indusse a non piegarsi alla paura, intraprendendo i viaggi che avrebbero condotto alla conoscenza dell’ignoto, e dunque alla cancellazione dalle carte di quell’iscrizione. Si scoprì così che i doni connessi allo svelamento del mistero, ancorché indissolubili dalla minaccia, erano talmente preziosi da risultare irrinunciabili. UN’INQUIETANTE PROSSIMITÀ La prossimità ci inquieta perché ciò che è vicino è anche ciò che annuncia una possibile lontananza, e ciò che è lontano preannuncia anche una possibile vicinanza. Lo straniero ci inquieta per essere prossimo e non per essere lontano. Il nostro prossimo è proprio colui che ci sta più vicino (colui che dice di noi più di quanto noi non diciamo). C’è ancora il problema dell’ambivalenza. Ogni opposto scava l’altro opposto dal didentro. Gli opposti stanno uno dentro l’altro. In questo capitolo Curi torna a Freud. Nel 1915 Freud scrisse a proposito della guerra (sulla delusione della guerra). Qui troviamo l’interrogazione di Freud sulla morte: la guerra e la morte. La guerra ha cambiato il nostro modo di percepire la morte, la guerra ha distrutto l’illusione di vivere in un mondo del progresso, la guerra ha dimostrato che questa idea del progresso è non una realtà ma un mito, un’invenzione che l’occidente ha utilizzato a partire dall’illuminismo. Con Freud lo sviluppo della storia (una storia progressiva) viene meno. Freud scrive, dopo la guerra, “Al di là del principio di piacere”. Freud vuole andare oltre la teoria psicanalitica indagando la struttura psichica per cogliere quell’al di là. Quando Freud parla di un al di là vuole dirci che ci sono due principi opposti (Eros e Thanatos). Per Curi, l’idea che nella struttura psichica dell’io ci sono due principi sostanzialmente opposti che si disputano questo posto. Curi non può accettare una cosa del genere perché sennò cadrebbe il concetto di ambivalenza che porta avanti fin dall’inizio. Resta tuttavia importante la concezione della morte. Freud si interessa al tema della morte per due motivi: - La guerra; - All’inizio del 1919 Freud inizia a leggere Schopenhauer. Si appassiona a costui perché tutta la sua filosofia è il pensiero di una filosofia che dice che l’uomo non ha altra volontà che la volontà di essere. In Schopenhauer questa volontà di potenza costruisce dolore e per estinguere questo dolore bisogna eliminare la volontà di essere (che si raggiunge con il nirvana, con l’ascesi). La felicità da pietra: ho paura quando sono estremamente felice perché il momento di massimo è solo un momento di massimo. Poi c’è subito la discesa verso l’infelicità. Per Curi, quando Freud sta scrivendo Al di là del principio di piacere intende sempre un principio di ambivalenza nei confronti del principio della morte. Il Perturbante diventa una sorta di deviazione dalla stesura di Al di là del principio di piacere. Una deviazione arricchente, ovviamente. In Al di là del principio di piacere abbiamo quindi un confronto con la morte (non è una questione che ha a che fare con la morte della figlia), è una questione che ha a che fare con la guerra; l’altro elemento è lo studio di Schopenhauer (uno studio che ha a che fare con il tema della morte). Freud poteva trovare già in Schopenhauer tematiche che in un certo qual modo gli problematizzavano il principio di piacere. Nelle società contemporanee (della tecnica) il pensiero della morte viene evitato in due modi diversi: - - Si nasconde il pensiero della morte: gli ospedali, le case di riposo sono luoghi nei quali la morte viene allontanata. La morte viene definita spazialmente (ormai le persone muoiono in ospedale o in queste case di riposo). Si ostenta: la si fa vedere così evidentemente da eliminare la sua versione più spaventosa. La tv del dolore, quella che porta in scena tutte le scene del dolore e della morte, nel momento in cui la mostra la depotenzia. Fa diventare la morte uno spettacolo a cui si assiste. IL PERTURBANTE - FREUD Lo straniero diventa per noi lo specchio di noi stessi. Il perturbante lo allontana da Al di là del principio di piacere. Il titolo in lingua originare era Das Unheimliche (“un” è una particella negativa, il che significa è una contrapposizione ad heimliche). Freud dice che è raro che lo psicanalista si senta spinto verso ricerche estetiche, anche