Storia e Società
Storia delle città italiane
Volumi pubblicati
Firenze
di Giorgio Spini e Antonio Casali
Bologna
di Renato Zangheri
con la collaborazione di Andrea Battistini, Flavio Caroli,
Pier Paolo D’Attorre, Roberto Finzi, Vera Zamagni,
Giuliano Pancaldi, Franco Tassinari
Venezia
di Emilio Franzina
con la collaborazione di Ernesto Brunetta, Mario Isnenghi,
Leopoldo Magliaretta, Maurizio Reberschak
Catania
di Giuseppe Giarrizzo
Torino
di Valerio Castronovo
con la collaborazione di Angelo d’Orsi
Napoli
di Giuseppe Galasso
con la collaborazione di Laura Barletta, Giovanni Brancaccio,
Giuseppe Di Costanzo, Maria Antonella Fusco, Alfonso Gambardella,
Emma Giammattei, Luigi Mascilli Migliorini, Sandro Rossi, Maurizio Torrini
Reggio Calabria
di Gaetano Cingari
Trieste
di Elio Apih
con la collaborazione di Elvio Guagnini e Giulio Sapelli
Palermo
di Orazio Cancila
Padova
di Angelo Ventura
Perugia
di Alberto Grohmann
con la collaborazione di Franco Bozzi, Fabrizio Bracco, Renato Covino,
Giampaolo Gallo, Giuseppe Gubitosi, Erminia Irace, Giancarlo Pellegrini,
Raffaele Rossi, Luigi Tittarelli, Gernot Wapler
Modena
di Giuliano Muzzioli
Cagliari
di Aldo Accardo
con la collaborazione di Maria Luisa Di Felice, Franco Masala,
Gianfranco Tore
Volumi in preparazione
Milano
di Franco Della Peruta
Roma
di Vittorio Vidotto
La città e la vita urbana sono stati sempre punti di riferimento
fondamentali nella storia d’Italia. La storia delle città è stata fin
dall’età comunale una delle costanti della nostra produzione storiografica, e negli anni recenti sono state numerose le ricerche dedicate alla città in epoca medievale e rinascimentale e gli studi
specialistici, forniti di tecniche e strumentazioni nuove, sulla città
moderna. In alcuni settori particolari, relativi al disegno e all’immagine della città, alla demografia e all’urbanizzazione è stato
svolto anche un lavoro organico, come dimostra la serie Laterza
delle «Città nella storia d’Italia». Ma il nodo centrale del passaggio in Italia dalla città tradizionale alla città moderna negli ultimi cento anni, attende ancora una spiegazione complessiva.
È l’obiettivo di questa nuova serie, dedicata alla «Storia delle città italiane», che ripercorrerà, città per città, gli avvenimenti
che hanno portato dalla prima industrializzazione del paese alla
belle époque, dalla grande guerra al fascismo, dalla seconda guerra mondiale al miracolo economico e agli anni incerti che stiamo
attraversando.
Entro questo orizzonte si anima la vita delle città, con tutti i
suoi colori: i nuovi personaggi e le grandi famiglie, le trasformazioni urbane e la produzione culturale, le buone e le cattive amministrazioni, il dinamismo economico, le carenze strutturali.
Nelle strade e nelle piazze della nostra città, nei suoi ospedali e
nelle sue scuole, nei suoi negozi e nelle sue fabbriche, nelle sue
chiese e nei suoi tribunali ritroviamo una storia che ognuno ha
individualmente vissuto e che al tempo stesso ci lega ad una comunità. Al centro della ricostruzione sono poste le forme e la distribuzione del potere, i modi diversi con cui le singole città hanno vissuto il rapporto con la campagna, il peso dei particolarismi
e delle tradizioni, in un quadro complessivo degli equilibri e delle tensioni nella vita cittadina.
È quest’ampia articolazione di temi che fonda la novità storiografica di questa iniziativa editoriale, ponendo in dinamico collegamento lo spessore delle «radici» con i caratteri generali della
storia nazionale.
© 1988, 1999, Gius. Laterza & Figli
Prima edizione 1988
Nuova edizione riveduta
e aggiornata 1999
Le ricerche sono state effettuate
con fondi erogati dal Ministero
dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica.
Università di Palermo Istituto di storia moderna
Orazio Cancila
Palermo
Editori Laterza
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nell’aprile 1999
Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
CL 20-5781-6
ISBN 88-420-5781-9
È vietata la riproduzione, anche
parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche
ad uso interno o didattico.
Per la legge italiana la fotocopia è
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non danneggi l’autore. Quindi ogni
fotocopia che eviti l’acquisto
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la sopravvivenza di un modo
di trasmettere la conoscenza.
Chi fotocopia un libro, chi mette
a disposizione i mezzi per fotocopiare,
chi comunque favorisce questa pratica
commette un furto e opera
ai danni della cultura.
PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE
Il successo della prima edizione, da tempo esaurita, e le richieste da parte di colleghi e amici, sempre più pressanti negli
ultimi anni, di una sua ristampa, mi hanno indotto a prendere in
considerazione l’opportunità di riproporre ai lettori un testo che
mi è particolarmente caro. Dei tredici volumi sinora apparsi nella ormai prestigiosa collana laterziana «Storia delle città italiane»,
Palermo era l’unico a non essere più disponibile, perché la favorevole accoglienza di lettori e di critici ne aveva in pochi anni
esaurito l’edizione. E tuttavia restano ancora larghi strati della società palermitana – soprattutto tra le giovani generazioni – che
esso non ha potuto raggiungere. A costoro in particolare si rivolge la presente edizione.
Si è voluto evitare la riproposizione del vecchio testo attraverso la semplice ristampa e si è preferito una nuova edizione,
che rispetto alla prima è preceduta da una rapida sintesi della
storia cittadina dalle origini ai primi decenni dell’Ottocento,
mentre il testo è stato reso più agile, direi più essenziale, sfrondato com’è di nomi e di esemplificazioni che finivano talora con
l’appesantirlo. In qualche caso l’esclusione si deve a un ulteriore
approfondimento dell’indagine: penso, ad esempio, al barone
Cammarata, che la storiografia sul movimento separatista siciliano ritiene uno dei capi dell’ala estremista del movimento, a torto secondo la testimonianza resami dal defunto Giuseppe Tasca,
conte d’Almerita, il quale ne attribuiva il coinvolgimento in quelle vicende a un errore degli organi di polizia, dovuto al fatto che
Cammarata fosse suo cognato.
Il lungo capitolo finale sull’ultimo cinquantennio è stato in
gran parte rifatto e continuato sino alle elezioni comunali del 1993.
Riguarda una materia in parte ancora in fieri, che le indagini della
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Premessa alla seconda edizione
magistratura di quest’ultimo decennio hanno reso sicuramente
meglio comprensibile, ma sulla quale gli aspetti non ancora definitivamente chiariti restano numerosi. Le interpretazioni cui essa
ha dato luogo possono essere pertanto modificate da successive
acquisizioni documentarie, ma mi preme intanto rassicurare il lettore che i fatti riportati sono stati rigorosamente accertati e verificati. Quando ciò non è stato possibile in assenza di una documentazione sicura, ho preferito non affrontare l’argomento, anche a rischio di lasciare dei ‘buchi’, come a proposito dello ‘sbarco’ a Palermo negli anni Ottanta dei «cavalieri del lavoro» catanesi e del
loro ruolo nel settore degli appalti pubblici. E allo stesso modo
non ho voluto trattare dei rapporti tra criminalità mafiosa e settori deviati dello Stato, spesso ipotizzati (penso, ad esempio, all’attentato contro Falcone nel 1989 all’Addaura) ma non ancora documentati.
Di contro, altri aspetti che per carenza di documentazione
erano stati lasciati in ombra o risultavano appena accennati nella prima edizione, assumono adesso una ben diversa consistenza. È il caso ad esempio del ruolo nelle vicende palermitane di
personaggi come Vito Guarrasi o i cugini Salvo. Per questi ultimi, in particolare, grazie a un lungo e paziente lavoro di ricerca
condotto pure fuori dalla Sicilia, si ricostruiscono per la prima
volta anche le tappe fondamentali della loro ascesa e si comprende finalmente come sia stato possibile a sconosciuti arrampicatori di provincia costituire in pochi anni il più grande impero finanziario dell’isola e porsi ad arbitri delle vicende politiche
regionali. E assieme a quella dei Salvo è ricostruita l’ascesa dei loro soci, i Cambria, personaggi altrettanto sconosciuti della provincia di Messina, condotti per mano al successo da Rosario Iuculano, la vera mente occulta del gruppo Cambria-Salvo, emigrato alla metà degli anni Trenta da Trapani a Firenze e trasformatosi in breve tempo da oscuro impiegato daziario a capo di
una grande impresa nazionale di riscossione dei tributi indiretti.
Fu lui, trapanese nativo di Floridia e marito della figlia dell’esattore di Floridia, l’anello forte di congiunzione tra i Cambria, anch’essi di Floridia, e il gruppo trapanese Corleo-Salvo.
Negli ultimi anni sono caduti i magistrati più attivamente impegnati nella lotta alla mafia, e con loro altri agenti di polizia. E
ancora imprenditori coraggiosi e onesti professionisti: gli uni per
Premessa alla seconda edizione
XI
non essersi piegati ai taglieggiamenti e ai condizionamenti, gli altri per essersi rifiutati di scendere a patti con la loro coscienza.
A tutti loro, all’intera magistratura palermitana – spesso ingiustamente e ingenerosamente attaccata – e alle forze dell’ordine
cui si debbono successi insperati sino a pochi anni or sono, è dedicata questa nuova edizione. La strada della sconfitta definitiva
della mafia è certamente ancora lunga, ma i successi realizzati dall’azione dello Stato alimentano seriamente la speranza che la liberazione della città e dell’intera isola dalla mafia oggi non sia
più un evanescente miraggio.
O.C.
Palermo, marzo 1999
PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE
Palermo è una delle pochissime città italiane che da secoli non
si preoccupano di scrivere la propria storia. E perciò la storia della città che i palermitani conoscono riguarda quasi esclusivamente singoli avvenimenti e quel poco che la memoria collettiva,
se non addirittura familiare, è riuscita a sottrarre all’oblio del
tempo; una storia di episodi, di frammenti che non fanno storia,
spesso filtrati dal ricordo che tende a mitizzare e a distorcere il
passato. Ciò non significa che su Palermo non si sia scritto, anzi
talora si è scritto anche troppo, ma a farlo sono stati quasi sempre i contemporanei, raramente gli storici. Per il periodo considerato dal presente lavoro, si può ben dire che non esiste letteratura alcuna, ove si eccettuino gli studi di urbanisti e mafiologi
e le pagine dedicate a momenti e problemi particolari della città
in opere di storia siciliana e italiana. La pressoché totale mancanza di precedenti indagini storiografiche mi ha costretto spessissimo a un lungo lavoro di analisi, di scavo, di comparazione,
prima di giungere alla sintesi che si offre al lettore. Non so se il
passaggio da una fase all’altra sia sempre riuscito felicemente: talvolta mi è stato oltremodo difficile, soprattutto quando la corretta interpretazione aveva richiesto un maggiore sforzo di analisi. In altre occasioni, non ho creduto di dover rinunciare ai dati analitici, per meglio documentare una diversità di situazione e
di sviluppo rispetto ad altre città.
Per un complesso di motivi – tra cui anche l’impossibilità di
continuare ad accedere alla documentazione d’archivio, non consultabile per il periodo successivo al 1945 – sono stato lungamente indeciso se affrontare la trattazione dell’ultimo quarantennio. Il proposito iniziale di dedicarvi poche cartelle conclusive è caduto quando ho avvertito che le maggiori aspettative ri-
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Premessa alla prima edizione
guardavano proprio il periodo a noi più vicino. Ovviamente, le
settanta pagine finali non riusciranno lo stesso a soddisfarle, ma
resta la speranza che esse possano offrire più di uno spunto di
riflessione e di ulteriore approfondimento. In fondo, è ciò cui
maggiormente tiene l’autore, lieto se il libro costituirà occasione
per ripensare il ruolo della città e stimolo per una serie di ricerche che valgano a darci una conoscenza più completa e su più
lungo periodo della storia palermitana. Il rischio, che va denunciato, è che l’eventuale disaccordo tra autore e lettore sulla interpretazione dei fatti contemporanei finisca con l’estendersi all’intero volume e che da un capitolo finale ancora aperto, e i cui
limiti sono il primo a riconoscere, si giudichi tutto il resto.
Alcuni temi risulteranno appena accennati, altri trascurati, ma
è stato indispensabile effettuare delle scelte, anche per esigenze
tipografiche, che costringono ad esempio a limitare i riferimenti
archivistici e bibliografici esclusivamente alle citazioni di fonti e
di testi coevi. Spero che il lettore vorrà giustificare le pagine dedicate alle vicende elettorali, in un periodo in cui la partecipazione attiva interessava pochissime migliaia di palermitani. Mi è
parso corretto seguire dalla fase iniziale la formazione della classe politica cittadina, che – pur essendo sino agli anni Quaranta
del nostro secolo espressione di una ristrettissima cerchia – con
le sue scelte e le sue decisioni condizionava la vita dell’intera città
e spesso anche lo sviluppo futuro.
Anche se talvolta mi sono trovato di fronte al silenzio incomprensibile di taluni, a ‘non ricordo’ alquanto strani, a chiusure
quanto meno sospette, numerosi sono stati i protagonisti o loro
familiari che cortesemente hanno risposto alle mie domande con
dovizia di particolari, che tuttavia ho utilizzato solo quando hanno trovato un sicuro riscontro. A costoro il mio grazie più sentito, che si estende ai tanti amici e colleghi con i quali più volte
nell’arco di quasi un quinquennio ho discusso vari aspetti del lavoro, che alcuni di loro hanno parzialmente anche letto. Ringrazio in particolare Gaetano Cingari, Renato Composto, Francesco
Figlia, Giuseppe Galasso, Romualdo Giuffrida, Giuseppe Carlo
Marino, Mario Obole, Guido Pescosolido, Francesco Renda,
Maurizio Rizza: sono loro grato per le osservazioni e le critiche
e spero non me ne vogliano se non sempre ho saputo fornire risposte adeguate. È giusto segnalare il debito verso Giuseppe
Prima alla prima edizione
XV
Giarrizzo, che con la generosità di sempre mi ha messo a disposizione il testo del suo Catania quando ancora non era stato pubblicato; lo stesso hanno fatto Giuseppe Barone e Salvatore Lupo
per dei saggi che solo più tardi hanno visto la luce. Purtroppo,
non mi è più dato di ringraziare Rosario Romeo, che una morte
cieca e ingenerosa nel marzo scorso ha sottratto alla scienza e agli
amici: era vivamente interessato ai risultati della mia ricerca, perché Palermo era la città siciliana dove egli ritornava più volentieri. E al Parlamento europeo aveva accettato con entusiasmo
l’incarico di relatore del progetto di finanziamento comunitario
per il risanamento del centro storico. Con lui è perciò scomparso non solo uno dei maggiori storici europei, un uomo limpidissimo e coerente, un intellettuale non conformista, ma anche un
grande amico della città.
Ringrazio, infine, per la serenità che hanno saputo sempre donarmi, i miei meravigliosi ragazzi e mia moglie, alla quale il libro
è dedicato nel nostro venticinquesimo anniversario.
O.C.
Palermo, dicembre 1987
PALERMO
I
UNA CITTÀ PLURIMILLENARIA
1. Panormo: tra Punici e Romani
La più antica presenza dell’uomo nel palermitano risale al tardo paleolitico, come documentano i graffiti rinvenuti in alcune
grotte dei monti circostanti. Alle loro pendici sono stati inoltre
localizzati impianti di villaggi risalenti al tardo neolitico e all’età
del rame, mentre altri reperti dell’età dei metalli testimoniano che
la zona continuò a essere abitata. Tracce di stanziamenti preistorici si rinvengono anche nell’area dell’attuale sito urbano.
La fondazione della città in pieno VII secolo a.C. viene tradizionalmente attribuita ai Fenici, che ne fecero con Mozia e Solunto uno dei tre centri commerciali fortificati in cui essi si ritirarono di fronte alla massiccia avanzata greca nella Sicilia centroorientale. Ma la critica più recente non esclude un apporto di popolazione indigena e soprattutto di nuclei ellenici, alla cui presenza, sicura per il VI e V secolo, la città dovette il nome greco
Panormos (tutto porto), che nell’antichità designava località del
Mediterraneo e del Mar Rosso caratterizzate da ottimi approdi e
che finì col prevalere sul nome cartaginese Machanât (campo fortificato) con cui sembra venisse anche indicata.
Panormo sorse sulla parte più elevata del promontorio tra i
due corsi d’acqua che in età normanna venivano chiamati Papireto e Kemonia, e precisamente nella zona alta dell’attuale corso
Vittorio Emanuele oggi occupata dal Palazzo dei Normanni, dalla Villa Bonanno, dalle due caserme dei carabinieri e dall’Arcivescovado. La necropoli venne ubicata nella zona tra le attuali
piazza Indipendenza, via Pisani, la Cuba e via Danisinni. Chiusa
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Palermo
da mura, già alla fine del VI secolo la città si era estesa lungo tutto il promontorio sino all’attuale via Schioppettieri, nelle immediate adiacenze del mare, che allora con caratteristiche lagunari
si spingeva all’interno sino all’attuale via Roma e talora anche oltre, nella zona oggi occupata dalla via Venezia, dal Teatro Biondo e dalla via Napoli.
Come la vecchia città (Paleapoli), anche la nuova (Neapoli)
venne cinta di mura il cui percorso correva sulla scarpata che dominava i due fiumi e in parte è ancora individuabile. Ma è possibile che nuclei di abitanti si fossero insediati anche fuori le mura, sugli isolotti che emergevano dalla laguna, come dimostrerebbero, ad esempio, i recenti rinvenimenti di età preromana nella attuale zona dello Steri, indizio quanto meno di una frequentazione connessa con le attività dell’ampio e ben munito porto,
che Diodoro definì il più bello della Sicilia.
La città era dotata di un sistema viario a incroci ortogonali,
che aveva come perno l’attuale corso Vittorio Emanuele, che in
linea retta collegava la Paleapoli con la porta inferiore (a mare)
e al quale facevano capo una serie di traverse ortogonali, in buona parte coincidenti con le attuali. L’asse principale era a sua volta fiancheggiato da due strade esterne a esso parallele, che correndo lungo le scarpate del promontorio concorrevano a un migliore smistamento del traffico viario e al servizio delle mura, lungo le quali si aprivano porte e postierle, che la mettevano direttamente in comunicazione con il porto e con il territorio circostante, ricco di boschi e di giardini.
Per secoli Panormo, che sembra godesse di una certa autonomia nei confronti di Cartagine, appare imprendibile e i suoi
nemici, non osando attaccarla, ne saccheggiavano le campagne e
ne razziavano il bestiame: così i siracusani Ermocrate nel 408-407
a.C. e Dionisio I nel 398-397 a.C. In particolare, Ermocrate sconfisse duramente i Panormiti davanti le mura e li costrinse a rifugiarsi all’interno della città, conseguendo un bottino giudicato
enorme, che dà la misura del grado di ricchezza raggiunto dagli
abitanti grazie allo sviluppo dei commerci e alla fertilità del suolo. Le mura cittadine non resistettero però all’assalto di Pirro,
che nel 278 a.C. conquistò la città e la tenne per qualche anno,
sino al suo ritiro dalla Sicilia, infrangendo il mito della sua inespugnabilità.
I. Una città plurimillenaria
5
La prima guerra punica (264-241 a.C.) coinvolse direttamente Panormo, dove nel 258 a.C. si rinchiuse il generale cartaginese Amilcare, invano sfidato a battaglia campale dal console romano Attilio Calatino, che con il suo esercito si era accampato
tra l’Oreto e le mura e non riusciva ad attaccare la munitissima
città. I Romani furono costretti a ritirarsi, ma qualche anno dopo (254) riproposero l’assedio per terra e per mare e superarono
agevolmente la scarsa resistenza di un esiguo presidio di mercenari e degli abitanti, non più difesi dal grosso delle forze cartaginesi che avevano perduto il controllo del mare e che in parte
erano ritornate in patria. Caduta la Neapoli, i Panormiti si rifugiarono nella Paleapoli e contrattarono la resa a condizione. Ciò
valse loro un trattamento di favore e così dei circa 40.000-50.000
abitanti soltanto 13.000 furono ridotti in schiavitù, mentre altri
14.000 riuscivano a riscattarsi, a conferma che la città era abitata da un rilevante numero di facoltosi e godeva di una diffusa
prosperità.
I Cartaginesi non rinunziarono a riprendersi la città e così nel
251, in un periodo in cui le forze romane in Sicilia erano ridotte, Asdrubale si presentò con un esercito forte di oltre cento elefanti davanti le mura difese dal console Cecilio Metello, dopo
aver devastato le campagne a destra dell’Oreto. La battaglia si
combatté sulle rive e sul letto del Kemonia, dove il console romano riuscì ad attirare e a far cadere gli elefanti, che colpiti anche dai dardi lanciati dalle mura si ritirarono travolgendo lo
schieramento di Asdrubale, cui le truppe di Metello, prontamente uscite da una porta che dava sull’attuale via Benfratelli
(più tardi chiamata Porta Busuemi), diedero il colpo definitivo.
Alla vittoria romana contribuirono anche gli artigiani della città,
impegnati nel trasporto di armi lungo le mura esterne. I Cartaginesi riuscirono ancora a occupare il monte Ercte (Monte Pellegrino) con Amilcare Barca e a tenerlo per alcuni anni (247-244
a.C.), ma non Panormo che da allora attraversò un lunghissimo
periodo di tranquillità sotto il dominio di Roma.
Panormo ottenne lo status di città «immune e libera», che
comportava l’esenzione da imposte sulle proprietà dei suoi abitanti, e ottenne inoltre che a intervalli il pretore vi tenesse curia,
a dimostrazione che – anche se essa non fu mai il centro della Sicilia romana – veniva considerata tra le più importanti città del-
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Palermo
l’isola, dopo Siracusa, residenza del pretore, e Lilibeo (Marsala),
residenza di uno dei due questori. Con Lilibeo e Thermae (Termini), la città faceva parte di un ‘triangolo’, la cui importanza politica ed economica era seconda soltanto alla zona costiera orientale e perciò la decadenza che nell’epoca romana investì parecchie antiche città siciliane non interessò Panormo, dove si svolgeva una discreta attività economica, culturale e religiosa, documentata dalla presenza di diversi insediamenti agricoli e di ville
nell’agro circostante, di edifici sontuosi e di terme nella attuale
piazza Vittoria e di un grandioso teatro (sembra nella attuale
piazza Bellini), di una comunità cristiana organizzata almeno sin
dal IV secolo d.C. e più tardi anche di un’attiva comunità ebraica. La scarsa documentazione disponibile non ci consente di accertare quale fosse con esattezza lo status della città in età imperiale, e cioè se essa fosse stata elevata da municipio al rango di colonia, che comportava particolari diritti per gli abitanti, già sotto Augusto, come ritiene la critica più recente, oppure in età successiva, sotto Vespasiano ad esempio, che dedusse numerose colonie di suoi veterani, ai quali distribuì terre anche nel territorio
di Panormo.
Tra età antica e medioevo, ossia tra dominazione romana e dominazione bizantina, il ruolo politico-militare di Panormo si accrebbe ulteriormente, ciò che ha consentito alla storiografia più
recente di parlare di una grande Panormo tardo antica e bizantina, dopo la grande Panormo punica e prima della grandissima
Balarm araba. Anche se ancora ristretta nell’ambito delle antiche
mura puniche, la città infatti emergeva come centro leader della
Sicilia occidentale e fungeva da pendant a Siracusa (che tuttavia
continuava a mantenere nell’isola un primato indiscusso), cosicché i geografi del tempo non tardavano a inserirla tra le splendidae civitates dell’isola, assieme alla stessa Siracusa e a Catania. I
Vandali che nel 440 d.C. invasero la Sicilia la assediarono a lungo, ma sembra non fossero mai riusciti a impadronirsene. E nel
535 d.C. essa resistette a lungo, difesa dai Goti, anche al generale bizantino Belisario, che infine riuscì a espugnarla soltanto con
un ingegnoso stratagemma.
Importante sede episcopale, residenza di famiglie politicamente influenti e di ricchi proprietari, centro di approvvigionamento granario della popolazione romana, porto tra i più sicuri
I. Una città plurimillenaria
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del tempo, sede di uno dei due presìdi militari bizantini nell’isola, Panormo assumeva un ruolo che anche la Chiesa romana contribuiva a esaltare, affiancandola nel 592 a Siracusa come sede di
uno dei due rectores che amministravano il vasto patrimonio di
San Pietro nell’isola e mostrando per la città un progressivo costante interesse, assai ben documentato dall’epistolario di papa
Gregorio Magno, cui dobbiamo anche l’indicazione della recente costruzione della Cattedrale. E da Panormo nel VII secolo
giungeranno a Roma ben due papi, Agatone e Sergio I, il quale
apparteneva a una famiglia di immigrati da Antiochia, come tante altre riparate in città dall’Asia Minore per sfuggire alla lotta
per le immagini sacre.
2. Da Balarm a Palermo: la città felice
Ma è con la conquista araba della Sicilia che Panormo assunse il ruolo di capitale dell’isola, agevolata certamente dalla lunga
resistenza di Siracusa, espugnata solo nell’878. Panormo invece
si arrese agli Arabi nell’831, dopo un anno di strenua resistenza
e con la popolazione falcidiata da una violenta pestilenza che l’avrebbe ridotta, secondo una indicazione scarsamente attendibile, da 70.000 a 3.000 abitanti. Abbandonata dal proprio ceto dirigente, che, vescovo in testa, era riuscito a fuggire o a contrattare la propria partenza al momento della resa, la città fu ripopolata con immigrati provenienti dall’Arabia, dalla Siria, dall’Iraq, dall’Iran e dall’Egitto, e – in attesa della caduta di Siracusa
– diventò la capitale del nuovo stato e la base dell’ulteriore espansione. Ma quando l’antica capitale dell’isola infine crollò, il ceto
dirigente arabo si era ormai da tempo radicato a Balarm e ne aveva fatto una splendida città musulmana (chiamata non a caso Medina, ossia la città per eccellenza), cui una Siracusa saccheggiata
e semidistrutta non poteva più contendere il ruolo di capitale. Il
monaco Teodosio, giuntovi prigioniero proprio da Siracusa, trovava infatti una città «celeberrima e popolosissima», che già si
era estesa al di là delle mura con nuovi quartieri e che il larghissimo ricambio demografico aveva trasformato in una città ben diversa dalla precedente, nuova e con scarsissimi agganci con tutta la sua storia passata. Da allora la Sicilia non guarderà più a Si-
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Palermo
racusa, ma a Palermo. E proprio allora comincia la storia dell’odierna città.
Con una popolazione costituita prevalentemente da musulmani, con forti nuclei di ebrei arabofoni e di cristiani di rito greco, la città realizzava la sua massima espansione demografica e
urbanistica, su un’area corrispondente quasi all’attuale centro
storico. Il rapido e imponente sviluppo edilizio, congiunto a un
forte sviluppo economico, ne faceva meritatamente una delle più
grandi e belle metropoli del Mediterraneo musulmano, ricca di
numerosissime moschee, di bagni pubblici, di mercati, di fondaci, di mulini, di macellerie, di giardini e frutteti, con un porto frequentatissimo da mercanti di altri paesi arabi e anche da cristiani (amalfitani e pisani, in particolare) alla ricerca di prodotti
orientali, donde la presenza dei cambiatori (cambiamonete) e dei
droghieri incontrati fuori le mura dal viaggiatore arabo Ibn Hauqal. E ciò malgrado la sua popolazione si caratterizzasse come
turbolenta e sleale, dedita alle false testimonianze e poco amante della pulizia, e la città fosse più volte teatro di assedi, di rivolte
e di lotte di potere sfociate nel sangue che attorno al 940 convincevano l’emiro a spostare la sua residenza dal Qasr (Cassaro,
castello), la vecchia città-fortezza ancora chiusa dalle mura puniche, in una nuova città-palazzo in prossimità del mare: la Khalessah o Khàlisa (l’eletta), odierna Kalsa, la città dei «puri», dove vennero concentrati anche gli uffici pubblici, le caserme e l’arsenale. Due città murate, quindi, la città degli empori commerciali e la città degli uffici, Balarm e Khàlisa, l’una di fronte all’altra, separate da giardini e corsi d’acqua (Kemonia e Papireto)
lungo i quali venivano formandosi tre quartieri: a sud il quartiere della Moschea (Harat Masgid), tra l’attuale mercato del Ballarò e la via Lattarini (rahba al-Attarin), e il quartiere Nuovo (alHarat al-Giadidah), nell’area oggi all’incirca corrispondente al
rione della Magione; a nord, al di là del Papireto, il quartiere degli Schiavoni (Harat al-Saqualibah), che includeva anche il porto.