quando non si riduca l’estetica alla teoria del bello per descriverla, invece, come la teoria delle qualità del nostro sentire. Unheimliche ha a che fare con lo spaventoso. Heimliche ha quindi a che fare con qualcosa che non è spaventoso. Dice Freud che noi abbiamo l’impossibilità a trovare un senso e un significato esaustivo al termine Unheimliche. Unheimliche appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non viene sempre usato in un senso nettamente definibile, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso. Già il fatto che Unheimliche sia un termine che mostra ineccedenza, una residualità insignificata (che non si lascia catturare) rende quel termine di per se stesso inquietante, “perturbante”. Unheimliche è come se si sottraesse alla forza della nominazione. La potenza delle parole è enorme, ci permettono di denominare le cose, ci permettono di portare al noto l’ignoto. Se Unheimliche è una di quelle parole difficili da definire e il suo fatto di lasciare dentro una eccedenza, un resto significativo, già la parola in sé è inquietante. Nel Perturbante Freud sceglie due vie: - - Esplorare il significato che l’evoluzione della lingua ha calato nella parola “perturbante”. Le parole non sono strumenti, sono scrigni di significato (scrigni dove il pensiero dimora). In ogni parola non c’è solamente una terminologia, la storia delle parole è la storia del loro significato. In ogni parola si sono sedimentati, volta per volta, significati diversi; Collazionare (cioè fare la somma) ciò che, riferito a persone e a cose, a impressioni sensoriali, a esperienze e situazioni, evoca in noi il senso del perturbante, e dedurre il carattere nascosto del perturbante da un qualcosa di comune a tutti i casi. Riassunto di queste due vie, seppur diverse, è che il “perturbante” è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Nella parola Unheimliche troveremo la dimensione della duplicità e dell’ambivalenza. Troveremo la definizione dello straniero, oltre che dono e minaccia, anche perturbante (contemporaneamente duplice e ambivalente). LA PRIMA VIA (LO STUDIO DELLA LINGUA) Freud, iniziando l’analisi della parola Unheimliche, dice proprio che: “La parola tedesca Unheimliche (perturbante) è evidentemente l’antitesi di Heimliche (casa), e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare.” È ciò che non è abitudinario, che non è patria, che non è casa ci genera spavento. L’ Unheimliche più che generarci tranquillità, genera qualcosa di spaventoso. Se ha introdotto il concetto di spaventoso, la domanda risulta spontanea: potrebbe esserci qualcosa di spaventoso che non sia perturbante? “Naturalmente però non tutto ciò che è nuovo e inconsueto è spaventoso, la relazione non è reversibile; si può dire soltanto che ciò che è nuovo diventa facilmente spaventoso e perturbante; vi sono cose nuove che sono spaventose, ma non certo tutte.” Allora Freud si chiede cosa abbia il perturbante di più dello spaventoso. Rirende Jentsch che aveva parlato del perturbante qualche tempo prima. Il perturbante è una esperienza che ci procura una incertezza intellettuale (cioè non capiamo bene come stanno le cose). Jentsch aveva fatto l’esempio dello spavento di fronte agli automi: essi sembrano delle persone. Jentsch esprime il perturbante come l’inconsueto. “Quanto più un uomo è orientato nel mondo circostante, tanto meno facilmente riceverà un’impressione di perturbamento da cose o da eventi.” Possiamo quindi dire che lo straniero è il perturbante. Freud cercherà di allontanarsi dalla posizione di Jentsch: se Jentsch dice che Unheimliche è ciò che non è familiare (e per questo motivo ci turba e ci perturba), Freud dirà invece che è anche il familiare a poterci spaventare. Molte volte è la compresenza di una familiarità in-familiare che ci può produrre perturbamento. Abbiamo quindi un’ambivalenza nell’ Unheimliche. Non c’è un aut-aut, abbiamo anche qui un et-et. Perturbante è la scoperta della coappartenenza degli opposti che Jentsch manteneva polarizzati e separati. Con lo studio delle lingue Freud si rende conto che la maggior parte non hanno una traduzione giusta, fino ad arrivare ad un significato in lingua tedesca, con una definizione data da Schelling, dove trova che Unheimliche è anche Heimliche. Theodor