Quando i Normanni invasero la Sicilia, i Pisani ne approfittarono per attaccare la città dal mare, dopo avere rotto la catena
che chiudeva il porto, senza però riuscire a conquistarla. Essa resistette anche agli stessi Normanni, costretti a ritirarsi dopo tre
mesi di inutile assedio. Attaccata ancora una volta da terra e bloccata dal mare dalla flotta normanna, si difese disperatamente per
I. Una città plurimillenaria
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alcuni mesi e si arrese a patti solo quando Roberto il Guiscardo
riuscì a occupare la Khàlisa (1072).
Palermo (il nuovo nome appare per la prima volta in un documento del 1086) ritornava a far parte del mondo cristiano e
occidentale, ma due secoli e mezzo di presenza musulmana non
potevano cancellarsi di colpo, cosicché essa continuò ancora per
secoli a mantenere aspetti, caratteristiche, abitudini, costumi, dislocazione e utilizzazione degli spazi, che la rendevano per tanti
versi simile a una città orientale, e a custodire in sé «i fermenti
di una civiltà i cui effetti – come è stato rilevato – sono ancor oggi visibili anche sul piano psicologico ed esistenziale». Gli stessi
monarchi normanni assunsero talora atteggiamenti e usi della civiltà musulmana e accordarono agli antichi abitanti libertà di culto e personalità del diritto, cioè la possibilità di continuare a vivere secondo le proprie leggi e con propri magistrati, purché giurassero fedeltà e pagassero i tributi. Peraltro, gli immigrati latini
al seguito dei conquistatori costituivano un nucleo ancora troppo esiguo per stravolgere la composizione etnica della città, dove sino al 1150 prevalevano largamente i musulmani, tra i quali
spesso i Normanni reclutavano i funzionari governativi, consentendo a non pochi di raggiungere posizioni di prestigio e di potere, che suscitavano la reazione dei cristiani, più volte manifestatasi in forme violente e sanguinose. E ancora, attraevano alla
loro sfarzosissima corte intellettuali musulmani da ogni parte dell’isola e invitavano a Palermo artisti e scienziati famosi di altri
paesi arabi, con l’ambizioso proposito di fondere cultura cristiana e cultura araba. Musulmani erano fino al tempo di Guglielmo
II (1166-1189) buona parte dei commercianti, anche se non mancavano i mercanti stranieri e italiani (veneziani, amalfitani, pisani, genovesi) che – con il favore dei monarchi – avevano già assunto il controllo del commercio estero.
Lo Stato normanno non ebbe inizialmente una capitale fissa,
ma Palermo continuò a essere il centro più importante dell’isola, sede peraltro del qâdî che aveva la giurisdizione su tutti i musulmani siciliani. Nei primi anni del XII secolo, vi fissò la sua residenza la contessa Adelasia, reggente per il figlio minore, il futuro Ruggero II, che nel 1130 vi cingeva poi la corona regia e ne
faceva la capitale di un Regno che oltrepassava i confini della Sicilia, estendendosi su tutta l’Italia meridionale e toccando anche
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Palermo
le sponde africane. La reggia, costruita sulle vecchie mura, nella
parte più elevata della città, ospitava al suo interno anche la celebre cappella palatina, il gineceo reale, la zecca, gli uffici amministrativi e il tiraz, l’opificio in cui si tessevano e ricamavano d’oro gli abiti dei monarchi e dei loro dignitari. La città felice, come Palermo da allora cominciò a essere chiamata, si arricchiva
contemporaneamente di altri monumenti stupendi, di grandiosi
edifici religiosi, di sontuosi palazzi nobiliari, il cui costo assorbiva una parte cospicua della ricchezza prodotta dal Regno; mentre nella pianura circostante – la bellissima Conca d’oro, che stupiva i visitatori per i suoi rigogliosi giardini dove si coltivavano
anche aranci e canne da zucchero – sorgevano immensi parchi
reali con favolosi rifugi di caccia e di piaceri, i cosiddetti sollazzi (la Favara di Maredolce, lo Scibene, la Zisa, la Cuba, ecc.). E
intanto la città, con i suoi circa centomila abitanti, si estendeva
sino a occupare tutta l’area dell’attuale centro storico, anche se
in prossimità della cinta muraria non mancavano larghissimi spazi vuoti coltivati a frutteto.
La crisi dinastica della fine del XII secolo favorì l’esplosione
della violenza antimusulmana. Già nel 1161, sotto Guglielmo I,
la città era stata sconvolta da una sanguinosa sommossa fomentata dalla nobiltà e dal clero contro la borghesia burocratica e
commerciale saracena, che costrinse i musulmani a ritirarsi al di
là del Papireto, nel quartiere Seralcadi (tra l’attuale mercato del
Capo e Porta San Giorgio). Le stragi si ripeterono dopo la morte di Guglielmo II e sfociarono in una vera e propria guerra civile (1189-1190), conclusasi con l’abbandono di Palermo da parte di numerosi musulmani, che emigrarono in Africa o si ritirarono in massa sulle montagne dell’interno dell’isola, riducendosi allo stato di villani. Nei decenni successivi, più volte tentarono di attaccare la città, sino a quando le loro continue ribellioni
non furono sanguinosamente stroncate dall’imperatore Federico
II (ai Normanni erano intanto succeduti gli Svevi), che deportò
i superstiti nella penisola italiana e ne insediò un nucleo proveniente dalle distrutte Centuripe e Capizzi nel quartiere palermitano dell’Albergheria (1233), nelle strade che da essi presero il
nome (ruga Centorbii e ruga Capicii). Ma a Palermo i musulmani
non riuscirono più a conservare la loro identità, anche se la lingua araba, usata dagli ebrei, durò sino al XV secolo, assai più a
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lungo del greco, declinato rapidamente dopo la fine della dinastia normanna.
La rottura della convivenza tra cristiani e saraceni, il conseguente abbandono della città da parte dei musulmani, gli scontri armati tra le opposte fazioni normanne e tedesche tra XII e
XIII secolo, le frequenti lunghe assenze della corte di Costanza
e di Federico II, avevano ripercussioni negative sulla vita economica cittadina e determinavano, già nella prima metà del Duecento, un vuoto demografico che né il ritorno di alcuni nuclei
musulmani, né l’accoglimento nella Judayca di una colonia di
ebrei provenienti dalla Spagna e dal Marocco, né la distribuzione agli immigrati di case e di terre voluta dall’imperatore e dai
successori valevano a colmare. E intanto il ceto mercantile locale (e meridionale in genere) veniva sempre più mortificato dalla
concessione ai mercanti stranieri (soprattutto pisani, veneziani e
genovesi) di nuovi privilegi e immunità negati invece ai locali. La
Palermo sveva mostrava quindi forti segni di una recessione che
né lo sfarzo orientale della corte di Federico II né l’attività della
cosiddetta scuola poetica siciliana riescono a velare ai nostri occhi. Una corte peraltro sempre in movimento per il Regno e una
scuola anch’essa raramente presente e operante nella capitale, legata com’era ai continui spostamenti del suo mecenate. E la città
intanto perdeva il suo ruolo di capitale mediterranea dell’età arabo-normanna, per assumere quello ben più modesto di capitale
regionale.
3. Tra decadenza e ripresa
La morte dell’imperatore nel 1250 fu seguita da una fase politica alquanto confusa, durante la quale il papa riconobbe l’istituzione del Comune a Palermo e confermò agli abitanti tutte le
franchigie e le immunità concesse loro dai precedenti sovrani.
Grazie all’appoggio del pontefice, ritornavano i Francescani
(1255), che si erano allontanati dalla città, in seguito alla distruzione nel 1235 (pochi anni dopo il loro primo insediamento) della loro casa nel corso di una durissima contestazione del clero regolare appoggiato dai musulmani locali e forse anche dal potere
politico. Dopo quella dei Domenicani insediatisi nel 1221, la lo-
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Palermo
ro fu la seconda casa religiosa fondata a Palermo, cui seguì nel
1270 quella degli Agostiniani. Il periodo svevo si chiudeva definitivamente a Benevento nel 1266, con la sconfitta di Manfredi
a opera di Carlo d’Angiò. La corte angioina prese residenza a Napoli e il vicario di Sicilia a Messina, cosicché Palermo fu capitale soltanto di nome. L’assenza della corte e la caduta della città
al rango di capitale di provincia significavano la perdita di onori e di profitti, soprattutto per il ceto medio dei burocrati e degli uomini di legge, ma anche per altri settori della società palermitana. E costituivano motivo di crescente malcontento, che si
assommava via via ai risentimenti per la «mala signoria» dei francesi e per l’egemonia delle cariche amministrative e finanziarie
da parte dei continentali, soprattutto amalfitani, sino a sfociare
nella rivolta del Vespro e nella proclamazione della commune civitatis Panormi (1282), che presupponeva una coscienza municipale già alquanto sviluppata e l’avvenuto superamento delle antiche divisioni di razza, di lingua e di religione all’interno della
città: la popolazione palermitana aveva già trovato una nuova comune identità, con la sola esclusione degli ebrei, costretti all’inizio del nuovo secolo a trasferirsi per qualche tempo fuori del Cassaro. Ma l’impegno indipendentistico non riuscì a tradursi nella
creazione del libero Comune e si dissolse nella difesa di una nuova monarchia strettamente siciliana.
Il moto antifrancese si propagò rapidamente a tutta l’isola, costringendo gli Angioini a ritirarsi e a lasciarla agli Aragonesi intervenuti in difesa dei Siciliani. La Sicilia si staccava così da Napoli e dal resto dell’Italia e diventava un Regno indipendente, ma
finiva col legarsi per quattro secoli ai destini della penisola iberica. E poiché gli Angioini non si rassegnarono facilmente alla
sua perdita, più volte nel corso del Trecento le due parti dell’antico Regno normanno-svevo fecero ricorso alle armi, con costi pesantissimi per entrambe. Per due volte, Palermo resistette
all’assedio nemico, ma le sue campagne furono selvaggiamente
devastate. Infine, nel 1354 aprì spontaneamente le porte agli Angioini, chiamati da Manfredi Chiaromonte, capo della potente famiglia che aveva imposto alla città la sua signoria e capo della fazione latina che si opponeva a quella catalana. Federico IV d’Aragona la riprese nel ’60, ma non poté sottrarla al dominio dei
Chiaromonte, che giunsero sino a negargli l’ingresso nella capi-
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tale. La guerra con gli Angioini si intrecciava spesso con la guerra civile tra le opposte fazioni baronali, coinvolgendo anche Palermo, che fu a lungo ribelle alla monarchia aragonese e talora
insorgeva al grido di «morte ai Palizzi», talaltra di «viva Palizzi
e Chiaromonte», talaltra ancora di «muoia Chiaromonte».
La ripresa economica degli anni successivi al Vespro determinò una immigrazione in città di artigiani specializzati (orefici,
armaioli, tessitori, ecc.) da Genova, Milano, Pisa, Firenze, Barcellona, Maiorca, attratti da agevolazioni e dalla crescente domanda di prodotti di pregio che l’artigianato locale – venuta ormai definitivamente meno l’esperta componente musulmana –
non riusciva a fronteggiare. Le autorità cittadine inoltre largheggiarono nella concessione della cittadinanza a mercanti forestieri e agli immigrati dall’interno dell’isola, nell’intento di coprire
in qualche modo i vuoti demografici presenti sin dall’età sveva.
Ma il cronicizzarsi dello stato di guerra tra l’isola e il Regno di
Napoli determinava una stagnazione economica, che finiva con
l’accentuare, già prima dell’epidemia di peste del 1348, lo spopolamento della città e portava a un vero e proprio tracollo delle attività artigianali. L’epidemia e le recrudescenze dei decenni
successivi causavano poi il crollo della popolazione cittadina, che
sembra si ridusse a circa 15.000 abitanti. Neppure nel Trecento
la capitale del Regno riusciva perciò a riacquistare gli antichi
splendori, anche perché – malgrado un preciso impegno che la
obbligava a risiedervi per almeno tre mesi l’anno – la corte aragonese preferiva soggiornare nella Sicilia orientale, a Catania soprattutto e qualche volta anche a Messina, che coglieva l’occasione per rivendicare il ruolo di capitale dell’isola, appoggiandosi su un falso diploma di Ruggero II.
Il ruolo e le competenze dell’amministrazione cittadina però
risultano meglio definiti. Il baiulo (o pretore dal 1320), che ne
era a capo e aveva poteri sia in campo amministrativo-finanziario sia in quello giurisdizionale, non era più di nomina regia, ma
veniva eletto annualmente, anche se quasi sempre, nonostante un
espresso divieto regio, tra i milites, il ceto di piccoli feudatari di
estrazione cittadina e ‘borghese’ che dalla seconda metà del Duecento monopolizzava – talora assieme ai giurisperiti e a qualche
ricco esponente del mondo mercantile – le maggiori cariche della città e la cui ambizione costituiva motivo di tensioni e di con-
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Palermo
flitti con altri ceti, tanto più che taluni milites già allora amavano circondarsi di facinorosi e malfattori. Nel corso dello stesso
secolo si assiste però a una loro progressiva perdita di potere, inizialmente a vantaggio dei Chiaromonte e infine di una nuova forte nobiltà di estrazione burocratica e mercantile, con ascendenze continentali, che soprattutto nel Quattrocento fornirà i quadri dirigenti alla città. Il pretore, scelto su una rosa di tre nomi
designati a turno dai cinque quartieri cittadini, era coadiuvato da
sei giurati (dal 1309), da sei giudici e da altri ufficiali, anch’essi
indicati dai quartieri, uno per ogni carica, con l’eccezione del
Cassaro che ne designava due. La Galka, cioè la parte alta del
Cassaro e la più antica, ancora separata dal resto della città da
mura in fase di smantellamento, costituiva invece un’entità a parte, amministrata da un suo baiulo e da suoi ufficiali, che non è
noto quando fu poi reincorporata nella città. Sede dell’amministrazione cittadina era il Palazzo Pretorio (Curti di lu Preturi), fatto costruire appositamente negli anni 1326-1329, in un clima di
forte impegno per il decoro urbano e per il recupero delle memorie passate, che aveva portato il baiulo ad assumere il titolo di
pretore e la città quello di Urbs, concessi – si diceva – da Roma,
unitamente all’uso dell’aquila d’oro, dopo la vittoria di Metello
su Asdrubale.
Dei cinque quartieri cittadini, il vecchio Cassaro – l’unica parte dell’abitato considerata come città (civitas Cassari), diversamente dalle altre indicate come quartieri – conservava sempre l’aspetto di zona nobile, ma, malgrado le immigrazioni di ricchi
contadini e i privilegi accordati ai nuovi abitanti, non riusciva a
ripopolarsi del tutto dopo l’abbandono dei musulmani e l’espulsione degli ebrei e presentava lo spettacolo di non poche case dirute e abbandonate; la Kalsa, dopo il declino in età normanna,
era in fase di espansione e, grazie alla costruzione del grandioso
Palazzo dei Chiaromonte (lo Steri), si trasformava sempre più
nella zona residenziale preferita dall’aristocrazia e dai mercanti
toscani, ma non mancavano ampi spazi vuoti; l’Albergheria si era
ormai urbanizzata, a eccezione della parte bassa del Kemonia; il
Seralcadi, ancora scarsamente urbanizzato, continuava a mantenere numerosi spazi vuoti coltivati a giardini; il quartiere di Porta Patitelli (da patiti, zoccoli che vi si fabbricavano), che si estendeva su un ampio reticolo di strade, si era costituito nella zona
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di risulta dall’interramento della laguna e – grazie al porto – si
caratterizzava come il cuore commerciale e artigianale della città,
dove le nazioni straniere avevano le loro chiese e le loro logge
che controllavano gran parte del commercio granario siciliano.
All’interno dei quartieri, le strade (platea, ruga, darb, secondo
l’importanza e la larghezza) spesso prendevano il nome dal mestiere artigianale che vi predominava o dalla nazione estera che
vi abitava. La più importante era la platea marmorea (cioè lastricata) che attraversava il Cassaro per tutta la sua lunghezza.
La notevole crescita nel periodo aragonese delle esportazioni
di grano dall’isola faceva di Palermo – sede del Maestro Portulano che concedeva i permessi di esportazione, oltre che di banchieri e di assicuratori che finanziavano e assicuravano i carichi
per l’estero – una delle più importanti piazze commerciali del
Mediterraneo, inserita sulla rotta nord-sud e, dopo il Vespro, anche su quella ovest-est. Pur se non mancarono momenti di stagnazione e di crisi – soprattutto nella seconda metà del secolo
per la contrazione della domanda estera di grano siciliano a causa della crisi demografica europea – l’attività commerciale costituiva il settore forte dell’economia cittadina e faceva da volano
alla ripresa economica dell’ultimo quarto di secolo, legata certamente alla stipula del trattato di pace con gli Angioini di Napoli (1372) e alla relativa pacificazione interna del Regno già anteriormente al crollo della signoria dei Chiaromonte (1392), ma più
ancora alla richiesta estera (anglo-fiamminga, soprattutto) di zucchero palermitano, che diventava la voce di esportazione più importante del mercato cittadino. Ciò determinava dopo il 1360 e
soprattutto nel ventennio 1400-1420 un’espansione travolgente
della coltivazione della canna da zucchero e l’impianto di numerosi opifici per la fabbricazione del prodotto, tanto all’interno
quanto nei dintorni della cinta urbana. E poiché all’inizio del
Quattrocento le campagne della Conca d’Oro erano interessate
anche dall’espansione della viticoltura, Palermo diventava la meta di una forte immigrazione proveniente da ogni parte dell’isola e persino da Napoli e dalla Calabria. Si trattava di una forza
lavoro non qualificata assai più consistente che nel Trecento, che
però per la durata stagionale dell’impiego spesso non assumeva
la cittadinanza e non veniva registrata nei censimenti del tempo.
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Palermo
4. Capitale senza corte
Il convegno di Caspe del 1412 segnava intanto la fine del Regno di Sicilia indipendente e la sua unione dinastica alla Aragona e più tardi alla Spagna (del cui Regno l’Aragona entrò a far
parte), che lo governarono sino al 1713 per mezzo di viceré. Palermo non era più la sede di una corte reale, pur se continuava a
conservare il ruolo di capitale, insidiatole però ormai non solo da
Messina, ma anche da Catania, sede dal 1444 dell’unica università siciliana e spesso anche della corte viceregia e del Parlamento. Negli anni Trenta del Quattrocento, tuttavia, la città appariva a un viaggiatore andaluso «molto ricca per le numerose mercanzie e fornita di ogni cosa, vasta quanto Siviglia». E in effetti
le botteghe del tempo riuscivano già a offrire alla clientela un
buon assortimento, segno di un benessere alquanto diffuso non
disgiunto però da un certo rilassamento dei costumi, che spingeva la città a chiedere al governo alcuni provvedimenti contro
il lusso per vietare l’eccessiva pompa dei funerali, le scollature
appariscenti delle donne e l’uso di pesantissimi gioielli, di vestiti costosi (broccati d’oro, velluti e sete di valore) e di pellicce di
martora, faina ed ermellino. Il porto cittadino – ormai quasi ridotto all’attuale Cala, a causa dell’interramento dei secoli precedenti – si caratterizzava sempre più come centro di smistamento
nelle zone interne dei panni di provenienza extra isolana, il cui
mercato di importazione era monopolizzato da mercanti pisani
da tempo naturalizzati, che talora li acquistavano anche a Londra in cambio di zucchero. Gli stessi Pisani facevano della città
la principale piazza cambiaria internazionale dell’isola e uno di
essi, il banchiere Guglielmo Aiutamicristo, a fine secolo faceva
costruire, su progetto di Matteo Carnilivari, il più bel palazzo patrizio della Palermo del tempo, che più tardi ospitò Carlo V e
che viene considerato il maggiore esempio dell’architettura umanistica di influsso catalano nell’isola. Non mancarono però episodi legati a momenti di difficoltà, come il fallimento di quasi tutti i banchi privati della città attorno al 1460 o come la rivolta del
1450, quando – in un’annata di forte carestia che alimentava sospetti di speculazioni – la popolazione insorse contro gli ufficiali dell’annona e la nobiltà municipale, saccheggiò le case dei facoltosi e giunse sino a impedire al viceré l’ingresso in città. Si
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diffondeva inoltre la prostituzione, che invano i giurati cercavano di frenare, e straordinariamente frequenti erano le risse con
insulti, percosse e gravi ferimenti.
Anche l’umanista palermitano Pietro Ranzano ci descrive nel
1470 una città molto ricca e opulenta, adorna di grandi edifici
pubblici e privati, parecchi dei quali di recente costruzione, grazie anche all’applicazione di una norma di re Martino il Giovane che consentiva l’espropriazione forzata di modeste abitazioni
limitrofe per edificare palazzi che rendessero più bella e decorosa la città, come nel caso delle dimore del banchiere Pietro Afflitto, della famiglia Speciale, di Francesco Abbatelli e del già citato Guglielmo Aiutamicristo. Ancora però, se si eccettuano le abitazioni dell’aristocrazia e qualche edificio pubblico, raramente le
case superavano il primo piano e numerose erano quelle unicellulari a piano terra, con soppalco in legno, senza servizio e senza
finestre, raggruppate spesso attorno a un cortile o all’interno di
vicoli stretti e brevi (darbi), anche se poi non mancavano ampi
spazi privi di costruzioni. La città infatti continuava a occupare
l’area dell’attuale centro storico, ma al suo interno numerosi e vasti erano ancora gli spazi vuoti e quasi non c’era abitazione signorile o di mercante che non si affacciasse con una loggetta o
un porticato su un giardino privato. E questo dava a Palermo –
a giudizio di uno storico francese – una atmosfera di antica città
andalusa e induce a ritenere che vi si conducesse una vita ancora semicampagnola. Alla campagna del resto era legata l’attività
giornaliera della stragrande maggioranza della sua popolazione,
impegnata nella gestione e nella coltivazione di campi a grano
(masserie), di cannameliti e di vigneti, tanto all’interno della cinta muraria, quanto nei dintorni e persino in località alquanto distanti dalla città. E inoltre, dalle lontane campagne dell’interno
dell’isola proveniva la rendita che i feudatari consumavano a Palermo e che costituiva la sua principale ricchezza, da cui traeva
alimento anche il ceto artigianale cittadino, che seppure ancora
scarsamente numeroso aveva cominciato, tra XIV e XV secolo, a
organizzarsi in associazioni di mestiere riconosciute dal governo.
L’amministrazione cittadina avviava una nuova pianificazione
urbanistica che rompeva gli angusti spazi ereditati dall’età arabonormanna e creava una teatralità nuova. Grazie a un apposito privilegio di Ferdinando il Cattolico (1482) – che consentiva alle au-
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Palermo
torità comunali di espropriare case, magazzini e giardini privati,
per «beneficio publico, ornamento et decorationi di quista felichi» città – si raddrizzarono e si allargarono strade urbane e si
crearono nuove ampie piazze, dando il via ai primi sventramenti dell’antico tessuto urbanistico arabo. Si abbassò il livello stradale dell’attuale piazza Marina per consentire un migliore deflusso dell’acqua piovana e si realizzò finalmente la costruzione
del molo alla Cala, che era stato progettato nella prima metà del
Trecento e che però non resse alla prima grande mareggiata
(1469). Il rinnovamento urbano interessò anche il Palazzo Pretorio (1463), che fu interamente rifatto, mentre l’arcivescovo faceva costruire un nuovo palazzo arcivescovile e, con l’apertura di
un’ampia spianata rettangolare, dava una sistemazione moderna
al piano della Cattedrale. Alcuni servizi pubblici furono ristrutturati per meglio rispondere alle esigenze dei nuovi tempi e si
procedette alla unificazione dei macelli in quello della Guilla (al
Papireto), all’accorpamento degli ospedali in un unico grande
complesso (il trecentesco Palazzo Sclafani, oggi caserma) e persino al raggruppamento delle prostitute cittadine in un’unica casa appositamente costruita. Né mancò l’attenzione per le strutture culturali, con l’istituzione – a carico del bilancio comunale
– di scuole primarie e secondarie; col finanziamento pubblico
dello Studium del convento di S. Domenico (istituito nel 1456),
dove si impartivano lezioni di teologia, di filosofia e di altre scienze, pur se non si rilasciavano ufficialmente titoli accademici; con
l’acquisto a cura dell’amministrazione comunale dell’attrezzatura necessaria al tedesco Andrea Vyel per stampare nel 1478 le
Consuetudines urbis Panormi, il primo e unico esemplare di incunabolo palermitano. Altro Studium, sia pure di minore importanza, esisteva già nella seconda metà del Quattrocento presso il
convento di S. Francesco.
Il rilancio economico quattrocentesco favorì la ripresa demografica, che però fu molto lenta e con momenti di flessione e di
stasi se per l’intero secolo la popolazione palermitana si mantenne attorno ai cinquemila fuochi (circa 25.000 unità), sufficienti
tuttavia per farla considerare dagli stranieri una delle più grandi
e popolate città europee. Nel 1479, gli abitanti risultavano distribuiti per il 24 per cento alla Kalsa, per il 23 all’Albergheria,
per il 14 al Cassaro, per il 14 al Seralcadi, per il 14 alla Conceria
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(già quartiere di Porta Patitelli) e per il 10 per cento alla Giudecca, la zona tra Albergheria, Cassaro e Conceria dove si erano
concentrati gli ebrei pochi decenni prima di essere espulsi dal Regno (1492). Anche se la convivenza non sempre era stata agevole e talora (1474) aveva dato luogo a gravissimi episodi d’intolleranza antigiudaica, la cacciata degli ebrei venne particolarmente
sentita dalla città, che protestò vivacemente per la violazione dei
suoi privilegi e per la perdita di un nucleo molto attivo e intraprendente nei settori finanziario, commerciale e artigianale. Gli
episodi contribuivano ad aggravare la recessione di fine secolo,
legata alla crisi dell’esportazione zuccheriera dopo il boom della
prima metà del Quattrocento e alla concorrenza del vicino porto di Termini nel settore dell’esportazione dei latticini.
5. Palermo spagnola
Nel corso del Cinquecento gli spazi vuoti all’interno della città
furono pressoché interamente coperti da nuove costruzioni, necessarie per far fronte all’imponente incremento demografico che
in meno di un secolo portava la popolazione palermitana da
25.000 a 114.000 abitanti (1591), distribuiti per il 25 per cento
al Civalcadi (Seralcadi), 24 all’Albergheria, 20 alla Kalsa, 18 alla
Loggia (Conceria) e 13 per cento al Cassaro. E addirittura cominciava, con la fondazione del Borgo di Santa Lucia (1570), abitato da pescatori, l’espansione fuori le mura e il primo avvio dello sviluppo della città verso la piana dei Colli e le falde del Monte Pellegrino, anche se la Conca d’Oro continuerà a rimanere ancora a lungo vuota di uomini e di villaggi, campagna ricca di vigneti, uliveti e orti, ma disabitata, con appena qualche baglio fortificato e le spiagge terribilmente insicure, esposte alle frequenti
incursioni dei pirati barbareschi.
Le trasformazioni edilizie erano la conseguenza dell’inurbamento a Palermo di gran parte della feudalità siciliana – attratta
dal desiderio di avvicinarsi al potere viceregio dispensatore di favori e di titoli – e della nobilitazione di un numero cospicuo di
‘borghesi’, ma anche della penetrazione nell’isola dello spirito rinascimentale e della sua crescente diffusione negli ambienti della feudalità e del patriziato urbano, che, favorendo modi di vita
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Palermo
e codici comportamentali assai più raffinati e confortevoli che in
passato, moltiplicavano quantitativamente e qualitativamente la
domanda di servizi e di infrastrutture e determinavano una forte immigrazione da tutta l’isola di aspiranti domestici, artigiani,
operai, vagabondi, ecc., alla ricerca di occupazione. L’affluenza
in città era davvero notevole, se a fine Cinquecento nella parrocchia di S. Giacomo La Marina il 61 per cento degli sposi era
costituito da immigrati provenienti da altri paesi della Sicilia, dal
continente italiano – soprattutto da Genova, dalla Calabria e dalla Lombardia – e dalla Spagna. E non riguardava soltanto gli uomini, se contemporaneamente le immigrate costituivano il 36 per
cento delle spose. La grande disponibilità verso i forestieri portava già allora gli abitanti a raffigurare Palermo come un vecchio
dall’aspetto regale, cui un serpente succhia il petto, giustificando la scritta apposta al vaso colmo d’oro e di fiori che gli sta ai
piedi: «Palermo, vaso d’oro, divora i suoi e nutre gli estranei».
Risaltava la scarsa propensione dei palermitani per le attività
commerciali, già presente anche nei secoli precedenti: «li naturali cittadini di quella [città] – rilevava un funzionario napoletano – al generale non sono dedicati all’acquistare et conservare
delle facoltà et ricchezze; dal che nasce che facilmente ve si accomodano fuorastieri col negotiare et ingabellare li loro stati, baronie et feghi». I mercanti genovesi e lombardi si inserivano nel
ceto medio cittadino e talora raggiungevano anche i livelli più alti della società palermitana, sino al conseguimento del titolo nobiliare. In particolare, i genovesi monopolizzavano il commercio
estero della Sicilia, soprattutto quello granario, mentre i lombardi erano specializzati nel commercio di importazione di panni e
monopolizzavano il settore della vinificazione, il cui prodotto
vendevano al dettaglio nella vasta rete di osterie da essi gestite.
Decisamente meno fortunati gli immigrati dall’interno dell’isola
e dalla Calabria, che, scarsamente o nient’affatto qualificati, finivano con il costituire una sorta di sottoproletariato cittadino inevitabilmente esposto alla povertà o al vagabondaggio, due fenomeni in fortissima espansione, contro i quali ben poco valevano
i provvedimenti delle autorità, volti più a reprimerne gli effetti
che a rimuoverne le cause, o l’iniziativa della carità privata, cui
si doveva tra l’altro la fondazione del Monte di pietà (1541) e l’apertura di un rifugio per i «poveri pezzenti» (1605).
I. Una città plurimillenaria
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Il volto della città mutava rapidamente, non solo per effetto
dell’attività edilizia sostenuta dalla nuova domanda prodotta dall’inurbamento del baronaggio (a fine Cinquecento vi risiedevano
ben 31 degli 80 membri della feudalità parlamentare siciliana, tra
cui i più alti titolati) e dall’incremento demografico, oltre che da
una più moderna concezione della vita e degli spazi, ma anche
per il contributo fornito dall’edilizia sacra (a fine Cinquecento si
contavano ben 91 chiese urbane e 15 suburbane) e soprattutto
per le trasformazioni urbanistiche volute dall’amministrazione
comunale e incoraggiate dal governo, in particolare dopo la visita dell’imperatore Carlo V nel 1535 che segnava l’inserimento di
Palermo in un nuovo più ampio contesto internazionale. Possenti
baluardi rinforzarono l’antico circuito murario, che la diffusione
dell’artiglieria come strumento bellico aveva reso assolutamente
inadeguato. Per impedire poi che forze nemiche potessero agevolmente avvicinarsi sin sotto le mura, nel 1555 il terreno antistante le nuove fortificazioni fu spianato con la distruzione di alberi, giardini e case per un valore assai elevato: oltre novemila
onze, pagate per metà dal governo e per metà dall’amministrazione comunale. Il Kemonia, che tanto danno aveva arrecato nell’inondazione del 1557, fu deviato oltre le mura cittadine, mentre la palude del Papireto veniva prosciugata e la zona risanata e
rapidamente urbanizzata. L’attuale piazza Pretoria veniva adornata da una monumentale fontana. All’antico porto della Cala,
insufficiente a far fronte all’espansione dei commerci e dei traffici prodotta dallo sviluppo della città, si affiancava a settentrione un porto assai più ampio dotato di un grande molo (15671590) alle falde del Monte Pellegrino, con la manifesta speranza
di convincere i viceré a fissare per sempre la residenza della corte a Palermo. A costo di gravi demolizioni e manomissioni, fu sistemata definitivamente la via marmorea o strada del Cassaro, da
sempre asse centrale della città. Raddrizzata, allargata, prolungata sino alla spiaggia e chiusa da due nuove porte (Porta Nuova e
Porta Felice), la via Toledo (come, in onore del viceré del tempo, fu denominata la nuova strada, corrispondente all’attuale corso Vittorio Emanuele) veniva così a collegare tra loro le sedi delle più importanti istituzioni cittadine: Palazzo Reale, caserme,
Ospedale grande, Arcivescovado, Cattedrale, Palazzo Pretorio,
Dogana (poi carcere della Vicaria), Tribunale dell’Inquisizione a
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Palermo
Palazzo Steri, Ospedale di S. Bartolomeo. Porta Felice si apriva
sulla strada Colonna (l’attuale Foro Italico), una nuova strada
adorna di statue e di fontane, fatta costruire negli stessi anni dal
viceré Marco Antonio Colonna e già allora meta obbligata di passeggio serale e di svago della nobiltà del tempo, che vi si recava
a piedi e a cavallo, «vagheggiando et regalando le Dame et Signore di quella città che similmente compariscono in cocchio per
goder l’aere et amenità di quella marina». A fine secolo fu infine
progettato il taglio di una nuova strada (la strada nuova, appunto) a essa perpendicolare, aperta nel 1600 sotto il viceré Maqueda, da cui prese il nome. La croce di strade che si realizzava (quattro canti) divideva Palermo in quattro distinti quartieri, che presero i nomi delle sante protettrici della città: Santa Cristina o Albergheria, Santa Ninfa o Capo, Santa Oliva o Loggia, Sant’Agata o Kalsa.
L’inurbamento della feudalità più ricca e potente e i mutamenti nel settore urbanistico-edilizio, sulla spinta delle nuove esigenze di spettacolarità imposte dalla sensibilità barocca, facevano di Palermo la città di gran lunga più prestigiosa dell’isola e ne
rafforzavano notevolmente l’immagine di capitale aristocratica e
la preminenza sulle altre, che però Messina non si stancava di insidiare in tutti i modi: con l’appoggio ai viceré in fuga dalla capitale in rivolta, con il costoso acquisto di un nuovo privilegio –
spesso disatteso – che obbligava i viceré a risiedere per metà del
loro mandato nella stessa Messina (1591), con la proposta di
spartizione del Regno in due viceregni (1630). Ma solo dopo la
rivolta degli anni 1674-1678, che privò Messina dei suoi privilegi, Palermo poté finalmente liberarsi per alcuni decenni della sua
concorrenza, chiudendo una lunga diatriba che aveva coinvolto
sui temi più disparati (autenticità della lettera della Madonna ai
messinesi, negata dal palermitano Rocco Pirri; preminenza ecclesiastica rivendicata dalla Chiesa palermitana e assegnata invece a Siracusa dal messinese Antonino Amico, ecc.) letterati e togati delle due città a sostegno delle contrastanti pretese.
La Palermo spagnola soddisfaceva pienamente l’orgoglio e la
vanità dei suoi abitanti. Gli elogi dei contemporanei si sprecavano e nel 1586 un interessato ammiratore poteva addirittura definirla «ricetto securo della Pace, ricco tesoro dell’Abbondanza,
perpetua sede della Giustizia, unico ricovero della Felicità, sagro
I. Una città plurimillenaria
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tempio della Religione, illustre albergo della Gloria, gloriosa Corona e premiero solio del Regno Siciliano, e finalmente antico e
sempre lucido specchio di viva e incomparabile Fede verso il Re
nostro signore». La città affascinava anche i forestieri, se alcuni
gentiluomini francesi a fine Cinquecento potevano considerarla
un autentico genoardo, un «paradiso della terra», ricca com’era
di «belli e sontuosi edifici, castelli, tempii, piazze, fonti e tutte altre particolarità che a superba e regia città appartengono». Né
mancavano le occasioni di svago: feste, spettacoli, celebrazioni civili e religiose erano frequenti e coinvolgevano l’intera popolazione. Eppure, contemporaneamente Palermo era considerata la
città siciliana più esposta alla diffusione di epidemie, per il degrado igienico-sanitario che la caratterizzava: l’acqua fetida stagnava nei fossati lungo le mura esterne e alla Cala, ricettacolo di
tutte le immondizie della città; i miasmi provocati dal sangue dei
molti tonni uccisi nelle tonnare del litorale impregnavano il mare e la spiaggia e si diffondevano per l’intera città; i pozzi neri inquinavano la falda acquifera; le carogne degli animali abbandonate sulle strade infestavano l’aria. E perciò le malattie vi trovavano facile esca e colpivano con particolare virulenza i ceti popolari, come in occasione delle epidemie di vaiolo (1544), di influenza (1557) e di peste (1575, 1592, 1624).
La crescita demografica creava inoltre grossi problemi di approvvigionamento, che non sempre l’amministrazione comunale
– dal 1584 non più elettiva, ma di nomina viceregia, con il pretore quasi sempre scelto tra i membri dell’aristocrazia baronale
– riusciva a risolvere felicemente, soprattutto nei periodi di carestia. Lo scontento popolare, aggravato soprattutto nel Seicento da nuove pesanti imposizioni fiscali, sfociava così in insurrezioni e rivolte, che talora trovavano alimento anche in vaghe motivazioni politiche o sociali e coinvolgevano di volta in volta esponenti del baronaggio e del patriziato urbano rovinati dalla congiuntura sfavorevole (1516-1517, 1522-1523), professionisti ‘borghesi’ alla ricerca di più ampi spazi di potere municipale (1560),
artigiani organizzati in potenti corporazioni e decisi a rompere il
blocco aristocratico che da secoli controllava la vita municipale
(1647).
Un altro grande male di cui la Palermo cinque-seicentesca soffriva era la criminalità sviluppatasi con l’inurbamento dei feuda-
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Palermo
tari, che molto spesso la proteggevano e se ne servivano, talora
anche con la connivenza del governo viceregio. E perciò frequenti erano gli omicidi (anche di magistrati), le estorsioni e i taglieggiamenti ai mercanti della Loggia, le intimidazioni nei confronti di chi tentava una qualche resistenza, le spedizioni punitive e gli scontri mortali tra squadre rivali di bravi, le collusioni tra
istituzioni e delinquenza, le presenze di bravi negli organi amministrativi della città, le impunità accordate ai potenti e soprattutto ai delinquenti protetti dal Sant’Uffizio. Anticipazioni, certamente, di quel fenomeno che dalla seconda metà dell’Ottocento definiamo col nome di mafia.
La crisi economica del Seicento bloccava lo sviluppo demografico e la popolazione, dopo avere sfiorato i 130.000 abitanti
nel 1625, alla fine del periodo spagnolo si trovava ridotta a 94.000
unità. Ma non bloccava la trasformazione edilizia, perché anzi il
Seicento fu il secolo della costruzione dei grandi palazzi latistanti la via Toledo e soprattutto la via Maqueda, nei quali l’aristocrazia parassitaria, vecchia e nuova, pietrificava buona parte della rendita feudale, in una gara di sfarzi e di prodigalità che la rendevano assai cara alla numerosa plebe cittadina, ma che spesso
conducevano al disastro finanziario. E contemporaneamente, nel
clima imperante della Controriforma, Palermo si riempiva di
nuove chiese, di grandi monasteri e collegi e assumeva quell’aspetto nobile e sontuoso, che ancora traspare tra il degrado e le
rovine del suo centro storico. L’intervento pubblico nel settore
invece si riduceva notevolmente e si bloccava del tutto nella seconda metà del Seicento, a causa delle gravi difficoltà finanziarie
attraversate dalla monarchia spagnola e dal Comune, costretto a
fare i conti con bilanci ormai pesantemente in deficit. E perciò
rimaneva limitato alla costruzione dell’arsenale a spese dello Stato (1621-1630), del lazzaretto e di magazzini per l’approvvigionamento granario in varie zone della città a spese del Comune,
sul quale gravava anche il pesante onere della riparazione del
nuovo molo, il cui costo elevatissimo giustificava l’ironico appellativo di muraglia di pietre d’argento. L’inizio dei lavori di rifacimento della pavimentazione del Cassaro con lastre di pietra di
Billiemi doveva rinviarsi al nuovo secolo (1702).
La città continuava a essere sede privilegiata delle attività finanziarie legate alla riscossione dei «donativi» (imposte statali) e
I. Una città plurimillenaria
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al crescente debito pubblico per consentire alla Spagna di finanziare, nel Cinquecento, la guerra sul mare contro gli Ottomani e,
nel Seicento, le guerre nell’Italia settentrionale e in Germania. Il
reperimento dei capitali necessari alimentava un vastissimo giro
d’affari (prestiti, appalti, alienazioni di beni demaniali, vendite di
titoli nobiliari e di uffici, ecc.) concentrato pressoché interamente nelle mani di un ristretto nucleo di mercanti-banchieri di origine genovese, lombarda e toscana, che spesso – dopo l’acquisizione di un titolo nobiliare – fissavano la residenza definitiva a
Palermo. Essi anticipavano il denaro necessario al governo e si
incaricavano del suo trasferimento sui fronti militari, ottenendo
in cambio rate di donativi da riscuotere, appalti di favore, beni
dello Stato e soprattutto interessi assai elevati.
Nel corso del Seicento si riduceva notevolmente l’attività
commerciale legata alla richiesta estera di grano e di contro Palermo non beneficiava del contemporaneo boom della richiesta
estera di seta, la cui esportazione era concentrata a Messina. I bisogni della numerosa aristocrazia palermitana alimentavano tuttavia un cospicuo flusso di importazione di manufatti e di prodotti coloniali dall’estero: panni di lana, stoffe di seta, fustagni,
tele, nastri, ferro, acciaio, piombo, carta, libri, droghe e soprattutto spezie giungevano dall’estero e si ridistribuivano anche ai
centri rurali dell’interno, mentre il fabbisogno alimentare era
soddisfatto dal grano di Termini e di Castellammare, dal vino di
Carini, Partinico e Castelvetrano, dalla legna e dal carbone delle
Madonie, dal sale e dal pesce salato di Trapani, dall’olio della fascia costiera messinese. Pochissime e di scarso valore erano invece le esportazioni, che si ridussero ulteriormente quando negli
anni Ottanta venne meno la produzione degli opifici di zucchero siciliani e conseguentemente anche l’esportazione all’estero
del prodotto, vinto dalla concorrenza delle Antille.
6. La crescita settecentesca
Eventi internazionali svoltisi lontano dalla Sicilia ponevano fine nel 1713 al periodo spagnolo e assegnavano l’isola a Vittorio
Amedeo II di Savoia, che qualche anno dopo era costretto a cederla all’Austria in cambio della Sardegna. Ancora pochi anni e,
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Palermo
nel 1734, i due troni di Sicilia e di Napoli passavano a Carlo di
Borbone, che riunificava sotto di sé le due parti dell’antico Regno normanno-svevo che la rivolta del Vespro aveva separato nel
lontano 1282. E ricominciava il dualismo e la rivalità Sicilia-Napoli che caratterizzerà la storia dell’isola sino all’unificazione italiana del 1860. Palermo fu scelta come sede dell’incoronazione
sia da Vittorio Amedeo II di Savoia sia da Carlo di Borbone, ma
nessuno dei due re vi fissò la sua residenza e perciò essa continuò a essere, come in età aragonese e spagnola, una capitale senza corte, sede soltanto di un viceré. Capitale che Messina ritornava nuovamente a porre in discussione, prima che la terribile
epidemia del 1743 la togliesse ancora una volta di scena per qualche tempo.
L’avvento dei Borboni sul trono siciliano coincideva con il rilancio dell’economia europea, i cui effetti positivi raggiungevano
anche la Sicilia e Palermo, che visse un periodo di notevole crescita durato sino all’inizio dell’Ottocento: la ripresa dell’esportazione granaria determinava infatti la rapida ascesa delle rendite
dell’aristocrazia palermitana e ne aumentava considerevolmente
la capacità di spesa per soddisfare nuovi consumi di lusso e nuove raffinate esigenze, che facevano da volano al rilancio dell’economia cittadina. La popolazione – che nel 1737, malgrado la presenza di un impressionante numero di ecclesiastici, pari quasi al
10 per cento dell’intera popolazione, superava appena i centomila abitanti (laici: uomini 43.633, donne 48.383; ecclesiastici: regolari 7.056, secolari 3.034), mantenendosi ancora al di sotto del
livello raggiunto a fine Cinquecento – a fine Settecento poteva
toccare già i 140.000 abitanti e balzare a 173.000 nel 1831. L’incremento demografico determinava la ripresa dell’espansione
dell’abitato al di fuori della cinta muraria, i cui bastioni cominciarono a essere abbattuti per migliorare la viabilità nelle zone
suburbane o ceduti a privati per essere utilizzati come giardini.
Si trattava di una espansione urbanistica pianificata dalle autorità municipali, cui si deve nel 1778 la creazione del quadrivio
detto dei Quattro Canti di campagna (attuale piazza Regalmici,
dal nome del pretore del tempo), punto di incontro di un nuovo tracciato viario costituito dal prolungamento di via Maqueda
(attuale via Ruggero Settimo) e da una nuova strada a esso perpendicolare che collegava il piano di San Francesco con il mare
I. Una città plurimillenaria
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(attuale via Mariano Stabile). L’anno successivo veniva aperta una
terza strada suburbana tra il piano di Sant’Oliva e il cinquecentesco Borgo di Santa Lucia (attuale corso Scinà), che valeva a delimitare un ampio quadrilatero a nord del centro storico all’interno del quale l’aristocrazia di più recente formazione o appena inurbata, e più tardi anche la borghesia delle professioni e del
commercio, trovavano ampie aree edificabili per la costruzione
di nuovi palazzi.
A popolare infatti le zone di espansione non erano tanto i vecchi abitanti del centro storico, quanto la nuova nobiltà scarsamente radicata nella vecchia città, dove peraltro non esistevano
più spazi liberi, se persino il genero di re Ferdinando, il duca Luigi Filippo d’Orléans (il futuro re dei francesi), quando nel 1810
volle costruirsi un’abitazione, dovette scegliere un’area periferica latistante il piano di Santa Teresa (attuale piazza Indipendenza). La vecchia aristocrazia continuava invece a vivere nei palazzi aviti della città antica e, seguendo una moda francese, preferiva piuttosto impegnarsi nell’impianto di artistici giardini e nella
costruzione di sontuose dimore di villeggiatura nelle campagne
di Bagheria, a Mezzomonreale, ai Colli, all’Olivuzza, che costarono immense ricchezze e che per alcune famiglie costituirono
un vero e proprio canto del cigno. La gallomania era alquanto
diffusa tra la nobiltà palermitana, ma negli ultimi decenni del secolo veniva sempre più sostituita dall’anglomania.
La volontà di battere definitivamente la concorrenza di Messina, periodicamente agitata come uno spauracchio dal governo
di Napoli, e di emulare nello stesso tempo le grandi capitali europee, non ultima proprio Napoli, spingeva il Senato – titolo di
cui dalla fine del Cinquecento aveva cominciato a fregiarsi l’amministrazione comunale – a dotare la città di un complesso di 250
fanali a olio per l’illuminazione notturna (1746), primo esempio
sembra in Italia dopo Venezia, seguito immediatamente dalla nobiltà palermitana che ne impiantava altri a proprie spese sulle facciate dei palazzi privati e spesso anche all’interno. La città si arricchiva di una biblioteca civica (1759), del Grande Albergo dei
Poveri (1772), di un parco pubblico, la magnifica Villa Giulia
(1777), definita da Goethe «l’angolo più meraviglioso del mondo», dell’Accademia degli Studi (1779) dal 1805 trasformata poi
in Università, del cimitero di Sant’Orsola (1780), dell’Orto Bo-
28
Palermo
tanico (1785-1795), dell’Osservatorio astronomico (1791), di
nuove piazze e porte, di nuovi edifici religiosi, di monumenti, di
nuove istituzioni (Grande Conversazione della Nobiltà). Palermo ritornava a essere così, come nel Cinquecento, centro di attrazione della nobiltà di provincia e viveva una lunga stagione dorata, della quale talora partecipavano anche i ceti subalterni, lieti di assistere al fasto e al lusso dell’amata gaudente aristocrazia,
tra torme di mendicanti imploranti e strati di letame e di immondizie disseminati per le strade. E ritornava a essere centro di
immigrazione sia dall’interno dell’isola per artigiani, domestici,
disoccupati, sia dalla penisola italiana e da paesi stranieri. Numerosi erano, ad esempio, negli ultimi decenni del secolo, prima
che in gran parte fossero costretti ad allontanarsi come nemici
nel 1793, i francesi dimoranti in città come negozianti-banchieri, negozianti di tessuti e altro, librai (uno), ufficiali e soldati dell’esercito borbonico, agenti di cambio (uno), commessi e contabili, insegnanti di lingua francese, artigiani e ancora valletti di camera e cuochi a servizio della grande aristocrazia.
La cacciata da Palermo nel 1773 del viceré Fogliani, accolto
trionfalmente a Messina al grido di «muoiano i palermitani», diede nuova linfa alle aspirazioni dei messinesi di ottenere la residenza del viceré. Ma il governo di Napoli, piuttosto che trasferire la capitale del Regno, preferì sostituire il viceré, nel timore che
alla plebe in rivolta si unissero anche l’aristocrazia e l’intera Sicilia baronale. In realtà, l’aristocrazia palermitana non sembra affatto estranea alla preparazione, assieme al clero e a una parte
della burocrazia, e poi alla gestione della strana rivolta, che le
consentì, strumentalizzando il malcontento popolare per una crisi annonaria, di liberarsi di un viceré non più controllabile e di
continuare a ricattare il governo con la paura del peggio. I baroni – rilevava il Caracciolo – erano soliti minacciare «con la bocca del popolo», potendo contare su un forte ascendente nei confronti dei capi delle 72 corporazioni artigiane della città, la cui
attività dipendeva dalle loro commesse. E infatti le maestranze
svolsero un ruolo molto attivo e determinante, sia nella fase di
avvio del «tumulto disciplinato», sia al momento di liquidare la
lunga parentesi insurrezionale. Ben lo comprese il governo di Napoli, che – ristabilitosi l’ordine – pretese la consegna delle armi
dei baluardi, che essi tenevano in custodia dal 1735 per conces-
I. Una città plurimillenaria
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sione di Carlo di Borbone. Ancora qualche anno e il viceré Caracciolo decideva di trasferirsi a Messina «con i tribunali e tutta
la bottega», un proposito che rimase inattuato solo per il sopraggiungere del terremoto del 1783.
A fine 1798, giunse a Palermo la corte borbonica fuggita da
Napoli invasa dalle truppe francesi, che vi instaurarono la repubblica. La città fu molto ospitale con i regnanti e per un attimo si illuse di ritornare a essere la splendida sede di una corte
reale. E perciò grande fu, pochi mesi dopo, l’amarezza dei palermitani per il ritorno della corte a Napoli, in seguito alla caduta della Repubblica Partenopea. Come molto fredda fu l’accoglienza della città, quando nel 1806, di fronte alla nuova invasione francese, i sovrani si rifugiarono ancora una volta a Palermo, dove si fermarono sino al 1815 sotto la protezione degli inglesi, tra il malcontento dell’aristocrazia, tenuta in posizione subalterna rispetto ai fuoriusciti napoletani, e della popolazione,
costretta a pagare le pesanti spese della corte e della guerra contro i francesi. La Restaurazione borbonica nel napoletano portava nel dicembre 1816 alla creazione del Regno delle Due Sicilie,
che segnava la fine dell’antico Regno di Sicilia e trasformava Palermo da capitale di un Regno quasi a semplice capovalle.
II
L’OTTOCENTO BORBONICO
1. Da capitale a capoluogo di provincia
Gli ultimi decenni del governo borbonico costituiscono per
Palermo un periodo di crisi. Un confronto tra la bella pianta topografica curata da Gaetano Lossieux nel 1818 e l’altra fatta redigere dal prefetto Torelli nel 1862 mostra chiaramente come lo
sviluppo urbanistico fuori le vecchie mura fosse avvenuto soprattutto anteriormente al 1818, con la quasi completa urbanizzazione della zona compresa tra Porta Maqueda, il convento di
S. Francesco di Paola e la via di La Grua (attuali vie Villaermosa e Wagner), mentre a sud le nuove costruzioni fiancheggiavano lo stradone di Sant’Antonino (attuale via Lincoln), l’inizio della via della Guadagna (attuale via Oreto) e la via delle Mura (attuale corso Tuköry). Nel quarantennio tra il 1818 e il 1862, l’espansione edilizia rimaneva invece pressoché bloccata, limitata
appena al completamento della nuova zona attorno alla strada
fuori Porta Maqueda (attuale via Ruggero Settimo) e alla costruzione di case lungo i fianchi dello stradone dei Capacioti (attuale via Mariano Stabile). Anche la costruzione di nuove ville suburbane veniva drasticamente ridotta. Ancora al momento dell’unificazione (1860), perciò, nella zona attualmente compresa tra
le vie Villaermosa-Wagner e il mare, lo sviluppo edilizio – a parte il vecchio Borgo di Santa Lucia, nel quartiere Molo – interessava quasi soltanto i prospetti dell’attuale via Mariano Stabile,
peraltro non ancora completi, mentre nella parte sud della città
non si erano compiuti progressi rilevanti rispetto alla situazione
del 1818 e sulla strada della Favorita – come si chiamò dopo la
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Palermo
Restaurazione borbonica la strada della Libertà aperta dal governo rivoluzionario del 1848 – non esistevano costruzioni.
L’intervento del Comune nel campo edilizio si limitava alla sistemazione di qualche piazza, alla riparazione di qualcuna delle oltre mille strade cittadine e all’allargamento di alcuni canali di gronda per evitare il pericolo di allagamenti nel centro urbano. Sul suo
bilancio gravava una massa enorme di debiti, tanto che quelli anteriori al 1850 dovettero essere consolidati. Ma il deficit ricomparve e per la fine del 1855, con entrate inferiori al milione di ducati, si prevedeva uno sbilancio di 260.000 ducati. Nel ’56 il delegato regio propose la riduzione delle indennità del pretore (= sindaco) e dei senatori, poiché «la necessità di provvedere all’allibramento dell’azienda comunale è gravissima e urgente, e sta bene che
vi concorrano in prima linea con un piccolo sacrificio le persone
che ne assumono il reggimento». Il bilancio preventivo dello stesso anno destinava 45.500 ducati (lire 193.375) alla manutenzione
ordinaria di strade ed edifici pubblici e alla costruzione di nuove
opere, ma solo perché bisognava rifare via Toledo (attuale corso
Vittorio Emanuele), una strada pavimentata con lastre di pietra ridotte ormai in polvere dal traffico delle carrozze, che le prime
piogge trasformavano inevitabilmente in un lago di fango, anche a
causa della mancanza di corrette pendenze. Per la nuova pavimentazione si ricorse a scalpellini napoletani, perché evidentemente lastricatori e selciatori locali non erano capaci di realizzare
il lavoro, che fu completato nel 1859, tra opposizioni e polemiche
a causa del dislivello con piazza Pretoria creato dall’abbassamento del piano stradale. Di contro si destinavano 30.000 ducati per la
spesa d’esercizio dell’illuminazione a olio (più altri 2.600 per l’illuminazione a gas del Foro Borbonico dal 24 giugno all’8 settembre di ogni anno, sin dal 1843), 12.200 per la festa della patrona
santa Rosalia e 18.000 come sussidio al Real Teatro Carolino, il teatro cioè dell’aristocrazia. Rispetto al passato, lo Stato, forse anche
per supplire al ristagno dell’edilizia privata, spendeva certamente
di più per l’edilizia pubblica, ma complessivamente non faceva
granché, anche a causa della situazione di crisi finanziaria attraversata dalla Tesoreria di Sicilia, sull’orlo della bancarotta e costretta più volte a ricorrere a grossi prestiti stranieri.