Reik gli fa una sorta di riassunto dei ritrovamenti di Unheimliche nelle varie lingue: - Latino: un luogo sospetto o un’ora della notte; Greco: xenos, ossia straniero, estraneo; Inglese: disagio, inspiegabile, terrificante, oscuro; Francese: a disagio, inquietante; Spagnolo: sospettoso, mal auguratamente, sinistro, lugubre; Tutti questi significati darebbero ragione a Jentsch. Freud sente il bisogno di riprendere in mano un altro dizionario, quello di Daniel Sanders. Qui analizza i termini Heimliche, per capire come Unheimliche si contrapponga al primo. - Heimlich, aggettivo: ciò che appartiene alla casa, non straniero, familiare, domestico, fidato e intimo. Unheimliche, aggettivo: ciò che non appartiene alla casa, straniero, non familiare, non domestico, non fidato (inaffidabile) e non intimo. La scoperta di Freud è che tra tutte le definizioni ce n’è una molto significativa, una che giunge proprio alla fine. La ripresa da parte di Sanders di uno scrittore tedesco Gutzkow: “Noi lo chiamiamo unheimlich; Lei lo chiama heimlich”. “Gli Zeck [nome di una famiglia] sono tutti heimlich. – “Heimlich? … Che cosa intende con heimlich? – Ebbene … mi destano la stessa sensazione che provo di fronte a una fonte interrata o a uno stagno prosciugato. Non si può passarvi accanto senza avere sempre l’impressione che potrebbe tornare a comparire l’acqua.” Le figure che vengono richiamate in questo testo sono “una fonte interrata” e “uno stagno prosciugato” (si ha l’impressione che torni a comparire l’acqua). Questo fatto ci dice che l’acqua prima stava nel nascosto, quindi l’impressione che si ha è quella di qualche cosa di nascosto che viene alla luce. Stiamo per arrivare alla conclusione che Unheimliche non è la semplice negazione di Heimliche ma c’è un gioco di nascosto per poi riaffiorare. Un’altra definizione che incuriosisce Freud è ripresa da Schelling: “Si dice Unheimliche tutto ciò che dovrebbe restare … segreto, nascosto, e che è invece affiorato.” Unheimliche può essere quindi vista come la parte nascosta di Heimliche che può venire allo scoperto. Lo straniero non è altro che la parte nascosta di noi stessi che riaffiora. LA SECONDA VIA (LA COLLAZIONE DELLE ESPERIENZE) Freud non usa le esperienze dei pazienti ma fa un largo uso della letteratura, soprattutto Hoffmann (secondo Freud è il maestro ineguagliato del perturbante nella sfera poetica). Il racconto che prende come riferimento è “Il mago sabbiolino” nella raccolta dei Notturni. Il presente da cui muove Nathaniel è un presente in cui lui è già adulto e racconta la sua infanzia. È il racconto di qualcosa di accaduto, rimosso e che ritorna. Nella struttura sequenziale, tutto quello che avviene è il racconto di un rimosso, che era andato nascosto, e che riaffiora. Jentsch pensava che Unheimliche fosse l’incertezza intellettuale (non sapevo se quella cosa fosse una persona o un manichino). Nel racconto “Il mago sabbiolino” Nathaniel si innamora di una bambola pensando fosse una ragazza. Per Freud il fatto che la bambola abbia vita propria non spiega l’effetto del perturbante. Per Freud, il perturbante sta nell’esperienza di Nathaniel. Hoffmann racconta della storia di Nathaniel. Nathaniel scrive a Lotario (fratello di Clara, la ragazza di cui è innamorato) e gli racconta che ha incontrato Coppelius, cioè un venditore di occhiali. L’incontro con Coppelius gli ha fatto ricordare la sua infanzia. Quando era bambino la madre gli raccontava dell’uomo della sabbia (colui che gli gettava la sabbia negli occhi). Questo racconto della madre non soddisfa Nathaniel al punto da chiedere alla governante chi fosse questo uomo della sabbia. La governante gli fa un racconto dell’orrore (una sorta di mago cattivo che getta la sabbia negli occhi perché se non si addormentano i bambini, poi gli cava gli occhi). Questa cosa inorridisce Nathaniel, il quale comincia a pensare di sentire durante delle serate un passo pesante che sale le scale e che immagina sia l’uomo della sabbia. Un giorno, a 10 anni, decide di cercare di vedere (deciso a scoprire chi è l’uomo della sabbia) e decide di nascondersi nello studio del padre. A questo punto arriva un personaggio che Nathaniel conosce. È un amico del padre che spesso va a casa. Qui scopre che il padre e Coppelius (l’amico del