La città perdeva perciò il dinamismo espansivo che aveva caratterizzato i decenni tra Sette e Ottocento. La sua popolazione
II. L’Ottocento borbonico
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passava dai 173.478 abitanti del 1831 ai 194.463 del 1861, con
un incremento assai più basso di quello verificatosi contemporaneamente nel resto dell’isola. Anche rispetto alle grandi città
italiane, Palermo – assieme forse a Roma – realizzava la più modesta crescita demografica, per cause che non possono attribuirsi soltanto alle due epidemie di colera del 1837 e del 1854,
ma debbono invece individuarsi nella crisi della città. Essa era
interamente coinvolta nella crisi irreversibile della sua aristocrazia, la quale tuttavia continuava a rimanere ancora troppo forte
per lasciarsi facilmente sostituire come ceto dirigente e con la
sua presenza impediva ogni trasformazione della struttura economica cittadina sull’esempio delle zone più progredite del continente europeo. Le scarse iniziative, quando non si arenavano,
erano insufficienti a determinare una svolta decisiva nella vita
della città. Né la cultura locale, peraltro molto vivace nel ventennio che precedette la rivoluzione del 1848, riusciva – impegnata com’era nella risoluzione del più generale problema Sicilia e convinta che bastasse eliminare i Borboni dalla scena per
risolvere tutti i problemi dell’isola – a elaborare un progetto di
trasformazione della città, che avrebbe necessariamente messo
in discussione il ruolo dell’aristocrazia. Ciò che non si voleva,
perché – a parte il fatto che gli intellettuali spesso appartenevano alla stessa aristocrazia – senza l’appoggio della nobiltà, di cui
era nota l’avversione all’assolutismo borbonico, la lotta per la libertà non avrebbe avuto altrimenti possibilità di successo. Non
esisteva, inoltre, un robusto ceto medio di produttori e la stessa borghesia professionale era schiacciata dal prestigio sociale
della nobiltà, che per la sua prodigalità godeva anche della devozione dei ceti subalterni, a essa legati da rapporti clientelari
che duravano da secoli.
Ecco perché la crisi dell’aristocrazia finiva con l’essere anche
quella dell’intera città, che – sebbene scossa più volte da lunghi
sussulti rivoluzionari – appariva sostanzialmente stanca, sonnacchiosa, quasi oppressa da un passato che la decadenza presente
faceva apparire più glorioso di quanto spesso non fosse, irretita
in una trama di abitudini e di comportamenti da cui non riusciva o forse non voleva liberarsi. Gli stessi moti rivoluzionari venivano riassorbiti in fretta e tutto riprendeva quasi come se nulla fosse accaduto.
34
Palermo
I cambiamenti che pur si verificavano in Sicilia spesso erano
a totale danno della città, che con la fine dell’ancien régime perdeva una antica, pur se talora contestata, supremazia. La Restaurazione non significava nell’isola un completo ritorno al passato, poiché – dopo l’abolizione della feudalità nel 1812 – si verificavano l’unificazione dei due Regni di Sicilia e di Napoli nell’unico Regno delle Due Sicilie (1816) e la soppressione del plurisecolare Parlamento, che privavano l’aristocrazia di un notevole potere politico e Palermo del suo ruolo di capitale di un Regno.
Si trattava però di avvenimenti che la città subiva soltanto in negativo, cosicché innescava quasi un processo di rimozione: i nobili perciò continuavano a essere «orgogliosi e petulanti» e il popolo «disubbidiente, sedizioso e indisciplinato», come ai tempi
del viceré Caracciolo. Si comprende perché Pietro Calà Ulloa, alto funzionario borbonico, fosse fermamente convinto nel 1838
della necessità di «sradicare, di scardinare la Sicilia intera da Palermo», una città che egli giudicava ancora feudale, lussuosa e
corrotta, boriosa e arrogante, popolata da «nobili alteri e potentissimi» e da 40.000 proletari («volgo avido ed ignorantissimo»),
priva di un ceto medio di commercianti e industriali e ricca invece di magistrati e avvocati «avidi, ignoranti, baldanzosi, immoralissimi», in posizione di «vilissima soggezione a quanti sono
patrizii di Palermo». Ancora alla metà del secolo – probabilmente proprio a causa dell’elevato numero di nobili che la popolavano e di una diffusa mentalità spagnolesca e antieconomicistica tra i suoi abitanti – essa, più che una città italiana, appariva a un viaggiatore francese una città spagnola, abitata da gente superba, attaccabrighe, diffidente.
Anche se fondamentalmente generosi verso gli amici e i più
deboli, i palermitani erano presuntuosi e arroganti nei confronti
degli altri siciliani, chiamati spregiativamente regnicoli, e critici
severissimi verso i propri concittadini, ma – quasi volessero dar
ragione al motto del vecchio Palermo di piazza Fieravecchia:
Alios nutrit, seipsum devorat – sempre molto disponibili nei confronti dei forestieri, di cui imitavano i modi. Sospettosi e diffidenti per natura l’uno dell’altro e poco disposti ad accettare ruoli subalterni, non gradivano i lavori che oggi chiamiamo d’équipe, né
associarsi tra loro per realizzare traguardi più prestigiosi. Di ingegno pronto, arguti, abili nel trovare sotterfugi, ma inclini alla
II. L’Ottocento borbonico
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millanteria; facili agli entusiasmi e altrettanto facili nel lasciarli
cadere, ma tenaci negli amori come negli odi e nelle vendette; vivaci e focosi, ma incapaci di applicarsi con costanza e metodo;
attaccatissimi alla loro città, soprattutto se costretti a viverne lontano, ma non molto disposti a sacrificarsi per essa se entravano
in gioco interessi personali: tali erano i palermitani del tempo.
Della giustizia avevano una particolare concezione secondo la
quale la legge – allora come oggi – doveva applicarsi per tutti,
ma interpretarsi per gli amici («vulemu la giustizia, ma no davanti la nostra porta»):
Lo spirito de’ palermitani – osservava un contemporaneo – tende
naturalmente ad eludere ogni statuto, o almeno a porlo quanto più
presto in disuso [...]. Egli [il palermitano] esige che la giustizia si esegua scrupolosamente sopra gli altri, non così sopra sé stesso e studia
sempre di esimersi dalla norma generale, bramando che per lui si faccia un’eccezione alla regola.
Né poteva essere diversamente in una città dove la giustizia si
comprava con notevole facilità, di cui soltanto i viaggiatori stranieri riuscivano a scandalizzarsi, e dove molti alti magistrati, i cui
nomi erano noti alle autorità borboniche, proteggevano quei proprietari che «han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti» (leggi: aderiscono alle cosche mafiose): la mafia, anche se il nome non era stato inventato e si chiamava camorra, era già presente nella città. La sfiducia nella giustizia portava i palermitani, spesso per non subire sopraffazioni,
ma anche per risolvere in fretta problemi di cuore, a estrarre facilmente il coltello, che usavano con abilità.
Da sempre essi amavano le feste, che organizzavano dappertutto: «Di fatto [...] – annotava un contemporaneo – ogni cortile, ogni angolo più oscuro della città, come ogni classe di cittadini, ogni famiglia ha il suo santo, le sue processioni, i suoi piaceri, le sue feste». La festa più importante era naturalmente quella di santa Rosalia, che invano il viceré Caracciolo alla fine del
Settecento aveva cercato di ridurre da cinque a tre giorni. Le feste, e soprattutto le danze, costituivano occasione privilegiata di
incontro tra i due sessi. Le donne, generalmente attraenti, di portamento nobile e di modi cortesi, timide e civette insieme, cura-
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Palermo
vano particolarmente l’abbigliamento e facevano largo uso di
stecche e busti, incuranti del danno per la salute. Il loro comportamento suscitava facilmente la gelosia, un sentimento molto
diffuso tra il popolo e spesso causa di amare tragedie, ma da cui
era immune l’aristocrazia, a giudicare dai tanti pettegolezzi sulla
dubbia fedeltà coniugale delle nobildonne. Assieme alle feste, i
palermitani amavano gli spettacoli musicali, per seguire i quali,
dal 24 giugno al 31 agosto di ogni anno, venerdì esclusi, si riversavano in massa al Foro Borbonico (attuale Foro Italico). La Palermo bene seguiva inoltre anche i concerti nella sede, fuori Porta Maqueda, dell’Accademia filarmonica, fondata nel ’27 ad iniziativa del duca di Caccamo.
2. L’aristocrazia della terra
A Palermo continuavano a vivere gli eredi delle più antiche e
prestigiose famiglie feudali dell’antico Regno di Sicilia, ma la vecchia aristocrazia – a causa dell’abolizione della feudalità e della
successiva soppressione del Parlamento – aveva cominciato a perdere il ruolo di guida della società siciliana che era riuscita a mantenere per parecchi secoli. L’abolizione nel 1818 dei diritti di primogenitura e di fidecommesso – concedendo a tutti i figli eguali diritti sull’asse ereditario – poneva inoltre le basi per lo smembramento definitivo dei patrimoni nobiliari e la conseguente crisi del potere economico e politico dell’aristocrazia, tanto che ormai si poteva parlare di principi così squattrinati da non riuscire
a risolvere quotidianamente il problema del vitto. Se gli ex grandi feudatari continuavano a essere ancora i più grandi proprietari dell’isola, essi non erano più i soli: grazie ai nuovi trasferimenti di proprietà, resi più facili dalla nuova legislazione, all’interno della aristocrazia palermitana, pur se permanevano profondi squilibri, si realizzava una ridistribuzione della ricchezza e dei
redditi a vantaggio della nobiltà minore, cioè di quella aristocrazia di provincia che si era soprattutto costituita tra il Sette e l’Ottocento e che in parte si affrettava a trasferirsi nella capitale dai
lontani paesi dell’interno, dove aveva costruito le sue fortune
quasi sempre con la gestione in affitto di beni feudali o l’appalto dell’esazione delle imposte. E infatti, dei quasi 4.000 proprie-
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tari e redditieri che nel 1861, secondo il censimento, vivevano
nella città e di cui sicuramente vecchi e nuovi nobili costituivano la parte più consistente, un decimo erano nati fuori città e vi
si erano trasferiti nell’ultimo mezzo secolo.
Poiché, però, la nuova nobiltà non aveva alla sua base un aumento della ricchezza globale dell’isola, ma era il frutto – tranne
in pochissime eccezioni – della crisi finanziaria della vecchia aristocrazia, la presenza di un maggior numero di nobili nella città
non significava rispetto al passato un aumento del reddito complessivo dell’aristocrazia palermitana, ancora basato quasi esclusivamente sulla rendita fondiaria e per di più bloccato sino all’inizio degli anni Quaranta su livelli piuttosto bassi, per la caduta
dei prezzi agricoli dopo il 1817 e per le nuove pesanti imposte
fondiarie che ne assorbivano una grossa fetta. Il trasferimento a
Palermo dei nuovi nobili non si risolveva cioè in un nuovo apporto di capitali. Né essi erano portatori di precisi valori borghesi
che potessero contribuire a modificare dall’interno il vecchio
mondo feudale; piuttosto assumevano spesso i codici comportamentali della vecchia aristocrazia, con la quale gareggiavano nel
lusso e negli sfarzi, cosicché a Palermo, come in passato, si continuava a consumare buona parte della rendita fornita dalle campagne siciliane.
In verità, la vecchia aristocrazia era costretta dalla sua crisi finanziaria a un tenore di vita meno sfarzoso che nel secolo precedente, che essa subiva con molta riluttanza e soltanto quando
non aveva altra scelta. Non era facile, d’altra parte, in una città
dove il prestigio di un casato si misurava dalla prodigalità dei suoi
componenti, ridurre o variare in qualche modo i consumi, oppure rinunciare a qualcuno dei tanti domestici, all’acquisto degli
abiti più alla moda, al mantenimento di lussuose carrozze, al gioco, ai divertimenti, alle vacanze all’estero, privilegi che ora la nobiltà era costretta a condividere con i grandi «negozianti», cioè
con i mercanti-capitalisti della città. Sfoggio di vestiti eleganti, di
gioielli, di carrozze e di cavalli soddisfacevano un desiderio esibizionistico, che era stato anche alla base della costruzione delle
ville settecentesche della piana dei Colli e di Bagheria, come pure dei sontuosi palazzi sei-settecenteschi disseminati un po’ in tutti i quartieri della città, ma soprattutto lungo il Cassaro o via Toledo, via Maqueda o strada nuova, via Butera, via Alloro, piazza
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Palermo
Marina e nei pressi di Porta Nuova e Porta Maqueda; ville e palazzi il cui elevato costo di manutenzione non era più facilmente
sopportabile da tutte le famiglie dell’aristocrazia, cosicché l’antica magnificenza della costruzione e degli arredi voluta dagli antenati faceva spesso da stridente contrasto con le limitate risorse
dei discendenti.
Forse la pressoché completa rinuncia dopo il 1818 alla costruzione di nuovi grandi palazzi signorili e ville suburbane era
una della poche concessioni che l’aristocrazia palermitana riuscì
a fare alla sua crisi finanziaria. Perché per il resto – stando a una
guida della città – «le carni più sugose, la cacciagione la più delicata, il pesce il più squisito, i cucinieri i più famosi» continuavano a essere sue prerogative. I negozi di via Toledo, la strada
più elegante della città, le riservavano i capi più raffinati, ispirati alla moda di Parigi e di Londra, e destinavano alla «gente civile» o a qualche facoltoso regnicolo «le cattive mercanzie dopo
lungo tempo passate di moda». A Palermo, «città in cui regna il
lusso e domina la moda, si vestiva alla perfezione», grazie ai negozi di mode e novità concentrati quasi tutti in via Toledo, tra
cui quelli di Michele Savona, aperto nel 1810, e del francese
Odon Berlioz. In via Toledo erano ubicati anche il negozio di
guanti, ombrelli e cravatte di Andrea Santoro; la profumeria del
francese Giuseppe Sénes, il quale, diversamente da altri commercianti che ritiravano i profumi dalla Francia, li fabbricava direttamente; il negozio di profumi e balocchi L’ami des enfants del
francese Giuseppe Gardon; la rinomata pasticceria di Salvatore
Gulì, Confetturiere di Casa Reale; il Caffè di Sicilia, uno dei migliori della città e secondo solo a una caffetteria dell’attigua via
Cintorinari (attuale via A. Paternostro) dove si servivano caffè,
sorbetti e liquori «all’ultima perfezione» e perciò preferito dalla
nobiltà; la gioielleria dei fratelli Fecarotta, meno rinomata tuttavia di quella di Giovanni Fecarotta in via Materassai, quasi accanto alla drogheria Florio, che aperta sin dal 1830 forniva la Palermo bene del tempo.
Le grandi carrozze settecentesche, barocche e poco funzionali, erano state sostituite da nuove carrozze «all’inglese» dotate
di maggior comfort e dalla linea più sobria. Il loro uso si era talmente affermato dopo il 1830 che ormai nessuno che avesse un
minimo di agiatezza osava presentarsi a piedi a un ricevimento:
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nel 1844 si contavano ben «trecento equipaggi brillanti, di cui i
proprietari si distinguono per l’eleganza delle diverse forme delle loro vetture e la bellezza dei loro cavalli». Chi ne era sprovvisto, i forestieri ad esempio, poteva utilizzare una delle 312 carrozze d’affitto (omnibus, diligenze, calessi, ecc.) che stazionavano in attesa di clienti a piazza Marina, piazza del Palazzo Reale
(attuale piazza del Parlamento) e piazza del Fonte Senatorio (attuale piazza Pretoria). E così, dalle sei del pomeriggio sino all’ora del teatro, la via Toledo – e dopo il 1849 anche la strada della Favorita – diventava il ritrovo preferito dei nobili palermitani,
che si scambiavano inchini e saluti da una carrozza all’altra, mentre d’estate il passeggio si trasferiva al Foro Borbonico, da Porta
Felice a Villa Giulia.
Il gioco era molto diffuso tra l’aristocrazia: attorno ai tavoli
verdi dei circoli cittadini, principi e principesse, uomini e donne, consumavano al rouge et noir, a macao, a bassetta – giochi
d’azzardo ufficialmente proibiti – una fetta consistente della rendita fondiaria fornita dai residui patrimoni ex feudali. Non so se
gli aristocratici palermitani frequentassero anche le cinque sale
da biliardo concentrate attorno a piazza Marina, due delle quali
esponevano insegne in inglese, anche se i gestori avevano cognomi sicilianissimi. Il biliardo era considerato un gioco per
«persone decenti», ma è probabile che essi preferissero usufruire dei tavoli del Circolo del bigliardo o Nobile conversazione,
che dal 1825 era ubicato in tre vani a piano terra del Palazzo Villafranca, all’angolo tra piazza Bologni e via Toledo, e che perciò
veniva anche chiamato Circolo Bologni o Casino Bologni o Caffè
Bologni. Ma il ritrovo più prestigioso era il Casino di Dame e Cavalieri, volgarmente detto anche del sivo (sego), non tanto forse
perché fosse illuminato con candele di sego, quanto piuttosto
perché vi si celiava in continuazione. Si trattava di uno dei circoli più antichi d’Europa, sorto nel 1769 con il nome di Grande
Conversazione della Nobiltà in Palermo e dal 1809 ubicato nel
Palazzo dei marchesi di Santa Lucia nel piano della Martorana
(attuale piazza Bellini), accanto al Real Teatro Carolino (poi Teatro Bellini), dove il circolo si assicurò due palchi per i suoi soci.
Nelle sere d’estate, i soci – tra cui il luogotenente generale del re
in Sicilia, don Carlo Filangieri, principe di Satriano (1849-1855),
o il suo successore, don Paolo Ruffo, principe di Castelcicala
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Palermo
(1855-1860) – si intrattenevano al fresco nell’ampio terrazzo, a
conversare e a giocare, e spesso anche a cenare. D’inverno, organizzavano trattenimenti e splendide serate danzanti che si concludevano inevitabilmente a «giorno fatto».
Non tutte le famiglie aristocratiche vi erano rappresentate,
perché il ristrettissimo gruppo che gelosamente lo controllava
(Terranova, Trabia, Sant’Elia, Paternò, ecc.) selezionava rigidamente l’accesso dei soci, che nel 1854 erano appena 107 e diventeranno 133 nel 1857 e 194 nel 1860. Eppure l’esiguo numero dei soci non indica a sufficienza quanto il circolo fosse esclusivo: esso infatti non rappresentava altrettante casate, ma soltanto pochissime famiglie che vi aderivano con parecchi componenti. E tuttavia non sembra che l’antichità del blasone o il suo
possesso fossero requisiti indispensabili per esservi ammessi, altrimenti non si giustificherebbe la presenza, già nel 1854, del finanziere Pietro Riso, il cui titolo di barone di Colobria era recentissimo e la cui ricchezza era stata accumulata dal padre Giovanni sembra con sistemi non del tutto puliti; o di Lucio Mastrogiovanni Tasca, appartenente a una famiglia di affittuari di
Mistretta arricchitasi con il commercio granario durante l’occupazione inglese, il quale nel 1846 era diventato conte d’Almerita
per avere sposato la figlia del principe di Trabia; o di Nicolò Turrisi Colonna, il quale non rinunziava al cognome materno Colonna, assai più prestigioso di quello del padre Mauro, che aveva ottenuto il titolo baronale appena all’inizio dell’Ottocento; e
neppure di parecchi non titolati, che però dai cognomi sembrano legati da vincoli di parentela con alcuni dei soci più rappresentativi. Escluso che l’entità della quota annuale di associazione, pari a onze 4.24 (lire 61,20), potesse costituire elemento di
discriminazione – anche se allora il salario giornaliero di un operaio metalmeccanico della fonderia Oretea non superava i quattro tarì (lire 1,70) –, il limitatissimo numero dei soci appare esclusivamente determinato da una volontà di chiusura nei confronti
di una parte della stessa nobiltà, che è forse all’origine della costituzione nel 1825 del Circolo del bigliardo di piazza Bologni.
Dopo il 1854, comunque, si assiste a una maggiore apertura, cosicché assieme a parecchi titolati vennero accettati anche alcuni
altissimi burocrati tra cui il commendatore Salvatore Maniscalco, noto direttore generale della polizia. Tra il 1857 e il 1860 il
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circolo si aprì anche agli operatori stranieri nell’isola (Beniamino
Ingham e altri) e soprattutto ai giovanissimi rampolli di due tra
i più ricchi uomini d’affari locali, Ignazio di Vincenzo Florio e
Gabriele di Antonio Chiaramonte Bordonaro.
Il teatro godeva tra i nobili di notevole favore. Dal 1809 funzionava, completamente ristrutturato, il Teatro dei marchesi di
Santa Lucia, ribattezzato Real Teatro Carolino in onore della
sovrana, mentre nel 1816 era stato inaugurato il S. Ferdinando
di via Merlo, dove si davano soprattutto commedie in dialetto.
Ad essi si erano aggiunti nel ’51 l’Oreto, di proprietà del principe di Cutò, al Foro Borbonico, e l’anno dopo il S. Anna (piazza Sant’Anna). Nel 1855, inoltre, fu interamente rinnovato a cura dell’architetto Giuseppe Di Bartolo l’antico S. Cecilia (piazza
Teatro di S. Cecilia), di proprietà dell’Unione dei musici e utilizzato per spettacoli di prosa in inverno e operette in estate. Si
trattava di teatri piccoli e scarsamente attrezzati. Solo il Carolino, che era il più esclusivo, aveva cinque ordini di palchi, dove
tra un atto e l’altro era possibile anche cenare e dove le dame dell’aristocrazia facevano sfoggio di gioielli costosissimi, spesso –
stando ai pettegolezzi raccolti da un viaggiatore inglese – richiesti in prestito momentaneo ai creditori che li tenevano in pegno
o ritirati in fretta per l’occasione dal Monte di pietà. Soprattutto negli ultimissimi anni del regime borbonico, il palcoscenico
del Carolino ospitò le cantanti più famose e le ballerine più brave del momento, con interpretazioni che dividevano gli spettatori in opposte fazioni e davano luogo a violente polemiche che
si concludevano spesso con aspri duelli, perché nella Palermo di
allora – e ancora per alcuni decenni dopo l’unificazione – ogni
pretesto, anche il più futile, si considerava buono per battersi,
malgrado la legge lo proibisse. E siccome non esistevano sale
d’armi, i nobili palermitani si esercitavano alla scherma in case
private, dove giocavano anche alla guerriglia urbana, costruendo
e assaltando finte barricate.
In dicembre, in attesa che si aprisse la stagione dell’Opera,
ma anche alla fine degli spettacoli, la nobiltà palermitana degli
anni Cinquanta, la sera sino a tarda notte, aveva ripreso a dare
ricevimenti che per il loro sfarzo ricordano quelli tanto ammirati del XVIII secolo. Era consuetudine antica, inoltre, trascorrere
assieme la novena di Natale, tra danze e giochi, al Casino o in ca-
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Palermo
se private. A Palazzo Galletti, il marchese di San Cataldo, nei mesi di permanenza a Palermo, organizzava rappresentazioni filodrammatiche, alle quali – malgrado i suoi precedenti liberali del
1848, che avranno un seguito nel 1860 – intervenivano il luogotenente, i direttori dei vari dipartimenti, compreso il Maniscalco,
e l’alta burocrazia borbonica, presente del resto anche agli altri
ricevimenti. Il luogotenente ricambiava gli inviti dell’aristocrazia
palermitana con altrettanto sontuosi ricevimenti a Palazzo Reale
(attuale sede dell’Assemblea Regionale Siciliana), che contribuivano non poco alla pacificazione degli animi dopo le vicende rivoluzionarie del 1848-1849. Rimaneva chiuso ai divertimenti il
palazzo del principe di Trabia, che non partecipava più alla vita
mondana a causa dell’esilio a Parigi, dove morirà nel 1855, del
primogenito Pietro, principe di Butera e di Scordia, che era stato ministro del governo rivoluzionario e perciò escluso dall’amnistia borbonica.
Parigi, dove viveva una folta colonia di nobili palermitani
fuoriusciti, costituiva già la meta preferita delle vacanze dei giovani aristocratici, soprattutto da quando il viaggio veniva reso
più facile dalla istituzione di regolari servizi con battelli a vapore lungo le linee Palermo-Napoli e Napoli-Marsiglia. I viaggi all’estero e nel continente italiano contribuivano a sprovincializzare la nobiltà palermitana e a renderla più aperta e sensibile alle nuove istanze di libertà e di progresso che circolavano in Europa.
Seppure per necessità meno sfarzoso che nel Settecento, un
simile tenore di vita, quando non portava all’indebitamento, impediva tuttavia qualsiasi possibilità di risparmio da destinare ad
attività produttive, come amaramente dichiarava alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla rivolta palermitana del 1866
il neosenatore Vincenzo Florio: «l’ozio divora questa popolazione; la ambizione la rovina; il lusso, la morbosa smania di tenere
carrozza, è veramente sproporzionata a’ mezzi che si hanno. Difficile trarla ad applicarsi all’industria e ad un attivo commercio».
In passato, qualche nobile illuminato aveva tentato di promuovere attività manifatturiere: ai De Spuches si deve nel Settecento l’impianto di tre cartiere nella contrada Molara, che attorno al 1840 erano però gestite in affitto da operatori borghesi. Anche nell’Ottocento non mancò qualche tentativo della nobiltà pa-
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lermitana di impegnarsi in attività tipicamente borghesi. Al principe di Trabia, ad esempio, si deve la costruzione in via Butera,
con prospetto sul Foro Borbonico, dell’Albergo della Trinacria,
il primo complesso della città appositamente progettato per albergo, che entrò in funzione nel 1844 gestito dal genovese Salvatore Ragusa, socio del principe, e che sino alla apertura dell’Hôtel des Palmes (1877) restò il più prestigioso. Nel 1840 – dopo che il governo consentì il libero cabotaggio a tutti i battelli a
vapore, che in precedenza era stato monopolio dei napoletani –
si costituì a Palermo la Società dei battelli a vapore siciliani, alla
quale la nobiltà aderì quasi all’unanimità con 55 tra principi, duchi, marchesi, conti e baroni. Numerosi altri sottoscrittori erano
inoltre imparentati con essa. E tuttavia, i maggiori azionisti, che
avevano anche il controllo della società, erano Beniamino Ingham con 24 azioni, don Vincenzo Florio con 13 e il neobarone
Gabriele Chiaramonte Bordonaro con 11, perché la nobiltà spesso vi intervenne con una sola azione di 100 onze, a dimostrazione che non disponeva di capitali da impiegare in nuove attività.
Ma non era neppure facile avere successo negli affari per un ceto che quel mondo aveva sempre disdegnato e che non esitava a
considerare «facchino fortunato» don Vincenzo Florio, il più ricco uomo d’affari siciliano, e «fedele ai suoi ineducati principij»
Michele Raffo, importante operatore economico e membro del
Consiglio della Camera di Commercio: giudizi peraltro condivisi anche dagli intellettuali democratici, per uno dei quali il Florio era «avaro, usuriere, anima di fango».
3. L’aristocrazia del capitale
Assieme alla crisi irreversibile della grande nobiltà, la comparsa di un gruppo, seppure modesto, di capitalisti locali («negozianti», secondo la terminologia ufficiale) rappresenta sicuramente l’altro grande fatto nuovo degli ultimi decenni del regime
borbonico a Palermo. Si trattava di una ristrettissima élite di imprenditori borghesi, che costituiva, assieme agli operatori stranieri, l’elemento dinamico della società palermitana e i cui primi
passi, nel 1838, erano sfuggiti al Calà Ulloa. È indubbio che la
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Palermo
situazione fosse piuttosto cambiata rispetto ai secoli precedenti,
quando il commercio palermitano era quasi interamente nelle
mani dei genovesi: già prima della metà dell’Ottocento, assieme
ai capitalisti stranieri – soprattutto inglesi, ma anche francesi,
svizzeri, tedeschi, lombardi e persino statunitensi – incontriamo
alcuni commercianti-finanzieri locali dalle molteplici attività, dei
quali sarebbe interessante conoscere meglio l’origine dei capitali e il processo di arricchimento, che soltanto genericamente possiamo indicare come basato sul commercio e sull’intermediazione finanziaria.
Allo stato attuale delle ricerche i loro nomi, che ritroviamo in
tutte le iniziative preunitarie, ci appaiono completamente nuovi
nel panorama commerciale dell’isola, rafforzando il convincimento che si trattasse di una élite di recentissima formazione:
Giuseppe Paino, Giuseppe Simone Caminneci, Gabriele e Antonio Chiaramonte Bordonaro, Salvatore De Pace, Ignazio e Vincenzo Florio, Ferdinando Lello, Michele Pojero, Michele Raffo,
Giovanni e Pietro Riso, Biagio Verde, Mariano Buonocore, Francesco Varvaro, ecc. Probabilmente qualcuno era erede di mercanti non siciliani ormai naturalizzati nell’isola; altri sembrano
appartenere a famiglie locali, affermatesi presumibilmente negli
anni della occupazione inglese, tra il 1806 e il 1815, quando la
presenza delle truppe inglesi e della corte reale riversò sulla Sicilia ingenti capitali, che determinarono una crescita considerevole della produzione e degli scambi commerciali. Costituivano
una ristrettissima aristocrazia del capitale, che – dopo essere riuscita a superare indenne la successiva crisi agraria e la conseguente riduzione del volume degli scambi, che dovettero invece
essere fatali a tanti altri – usciva allo scoperto nell’ultimo ventennio del periodo borbonico e regolava la vita finanziaria e commerciale della città, pur se in condominio con alcuni operatori
stranieri, all’ombra dei quali spesso aveva mosso i primi passi.
Ancora alla metà del secolo gli operatori palermitani non sembra
avessero, infatti, una completa autonomia d’azione e, tranne casi eccezionali, preferivano piuttosto partecipare in qualità di soci a iniziative di capitalisti stranieri.
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4. Vincenzo Florio e il problema industriale
La figura di imprenditore di gran lunga più interessante dell’Ottocento palermitano e siciliano è senza dubbio quella di Vincenzo Florio (1799-1868). Gli altri, in fondo, erano soprattutto
dei commercianti che facevano anche i banchieri e gli armatori e
poco si curavano di attività produttive, diversamente da Vincenzo Florio, l’unico grande capitano d’industria siciliano del suo
tempo, cui si deve la nascita della metallurgia a Palermo e una
attenzione continua allo sviluppo dei maggiori settori produttivi
dell’isola: pesce conservato, vino, zolfo, agrumi, sommacco. I
Florio erano originari di Bagnara Calabra, dove per decenni avevano svolto attività artigianali e dove Vincenzo era nato nel 1799.
Attorno al 1790, il padre Paolo aveva contratto con il cognato
Paolo Barbaro una società per il commercio di generi di drogheria, attività molto diffusa a Bagnara: i droghieri, utilizzando
capitali presi a «cambio marittimo», acquistavano droghe a Livorno e a Genova e le rivendevano sui mercati del basso Tirreno, tra cui Palermo. Proprio nella città siciliana, i due soci nel
1797 rilevarono una drogheria da un loro conterraneo e qualche
anno dopo si trasferirono definitivamente a Palermo. Con Paolo
Florio giunsero anche la moglie, il figlioletto Vincenzo e il fratello Ignazio. Scomparso precocemente Paolo nel 1807, Ignazio
continuò l’attività di compravendita di generi coloniali al minuto e all’ingrosso, sempre più fruttuosa, se egli – alla sua morte nel
1828 – poté lasciare al nipote Vincenzo un cospicuo patrimonio,
che avrebbe potuto consentirgli di ritirarsi dagli affari e vivere di
rendita.
Vincenzo, che aveva viaggiato a lungo e aveva visitato i maggiori centri commerciali d’Europa, continuò a mantenere la stessa ragione sociale («Ignazio e Vincenzo Florio»), ma impresse immediatamente agli affari un ritmo assai più sostenuto, allargando
notevolmente il campo delle attività ben oltre la bottega di droghe e di generi farmaceutici di piazza San Giacomo La Marina.
Nel 1830 cominciò ad acquistare alcune quote della tonnara dell’Arenella, che nel 1838 si aggiudicò interamente all’asta. Assunse in affitto anche la gestione di altre tonnare, nelle quali introdusse nuovi metodi per la cattura del tonno e per la conservazione del prodotto, che – come già altrove – venne confezionato
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Palermo
anche sott’olio. Dal 1842, per diciotto anni, gestì inoltre le due
importantissime tonnare di Favignana e Formica, che poi il figlio
Ignazio acquistò nel ’74. Nel 1833 progettò una raffineria di zucchero, che non ottenne la privativa dal governo e, in società con
il cugino Raffaele Barbaro, acquistò del terreno a Marsala, sul quale, sull’esempio dei Woodhouse e di Ingham, già nel ’34 aveva costruito uno stabilimento vinicolo, che vent’anni dopo impiegherà
75 operai e 30 ragazzi, con una produzione annua di 1.400 botti.
L’esplosione dell’industria dello zolfo non poteva lasciarlo indifferente: nel 1835 costituì una società per lo sfruttamento delle miniere di Racalmuto con la proprietaria, la vedova del principe di Pantelleria; nel 1839 gestiva in affitto ben 26 zolfare, tra
cui quella del principe di Palagonia, appena scoperta a Lercara;
nel 1840 diede vita con Ingham e Agostino Porry, un esperto
francese, a una società per la fabbricazione, in privativa, di acido solforico e derivati, in uno stabilimento appositamente costruito alle falde del Monte Pellegrino. Intanto, nel 1838 aveva
impiantato a Palermo, in locali del convento di S. Domenico,
un’industria tessile che utilizzava una macchina filatrice e che nel
1844, per l’impossibilità di trovare in città locali adeguati, fu trasferita a Marsala.
L’esempio dell’anglo-palermitano Beniamino Ingham, che si
trasformava in armatore per raggiungere più facilmente i mercati d’oltre Oceano, fu forse decisivo per convincere Florio, nella
prima metà degli anni Trenta, dell’opportunità di dotarsi anch’egli di una sua flotta, che – secondo un suo biografo – già anteriormente al 1848 contava «molti legni a vela», ma che in effetti non sembra andasse oltre poche unità. Alla fine degli anni
Trenta i suoi velieri toccavano New York e Boston, Londra e Liverpool, Marsiglia e Genova, da dove per conto della Casa I. e
V. Florio portavano a Palermo manifatture, zucchero, caffè, cera,
cuoi, pelli, tabacco, droghe, riso, rhum, pece, catrame, piombo,
libri, cristalli, carta, chincaglieria, salnitro, mogano, indaco, legno giallo, bande stagnate, terraglie, biacca, ferro, carbone, aringhe, e tutto ciò che poteva avere una qualche possibilità di utile
collocazione sul mercato siciliano. Il traguardo finale erano i mercati del Medio Oriente e più ancora dell’Estremo Oriente, dove
approvvigionarsi direttamente di droghe da ridistribuire sui mercati italiani. L’approccio con le Indie Orientali non fu però feli-
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ce, perché nel 1857 a Sumatra – dove pure si era già recato nel
1838 un brigantino di Ingham al comando del capitano Vincenzo Di Bartolo – il suo veliero Clementina fu assalito dagli indigeni, che uccisero alcuni uomini dell’equipaggio.
L’attività armatoriale a vela attraversava allora a Palermo una
fase di notevole sviluppo, grazie alla possibilità – dopo l’istituzione nel 1789 del Seminario Nautico – di reperire in loco abili
capitani di mare e alle agevolazioni concesse dal governo alla bandiera nazionale. I velieri palermitani furono le prime imbarcazioni del Regno delle Due Sicilie a raggiungere gli Stati Uniti nel
1818 (l’Oreto dell’armatore Giovanni Riso al comando di Bonaventura Consiglio) e l’Estremo Oriente nel 1838. Ma anche se i
velieri continueranno ancora per parecchi decenni a correre i mari del mondo, il futuro della marineria era ormai affidato alle navi a vapore. E perciò, quando il governo liberalizzò la navigazione con battelli a vapore (maggio 1839), Vincenzo Florio fu tra i
promotori della nota Società dei battelli a vapore siciliani e poiché egli, dopo Ingham che ne assumeva la gerenza, era il maggiore azionista, fu chiamato a far parte del Consiglio d’amministrazione. La società acquistò in Inghilterra un piroscafo a vapore di 150 cavalli, il Palermo, e dal 1841 cominciò a utilizzarlo sulla rotta Palermo-Napoli. Ma prima ancora che essa si sciogliesse
in seguito agli avvenimenti del 1848, Florio si era già messo in
proprio, dando vita nel 1847 all’Impresa I. e V. Florio per la navigazione a vapore dei piroscafi siciliani. L’anno dopo egli acquistò dalla ditta Rostand di Marsiglia, di cui curava gli affari in
Sicilia, un piroscafo a vapore di 120 cavalli, che in omaggio alla
rivoluzione in corso chiamò Indépendent, e lo adibì – sotto bandiera francese, per proteggerlo dalla marina militare borbonica –
a viaggi periodici attorno alla Sicilia e a Malta. Ciò, tuttavia, non
comportò la smobilitazione del suo naviglio a vela, che anzi negli anni successivi fu potenziato con l’acquisto del bastimento
Adele di 130 tonnellate e della metà del brigantino Stefano. Nel
1851 – volendo ulteriormente allargare la sua rete di trasporti –
Florio fece costruire a Glasgow un secondo piroscafo in ferro di
circa 400 tonnellate e con una velocità oraria di 12 nodi, il Corriere Siciliano, capace di trasportare un centinaio di passeggeri
sulle linee Palermo-Messina-Catania-Siracusa e Palermo-NapoliCivitavecchia-Livorno-Genova-Marsiglia. Per fare poi cosa gra-
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Palermo
dita al governo e far dimenticare le sue ‘debolezze’ rivoluzionarie, nel 1853 cambiò nome all’Indépendent e lo chiamò Diligente, per ritornare a chiamarlo Indipendente dopo il 1860, a dimostrazione di un comportamento politico alquanto disinvolto.
In verità, se mai Florio ebbe qualche ‘debolezza’ per la rivoluzione siciliana del 1848, riuscì in tempo a prenderne le distanze, facendo parte (assieme a Pietro Riso e a Gabriele Chiaramonte Bordonaro) della municipalità reazionaria che impose la
fine della resistenza contro i Borboni e costrinse i capi del governo rivoluzionario a imbarcarsi per l’esilio. E perciò con la Restaurazione non ebbe alcuna noia dal governo borbonico. Anzi,
non solo mantenne la carica di vicepresidente della Camera Consultiva di Commercio di Palermo, assunta sotto il governo rivoluzionario, ma continuò a mantenere «amichevoli relazioni» con
il luogotenente generale in Sicilia, principe di Satriano, e nel settembre 1850 ottenne l’ambita nomina di governatore negoziante
del Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro, alla quale
sembra aspirasse sin dal 1843. Florio godeva inoltre della protezione del ministro degli Affari di Sicilia in Napoli, il milazzese
Giovanni Cassisi, che era stato a lungo a Palermo, in qualità di
vicepresidente della Corte Suprema di Giustizia, di procuratore
della Gran Corte Civile e infine di membro della Consulta di Sicilia, presso la quale era stato anche relatore del progetto di costituzione della Società dei battelli a vapore.
Nel 1856 Vincenzo Florio ottenne l’appalto del servizio postale, che tra l’altro gli consentì di acquistare le navi con dazi doganali ridotti e grazie al quale nel 1860 egli era l’unico armatore
siciliano di battelli a vapore, che collegavano mensilmente Palermo-Napoli-Marsiglia e Palermo-Trapani-Girgenti, quindicinalmente Palermo-Messina-Catania-Siracusa, settimanalmente Palermo-Napoli e Messina-Napoli. Si trattava di cinque piroscafi,
che diventarono quattordici dopo l’unificazione, quando il governo italiano gli riconfermò l’appalto dei servizi postali fra Napoli, la Sicilia e Malta1.
1
Per un quadro più dettagliato dell’attività armatoriale di Vincenzo Florio
e dei suoi successori, cfr. ora O. Cancila, Storia dell’industria in Sicilia, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 249 sgg.
II. L’Ottocento borbonico
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Oltre al Florio, a Ingham, a Giovanni e Pietro Riso, tra gli armatori meritano di essere ancora ricordati Gabriele e Antonio
Chiaramonte Bordonaro, Michele Pojero – che nel 1856 acquistò a New York un veliero di 474 tonnellate e nel 1858 era proprietario di un secondo veliero di 584 tonnellate – e Salvatore e
Luigi De Pace, i quali, già proprietari di bastimenti a vela, nel
1853 fondarono, in società con tale Schuster, la Società siculatransatlantica per collegare con battelli a vapore la Sicilia e l’America. Il loro vapore, la Sicilia (1.200 tonnellate con motore di
300 cavalli), fu il primo piroscafo dell’Europa meridionale a raggiungere New York, dopo un viaggio di 26 giorni. Purtroppo, in
occasione del suo trasferimento dall’Inghilterra, dove era stato
acquistato, aveva causato l’affondamento nel porto di Marsiglia
di un piroscafo napoletano, che coinvolse la società in una costosa lite conclusasi con il fallimento.
Per i palermitani il nome di Vincenzo Florio, oltre che all’attività armatoriale, è legato alla Fonderia Oretea, una fabbrica per
la fusione di ferro e bronzo impiantata nel 1841 in prossimità della foce dell’Oreto dai fratelli Sgroi, che dopo pochi mesi la cedettero a una società di cui egli era uno dei maggiori azionisti.
Trasferita nel 1844 al Borgo (presso l’attuale via Fonderia Oretea), era già in condizione di presentare alla Esposizione di Palermo di quell’anno una pressa idraulica di 212 atmosfere e nel
1846 una macchina a vapore, la prima costruita in Sicilia. Il suo
decollo fu però molto lento. Solo quando Florio intensificò l’attività armatoriale, per far fronte agli obblighi derivanti dall’appalto dei servizi postali, l’officina ebbe un rapido sviluppo, tanto che all’indomani dell’unificazione contava 136 dipendenti, che
la ponevano senza dubbio al primo posto tra le pochissime industrie della città.
Oltre all’Oretea, esisteva qualche altra fonderia, di cui negli
anni successivi si perdono le tracce. L’officina dei fratelli Orlando, esponenti di primo piano del movimento democratico palermitano, fabbricava motori per mulini e persino un cannone in legno per i rivoluzionari del 1848. Con la Restaurazione borbonica essi furono costretti a venderla e si trasferirono a Genova, dove impiantarono un grande cantiere, cui il governo piemontese
affidò la costruzione di motori per navi da guerra e cannoni; suc-
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Palermo
cessivamente gestirono e rilanciarono il cantiere di Livorno, dove costruirono la prima torpediniera italiana.
Nel complesso la situazione industriale era disastrosa, tanto
che Romualdo Trigona, principe di Sant’Elia, poteva paradossalmente asserire che l’industria della città consisteva soltanto nel
pregare il re di un impiego e Dio di un terno al lotto, mentre nel
1861 il console francese a Palermo, in un rapporto al suo governo, poteva liquidarla in pochissime righe:
La principale [industria] è sempre la molitura del sommacco [...].
Aggiungete qualche conceria, qualche telaio per tessere la seta, una
fabbrica di prodotti chimici e qualche fonderia, di cui una sola, quella dei Florio, importante, e avrete tutta la ricchezza industriale di Palermo.
L’attendibilità del giudizio è confermata dai dati sulla condizione professionale degli abitanti della città, rilevata nel censimento dello stesso anno, e da una indagine del Comune del ’65,
dalla quale risulta l’esistenza di oltre 800 esercizi artigianali e industriali, che però impiegavano appena 2.372 operai. In alcuni
settori la situazione era addirittura peggiorata rispetto ai decenni precedenti: non c’è più traccia, ad esempio, del vasto stabilimento per la tessitura del cotone impiantato a Palermo attorno
al 1830 dallo svizzero Giovanni Albrecht, che con i suoi 70 telai
dava lavoro a 150 dipendenti. La tessitura a domicilio alle dipendenze di capitalisti che fornivano la materia prima aveva avuto una notevole espansione, ma dopo la riforma doganale del
1846 che dimezzò i dazi di importazione era decaduta. In decadenza era anche l’industria dei tessuti di seta, che in verità a Palermo non aveva mai avuto un forte sviluppo, mentre era abortito sul nascere, negli anni Trenta, un tentativo di sperimentare la
tessitura del lino, perché l’elevato dazio di importazione sul filato ne rendeva assai costosa la lavorazione. Non abbiamo molti
dati sulla tradizionale industria della pesca e conservazione del
tonno che si esercitava lungo il litorale, ma non c’è dubbio che
la concorrenza del pesce salato del Nord Europa negli stessi mercati dell’isola ne condizionasse negativamente la produzione.
Per il resto, le poche attività industriali esistenti (fabbriche di
rozzi tessuti, di mobili, di carrozze, di carta, di cera, manifatture
II. L’Ottocento borbonico
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di cappelli, mulini per la macinazione del sommacco, ecc.), tranne eccezioni (la fabbrica di tessuti presso l’Albergo dei Poveri,
ad esempio), erano quasi sempre a conduzione familiare in minuscole officine, perché – siccome il governo borbonico accordava la sua protezione alle industrie della terraferma continentale – i grossi operatori palermitani che nel decennio preunitario
monopolizzavano la gestione degli enti pubblici di commercio e
di credito della città (Borsa di Cambio, Camera di Commercio,
Cassa di Sconto, Banco Regio), piuttosto che investire in attività
produttive, preferivano il campo degli appalti, le operazioni finanziarie, il commercio; oppure erano costretti a trasferirsi fuori
dell’isola. La mancanza di manodopera specializzata rendeva poi
oltremodo difficoltosa l’utilizzazione di nuove macchine. Allo
stato delle ricerche non sembra perciò ci fossero molti finanzieri
impegnati in attività industriali. Chi aveva i capitali preferiva destinarli ad altre attività, chi non li aveva trovava difficoltà a reperirli perché mancavano spirito di associazione e strutture creditizie: la Cassa di Corte, istituita nel 1843 e trasformata nel 1850 in
Banco Regio, si occupava esclusivamente di operazioni di deposito, mentre la Cassa di Sconto fu istituita solo alla fine del 1858.
Né appaiono più impegnati nel campo manifatturiero i settanta «negozianti» minori della piazza di Palermo, i quali se talora fungevano anche da agenti di cambio ed esportavano all’estero modeste partite di prodotti siciliani (zolfo, vino, agrumi,
sommacco), si occupavano essenzialmente della importazione di
merci, che distribuivano ad altri commercianti minori della città
e dei centri rurali dell’interno, oppure rivendevano al minuto in
propri magazzini di generi coloniali, di lanerie e seterie, di cotone, di ferro, di panni, ecc. È assai probabile che, come per il passato, anche nell’Ottocento borbonico l’approvvigionamento dei
principali generi alimentari fosse monopolio di una ristretta cerchia di commercianti, che rifornivano la rete di distribuzione cittadina e non rifuggivano da metodi che oggi chiameremmo mafiosi e di cui talora sembra di cogliere qualche eco. In ogni caso,
anche se a Palermo, per la particolare struttura sociale della sua
popolazione, il consumo medio pro capite era assai più elevato
che nel resto dell’isola, il basso livello complessivo dei consumi
dei siciliani non agevolava la crescita di un robusto ceto medio
di commercianti e nello stesso tempo rendeva difficile la vita ai
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Palermo
pochissimi operatori manifatturieri. Senza la possibilità di espandersi su mercati esteri – data la posizione geografica della Sicilia,
lontana da altre regioni – o di ottenere commesse statali – riservate agli operatori del continente –, le manifatture locali dipendevano esclusivamente dai consumi del mercato isolano, un mercato che – per la diffusa povertà dei ceti subalterni e gli alti prezzi dovuti anche alla notevole incidenza del costo dei trasporti per
la pressoché totale assenza di strade – non avrebbe mai potuto
assorbire la produzione di grossi opifici, che tra l’altro avrebbero dovuto fare i conti con l’ostilità dei commercianti stranieri. E
la situazione addirittura peggiorò in seguito alla diminuzione dei
dazi di immissione sui prodotti esteri (1846), che provocò la chiusura di parecchie manifatture, impossibilitate a sostenere la concorrenza della produzione straniera sul mercato isolano.
Nell’isola, e quindi a Palermo, mancavano perciò le condizioni per un rapido processo di industrializzazione, non tanto
forse per l’assenza di operatori intraprendenti, quanto per obbiettive difficoltà del mercato locale, frenato dal basso tenore di
vita che limitava alquanto la domanda. Non è senza significato
se le più grosse industrie esistenti in Sicilia, quelle del vino Marsala, erano state impiantate da stranieri che potevano smerciarne
la produzione sui mercati esteri, non su quello locale.
Una conferma della povertà del mercato interno isolano, che
bloccava lo sviluppo manifatturiero, ci viene dal saldo attivo della bilancia commerciale: dal 1833 al 1853 (non si conoscono i dati per il periodo successivo, tranne che per il 1857) la bilancia
commerciale della Sicilia, con l’eccezione del 1836, fu sempre in
attivo, e proprio negli ultimissimi anni le esportazioni superavano le importazioni di circa il 50 per cento, mentre nel 1857 addirittura di oltre il 100 per cento. Ciò significa che gli operatori
commerciali sapevano che non avrebbero mai smaltito sul mercato isolano merci per lo stesso valore di quelle esportate. Il saldo attivo avrebbe dovuto determinare un flusso di valuta pregiata
in direzione dell’isola, ma non sempre ciò si verificava, perché gli
imprenditori avevano già trovato il sistema di lasciare o trasferire all’estero i capitali. L’anglo-palermitano Beniamino Ingham, ad
esempio, quando non riusciva a investire grosse somme in Europa (Inghilterra, Parigi, Olanda, ecc.), piuttosto che far venire a
Palermo, dove pur viveva, i profitti delle sue operazioni com-
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merciali, preferiva trasferirli da Londra a New York, per investirli, assieme a quelli provenienti dalla vendita del marsala sul
mercato americano, nell’acquisto di aree edificabili, di terreni
agricoli, di azioni di grosse società, sino a realizzare negli Stati
Uniti un patrimonio di oltre sei milioni e mezzo di dollari. E
quand’anche i profitti del commercio internazionale giungevano
a Palermo, i capitalisti locali – piuttosto che impiegarli in attività
produttive di beni dal difficile o impossibile consumo – preferivano destinarne fette consistenti alla costruzione o all’acquisto di
lussuosi palazzi che la nobiltà in crisi era costretta ad alienare.
Così, i Chiaramonte Bordonaro acquistarono il palazzo che si affaccia sui Quattro Canti, con ingresso da piazza Pretoria, e la bella villa ai Colli del marchese di Geraci; i Riso acquistarono nel
1841 lo splendido palazzo del principe di Belmonte, sulla via Toledo e piazza Bologni, costruito alla fine del Settecento su progetto di Venanzio Marvuglia; Vincenzo Florio acquistò nel 1839
la villa ai Colli già del principe di Larderia, nel 1840-1844 costruì
una villa all’Arenella, su progetto di Carlo Giachery, e più tardi
(1868-1870) il figlio Ignazio acquistò all’Olivuzza la bellissima
Villa Butera-Branciforte, che nel 1845-1846 aveva ospitato i reali di Russia e che rimase sino alla fine della prima guerra mondiale la residenza della famiglia; Ingham nel 1856 acquistò dal
principe di Radalì un appezzamento di terreno, su cui forse già
esisteva un edificio che egli avrebbe trasformato nel grande palazzo che con successive modifiche è diventato l’attuale Hôtel des
Palmes.
L’aristocrazia del capitale pietrificava così i profitti del commercio internazionale, come aveva fatto in precedenza, per secoli, l’aristocrazia baronale con i profitti dell’esportazione granaria. E, sull’esempio dei mercanti dell’età moderna, anch’essa
cominciò a investirne una parte consistente nell’acquisto di latifondi, che continuò a gestire con sistemi tipicamente feudali: Ingham, ad esempio, acquistò Manchi e Scala presso Marianopoli
e diventò barone; Giovanni Riso la grande ex baronia di Murgo
(1836); Gabriele Chiaramonte Bordonaro l’ex Stato feudale di
Canicattì (1819) e il nipote ed erede Antonio le ex baronie di Falconara e di Radalì (1856); l’armatore Salvatore De Pace parecchi
ex feudi sparsi un po’ in tutta l’isola.
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Palermo
5. Gli intellettuali
Anche se le tendenze conservatrici della società si riflettevano inevitabilmente sulla cultura palermitana, questa però non era
toccata dalla crisi della città, tanto che nel quarto e quinto decennio del secolo raggiunse livelli tra i più alti dell’Ottocento, sia
per l’importanza dei temi affrontati che per la qualità degli intellettuali che animavano il dibattito, spesso in stretto collegamento con le grandi correnti culturali del tempo. Rilevava con
ironia il Calà Ulloa: «Alcuni tapini scrittori sognano di essere in
Londra o in Filadelfia. Son la più parte giovani avidi di popolarità che fanno in tutto entrar le illusioni di indipendenza. Ne parlerebbero commentando l’Apocalisse».
Gli intellettuali palermitani non rimanevano chiusi o ‘sequestrati’ nell’isola, se mai lo erano stati talora nei secoli precedenti, ma erano legati da una assidua corrispondenza con i loro colleghi italiani e stranieri, parecchi dei quali conoscevano personalmente per averli incontrati a Palermo o fuori dell’isola. Qualcuno di essi aveva anche studiato nel continente italiano, come il
principe di Galati, Giuseppe De Spucches, poeta e filologo; qualche altro addirittura all’estero, come il principe di Scordia, Pietro Lanza, che era stato alla Sorbona, o come il fisiologo Michele Foderà, «repubblicano socialista», che si era laureato a Parigi.
Per ragioni di salute, negli anni Trenta viveva a Palermo uno dei
più validi seguaci di Carlo Fourier, Benoît Jules Mure, il quale,
oltre a fondare con un gruppo di medici locali la rivista «Annali di medicina omiopatica», diede vita a un movimento fourierista con un proprio organo di stampa, «L’Attrazione», al quale
aderirono tra gli altri l’astronomo Cacciatore, il medico Paolo
Morello e lo studente Saverio Friscia. La cultura palermitana era
perciò assai più sprovincializzata di quanto oggi possa pensarsi e
molto interessata a tutto ciò che si pubblicava altrove, anche se
spesso era costretta ad aggirare il controllo della censura borbonica, che non consentiva il libero ingresso della stampa della penisola e controllava la corrispondenza privata. A Palermo si ristampavano le opere dei più importanti autori italiani (Parini, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Pellico, Berchet, Botta, Cantù,
Prati, D’Azeglio, Niccolini, Romagnosi, ecc.), si traducevano autori stranieri (Thiers, Byron, Shakespeare, Scott, Pope, Sue, Du-
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mas, De Musset, ecc.) e si recensivano sulle numerose riviste, dalla vita spesso breve ma intensa.