padre) fanno delle pratiche alchimistiche. Ad un certo punto Nathaniel fuoriesce dalla tenda e pensa che il suo destino sia segnato e che gli caveranno gli occhi. A questo punto, Nathaniel sviene. In psicologia, gli occhi cavati simboleggiano l’evirazione. Coppelius e il padre diventano, nella mente di Nathaniel, la figura doppia del padre (c’è un padre buono e un padre cattivo). Qui è il mito di edipo che si ripete. Il tempo del racconto dell’infanzia è finito. Intanto è successo che, mentre è studente, Nathaniel ha incontrato un venditore di lenti che si chiama Coppola (è il rimosso che torna, Coppelius). Dopo aver comprato un cannocchiale scorge una fanciulla (Olimpia) che in realtà è una bambola di legno. Questa bambola si muove perché Spallanzani vi ha inserito un automa. Da Spallanzani incontra Coppola che è riuscito a impossessarsi della bambola di legno priva degli occhi. Spallanzani getta a Nathaniel sul petto gli occhi sanguinanti di Olimpia che giacevano al suolo, dicendo che Coppola li ha rubati a lui. Lo studente viene colto da un nuovo attacco di follie. Risollevatosi da una lunga, grave malattia, Nathaniel sembra finalmente guarito. Ha intenzione di sposare la sua fidanzata, che ha ritrovata. Un giorno attraversano la città: l’alta torre del palazzo comunale getta un’ombra gigantesca sulla piazza del mercato. La ragazza propone al fidanzato di salire sulla torre, mentre il fratello, che accompagnava la coppia, resta in strada. Giunti in cima alla torre, l’attenzione di Clara è attratta da un qualcosa di strano che si muove sulla strada. Nathaniel osserva la stessa scena col cannocchiale di Coppola, che s’è ritrovato in tasca, cade di nuovo in presa all’incoscienza e, gridando: “Bambolina di legno, gira!”, vuol gettare la ragazza nel vuoto. Richiamato dal grido della fanciulla, il fratello la salva e si affretta a riportarla giù. In cima intanto il folle continua a gridare: “Cerchio di fuoco, gira!”, frase di cui conosciamo l’origine. Tra le persone che si affollano in basso spicca l’avvocato Coppelius, riapparso improvvisamente. Possiamo ammettere che sia stata la vista della sua presenza a provocare lo scoppio di follia di Nathaniel. I presenti vogliono salire sulla torre per impadronirsi del folle, ma Coppelius ride: “Aspettate, aspettate, verrà giù da solo!”. D’improvviso Nathaniel si arresta, si avvede di Coppelius e si getta dalla ringhiera con un grido acutissimo: “Begli occhi, begli occhi!”. Quando giace sul lastrico della strada con la testa squarciata, il mago scompare nella folla. L’analisi di Freud è che l’Huneimliche sta nel “rimosso” che ritorna. L’episodio con Coppola è qualcosa che era già familiare, che era stato rimosso, e che ritorna nel Nathaniel adulto (ritorna nella dimensione del perturbante). Freud nello scritto il Perturbante fa riferimento anche al racconto Elisir del diavolo, in cui c’è trattato il tema del sosia. Il sosia raffigurerebbe l’ambivalenza che ci risulta familiare, l’altro che ci risulta familiare. La figura del sosia come si è sviluppata nella storia: replicazione dell’io per sfuggire all’annullamento dell’io che è tipico della morte. Le mummie riproducevano le figure dei personaggi scomparsi perché la replicazione del doppio (la mummia) era un’idea per sfuggire alla morte. Ancora, Freud fa riferimento al racconto L’uomo dei topi. XENIA Vi è un’unica lingua nella quale è possibile incontrare un termine che corrisponde esattamente alla polisemia di unheimliche. Questa lingua è il greco classico. E il termine è xenos. Lo stesso termine che abitualmente viene tradotto con la parola “straniero”. Ne consegue che tutto ciò che abbiamo colto nella ricerca compiuta a proposito del termine unheimlich va riferito al termine con il quale, nella Grecia antica, si alludeva allo straniero. Il secondo capitolo parte da una considerazione: il valore che il termine “straniero” contiene in sé. Se ci pensiamo bene ha tutti i rinvii che hanno a che fare con l’alterità: puoi essere l’enigma, lo straordinario, il lontano, la minaccia, il dono. Ha dentro di sé tutta una polisemia che rinviano alla dimensione dell’alterità. Come lo misuro l’altro? Partendo da me stesso. L’altro diventa l’altro quando ridetermina se stesso altrimenti posso inventare un’alterità che è solo