La mancata adesione al movimento romantico e all’idealismo
italiano e la fedeltà al classicismo e alla vecchia metafisica razionalistica costituivano una scelta nel solco della tradizione culturale dell’isola, diciamo pure conservatrice, che però a livello nazionale trovava autorevoli rappresentanti in Ugo Foscolo, Pietro
Giordani, Giambattista Niccolini. In quest’ultimo, che esercitava notevole influenza sulla cultura palermitana, si apprezzavano
il robusto impegno civile, la concezione dell’arte a servizio della
patria, la battaglia contro il dispotismo e la teocrazia, l’esponente più rappresentativo del neoghibellinismo italiano. Conseguentemente, aveva scarso successo il neoguelfismo del Gioberti, diversamente dal suo ontologismo, che ebbe a Palermo parecchi
seguaci, tra cui Benedetto D’Acquisto, poi arcivescovo di Monreale, il giovanissimo Nicolò Garzilli, fucilato dopo la fallita insurrezione del 1850 a piazza Fieravecchia, il gesuita padre Giuseppe Romano e padre Luigi Taparelli D’Azeglio, allora a Palermo. Il Romano e il Taparelli provenivano dall’eclettismo del Cousin, che sino al 1840 fu la filosofia dominante nell’isola, rappresentata a Palermo soprattutto da Salvatore Mancino, autore dell’opera Elementi di filosofia, molto apprezzata dallo stesso
Cousin. Anche se il Cousin era un ripetitore superficiale di Hegel, grazie all’eclettismo si diffuse la nuova concezione della storia intesa come svolgimento e progresso, che era alla base del
pensiero europeo contemporaneo e che a Palermo trovava proseliti soprattutto nel principe Pietro Lanza, autore delle Considerazioni sulla storia di Sicilia dal 1532 al 1789 (Palermo, 1836)
e di un saggio sulla Histoire du Consulat et de l’Empire del Thiers,
e in Francesco Paolo Perez (Idea del perfetto civile, in «Giornale di statistica», 1840).
Alla diffusione dello storicismo contribuì anche lo studio del
Vico a iniziativa di un gruppo di intellettuali, tra cui Emerico
Amari, Benedetto Castiglia, Perez. L’Amari, che il Croce considerò «uno dei più acuti interpreti» del filosofo napoletano, collaborava al «Giornale di statistica» e preparava la sua Critica d’una scienza delle legislazioni comparate, che fu poi pubblicata a
Genova nel 1857, durante l’esilio; Benedetto Castiglia dirigeva la
rivista «La Ruota», l’organo di stampa più autorevole degli anti-
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Palermo
romantici palermitani, e successivamente «L’Osservatore». Entrambi erano molto critici nei confronti dell’eclettismo, cui preferivano la filosofia del Romagnosi, che aveva a Palermo numerosi cultori, tra cui Vito D’Ondes Reggio, Francesco Ferrara, Raffaele Busacca, il principe Pietro Lanza e tutti i liberisti che si riunivano nel circolo intitolato appunto al Romagnosi (il circolo dei
protezionisti era intitolato al Gioia).
Il problema della libertà di commercio, il cabotaggio fra Napoli e la Sicilia, lo sviluppo dell’agricoltura, l’industrializzazione
furono in Sicilia al centro di un ampio e articolato dibattito, cui
parteciparono a Palermo Nicolò Palmeri, Emerico Amari, Raffaele Busacca, Francesco Ferrara, il barone Ferdinando Malvica,
Ignazio Sanfilippo, Vincenzo Mortillaro, Pietro Lanza, Giovanni
Bruno e altri. Non è possibile dar conto in questa sede delle singole posizioni, ma è doveroso rilevare che al prestigio della scuola economica siciliana Palermo contribuì in maniera determinante con i suoi intellettuali, primo fra tutti Francesco Ferrara,
uno dei maggiori economisti del tempo, che fu poi docente di
economia politica nelle Università di Torino e di Pisa, ministro
delle Finanze nel 1867, direttore della Scuola superiore di Commercio di Venezia; e che nei liberisti c’erano la consapevolezza
che l’economia fosse una nuova fase del bisogno di libertà e la
convinzione di poter pervenire alla libertà politica attraverso lo
studio della scienza economica.
Il panorama letterario era dominato dalla polemica classicoromantica, che vide l’appassionata partecipazione di numerosi intellettuali. Il classicismo, che aveva a Palermo un’antica tradizione, si ispirava al culto di Dante, Parini, Alfieri, Foscolo, considerati i più grandi poeti di tutti i tempi ed esaltati per il loro impegno civile e politico a favore della libertà nazionale.
Mentre – ricorderà alcuni decenni dopo Francesco Paolo Perez –
sul continente italiano imperava (salvo due grandi eccezioni) il romanticismo manzoniano e l’Apollo tonsurato, come lo disse l’arguta
musa del Giusti, qui pochi giovanetti, de’ quali, forse per la maggior
giovinezza ed audacia, ebbi l’onore di essere a capo, idolatrando la
obliata e calunniata scuola di Alfieri, Parini, Foscolo e di quanti avevano volto la poesia e le lettere a possente istrumento di libertà nazionale, presero a combattere, non senza pericolo e danno, una guer-
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ra che, sotto le letterarie apparenze, celava altissimi fini politici. Cominciarono, da un lato, a screditare e deridere le vuotezze frugoniane che echeggiavano ancor fra noi; e dall’altro con santa ira di patriotti italiani le insulse nenie degli inni sacri e della letteratura rassegnata ed eunuca, che (salvo le due accennate eccezioni) imperava sovrana sul continente.
Per i classicisti palermitani – tra cui, oltre al Perez, sono da
ricordare Benedetto e Giovan Battista Castiglia, Vincenzo Errante, il principe di Galati, Giuseppe Bozzo, Ferdinando Malvica, Agostino Gallo – la difesa dei classici greci e latini e di «coloro ch’ebbero vita e splendettero in questa terra d’Italia» si trasformava assai spesso in feroce polemica contro la «vergogna romantica» e i «vili imitatori dei germani, dei galli e dei caledoni»,
polemica che non risparmiava neppure il Manzoni. In verità, i romantici palermitani, che ebbero per qualche anno ospitalità tra
le pagine dell’«Oreteo», la rivista fondata e diretta dal giovanissimo Francesco Crispi, non intesero mai rompere con la tradizione culturale italiana, anzi consideravano il loro movimento come espressione di italianità. Del romanticismo accettavano soprattutto la concezione dell’arte come strumento di educazione
nazionale e ne esaltavano la funzione educativa e civile, il messaggio umano più che l’attenzione alla struttura formale. Avevano poi coscienza della diversità del movimento italiano rispetto
al romanticismo europeo, che non esitavano a definire «la gallica peste e la nordica».
Il vivissimo sentimento di italianità presente nei due schieramenti si trasformava in partecipazione attiva della cultura palermitana ai valori che informavano il Risorgimento nazionale. E
quando la comune aspirazione alla libertà e all’indipendenza
sembrò potersi realizzare, gli intellettuali palermitani, al di là delle diverse posizioni culturali, furono, con pochissime eccezioni
(Malvica, Bozzo e qualche altro), uniti nella lotta al regime borbonico.
La figura più rappresentativa del classicismo palermitano fu
senza dubbio Giuseppe De Spucches, principe di Galati, che a
Lucca aveva avuto come maestro il Fornaciari. Le sue liriche di
fattura classica, ma di argomento contemporaneo, furono molto
apprezzate per il patriottismo che le ispirava, mentre un suo poe-
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Palermo
ma in terzine del 1853 (Adele di Borgogna o la caduta di Berengario) fu lodato dal Carducci. Le doti di poeta e l’eccezionale cultura classica diedero risultati felicissimi nella traduzione dell’Edipo re di Sofocle e dell’Elena di Euripide, ma sono da ricordare anche le traduzioni di Bione e Mosco e dell’orazione di Isocrate per gli esuli di Platea. Presidente dell’Accademia di scienze, lettere e arti e anche della Commissione di antichità e belle
arti, curò campagne di scavi a Segesta e a Solunto. Deputato al
Parlamento rivoluzionario del 1848-1849, fu anche, dal 1856 al
1860, l’ultimo pretore borbonico della città e successivamente
deputato al Parlamento nazionale nella X legislatura. Sposò Giuseppina Turrisi Colonna, una poetessa scomparsa pochi mesi dopo le nozze (1848), fervente ammiratrice di Byron, cui dedicò parecchi componimenti, e autrice di liriche nelle quali, conciliando
classicismo e romanticismo, cantava gli affetti domestici, la natura, l’amore, la patria, con accenti soavi e sinceri e chiarezza d’espressione.
Maestro della Turrisi Colonna e autorevole rappresentante del
classicismo locale fu il già ricordato Francesco Paolo Perez, autore nel 1833 di un carme in morte di Ugo Foscolo, in cui si sofferma sulle infelici condizioni dell’Italia dopo il fallimento dei
moti del 1831. Carattere patriottico ebbero il carme Per la morte di V. Bellini e altre liriche successive, che fanno del Perez uno
dei padri spirituali della rivoluzione del 1848, di cui fu anche protagonista. Partecipò a Torino al Congresso federativo organizzato dal Gioberti e alla formulazione dell’atto federale. Costretto
in esilio a Genova e a Firenze, dopo il 1860 fu sindaco della città
e ministro dei Lavori Pubblici con Depretis e dell’Istruzione con
Cairoli.
Altro allievo del Perez fu Paolo Emiliani Giudici, che sino al
1843 visse a Palermo, dove scrisse la Storia delle belle lettere in
Italia, pubblicata l’anno appresso a Firenze, dove si era trasferito dopo aver deposto l’abito talare. L’opera fu salutata in Italia
da un coro di elogi, perché rappresentava un decisivo superamento delle vecchie storie letterarie del Quadrio, del Tiraboschi
e del Bettinelli. In linea con i classicisti palermitani, l’Emiliani
Giudici si scagliava contro il Manzoni e la scuola romantica e si
richiamava alla tradizione classica e ai suoi interpreti più significativi. E tuttavia, è opinione ormai autorevolmente accreditata
II. L’Ottocento borbonico
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che, nonostante il professato classicismo dell’autore, nella sua critica ci fosse molto di romantico.
In campo storiografico, la cultura palermitana riusciva a esprimere con Michele Amari, allievo di Domenico Scinà, uno storico di risonanza europea, perché – come osservò il Croce – La
guerra del Vespro siciliano «non solo fu forse la prima opera che
allora apparisse degna di esser collocata accanto alle straniere per
uso di documenti originali e severa critica delle fonti, ma [...] segna assai bene il passaggio dalla storiografia di tendenza alla storiografia scientifica, e la vittoria che in un medesimo individuo
questa ottiene sull’altra, per virtù d’ingegno scientificamente disposto». L’opera, pubblicata nel 1842, per le motivazioni politiche che la ispiravano costrinse l’autore – destituito dall’impiego
di funzionario statale – a fuggire in esilio a Parigi, dove cominciò a lavorare alla monumentale Storia dei Musulmani di Sicilia,
che, frutto di lunghe ricerche e di non comune competenza filologica, vide la luce tra il 1854 e il 1872 e resta ancor oggi un’opera insostituibile e per diversi aspetti insuperata. L’Amari ritornò in Sicilia nel 1848 e fu ministro nel governo rivoluzionario. Rifugiatosi nuovamente a Parigi con la Restaurazione borbonica, insegnò successivamente lingua e storia araba a Firenze
e negli anni 1862-1864 fu ministro della Pubblica Istruzione.
Tra gli intellettuali e gli uomini di cultura del tempo meritano di essere ricordati il neuropatologo barone Pietro Pisani, sotto la cui direzione la Real Casa dei Matti, sorta nel 1824, si impose come uno dei migliori manicomi europei; il naturalista Pietro Calcara; il critico letterario Gaetano Daita; l’economista Giuseppe Inzenga, e altri cui si accennerà in seguito. La vitalità della cultura palermitana non venne meno neppure dopo che la violenta epidemia colerica del 1837 la privò improvvisamente di
personaggi quali Domenico Scinà (letterato, storico, naturalista),
lo storico ed economista Nicolò Palmeri, l’economista Antonino
Della Rovere, il naturalista Antonino Bivona Bernardi, lo stesso
Pisani, il pittore Vincenzo Riolo, l’erudito Luigi Garofalo, il medico Giuseppe Tranchina e molti altri ancora. Anzi, gli anni migliori sono proprio il decennio che precedette il 1848. La massiccia partecipazione di intellettuali agli avvenimenti rivoluzionari costrinse però, con la Restaurazione borbonica, molti di es-
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Palermo
si a rifugiarsi in esilio, con conseguenze pesantissime per la cultura palermitana, che ne uscì notevolmente depauperata.
Il peso degli intellettuali ecclesiastici era ancora rilevante, grazie alla presenza di uomini come il filosofo Benedetto d’Acquisto, monsignor Giuseppe Crispi, Alessio Narbone, il canonico
Pietro Sanfilippo, autore di una storia della letteratura italiana
che suscitò vivaci critiche per alcune sue tesi. Ma già essi erano
costretti a fare largo spazio agli intellettuali di estrazione borghese, che ormai gestivano anche le istituzioni scientifiche un
tempo riservate agli esponenti più illuminati del ceto baronale.
Si trattava di accademie e associazioni che svolgevano una notevole attività e alimentavano un proficuo dibattito culturale, attraverso riunioni periodiche, pubblicazioni di atti e memorie, collegamenti con analoghe istituzioni italiane e straniere, contribuendo in maniera determinante alla circolazione delle idee e alla diffusione del pensiero.
Come le varie logge massoniche, già largamente diffuse nel
1848, le istituzioni culturali costituivano importanti punti di contatto tra aristocrazia e intellettuali borghesi. Alcune erano dotate anche di biblioteche, ma si trattava di poche centinaia di volumi. Il grosso del patrimonio librario della città era costituito da
donazioni a favore della Biblioteca Comunale fondata nel 1760
(100.000 volumi) e della Biblioteca dell’ex Collegio gesuitico
(42.000 volumi), che dopo il 1860 acquisirà buona parte dei volumi della Biblioteca del monastero di S. Martino delle Scale e si
trasformerà nella Biblioteca Nazionale (attuale Biblioteca Centrale della Regione Siciliana). Complessivamente, con i volumi del
monastero di S. Martino, nelle biblioteche pubbliche esisteva un
patrimonio librario che nel 1859 veniva valutato in 215.800 volumi, oltre i 100.000 delle biblioteche private, le più ricche delle
quali erano quelle del duca di Terranova e del canonico Rossi.
Il tipografo Antonio Frasconà, il libraio Decio Sandron e i tipografi-librai Pedone Lauriel avevano istituito nel 1858-1859 biblioteche circolanti, immediatamente soppresse per lo scarso successo riportato. I fratelli Pedone Lauriel (il secondo cognome indica la discendenza materna da Guglielmo Lauriel, un commesso-contabile francese presente a Palermo nel 1787), che erano anche prestigiosi editori di volumi stampati nella loro tipografia di
Salita de’ Benfratelli, erano proprietari di due librerie in via To-
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ledo e in via Maqueda, dove tra i diecimila volumi disponibili era
possibile trovare opere straniere, che venivano anche distribuite
in altre zone dell’isola. Libri stranieri importava anche la Librairie italienne et étrangère di via Toledo, di proprietà del Sandron,
un veneto giunto a Palermo nel 1839, che aveva un’altra libreria
(Emporio librario) in piazza Marina. Librai stranieri erano sicuramente il Beuf e il Nantier, entrambi nel 1854 con negozi in via
Toledo, non più in attività nel 1859.
Delle 13 librerie del 1859, tranne quelle dei Pedone Lauriel,
del Sandron e le due di Giuseppe e Gioacchino Biondo, con un
patrimonio librario di circa 25.000 volumi, le altre si occupavano soprattutto di libri usati. Troppo poco per una città che ormai stava per toccare i 200.000 abitanti, ma, grazie all’iniziativa
di librai forestieri trasferitisi a Palermo, il progresso era notevole rispetto a mezzo secolo prima, quando esistevano appena due
librerie e poche squallide e luride botteghe di libri usati, frequentate soltanto da antiquari e insetti parassiti. Ed è probabile
che anche a forestieri – e tali sembrano il Truden, il Lorsnaider,
il Clamis e il Lao – si debba la ripresa dell’industria tipografica
a Palermo, che nel 1859 contava 43 stabilimenti che davano lavoro a 350 addetti.
Le tipografie lavoravano soprattutto per l’amministrazione
pubblica: nel solo 1859 si stamparono, ad esempio, 223 memorie legali, che costituiscono una testimonianza della vastità di interessi che ruotavano attorno alla presenza dei tribunali nella
città. E tuttavia, a dimostrazione di una vita culturale in ripresa
negli ultimissimi anni del regime borbonico, nello stesso anno esse stamparono anche 89 opuscoli e ben 90 opere. Sempre nel
1859 si pubblicavano in città circa 30 periodici, di cui 27 stampati a Palermo. Il «Giornale Officiale di Sicilia», l’unico quotidiano cittadino, era la voce del governo e si stampava in circa
1.200 copie. Riportava soprattutto atti ufficiali (proclami, ordinanze, decreti, regolamenti), avvisi vari sull’itinerario delle vetture postali, sulla borsa e sugli spettacoli teatrali, oltre a brani di
articoli di politica estera opportunamente selezionati dalla stampa italiana ed europea. Le notizie di politica interna molto spesso si riducevano all’esaltazione dell’operato della polizia nell’azione di recupero di animali rubati. Insomma, un giornale di una
vacuità che scandalizzava i viaggiatori stranieri a Palermo. Tra i
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Palermo
periodici, il settimanale «Gazzetta di Palermo» diretto da Salvatore Abbate e Migliore era dichiaratamente borbonico, mentre
di tendenze liberali e antiborboniche erano il settimanale «Il
mondo culto» e «Il commercio», un periodico che fece del liberismo il suo cavallo di battaglia contro il protezionismo borbonico, promuovendo un ampio dibattito sui problemi più scottanti
dell’economia siciliana nel decennio preunitario (strade ferrate,
associazionismo, istituzione di casse di risparmio, sviluppo industriale, ecc.). Gli altri periodici erano soprattutto organi di associazioni scientifiche e professionali, sovvenzionati talora dal governo: e tuttavia, nelle loro pagine, si avverte spesso la coscienza
politica che animava l’opposizione al regime borbonico.
Come qualsiasi manifestazione intellettuale, la stampa non era
libera ma soggetta a censura, che era però scarsamente efficiente, perché non esisteva un apposito ufficio: la censura sulla stampa periodica era affidata al professor Bozzo dell’Università, che
la esercitava in modo piuttosto blando; quella dei libri ai redattori del «Giornale Officiale di Sicilia» o a persone di fiducia della polizia ritenute competenti.
6. L’Università e la borghesia professionale
Dal dibattito culturale rimaneva pressoché assente l’Università, che godeva di scarsissimo prestigio sia in città che fuori, ed
era nota per l’assenteismo di professori e studenti. Il governo, in
verità, aveva cercato di potenziarla con l’istituzione di nuove cattedre, ma i suoi docenti – tra i quali il numero degli ecclesiastici
si era mantenuto costante (12 nel 1800, 12 nel 1859), mentre il
numero dei laici era considerevolmente cresciuto (17 nel 1800,
44 nel 1859) – spesso non rappresentavano la parte migliore della cultura locale. Filippo Parlatore, uno dei più noti botanici del
tempo, insegnava all’Università di Firenze, dopo aver insegnato
da incaricato in quella palermitana. Nel 1844, il concorso per la
cattedra di economia civile e commercio nella facoltà di giurisprudenza si era svolto in un clima di intrighi a danno di Raffaele
Busacca, uno dei protagonisti del dibattito economico-politico, e
forse anche di Francesco Ferrara. Vinse un giovanissimo semisconosciuto, Giovanni Bruno: liberista intransigente e benemeri-
II. L’Ottocento borbonico
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to sostenitore della necessità dell’istituzione di casse di risparmio,
sarà anche docente apprezzato, ma dal pensiero scarsamente originale e mutuato spesso proprio dal Ferrara e da altri economisti. Michele Foderà, docente di fisiologia, per le sue idee rivoluzionarie era stato costretto a rifugiarsi in Francia, da dove ritornò
nel 1848 per morire misteriosamente avvelenato. Costretti all’esilio dopo il 1849, Francesco Ferrara insegnava economia nell’Università di Torino e Stanislao Cannizzaro, non ancora chimico di fama internazionale, nell’Università di Genova, dove insegnava diritto anche Vito D’Ondes Reggio. In esilio si trovavano
anche Francesco Paolo Perez e Paolo Emiliani Giudici, i quali,
nel 1859, insegnavano a Firenze, il primo lingua e letteratura italiana nell’Istituto di perfezionamento e il secondo estetica all’Istituto di Belle Arti. E di contro, nella facoltà di lettere di Palermo insegnava eloquenza e letteratura italiana Giuseppe Bozzo,
che – più che come critico letterario – oggi ricordiamo perché,
come regio censore per le opere teatrali, si comportava con moderazione e senza eccessivo rigore. Era stato preferito nella cattedra a Gaetano Daita, antiborbonico e critico più moderno, costretto a insegnare in un istituto privato da lui fondato nel 1851,
che presto diventò il più apprezzato della città e fucina di giovani liberali.
Come la cultura, anche l’Ateneo pagava il suo tributo all’emigrazione politica dopo i fatti del 1848-1849: tra i fuoriusciti del
’49 c’erano alcuni dei migliori docenti, come Emerico Amari,
professore di procedura penale nella facoltà di giurisprudenza;
Gregorio Ugdulena, professore di lingua ebraica e spiegazione
della sacra scrittura nella facoltà di teologia; Michele Amari, a cui
il governo rivoluzionario aveva affidato la cattedra di diritto pubblico siciliano che era stata soppressa dopo la morte del Gregorio. Altri docenti dell’Ateneo – come Gaetano Cacciatore, figlio
del più celebre Nicolò, che insegnava astronomia nella facoltà di
scienze – erano stati allontanati dopo il ritorno dei Borboni.
Contribuivano ancora allo scarso prestigio dell’Università i
modesti stipendi assegnati ai docenti, i quali non esitavano ad abbandonarla per professioni più lucrose. Ma sarebbe ingeneroso
non ricordare altri valorosi docenti, già affermati o all’inizio della loro attività: Pietro Sampolo, fratello del più noto Luigi e docente di codice civile e pandette; Giovanni Gorgone di San Pie-
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Palermo
ro Patti, chirurgo abilissimo, e Mariano Pantaleo di Nicosia, uno
dei maggiori ostetrici del suo tempo, i quali fondarono a Palermo la clinica chirurgica e la clinica ostetrica; monsignor Giuseppe Crispi, docente di lingua e letteratura greca; il già ricordato
Benedetto D’Acquisto, filosofo; Carlo Giachery, padovano, trasferitosi giovanissimo a Palermo con la famiglia che gestiva l’Hôtel de France (1821), professore di architettura civile nella facoltà
di scienze – dove ebbe come allievo Giovambattista Filippo Basile – e il più noto architetto della città, cui si debbono tra l’altro la costruzione del nuovo carcere dell’Ucciardone (1840), la
Villa Florio all’Arenella (1844), la ristrutturazione del Teatro di
S. Cecilia e la facciata e il vestibolo dell’Università (attuale sede
della facoltà di giurisprudenza).
Pur con le sue carenze – aggravate dal rigido controllo delle
autorità di polizia su docenti e studenti – l’Ateneo palermitano,
per il solo fatto di esistere, costituiva comunque un importante
punto di riferimento che nei secoli precedenti era mancato agli
studenti della Sicilia centro-occidentale, e inoltre – rilasciando,
assieme alle tradizionali lauree in lettere e filosofia e in teologia,
le lauree in giurisprudenza e in medicina, i cui esami sino al 1805
si svolgevano a Catania, e successivamente anche quella in scienze fisiche e matematiche, con possibilità di esercitare le professioni di farmacista, architetto e agrimensore – consentiva l’accesso alle professioni liberali a nuovi strati sociali cui sarebbe stato impossibile il proseguimento degli studi in altre città.
Il numero medio degli studenti, che tra il Sette e l’Ottocento
era di 277 iscritti l’anno, toccò la punta massima di 784 nel decennio 1826-1835, con un incremento che è di gran lunga superiore al contemporaneo aumento demografico verificatosi nell’isola e a Palermo. Dopo la rivoluzione del 1848-1849, per qualche anno le iscrizioni si mantennero su livelli molto bassi, a causa di una nuova disposizione del governo che regolava l’accesso
all’università sulla base della provenienza e residenza degli studenti: si intendeva ridurre l’affollamento della sede di Palermo
per evitare una massiccia partecipazione studentesca a nuove
esplosioni rivoluzionarie. La ripresa però fu rapida e nel 1859 fu
toccata la punta massima di 1.024 iscritti. Poco più del 25 per
cento degli studenti erano palermitani e altrettanti ne venivano
II. L’Ottocento borbonico
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dai comuni della provincia; il resto proveniva soprattutto dai comuni delle due province di Girgenti e di Trapani.
Nel 1859 Federico Lancia di Brolo attribuiva la modesta presenza di palermitani tra gli iscritti alle diverse facoltà dell’Ateneo
all’«appetito precoce della buromania», che distoglieva i giovani
più intelligenti dallo studio universitario. La «buromania» avvinceva anche i provinciali inurbati, i quali, insofferenti «del vivere villereccio», alle «libere, quete e private o burgensatiche faccende amano anteporre un aringo cittadinesco, nel quale o saran
dalla corsa smagati o dai futili palii disillusi e sgannati». Mentre
però nella corsa all’impiego i giovani palermitani non avevano necessità di conseguire la laurea, perché potevano contare sull’appoggio della famiglia e su una migliore preparazione conseguita
in scuole private, i provinciali puntavano tutto sul titolo universitario come mezzo efficace di elevazione sociale, cosicché proprio le zone più povere della Sicilia occidentale, i paesi dell’agrigentino, fornivano all’Ateneo palermitano un numero più elevato di studenti rispetto a zone più ricche, più popolose e meglio
collegate con Palermo come la provincia di Trapani, dove l’ascesa sociale non doveva necessariamente passare attraverso l’impiego.
Anche se non era più la sede del Parlamento e non vi risiedeva più il viceré, sostituito dal luogotenente, Palermo continuava a essere tra le città siciliane quella che offriva le maggiori
possibilità di impiego, grazie alla presenza dei più alti uffici amministrativi e delle più importanti magistrature dell’isola, al cui
mantenimento era destinata una parte rilevante delle entrate fiscali. E se è vero che dopo il 1837, a causa della modifica della
norma che riservava gli impieghi nella pubblica amministrazione
soltanto ai siciliani, i posti di maggiore prestigio vennero affidati a napoletani – il che contribuì ad aumentare l’odio degli isolani nei confronti del governo –, con la Restaurazione borbonica
del ’49 la norma fu ripristinata. Nel 1854, l’amministrazione pubblica e i 378 enti di beneficenza davano lavoro a oltre 100 magistrati, 59 funzionari, 4.311 impiegati, 138 uscieri, più di 600 tra
avvocati e patrocinatori, che erano i maggiori beneficiari di quella che poi fu chiamata vita fittizia della città. A Palermo, inoltre,
esistevano ben 72 monasteri tra i più ricchi dell’isola, che – secondo Emerico Amari – davano lavoro stabile a oltre 2.000 ca-
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Palermo
pifamiglia, senza contare i tanti operai e artigiani che vi trovavano occupazione saltuaria. Gli stipendi però erano molto modesti
e perciò, come i nobili e i piccoli imprenditori, anche gli impiegati della pubblica amministrazione cadevano spesso nelle braccia di avidi usurai, disposti a fornire anticipazioni ad alto interesse, cosicché «a condizioni sì gravi ed onerose un primo prestito rende necessario il secondo e questo un terzo e così di seguito, dacché l’impiegato spogliato nei suoi averi è pur necessario che viva e quindi è mestieri che ricorra necessariamente a colui che già se ne è impossessato in isconto delle precedenti
anticipazioni».
La borghesia palermitana perciò non era tanto costituita da
imprenditori e commercianti, quanto da burocrati, impiegati, avvocati, professionisti, che soddisfacevano l’elevata domanda di
servizi nel settore pubblico e privato. Si trattava di un ceto medio in continua espansione, che cercava faticosamente di costruirsi un suo ruolo autonomo nella società locale. Ma per quanto agevolato dall’atteggiamento di maggiore fermezza dello Stato nei confronti del vecchio ceto dirigente aristocratico e animato da una maggiore consapevolezza dell’importanza della propria
professionalità, esso non poteva, in pochi decenni, frantumare le
stratificazioni plurisecolari della vecchia struttura sociale, che
continuava a condizionare pesantemente la vita della città. Condizionamento al quale non riuscivano a sottrarsi neppure i funzionari napoletani, perché la nobiltà – se pur aveva perduto il potere legale – continuava a mantenere un prestigio plurisecolare
con il quale l’amministrazione statale e il ceto medio professionale erano quotidianamente costretti a fare i conti.
Anche se non mancavano coloro che preferivano le università
della penisola (ancora a fine Ottocento, per gli studi di medicina, chi ne aveva la possibilità frequentava a Napoli), non c’è dubbio che la borghesia professionale del periodo immediatamente
preunitario, soprattutto nelle generazioni più giovani, si fosse formata quasi esclusivamente nell’Ateneo cittadino. Gli studenti di
giurisprudenza costituivano quasi il 50 per cento degli iscritti,
mentre a Catania non arrivavano al 40 e a Messina al 25, a conferma delle maggiori possibilità di lavoro che con i suoi tribunali la città offriva agli avvocati, notevolmente cresciute nella prima metà del secolo, a causa del vasto contenzioso sorto in di-
II. L’Ottocento borbonico
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pendenza dell’abolizione della feudalità e dei successivi provvedimenti di assegnazione forzosa di beni ai creditori soggiogatari
e di scioglimento dei diritti promiscui. Si giustifica così l’elevato
numero di avvocati che nel 1854 esercitavano a Palermo e che,
malgrado le carenze della loro formazione professionale, avevano già acquistato un peso sociale rilevante e una coscienza di taluni valori civili e politici che spesso era mancata ai loro colleghi
del secolo precedente. Ancora alla fine del Settecento, il viceré
Caracciolo aveva rilevato con amarezza come lo Stato, per la sua
politica di riforme, non potesse contare sul ceto forense, dipendente dal baronaggio che era contrario a modificazioni che ne limitassero il potere politico:
Questi paglietti di Sicilia [...] sono tutti dipendenti e legati con il
baronaggio, temono i gran signori e non ardiscono farseli nemici, tanto è grande l’abitudine delle catene, poste dai grossi signori ad ogni
ceto di persone; dico di più, in Palermo i ministri e gli avvocati s’ingrassano sopra l’amministrazione delle case dei baroni, le quali rimangono in mano loro, perciò fra baroni e paglietti si è contratto legame di reciproco interesse.
Nel 1848 e nel 1860, invece, gli esponenti più rappresentativi del ceto forense palermitano furono tra le punte avanzate del
liberalismo isolano, non più per voler essere ancora una volta dalla parte dei baroni, ma per affermare nuovi valori maturati nel
cinquantennio precedente e rivendicare una partecipazione del
ceto medio alla direzione politica del paese.
Il 23 per cento degli studenti dell’Ateneo frequentava il corso di laurea in medicina, ma pochissimi erano i palermitani, appena 33 su 257 nel 1859. Evidentemente, le possibilità di occupazione in città non erano elevate, non perché il numero dei medici fosse già sufficiente, ma perché le limitate capacità di spesa
degli abitanti non consentivano a nuovi medici di trovare spazio
con facilità. I 79 medici del 1854 su una popolazione di 185.000
abitanti, compresa la guarnigione, sembrano notevolmente insufficienti; e tuttavia, se consideriamo che equivalgono a un rapporto di 4,3 medici per 10.000 abitanti, non possiamo non rilevare che esso è assai più favorevole che in tante altre città euro-
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Palermo
pee del tempo, e inoltre notevolmente migliorato rispetto al Cinquecento, quando era di 2,7 medici per 10.000 abitanti.
È interessante rilevare come, dei 16 iscritti al corso annuale
di ostetricia, 13 fossero palermitani, 2 della provincia di Trapani, 1 della provincia di Girgenti: ciò significa che, negli altri comuni della Sicilia nord-occidentale, ancora alla vigilia dell’unificazione non esistevano ostetriche e il parto era un’avventura affidata alla sola esperienza dei congiunti, che contribuiva notevolmente a elevare il tasso di mortalità infantile.
Gli altri studenti frequentavano i corsi per la laurea in farmacia, agrimensura, belle arti, filosofia e letteratura, architettura, teologia. Gli studenti della facoltà di lettere e del Collegio di
belle arti erano quasi tutti nativi di Palermo, a dimostrazione che
in provincia, tranne qualche sacerdote, nessuno coltivava humanae litterae e belle arti. Il Lancia di Brolo si rammaricava del fatto che l’arte architettonica fosse trascurata e avesse pochi cultori, ma non credo che un maggior numero di architetti, come pure di ingegneri, potesse trovare possibilità di lavoro nella Palermo e nella Sicilia del tempo. La competenza tecnica degli ingegneri non era poi certo elevata, a giudicare dalle feroci critiche
che i loro colleghi napoletani, prima, e il nuovo Stato italiano,
dopo, mossero al tracciato delle strade siciliane e agli stessi sistemi di costruzione stradale.
La presenza femminile, infine, era pressoché inesistente: appena 16 studentesse, che molto probabilmente erano quelle che
frequentavano il corso di ostetricia.
Non abbiamo documenti in proposito, ma non c’è dubbio che
la stragrande maggioranza dei palermitani iscritti alle varie facoltà universitarie appartenesse proprio alla borghesia di professionisti e impiegati, che per l’educazione e l’istruzione dei propri
figli poteva contare anche su una buona rete di scuole private,
sorte, tranne due, a cominciare dal 1810 per i fanciulli e dal 1821
per le fanciulle, ma sviluppatesi soprattutto nell’ultimo decennio
e dirette talora da insegnanti francesi. Oltre a quella di Gaetano
Daita, merita di essere ricordata la scuola femminile fondata nel
1851 da Giulia Scalia, sorella di due fuoriusciti, che dava lavoro
a intellettuali compromessi con il regime borbonico.
Le scuole comunali gratuite, che nel 1852 erano sei con 1.200
iscritti, nel 1859 passavano a nove con 1.815 iscritti. Lo strimin-
II. L’Ottocento borbonico
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zito bilancio comunale non consentiva di fare di più e inoltre il
governo luogotenenziale si opponeva a una maggiorazione della
spesa destinata all’istruzione, come quando nel 1856 non approvò la proposta di istituzione di due nuove scuole serali, che
comportavano una lieve maggiorazione del monte salari.
Accanto alle scuole comunali operavano sin dal 1819 le scuole lancasteriane, basate sul mutuo insegnamento e la collaborazione degli allievi più capaci, che era un modo per far fronte alla mancanza di docenti. Le scuole pubbliche non comunali erano destinate all’insegnamento medio e professionale, ma spesso
abbinavano anche corsi di insegnamento elementare. Mancavano del tutto gli asili infantili, la cui istituzione era stata invano
caldeggiata nel 1840 da Pietro Lanza e da un comitato di nobildonne appositamente costituitosi.
In conclusione, le 151 scuole pubbliche e private del 1859,
compresa l’Università, davano lavoro a 828 docenti (di cui 605
laici, e più precisamente 479 uomini e 126 donne), che soddisfacevano la domanda di istruzione di 8.663 allievi e 3.017 allieve,
di cui 9.551 erano palermitani, 5.240 di età inferiore ai dieci anni, 6.236 di età compresa tra i 10 e i 25 anni. La notevole presenza di laici nell’insegnamento è una prova evidente del processo di declericalizzazione in corso nella cultura palermitana.
Ancora un anno e il prodittatore Mordini priverà i Padri Teatini
del privilegio di scegliere tra i loro membri il rettore a vita dell’Università e, come avveniva nelle altre sedi, affiderà la carica a
un docente, il chimico Filippo Casoria, primo rettore laico dell’Ateneo palermitano.
Grazie allo sforzo della società palermitana di quegli anni per
la diffusione dell’insegnamento, il tasso di alfabetizzazione dei
giovani coscritti del circondario di Palermo, che sui nati del 1843
era di 21,36, poteva balzare a 30,77 sui nati del 1848 e addirittura a 42,62 sui nati del 1853.
7. I ceti subalterni
La presenza a Palermo di un elevato numero di aristocratici
e proprietari e di una consistente borghesia impiegatizia e professionale determinava, rispetto ad altri centri dell’isola, una più
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Palermo
larga domanda di beni di consumo e di servizi che ne soddisfacessero le esigenze, e che, pur con i limiti già indicati, offriva lavoro a una notevole massa di gente dal reddito modestissimo, la
cui miseria era spesso in allucinante contrasto con lo sfarzo della nobiltà vecchia e nuova. Il costo dei servizi forniti dai ceti subalterni era generalmente molto basso per la concorrenza dei regnicoli che si riversavano nella capitale dell’isola nella speranza
di trovare lavoro, contribuendo a mantenere i redditi di alcune
categorie di lavoratori al livello della pura sussistenza. Il basso
costo dei servizi, la convinzione che il numero dei servitori costituisse un simbolo di prestigio e di opulenza, la ancora forte
concentrazione della ricchezza contribuivano a mantenere, se
non sui livelli dei secoli precedenti, ancora piuttosto elevata la
domanda di domestici, e soprattutto di domestiche, tanto che essi – dopo gli artigiani – costituivano la categoria più numerosa:
6.542 addetti nel 1861, che salgono a oltre 7.000 se si considerano i 465 inservienti degli ordini religiosi. Per il basso costo dei
salari, il domestico o la domestica era una prerogativa non solo
degli aristocratici e degli ecclesiastici, che comunque ne avevano
a disposizione quasi sempre parecchi, ma anche di qualsiasi piccolo benestante, degli stessi professionisti e dei viaggiatori stranieri, i turisti dell’epoca, i quali li trovavano in albergo al loro arrivo in città e li ingaggiavano anche per un giorno. Quello del
domestico era un mestiere ambìto, perché assicurava un salario
continuo, il vitto e una rispettabilità e un prestigio invidiati dagli altri lavoratori. Costituiva inoltre l’unica attività in cui le donne riuscivano a trovare lavoro fuori dell’ambito familiare.
Secondo il censimento del 1861, gli addetti all’artigianato non
superavano i diecimila, ma coloro che riuscivano a trovare lavoro erano assai meno. Avevano capi dalla «misteriosa potenza» ed
erano organizzati in associazioni religiose (assemblee di camorristi, ossia di mafiosi, le chiamava il marchese di Rudinì), che mantenevano viva la solidarietà di mestiere e adempivano a una parte dei compiti delle antiche corporazioni artigiane ufficialmente
soppresse. L’elevato numero di calzolai, sarti, fabbri, ebanisti,
orefici, consentiva una certa autosufficienza nei settori di rispettiva competenza, anche se la materia prima di cui si servivano
(cuoi e pelli, stoffe, ferro, legno, oro e argento) veniva quasi sempre o comunque in larghissima parte da fuori regno, cioè da fuo-
II. L’Ottocento borbonico
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ri Sicilia. Persino i cuoiami venivano dall’estero, perché la produzione delle varie concerie locali non poteva coprire l’intero
fabbisogno, condizionata com’era dalla cronica insufficienza di
bestiame nell’isola.
Gli artigiani palermitani – che lavoravano, spesso all’aperto
nelle pubbliche strade, per cinque giorni la settimana, consumando domenica e lunedì l’intero guadagno – non producevano
soltanto per gli abitanti della città, aristocratici e religiosi in primo luogo, ma anche per i regnicoli, che ordinavano o acquistavano nella capitale quegli articoli che non si fabbricavano nei paesi dell’interno, come prodotti di oreficeria, mobili, marmi intagliati, cappelli, strumenti musicali, manufatti vari, ecc. Le manifatture di seta, lana, lino, cotone, canapa soffrivano invece pesantemente la concorrenza dell’industria europea e attraversavano una congiuntura assai sfavorevole, confermata dallo scarso
numero di addetti, appena 502 unità lavorative.
La diffusione dell’uso delle carrozze dava lavoro a duecento
carrozzieri – l’«Oreteo» nel 1839 li considerava «pregevolissimi
nell’arte loro non meno che quei di Francia e d’Inghilterra» – e
a buona parte dei sellai e dei bastonai e frustai della città. I trasporti di generi alimentari per l’approvvigionamento della numerosa popolazione e di altri prodotti che provenivano dai paesi dell’interno impegnavano, inoltre, circa seimila tra marinai e
barcaioli, carrettieri, vetturali e facchini, oltre agli artigiani che
costruivano i mezzi di trasporto: un centinaio di carrettai e – a
dimostrazione di un’industria cantieristica quasi inesistente – una
quarantina di addetti alla costruzione di imbarcazioni. Il mare
dava lavoro anche a oltre un migliaio di pescatori, che – come i
marinai – abitavano soprattutto alla Kalsa e nel quartiere Molo.
Gli addetti ad attività industriali non precisate erano 1.725 e
2.000 gli addetti ai lavori nelle tipografie, nelle fonderie, nelle
fabbriche di armi, nella costruzione di letti in ferro e in rame,
nelle fabbriche di carte da gioco, nelle fabbriche di sapone e in
varie piccole attività. L’uso del letto in ferro o in rame era una
conquista recente per i palermitani: i primi letti erano stati importati dall’Inghilterra attorno al 1830, ma già nel ’33 si cominciò a fabbricarli a Palermo a cura di Giuseppe Naccari. All’Esposizione di Palermo del 1846 parteciparono due costruttori,
maestro Salvatore Segreto e Giuseppe Porcasi, quest’ultimo con
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Palermo
un «letto a due piazze di rame bianco con fregi di bronzo dorato a misture». Nel 1854 i costruttori di letti in ferro erano addirittura dieci. L’attività era in continua espansione per il successo
che la produzione incontrava sul mercato: nel 1867 i letti prodotti a Palermo erano apprezzati all’Esposizione di Parigi e conquistavano anche i mercati italiani, preferiti alla produzione inglese per il prezzo e l’eleganza delle forme.
I 69 «cartai» del 1861 non lavoravano come può sembrare nelle tre cartiere di contrada Molara, ancora in attività, ma nella fabbricazione di carte da gioco, un’industria che a Palermo risaliva
almeno al Trecento e a cui erano destinati tre laboratori, tutti in
via dei Cartari.
Il modesto numero di addetti all’edilizia (circa 2.000 unità tra
muratori, «dipintori di edilizi e adornisti», «marmorari e tagliapietre») in una città di 200.000 abitanti conferma la crisi del settore.
Accanto alle attività indicate, ne esistevano altre che talora assorbivano alcune centinaia di lavoratori. Alla panificazione, ad
esempio, nel 1861 erano addetti quasi duemila fornai, oltre i mugnai. I consumi alimentari di una città così popolata giustificavano, inoltre, l’esistenza di numerosi macellai e pasticcieri. Caffè
e biliardi, assai diffusi, impegnavano oltre cinquecento lavoratori. Da segnalare ancora 2.672 «giornalieri e operai senza mestiere determinato», 589 barbieri e parrucchieri, e ancora dettaglianti
e bottegai, cordai, «lustrini», tappezzieri e materassai, fontanieri, cenciaioli, tintori, sediai, librai, vetrai, «legatori», orologiai, vasai e «tegolai», «polveristi» (fabbricanti di polvere da sparo), suonatori ambulanti, ombrellinai, meccanici macchinisti, chiodaiuoli, fabbricanti di strumenti musicali, fotografi, ecc.
La campagna circostante era cosparsa di abitazioni e di piccole borgate nella parte settentrionale, dove la proprietà era più
frazionata, mentre la parte meridionale, anche se più ricca di acqua, era meno popolata. Ai lavori campestri erano addetti 5.338
coltivatori (tra cui 8 donne), 512 pastori, 135 boscaioli, su una
estensione complessiva di 15.000 ettari di terra, di cui – secondo
i dati del catasto del 1853 – oltre un terzo lasciata a pascolo e poco più di un quarto destinata a seminativo. Le colture specializzate occupavano il 38 per cento del territorio, ripartite tra «giardini e orti», uliveti, vigneti, ficheti d’India, ecc. Le uniche colture
II. L’Ottocento borbonico
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industriali del territorio erano quelle del sommacco (8 per cento),
in forte espansione, e del frassino (appena lo 0,3 per cento), mentre quella del tabacco era sicuramente compresa nella voce «giardini e orti», assieme agli agrumi. «Giardini e orti», pur occupando spazi assai modesti rispetto al periodo successivo, assorbivano
anche l’attività di buona parte dei «giardinieri e fioristi». La campagna era inoltre alla base di alcune altre attività artigianali e industriali e dava lavoro a panierai e cestai, fabbricanti e venditori
di formaggio e burro, addetti alla fabbricazione di tabacchi, ecc.
È opportuno ribadire che non tutti gli addetti alle varie attività cui si è fatto riferimento trovavano occupazione: la qualifica
professionale indicata dal censimento non significava affatto posto di lavoro. Inoltre, se si eccettuano i domestici con salario annuale e poche altre categorie, la stragrande maggioranza dei lavoratori viveva in uno stato di continua precarietà che rendeva
molto fragile il confine che li separava dalla miseria, cosicché poveri non erano soltanto i 2.000-3.000 che vivevano negli ospizi,
né gli altri 26.000 uomini ufficialmente senza professione. Accanto ai nobili – e spesso delle loro elemosine e di quelle dei tanti ordini religiosi e delle opere pie della città – viveva una folla
di miserabili e sottoccupati che da sempre costituivano l’anima
di tutte le rivolte. Sudici e cenciosi, abitavano in una promiscuità
indicibile, nei vicoli alle spalle delle due più importanti arterie,
la via Toledo e la via Maqueda, in case piccole e umide e in luridi catodi, che ne fiaccavano il sistema nervoso e li rendevano anemici e malinconici. E tuttavia, pronti a darsi facilmente all’allegria in una giornata di sole e a consumare – imitando nella prodigalità quell’aristocrazia da cui spesso dipendeva la loro precaria esistenza – «in un’ora il frutto del travaglio e dell’industria di
un giorno», nella radicata convinzione che cui sarva pri dumani,
sarva pri li cani (chi conserva per l’indomani, conserva per i cani). Bastava un raccolto insufficiente o una qualsiasi congiuntura sfavorevole per ridurre all’accattonaggio anche i lavoratori. La
scena della distribuzione dei pasti al convento dei Cappuccini era
straziante: 1.000-1.600 infelici, tendendo vecchi piatti rotti, luridi cappelli, fazzoletti cenciosi, larghe foglie e persino il palmo
delle mani, si affollavano attorno a un’immensa caldaia piena
d’acqua oleosa, in cui nuotavano legumi e qualche crosta di pane, per avere una povera zuppa che divoravano immediatamente.
74
Palermo
Il latte, uno dei consumi più diffusi del nostro tempo, era allora soltanto privilegio della «classe de’ cittadini più agiati», tanto che all’inizio degli anni Quaranta se ne consumavano in tutta
la città appena 6.620 litri. A parte il latte, i consumi medi di altri generi alimentari possono anche apparirci non eccessivamente bassi. All’inizio degli anni Trenta, il Cacioppo, sulla base di
informazioni avute dagli uffici doganali, calcolava un consumo
annuo pro capite di 2 ettolitri di grano e 78 litri di vino, mentre
per la carne necessaria ai 173.015 abitanti si macellavano 12.000
bovini, 6.000 porcini, 8.000 caprini e ovini, oltre a una gran quantità di capretti e agnelli, che consentivano un consumo annuo pro
capite sicuramente non superiore ai 15 chilogrammi. Contemporaneamente, il gettito dell’appalto dell’esazione del dazio sul consumo di pesce fresco equivaleva a un consumo annuo di poco
più di tre chilogrammi e mezzo pro capite. È appena il caso di
considerare, però, che in una città come Palermo, con una distribuzione della ricchezza assai squilibrata, i consumi medi non
possono assolutamente assumersi come indicatori del livello medio di vita, per la notevole differenza che passava tra i consumi
dei ceti abbienti e quelli della massa degli abitanti.
Più che i dati sui consumi, perciò, a confermare lo stato di
miseria, di abiezione e di arretratezza in cui vivevano i ceti subalterni della città, vale ancora considerare – a parte le testimonianze dei contemporanei sui tanti poveri che stazionavano in
prossimità dei palazzi signorili, dei conventi, delle chiese, spesso
tra l’indifferenza dei passanti, o circondavano famelici le carrozze dorate dell’aristocrazia – che le moltissime opere pie della città
erano insufficienti ad assistere il grandissimo numero di bisognosi; che attorno al 1830 il tasso di mortalità entro i 5 anni era
del 461 per mille; che il tasso di illegittimità calcolato sui nati era
altissimo, se nel decennio 1821-1830 fu mediamente del 10,25
per cento, salì al 16,8 nel 1837 (anno del colera) e si fermò al 13,4
l’anno appresso; che mentre solitamente nascevano più maschi
che femmine (+5,75 per cento), le femmine illegittime presentate alla ruota superavano i maschi illegittimi del 6,12 per cento, a
dimostrazione che – se i genitori trattenevano più volentieri il maschio, ritenuto più utile all’economia familiare, e invece portavano alla ruota le femmine – l’illegittimità non era il frutto di amori proibiti, ma della impossibilità di provvedere al mantenimen-
II. L’Ottocento borbonico
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to dei figli a causa della miseria; che nel 1854 proliferavano 90
case di prestito su pegno; che nel 1861 il tasso di analfabetismo
era del 73 per cento e nelle borgate del territorio quasi toccava
il 94; che infine la durata media della vita era appena di 32 anni,
mentre contemporaneamente in Inghilterra, Svezia e Francia superava già i 40 anni.
III
L’UNIFICAZIONE DIFFICILE
1. «Gli uomini del disordine»
L’esito infelice della rivoluzione siciliana del 1848-1849 aveva
costretto all’esilio i capi dell’opposizione aristocratica e buona
parte dell’opposizione democratica al regime borbonico. Grazie
all’influenza del Mazzini, i democratici furono i più solleciti a
orientarsi verso una soluzione unitaria del problema siciliano, alla quale approdarono, dopo una matura riflessione sulla situazione internazionale, anche gli emigrati di parte moderata, i quali però contavano sul determinante aiuto di Casa Savoia, peraltro garanzia sicura della conservazione dell’ordinamento sociale
esistente nell’isola. Contemporaneamente, l’aristocrazia palermitana, spaventata dalle tendenze democratiche emerse nel ’48, si
riconciliava – grazie anche all’azione pacificatrice del luogotenente Satriano – con la monarchia borbonica. E tuttavia, l’attività cospirativa in città non veniva del tutto meno. Nel gennaio
1850, in piazza Fieravecchia, un tentativo rivoluzionario fu stroncato dalla polizia borbonica con l’arresto dello studente universitario Nicolò Garzilli, figlio di un ufficiale borbonico, e di cinque altri giovani, fucilati dopo un rapidissimo sommario processo. Su ispirazione degli esuli democratici (Rosolino Pilo, soprattutto), si costituì anche un Comitato segreto (Comitato centrale
di Sicilia), che aderì al Comitato Nazionale Italiano di Londra e
riuscì presto a ramificarsi in ogni capoluogo di provincia, svolgendo una notevole opera di proselitismo, prima di essere costretto allo scioglimento per una imprudenza del mazziniano
Giuseppe Vergara di Craco, che ne era il capo. Nel 1856 è do-
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Palermo
cumentata l’esistenza di un Comitato rivoluzionario di ispirazione mazziniana, la cui attività, seppure alimentata da una robusta
tensione morale, ebbe però scarsi risultati concreti e anche modesta diffusione, se nel 1860 il numero dei mazziniani palermitani era considerato sparutissimo.
Intanto, tra i nobili, soprattutto tra i giovani aristocratici, si
diffondevano nuovamente i sentimenti antinapoletani e antiborbonici che avevano portato al ’48. Da sempre contraria alla politica assolutistica e accentratrice del governo napoletano, che mirava a limitarne il potere, l’aristocrazia palermitana intensificò i
contatti con gli esuli di Torino e, superando le tendenze separatiste del passato, si convertì all’idea dell’unificazione italiana.
Contribuivano al nuovo orientamento il clima di dura repressione poliziesca voluto dal governo, che trovava in Maniscalco il più
fedele esecutore, e la politica doganale del governo che penalizzava pesantemente l’agricoltura siciliana, e quindi l’aristocrazia
terriera. Infatti, il divieto di esportazione dei grani teneva bassi i
prezzi sul mercato interno, a danno dei grossi produttori, mentre gli alti dazi doganali scoraggiavano le stesse esportazioni nelle annate di sovrapproduzione, con il risultato di contribuire a
ribassare ulteriormente i prezzi. E lo stesso avveniva per l’olio. Il
governo mirava proprio a contenere i prezzi per la continua paura di malcontenti e sommosse popolari, ma una tale politica, oltre ad alienargli le residue simpatie degli agrari, non gli conciliò
neppure il favore dei ceti subalterni, perché non valeva né a evitare le carestie né a mantenere bassi i prezzi al minuto in periodi di abbondanza, a causa della struttura monopolistica del mercato isolano. Nell’ottobre 1859, dopo il fallimento di un tentativo insurrezionale a Bagheria, che avrebbe dovuto estendersi a Palermo, il luogotenente principe di Castelcicala rilevava che la popolazione di Palermo «lamenta il caro eccessivo de’ viveri e coll’avanzarsi dell’inverno cresceranno le angustie», e poiché «le
mormorazioni della popolazione sono continue e generali», egli
temeva che «i mestatori politici ne profittano pe’ loro fini facendo intendere alla credula moltitudine ch’è un torto del Governo
quello ch’è una conseguenza d’una infelice annata agricola e del
crescente depreziamento della moneta». La diffusa miseria dei
ceti popolari rendeva inoltre sempre più difficile da sopportare
il peso delle imposte indirette, la più odiata delle quali era ov-
III. L’unificazione difficile
79
viamente il dazio sul macinato, che – abolito dal governo rivoluzionario e ripristinato dai Borboni – da solo forniva un gettito
pari a tre volte la fondiaria pagata dai possessori di immobili. Tutto ciò alimentava l’antiborbonismo della popolazione, che già nei
primi mesi del 1860 si era trasformato in «spirito di sedizione»,
poiché – rilevava ancora il Castelcicala – le erano ormai «divenute familiari le idee di non intervento, di sovranità del popolo,
di suffragio universale ed altre stranezze simili che la rivoluzione
diffonde in tutte le classi della società».
Anteriormente allo scoppio della seconda guerra di indipendenza (1859), gli atteggiamenti antiborbonici dell’aristocrazia palermitana si erano mantenuti soprattutto a livello di stato d’animo, senza concretizzarsi ancora in precise iniziative politiche. Peraltro, un conto era aborrire il regime borbonico e anelare all’unità d’Italia, un altro conto passare all’azione per uomini che avevano vissuto da protagonisti il ’48, che avevano approvato l’atto
di decadenza della monarchia borbonica e che erano stati poi costretti, dall’esito infelice della rivoluzione, a ritrattarlo. E tra i tanti che lo avevano ritrattato, riconciliandosi con i Borboni, c’erano non pochi dei più prestigiosi soci del Casino di dame e cavalieri. Si spiega anche perché il movimento liberale aristocratico
fosse nelle mani di una esigua schiera di giovanissimi poco più
che ventenni, che molto probabilmente non godevano della piena approvazione delle famiglie, le quali talora forse neppure sapevano delle trame dei loro rampolli. In alcune famiglie poi la diversità di posizione tra «vecchi» e «giovani» era davvero stridente: borbonico convinto, tanto da seguire poi il re Francesco
II a Roma in esilio, era il conte di Capaci, fratello maggiore dell’esule Rosolino Pilo, fervente mazziniano e grande cospiratore;
Francesco Benso, duca della Verdura, pretore della città per pochi mesi dopo la Restaurazione del ’49 e successivamente per parecchi anni intendente della provincia di Palermo, era il padre
del duchino Giulio, in esilio perché escluso dall’amnistia; il vecchio principe di Trabia, malgrado l’esilio del figlio principe di
Scordia, che lo accorava terribilmente, in una lettera a Ferdinando II, in cui perorava larvatamente il perdono per l’esule, che
poi non lo accetterà, invocava da Dio «ogni bene» per la famiglia reale e pregava il re di volerlo annoverare tra «gli umili suoi
servi», dichiarandosi «umilissimo e fedelissimo suddito». Tra i
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Palermo
«novatori» o «uomini del disordine», per usare la terminologia
delle autorità borboniche, c’erano anche il marchesino Antonio
Starrabba di Rudinì e il principe Francesco Saverio Starrabba di
Giardinelli, entrambi nipoti diretti del principe di Cassaro, ascoltatissimo uomo politico alla corte di Napoli e presidente del Consiglio dei ministri nel 1860.