nel mio desiderio. Hostis: il primo significato che diamo è “ostile”. Pensiamo subito a “straniero” e quindi “ostile”. La parola straniero come “hostis” inizialmente non aveva il significato di ostile. Hostis era solo colui che veniva da fuori, aveva un valore prettamente topologico. Troviamo una buona definizione in Cicerone ne “I Doveri”. “Voglio anche osservare che chi doveva chiamarsi con vocabolo proprio perduellis (nemico di guerra) era invece chiamato hostis (straniero) temperando così con la dolcezza della parola la durezza della cosa. Difatti i nostri antenati chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus (forestiero).” Una definizione analoga viene data da Varrone. Hostis viene tradotto come “fuoriuscito, colui che è uscito che è uscito dal proprio paese”. Più in particolare, in passato, “con la parola hostis si indicava il peregrinus (colui che va per campi), mentre ora si dice colui che una volta si chiamava perduellis”. Noi guardiamo al mondo attraverso le categorie interpretative che non sono sempre state le stesse, ma si sono modificate nel tempo. La radice hos legava i termini hostis e hospes. L’hostis diventa l’ostile, il nemico, colui che ci porta guerra, e abbiamo colmato l’altra parola del significato positivo. Anche se l’ambiguità è rimasta. Quando noi diciamo ospite pensiamo che sia sempre l’altra persona, invece nella lingua italiana si tratta sia dell’accolto che dell’accogliente. L’ospite è colui che giunge in casa mia, ma ospite sono anche io che sto ospitando un’altra persona. C’è stato un periodo in cui si è capito che hostis e hospes non potessero essere assolutizzati. Quello che era hostis poteva diventare hospes e viceversa. Questo era reso possibile per la originale polisemia dei due termini. Euripite, nell’Ecuba, scrive “essere ostili nei confronti dello straniero è considerato un innominabile crimine”. Una concezione analoga la troviamo in Alcesti: una storia d’amore, di fedeltà, di sacrificio di sé per amore dell’altro, ma anche una grande teoria di xenia. Alcesti è una figura femminile che ha sposato Admeto (un re di Tessaglia), protetto da Apollo. Né il padre né la madre di Admeto si sacrificano, l’unica che decide di morire al posto di Admeto è Alcesti. Ad un certo punto arriva nella reggia di Admeto Tanatos (la morte). Alcesti prende congedo da tutte le cose e proprio nel momento del funerale arriva Eracle (Ercole). Eracle, sapendo che c’è un funerale, pensa sia meglio di evitare di chiedere ospitalità. Admeto lo invita a restare. Xenofobia: Euripide dice “mi avresti tacciato di xenofobia” nel senso di avere timore per lo straniero. Ospitare Eracle significa che io mi procurerò il migliore degli ospiti (in questo momento è chi ospita) se io andrò nella sua terra. Xenia dice della duplicità, reciprocità di una pratica (accogliere per poi essere accolto). La xenia regola i rapporti sociali, non solo quelli personali. Dove io oggi sono l’accogliente, domani posso diventare colui che è accolto. Lo straniero arriva supplice (chiedendo aiuto e chiedendo soccorso), presentandosi come il bisognoso, il sofferente, e chiede a chi gli si fa davanti di aiutarlo. Nell’Iliade è importante il racconto dello scontro tra Diomede (da parte dei greci) e Glauco (da parte dei troiani). Diomede “chi sei tu fortissimo eroe?”, Glauco risponde “come la stirpe delle foglie, così è la stirpe degli uomini, il vento le riversa per terra e fiorendo le genera. Così è la stirpe degli uomini, l’una cresce e l’altra perisce”. Quando Glauco spiega a Diomede chi è, e chi erano i suoi avi, e quando ha detto della sua stirpe la risposta di Diomede fu “tu sei dunque mio antico, paterno, ospite. Eneo accolse Bellerofonte e si scambiarono splendidi doni ospitali. I loro avi erano stati ospiti tra di loro, questo fa cadere tutte le ostilità. La xenia regola i rapporti anche nelle generazioni future. Nell’Odissea, la parte più interessante della xenia è l’arrivo di Ulisse sull’isola dei Feaci. Dietro la forma della xenia c’è anche la theoxenia (nello straniero che giunge è possibile qualche volta che ci sia, dietro sembianze umane, un dio). Quando arriva dal Ciclope, Ulisse dice “giungo da te come supplice”. Ciclope è un mostro sia fuori che dentro, non rispetta la xenia, né la theoxenia. Differenza tra xenos e barbaros. Barbaros inizialmente significava balbuziente, colui che non riusciva ad articolare una lingua. Utilizzare la lingua è condividere il pensiero. L’essere barbaro è essere fuori da una dimensione di possibilità di dialogo. Il barbaro è qualche cosa in cui, presentandosi come barbaros, vi è una dimensione mostruosa. Il barbaros descrive il rovesciamento o la negazione di ciò che rende simili gli uomini. Mostruoso e barbaro è Polifemo. LA THEOXENIA NEL MONDO GIUDAICO CRISTIANO Il popolo ebraico vive in Palestina, a partire circa dal 1200 a.C., in un ambito geografico e geopolitico caratterizzato da molti spostamenti di popoli, da esodi e da migrazioni frequenti. Israele stesso è un popolo che ha vissuto una lunga e dolorosa esperienza di migrazione e di esilio. Ha abitato da straniero in Egitto per 400 anni. Per tutti questi motivi Israele ha sviluppato una concezione varia e articolata del fenomeno dello straniero, espressa anche dal vocabolario. Sono almeno tre i termini fondamentali della Bibbia ebraica per indicare lo "straniero" o "forestiero". Tre termini nei quali si può leggere qualcosa dell'esperienza sofferta e dinamica di Israele e del cammino della rivelazione nel cuore di questo popolo (suggeriscono perciò, in qualche modo, anche a noi una dinamica, un cammino): lo straniero lontano -zar-, lo straniero di passaggio -nokri-, lo straniero residente o integrato -gher o toshav-. La parola ebraica zar sta a significare lo straniero che abita fuori dei confini di Israele, colui che è del tutto estraneo al popolo. Verso questa figura si verifica un senso di timore, di estraneità, di paura e di inimicizia. Il secondo termine, nokri, è usato per lo straniero di passaggio, l'avventizio, colui che si trova momentaneamente in mezzo al popolo per motivi di viaggio, di commercio (una sorta di "pendolare"). Verso il nokri ci sono alcune distinzioni che denotano ancora una lontananza, ma non più una paura. Il terzo vocabolo è gher o toshav e viene impiegato per lo straniero residente, colui che essendo di origine straniera e non appartenendo perciò al popolo ebraico per nascita, risiede più a lungo o stabilmente in Israele. Questa figura gode di una vera protezione giuridica, come appare fin dai testi legislativi più antichi. Genesi 18 (Promessa di Abramo e distruzione di Sodoma). 1 Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del giorno. 2 Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, 3 dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. 4 Si vada a prendere un po' di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero. 5 Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa' pure come hai detto». 6 Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce». 7 All'armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. 8 Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentr'egli stava in piedi presso di loro sotto l'albero, quelli mangiarono. Genesi 19 (La vicenda di Lot). 1 I due angeli arrivarono a Sòdoma sul far della sera, mentre Lot stava seduto alla porta di Sòdoma. Non appena li ebbe visti, Lot si alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. 2 E disse: «Miei signori, venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte, vi laverete i piedi e poi, domattina, per tempo, ve ne andrete per la vostra strada». Quelli risposero: «No, passeremo la notte sulla piazza». 3 Ma egli insistette tanto che vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli preparò per loro un banchetto, fece cuocere gli azzimi e così mangiarono. 4 Non si erano ancora coricati, quand'ecco gli uomini della città, cioè gli abitanti di Sòdoma, si affollarono intorno alla casa, giovani e vecchi, tutto il popolo al completo. 5 Chiamarono Lot e gli dissero: «Dove sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi, perché possiamo abusarne!». 6 Lot uscì verso di loro sulla porta e, dopo aver chiuso il battente dietro di sé, 7 disse: «No, fratelli miei, non fate del male! 8 Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace, purché non facciate nulla a questi uomini, perché sono entrati all'ombra del mio tetto». 9 Ma quelli risposero: «Tirati via! Quest'individuo è venuto qui come straniero e vuol fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a loro!». E spingendosi violentemente contro quell'uomo, cioè contro Lot, si avvicinarono per sfondare la porta. 10 Allora dall'interno quegli uomini sporsero le mani, si trassero in casa Lot e chiusero il battente; 11 quanto agli uomini che erano alla porta della casa, essi li colpirono con un abbaglio accecante dal più piccolo al più grande, così che non riuscirono a trovare la porta. 12 Quegli uomini dissero allora a Lot: «Chi hai ancora qui? Il genero, i tuoi figli, le tue figlie e quanti hai in città, falli uscire da questo luogo. 13 Perché noi stiamo per distruggere questo luogo […] ACCOGLIERE FRA PLATONE E KANT Importante è la parola “accogliere” nel titolo. Curi fa una analisi del Simposio di Platone. Simposio dice il “bere insieme”. Ognuno si darà la parola e ognuno dirà, dal proprio punto di vista, cosa intende per amore. Socrate non parlerà con la propria voce ma racconterà di una sacerdotessa che gli ha rivelato che cosa sia amore e quali siano le sue opere. Elogiare l’amore non è dire “che cos’è” l’amore. Noi molto spesso facciamo l’elogio dell’amore ma non diciamo che cosa esso sia. Diotima è straniera in sei modi diversi. Chi ci dice la verità intorno all’amore non è un ateniese ma una straniera (straniera in sei modi diversi!). Senza la presenza di una xene il dialogo si sarebbe arenato. La xene quindi porta un dono ai convitati del Simposio. La dimensione di Eros è mista: figlio di Penìa (povertà/ignoranza) e Poros (espediente/sapienza). L’Eros è metaxy che è ciò che sembra stare in mezzo, è la medietà. Il concetto di medietà di cui ci parla Platone non significa stare in mezzo tra due opposti (non ha un valore topologico). Nella filosofia, per esempio, lo stare in mezzo non significa stare in uno spazio tra due opposti: dice la coappartenenza (il filosofo porta sempre in sé). Così come la filosofia, anche Eros è metaxy fra la “penuria” di Penia e la “ricchezza” di Poros non già perché sia inter-medio fra essi, ma perché è insieme e indissolubilmente “povero” e “ricco”, e dunque costitutivamente duplice nella sua stessa natura. C’è un altro discorso che Curi prende in esame che è quello di Aristofane il quale parla dell’amore inserendovi “il mito dell’androgino”. Curi lega Diotima al discorso sullo straniero, in quanto xene. È una xene che è di per sé molteplice (6 sono i motivi di essere straniera) ma è anche colei che dice la verità (lo straniero è colui che può dire la verità su noi stessi). La natura stessa di Amore è duplice (metaxy). Coappartenenza di Amore ai suoi genitori (Poros e Penia). Metaxy è dire la coappartenenza, non l’essere nel mezzo. Ora passiamo al racconto di Aristofane: il mito degli androgini. L’antichissima nostra natura non era come l’attuale. Per arrivare a questa ha dovuto attraversare varie condizioni. L’umanità comprendeva tre sessi, non due come ora. Si aggiungeva questo terzo che comprendeva entrambi i sessi; ora si conosce solo il suo nome (l’androgino) ma si è persa la cosa. L’androgino partecipava (sono compresenti, co-appartenenti) del maschio e della femmina. Il sesso maschile discendeva dal sole, il sesso femminile dalla terra e quello androgino dalla luna (perché la luna partecipa sia del sole che della terra). Gli androgini erano vigorosi e anche offensivi rispetto agli dèi. Zeus si arrovellava per trovare un modo per ridimensionare la loro tracotanza, senza ucciderli. La soluzione che trova è di tagliarli in due, rendendoli più deboli. “Li tagliò in due come si tagliano le sorbe per fare le conserve e li divise in due come si taglia un uovo sodo con un pelo di cavallo”. Da uno, Zeus ne fa due. Gli androgini scoprono ora di essere difettosi. Amore è il dio che permette a queste metà separate di tentare di riunirsi e ogni parte, da quel momento, non fece altro che cercare la propria metà. Tutte le volte che pensò di averla trovata, non fu sempre facile l’innesto. Non c’è un amore che non sia di per sé naturale, non esiste un amore di natura e un amore contro natura. L’ospite fa parte di una serie di racconti (sei racconti) raggruppati sotto il titolo “L’esilio e il regno”. È la storia di un maestro di scuola (Daru) e che vive ai confini del deserto. Vivere ai confini del deserto significa vivere su una soglia, tra una civiltà e il vuoto.