La prima concreta iniziativa del movimento liberale aristocratico si ebbe proprio durante la seconda guerra di indipendenza, con la costituzione di un Comitato di soccorso per i feriti, con a capo il giovanissimo Corrado Valguarnera, figlio del
principe di Niscemi, a cui si ispirerà Tomasi di Lampedusa per
il personaggio di Tancredi nel Gattopardo. Quando poi giunse in
città la notizia delle vittorie di San Martino e Solferino, alcuni
circoli festeggiarono con luminarie che provocarono l’intervento
della polizia e tafferugli davanti il Caffè di Sicilia, un noto locale di via Toledo frequentato dalla Palermo bene del tempo. Inviperito per i fischi dei giovani, il Maniscalco, alla testa di un drappello di poliziotti, entrò nel vicino Casino dei Nobili di piazza
Bologni e distrusse personalmente i candelabri. Seguirono 43 arresti, quasi tutti di aristocratici, tra cui il principe di Sant’Elia e
il duca della Verdura da poco rientrato dall’esilio.
L’eccessivo rigore del Maniscalco provocò contro di lui l’odio
dell’intera città – «quell’odio è colpa sua», scriveva al re il Castelcicala, che non ne condivideva le «misure forti» – e non fu
difficile a liberali e malavita stringere un accordo per farlo fuori.
Una domenica dell’ottobre 1859, mentre si apprestava a seguire
la messa in Cattedrale, fu aggredito con una pugnalata alle spalle dal camorrista Vito Farina (detto Farinella), che lo stesso Maniscalco sembra ritenesse sicario prezzolato di alcuni aristocratici, i quali però – pur convinti che il Farina avesse agito per istigazione di membri del Comitato – negarono sempre una loro responsabilità in proposito, anche quando, dopo l’unificazione, poteva costituire titolo di merito.
Mentre la borghesia e i democratici intensificavano i contatti
con gli esuli di Malta e con il Mazzini (il Crispi era stato in Sicilia nell’agosto 1859), i capi aristocratici del moderatismo palermitano, a fine gennaio 1860, incontravano a Palermo un emissario di Vittorio Emanuele. Il clima di cospirazione non sfuggiva
alla polizia: l’Università fu militarmente occupata e cominciaro-
III. L’unificazione difficile
81
no le retate. Contemporaneamente, avveniva la saldatura tra il
movimento aristocratico, capeggiato da padre Ottavio Lanza e
dal barone Giovanni Riso jr., e il Comitato rivoluzionario sostenuto da facoltosi borghesi e diretto dal vecchio barone Pisani.
Aristocratici e borghesi, già legati dal comune interesse a eludere il problema del rinnovamento sociale del paese, trovavano
nuovi motivi di convergenza nell’accettazione della soluzione
unitaria, che garantiva la conservazione delle vecchie strutture.
In questa fase i finanzieri palermitani – con l’eccezione del barone Giovanni Riso, che ormai però si era inserito tra i giovani
aristocratici della città e ne condivideva gli ideali – appaiono
completamente assenti da ogni serio impegno politico in funzione antiborbonica. Fu più agevole per il Comitato rivoluzionario
coinvolgere nella cospirazione influenti popolani, tra cui il maestro fontaniere Francesco Riso e il sensale Salvatore La Placa, con
il compito soprattutto di ingaggiare squadre e acquistare armi,
utilizzando i fondi già raccolti. Ovviamente, nel reclutamento dei
volontari non si consideravano tanto le qualità morali e – come
ricordava un quindicennio dopo alla Giunta per l’inchiesta sulle
condizioni sociali ed economiche della Sicilia il duca di Cesarò,
già membro del Comitato – a nessuno si chiedeva di mostrare la
fedina penale pulita, perché «era [...] naturale che quando si doveva fare una rivoluzione non si badasse tanto pel sottile [...], era
naturale che persone pacifiche, persone oneste non si mettessero in queste schiere di bravi». Nessuna meraviglia, quindi, se i
due rivoluzionari Salvatore Licata e Antonino Giammona anni
dopo saranno tra i più noti mafiosi della città.
Altre armi si fabbricarono clandestinamente. Palermo riprendeva agli occhi dei rivoluzionari siciliani il ruolo di capitale morale dell’isola, che aveva assunto già nel ’48: mai come allora il
suo esempio era stato seguito dalle altre popolazioni siciliane, mai
come allora essa era riuscita a suscitare in precedenza un così ampio fronte rivoluzionario. A Messina e a Catania lo spirito pubblico non era diverso, ma Palermo rispetto a quelle aveva, se così si può dire, un vantaggio: un maggior numero di disperati, per
usare il linguaggio della burocrazia borbonica, sempre pronti a
seguire qualsiasi tentativo insurrezionale. Così credevano le autorità e già nel settembre 1859 il luogotenente Castelcicala aveva
avvertito il governo centrale che
82
Palermo
tutti gli uomini del disordine guardano Palermo ed è in Palermo il fomite maggiore dello spirito sedizioso [...]. I rapporti che mi arrivano
sono concordi nell’affermare che a’ faziosi d’ogni contrada tarda il vedere levarsi in armi la Capitale per accorrere quando gli eventi fossero propizii ad ingrossare le fila degl’insorti.
E tuttavia sbagliavano sia le autorità, sia i rivoluzionari, perché quando l’insurrezione scoppiò Palermo non si mosse e l’intervento delle truppe del generale Sury decise presto lo scontro
a favore dei borbonici (4 aprile 1860): Francesco Riso, il capo dei
rivoltosi, fu ferito a morte e fatto prigioniero, e dei suoi compagni alcuni furono uccisi, qualcuno arrestato, altri riuscirono a salvarsi con la fuga, due si nascosero per alcuni giorni nelle sepolture del convento della Gancia e infine riuscirono a fuggire passando attraverso una minuscola breccia nel muro, che da allora
è chiamata «buca della salvezza». Il gruppo del La Placa, che si
era mosso da piazza Magione per unirsi al Riso, si scontrò con il
reparto del capitano Giorgio Chinnici, noto delinquente accolto
dal Maniscalco nelle file della polizia e messo a capo di una compagnia di ex briganti e malfattori, e fu sopraffatto. Tafferugli di
poco conto avvennero anche a Porta Sant’Antonino e a Porta di
Termini, ma nel complesso la popolazione rimase tranquilla, cosicché le squadre provenienti dai paesi circostanti e dalla campagna, non riuscendo a entrare in città, ritornarono indietro o furono facilmente disperse dalla truppa, con la quale alcune ingaggiarono conflitti a fuoco, soprattutto nella borgata di San Lorenzo. Nei giorni successivi gli scontri tra la truppa e le squadre
di rivoltosi continuarono alla periferia della città e nelle campagne vicine.
La guerriglia di tanto in tanto colpiva anche in città, con l’assalto a sentinelle isolate e talora persino a commissariati di polizia. Dall’altra parte si rispondeva con gli arresti, il saccheggio e
gli incendi (quelli operati a San Lorenzo furono deplorati dagli
stessi borbonici). Nel Palazzo Monteleone di piazza San Domenico (oggi non più esistente), furono arrestati alcuni che la polizia riteneva i mandanti dell’insurrezione: Antonio Pignatelli, il
barone Riso, il principe di Giardinelli e il cavaliere Giovanni Notarbartolo, cui si aggiunsero presto Corrado Valguarnera, il sedicenne duchino Gabriele Colonna di Cesarò e padre Ottavio Lan-
III. L’unificazione difficile
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za, che solo il felice esito della spedizione garibaldina salverà da
una lunga carcerazione, perché intanto la polizia – in seguito alla confessione del moribondo Francesco Riso – aveva ottenuto le
prove della loro colpevolezza. Il Consiglio di guerra volle anche
dare un esempio alla cittadinanza e ordinò la fucilazione di tredici artigiani e braccianti, tra cui il padre di Francesco Riso, coinvolti nei fatti della Gancia o arrestati negli scontri a fuoco della
periferia. La sentenza fu eseguita la sera del 13 aprile e dopo qualche giorno le truppe ebbero ragione dei vari focolai insurrezionali, anche se le manifestazioni antigovernative in via Toledo o in
via Maqueda, in cui si inneggiava alla libertà, all’Italia e a Vittorio Emanuele, continuarono ancora sino alla venuta di Garibaldi. Ma Palermo, disarmata, non aveva altro modo per sfogare il
suo odio contro le persecuzioni della polizia e i saccheggi dei soldati, e dava alle autorità l’impressione di rimanere fondamentalmente estranea alla rivolta, che ancora continuava a mantenersi
viva, seppur sulla difensiva, nelle campagne della provincia.
2. Garibaldi
La situazione non cambiò dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala (11 maggio 1860), anche per l’esplicito invito del Comitato
rivoluzionario, che adesso non voleva correre inutili rischi e preferiva dedicarsi alla preparazione dello scontro finale. Continuarono le manifestazioni antigovernative, che talora davano luogo
a tafferugli con la polizia e si concludevano con qualche morto
da ambo le parti. Già il 9 maggio, alla falsa notizia di uno sbarco presso Girgenti, la popolazione si riversò in via Maqueda e
cominciò a manifestare contro il governo. La polizia aprì il fuoco e uccise tre dimostranti e ne ferì altri, ma lasciò sul terreno
anche due gendarmi e una spia, che il popolo ridusse a brandelli. Il giorno successivo, a piazza San Francesco, un gruppo di facchini uccise tre poliziotti e nel pomeriggio, al Ballarò, popolani
attaccarono i gendarmi con sassi e bastoni. Altro tumulto il 19
nel Cassaro e altri morti: tre dimostranti, due poliziotti e due soldati. La conferma dello sbarco e le successive notizie, scarse e
contraddittorie, sull’avanzata garibaldina creavano un clima di
esaltazione e di sgomento, di speranze e di paure. I rivoluziona-
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Palermo
ri riprendevano coraggio e preparavano l’insurrezione; i borbonici erano in preda alla sfiducia e si preparavano a smobilitare,
già prima della battaglia di Calatafimi. Lo stesso giorno, quando
ancora a Palermo se ne ignorava l’esito, il Maniscalco scriveva direttamente al re che
la fazione rivoluzionaria, potentissima nello interno della città, minaccia di massacrare tutti gli onesti e tutti quelli che sono devoti alla
santa causa della monarchia legittima; il terrore è negli animi di tutti; gl’impiegati disertano i loro posti; la voce del dovere non è più
ascoltata; vi è una disgregazione sociale [...]. Tutti gli uomini d’ordine ora fanno buon viso alla rivoluzione per tema d’esserne divorati se
facessero altrimenti.
Al solo nome di Garibaldi, lo Stato borbonico si sfaldava già
prima di avere perduto sul campo di battaglia e i furbi si convertivano al nuovo credo. Chi era troppo compromesso con i
Borboni lasciava la città, come parecchi nobili che si erano rifugiati a Napoli o tenevano pronte al porto imbarcazioni noleggiate per la fuga. Anche Maniscalco aveva paura e, non potendo personalmente fuggire, fece partire per Napoli la moglie e i figli. Il
direttore della polizia aveva capito che «alle porte di Palermo si
deciderà la sorte non solo della Sicilia, ma della monarchia». Ne
erano convinte anche le potenze straniere, come dimostra tra l’altro la presenza nella rada di navi da guerra inglesi, austriache,
francesi, piemontesi, spagnole e persino statunitensi, allo scopo
dichiarato di proteggere i connazionali, ma in realtà per seguire
da vicino gli avvenimenti: mai nella sua storia, se si eccettuano le
recenti stragi di mafia, Palermo era stata e sarà successivamente
tanto al centro dell’attenzione internazionale.
Mentre le truppe del colonnello Von Mechel lo cercavano verso Corleone, Garibaldi alla testa dei suoi volontari e delle squadre di picciotti accorsi da ogni parte dell’isola, all’alba del 27 maggio si presentava alle porte di Palermo. Superato indenne il fuoco di una fregata napoletana, entrò da Porta di Termini e, dopo
essersi incontrato a piazza Fieravecchia con il Comitato rivoluzionario, fissò il quartiere generale a Palazzo Pretorio. Cominciò
allora, dal forte del Castello a mare e dalle navi napoletane alla
fonda nel porto, il bombardamento indiscriminato della città, che
III. L’unificazione difficile
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persino un borbonico convinto come il cappellano militare don
Giuseppe Buttà ritenne «il massimo del delitto, dell’infamia e
della pazzia». Vi fece eco il suono a stormo delle campane, che
chiamavano la popolazione all’insurrezione generale. I palermitani risposero: pochi in verità all’inizio, ma poi sempre più numerosi entrarono decisamente nella mischia accanto ai garibaldini. Disarmati dalla polizia, che nelle settimane precedenti aveva requisito tutte le armi da fuoco, adoperavano tutto ciò che in
qualche modo – come osservavano i contemporanei – potesse
servire alla lotta:
ciò che se non è arme fu arme un tempo: vedi bajonette irruginite,
stocchi spuntati, tronchi di spade, sciabole, coltelli, scuri, bipenni,
asci, lance, pugnali, chiodi, punte di ferro, lime, scalpelli, martelli,
mazze, vanghe, bastoni, pietre; fanciulli, vecchi, giovani, donne, preti, monaci son quei che l’impugnano: irti i capelli in fronte di ognuno, spalancati gli occhi, serrati i denti, convulse le braccia; ognun si
sente nell’ora più solenne di sua vita; ognun si crede e si sente armato; vuole uccidere od essere ucciso.
Per tre giorni si combatté accanitamente – e, diciamolo pure
senza retorica, eroicamente – dall’una e dall’altra parte, spesso a
corpo a corpo e all’arma bianca. Garibaldi, instancabile, dirigeva le operazioni dal suo quartier generale, ma nei momenti di
maggior pericolo correva personalmente là dove la lotta ferveva
maggiormente a incoraggiare e a sostenere i combattenti. Il suo
carisma era grandissimo e lo subivano anche i nemici, che numerosi passavano sotto le sue bandiere, compreso il capitano
Chinnici, che però fu opportunamente arrestato. I palermitani lo
consideravano quasi un essere soprannaturale e al suo passaggio
– testimonia Giuseppe Cesare Abba – «la gente si inginocchiava,
gli toccavano le staffe, gli baciavano le mani. Vidi alzare i bimbi
verso di lui come a un Santo». Aveva già costituito una nuova
municipalità e nominato pretore il duca della Verdura, in carcere sino a qualche giorno prima della sua venuta; aperto una sottoscrizione, che sembra non abbia dato i frutti sperati; istituito
una Guardia Nazionale e stabilito la pena di morte per i reati di
furto e saccheggio, allo scopo soprattutto di non alienare alla rivoluzione le simpatie dei proprietari, i cui beni erano alla mercé
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Palermo
dei duemila evasi della Vicaria e del bagno penale, ladri e assassini cui la fuga delle guardie aveva consentito di liberarsi assieme ai patrioti.
Intanto, la città bruciava per le numerose bombe incendiarie
che l’avevano colpita e che avevano provocato crolli e distruzioni dappertutto e morti a centinaia tra la popolazione civile (dalle macerie si estrassero poi ben 608 cadaveri).
La bellissima metropoli dell’isola – rilevava l’ammiraglio inglese
Mundy – presentava uno spettacolo da lacerare il cuore. Un intero
quartiere vicino al palazzo reale [...] era ridotto ad un ammasso di rovine ancora fumanti. Famiglie intere erano bruciate vive nelle case e
le atrocità commesse da alcuni appartenenti alle truppe regie, nella loro ritirata dai Conventi delle Benedettine e dell’Annunziata, erano spaventose. In via Toledo e nelle altre strade vicine, conventi, chiese e palazzi della nobiltà, erano stati demoliti dalla caduta delle bombe di cui
millecento sparate dalla fortezza e duecento dalle navi da guerra.
Ma la città bruciava anche per gli incendi appiccati dai soldati in ritirata, che saccheggiavano, rapinavano, stupravano, incendiavano e talora uccidevano persino vecchi e bambini. Le case di via Porta di Castro, ad esempio, furono distrutte una per
una, gli abitanti massacrati e i più influenti del quartiere messi al
muro e fucilati. La popolazione, malgrado Garibaldi lo avesse
espressamente proibito, rispondeva con la caccia ai sorci, i birri
che l’avevano tiranneggiata e che adesso numerosi pagavano definitivamente il conto: una trentina furono orrendamente trucidati e parecchi addirittura lapidati e fatti letteralmente a pezzi. I
palermitani erano mobilitati in massa: squadre di falegnami, muratori, fabbri, artigiani, donne e ragazzi, e persino monaci e sacerdoti – coordinate da un’apposita Commissione diretta dal
nuovo pretore – con le macerie dei bombardamenti e masserizie,
mobili, carri, botti, selciato delle strade, innalzavano barricate alte sino ai primi piani delle case. Crocifisso in mano – disattendendo le raccomandazioni dei vescovi e impressionando favorevolmente Garibaldi, che non mancò di sottolinearlo – il clero si
batteva anch’esso sulle barricate, fianco a fianco, spesso alla testa degli insorti, che nella partecipazione dei religiosi vedevano
legittimata la loro lotta contro il potere borbonico per l’unità na-
III. L’unificazione difficile
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zionale. I medici della città erano tutti impegnati a soccorrere i
feriti, ricoverati in ospedali improvvisati nelle chiese, nei conventi, in case private, all’Albergo Trinacria. La mobilitazione generale della popolazione, compresi i detenuti comuni, anch’essi
sulle barricate, contribuiva a stringere in un cerchio senza sbocchi le truppe borboniche asserragliate nel Palazzo Reale, che, impossibilitate a rifornirsi di viveri e di acqua, già soffrivano la fame e la sete, e non potevano soccorrere neppure i 356 feriti perché l’Ospedale era stato occupato dai garibaldini.
Il 30 il generale Lanza, che pure aveva ricevuto truppe fresche da Napoli, chiese un armistizio, che fu firmato a bordo della nave ammiraglia inglese, allo scopo di consentire il ricovero dei
feriti sulle navi, l’imbarco dei familiari degli impiegati e l’approvvigionamento delle truppe. Garibaldi ottenne inoltre la consegna al segretario di Stato Francesco Crispi del Banco Regio con
quasi cinque milioni e mezzo di ducati, di cui però solo 134.000
(lire 636.500) del governo, che tuttavia risultarono utilissimi al
Dittatore, assai a corto di denaro. Poiché ormai per i Borboni
non c’era alcuna possibilità di riconquistare Palermo senza un
lungo assedio e un più massiccio bombardamento, Francesco II,
il quale sembra non avesse approvato il precedente cannoneggiamento, accettò l’evacuazione della città da parte delle sue
truppe (oltre 20.000 soldati), con l’onore delle armi. Le operazioni di imbarco furono concluse il 19 giugno, mentre il tricolore veniva innalzato sul Castello a mare e le campane suonavano
ancora una volta a stormo, per festeggiare adesso la vittoria della rivoluzione e a suggello di una delle più belle pagine della storia del popolo palermitano. La disperazione degli insorti e il cuore dei garibaldini che si erano battuti per la libertà della patria
avevano avuto ragione di un esercito sfiduciato e privo di motivazioni ideali.
3. L’annessione
Seguirono giorni di grande esaltazione collettiva per l’impresa compiuta, ma anche di grande disordine, perché la città aveva subìto danni rilevanti e molti erano i senza tetto e coloro che
avevano perduto tutto. Le botteghe chiuse e le difficoltà di ap-
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Palermo
provvigionamento in una città in cui la circolazione era diventata difficilissima, a causa delle barricate non ancora disattivate o
per le strade completamente disselciate, se non addirittura cancellate e coperte di macerie, facevano scarseggiare notevolmente
i viveri, mentre i prezzi dei generi di prima necessità salivano alle stelle, contribuendo ad accrescere il numero dei mendicanti.
Per la rottura delle tubazioni in argilla, in alcuni quartieri mancava anche l’acqua, che si doveva acquistare. La rabbia e il desiderio di vendetta alimentavano, anche dopo l’armistizio, la caccia
ai sorci, nella quale i palermitani superarono in crudeltà ed efferatezze gli stessi soldati borbonici. Ma diamo la parola ai vinti:
Si va a caccia degli impiegati della passata polizia (birri), come di
belve nelle foreste e se ne fa massacro: il sistema ordinario di persecuzione è di snidarli da’ nascondigli, condurli, fra gli urli selvaggi del
basso popolo, al Pretorio, dove è permanentemente il comitato, il
quale risponde sempre «fate giustizia voi stessi»: allora la vittima è
condotta in un quartiere qualunque, o fuori le porte, la si opprime e
tormenta con sevizie e poi si fucila; il cadavere né pure va esente da
ulteriori oltraggi, con le pietre se ne schiaccia il capo, co’ ferri gli si
cavano gli occhi, e i denti etc. Non v’è schermo o travestimento, che
valesse a salvare i perseguitati: ne’ decorsi giorni uno di quei sventurati si era vestito da prete, ma l’abito non lo ha salvato: un altro per
ischivare la tragica sorte, e per rendersi irriconoscibile si aveva rasa
la barba, tagliati i capelli e le ciglia, si aveva altresì crepato un occhio;
ma non ha potuto sfuggire di essere riconosciuto da’ suoi carnefici,
ed è stato ucciso: un terzo aveva cessato da più di 15 anni di far parte del servizio di polizia, e ciò non ostante è stato sacrificato. La più
gran carnificina è però quella di oggi [16 giugno]; otto individui più
o meno appartenenti alla polizia, o sospetti di esservi appartenuti,
vengono trucidati; uno di questi infelici, vecchio dalla barba bianca,
riceve colpi di coltello e di fucile su la piazza Marina, e il cadavere rimane esposto su la via fino a tutto domani, calpestato spietatamente
dalla gente di transito; ed altri sette sono massacrati presso la Badia
Nuova [...]. Anche le donne degli agenti di polizia non sono state risparmiate, ed hanno subìta la medesima sorte de’ mariti: una di esse
s’è fatta morire bruciata.
Si tratta di episodi su cui le fonti di parte italiana sorvolano,
ma il racconto della cronaca borbonica trova delle conferme. Il
La Farina, ad esempio, informava il Cavour, per incarico del qua-
III. L’unificazione difficile
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le si era precipitato a Palermo, che il popolo era «inesorabile cogli sbirri; e quando ne snida qualcuno, è cosa difficilissima impedire che l’ammazzi. Garibaldi fa sforzi grandissimi, affinché
non abbiano luogo simili eccidii». Mancano, come si vede, i particolari, ma gli eccidi non sono messi in discussione. Quasi un
anno dopo, rievocando quei giorni, egli parlerà di «uno stato senza leggi e senza magistrati, in cui nessuno era sicuro de’ suoi beni e della sua vita, perché non v’erano agenti della forza pubblica, i tribunali eran chiusi, le carceri e i bagni aperti». E sebbene
il suo fosse un discorso polemico contro l’amministrazione garibaldina, non abbiamo difficoltà a dargli credito. Solo il 30 giugno, il Dittatore tentò di bloccare le persecuzioni, stabilendo pene severe «contro i persecutori degli agenti del governo borbonico», ma il provvedimento non valse a tranquillizzare gli animi
di coloro che in qualche modo si erano compromessi con quello
che da allora cominciò a chiamarsi il cessato governo, se proprio
lo stesso giorno alcuni funzionari borbonici preferirono rifugiarsi a bordo della nave ammiraglia inglese.
Garibaldi rimase a Palermo sino al 18 luglio ed emanò una
serie di provvedimenti, tra cui il decreto del 20 giugno, con il
quale, per «distruggere ogni cosa che il cessato governo dispotico adoperava contro il popolo per impedire l’espressione dei
pubblici voti», ordinò la demolizione della «parte del forte di Castellammare che offende la città», demolizione subito eseguita
anche con il concorso di molti contadini dei paesi vicini e con la
partecipazione simbolica dell’alto clero locale, l’arcivescovo di
Monreale monsignor Benedetto D’Acquisto – che pur si era compiaciuto con Francesco II del fallimento dell’insurrezione del 4
aprile e che Garibaldi aveva destituito dall’insegnamento di diritto naturale e morale nell’Università – e l’arcivescovo di Palermo monsignor Gian Battista Naselli, i quali con i loro capitoli
presenziarono ad alcune fasi dei lavori. Consapevole dei profondi legami tra il popolo siciliano e la sua Chiesa, Garibaldi agevolò il nuovo atteggiamento dell’alto clero con un comportamento tollerante e rispettoso, al punto da considerare, in un suo proclama, immortale il Cristianesimo e i sacerdoti siciliani «veri ministri dell’Onnipotente». Visitò i monasteri della città, si recò in
pellegrinaggio alla grotta di santa Rosalia, la Santuzza dei palermitani, e il giorno della sua festa partecipò al solenne pontifica-
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Palermo
le in Cattedrale, seduto sul trono, a capo coperto e con la spada
sguainata, in simbolica difesa della fede cattolica, come richiedeva il suo rango di titolare della Legazia Apostolica, un antico
istituto normanno che in Sicilia sottoponeva la Chiesa al controllo dello Stato. Motivò lo scioglimento degli ordini dei Gesuiti
e dei Liguorini, «validi fautori del dispotismo», con la necessità
di devolvere una parte delle loro entrate alla pubblica istruzione,
«trascurata, anzi attraversata dal Governo dei Borboni, onde le
entrate addette sì allo insegnamento popolare che agli studii superiori tornano di gran lunga insufficienti al bisogno».
Già sin dal 28 maggio, Garibaldi aveva ripristinato, in sostituzione del soppresso Decurionato, il Consiglio civico, che tra i
suoi primi atti indirizzò al Dittatore un voto per l’immediata annessione della Sicilia al Piemonte, che egli mostrò di non gradire. E poiché Giuseppe La Farina – che era riuscito a portare sulle posizioni dei moderati unitari anche gli autonomisti – con una
ben orchestrata campagna di stampa e continue manifestazioni
di piazza premeva ostinatamente per l’annessione immediata, al
di là delle direttive dello stesso Cavour, il Dittatore Garibaldi,
che intendeva prima liberare definitivamente il Napoletano e la
stessa Roma, lo fece arrestare e lo espulse come cospiratore «contro l’attuale ordine di cose». Gli autonomisti o «regionisti», tra
cui spiccavano i nomi di Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez, Emerico Amari, Isidoro La Lumia, Vito D’Ondes Reggio, godevano di notevole seguito e avevano in comune con i moderati
unitari la preoccupazione che la crisi siciliana degenerasse in una
rivoluzione sociale e perciò – forse anche per qualche assicurazione del La Farina sull’accoglimento delle loro istanze – ne appoggiavano l’azione. A loro volta, i moderati unitari, tra le cui fila ritroviamo l’alta aristocrazia e la ricca borghesia terriera, erano anch’essi convinti dell’opportunità che la Sicilia godesse nel
nuovo Stato di una particolare amministrazione.
L’annessione rimaneva comunque la soluzione finale anche
per il Dittatore, che il 23 giugno promulgò un decreto per l’elezione a suffragio universale di un’assemblea di rappresentanti,
che ne avrebbe stabilito tempi e modi. I moderati rimanevano
spiazzati dall’iniziativa e vedevano allontanarsi il giorno dell’annessione; gli autonomisti plaudivano all’assemblea parlamentare,
ma temevano che il suffragio universale favorisse i democratici, i
III. L’unificazione difficile
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quali a loro volta non riuscivano a mettersi d’accordo, perché i
mazziniani, antiregionalisti per principio, vedevano nell’assemblea siciliana un pericolo per l’unità nazionale. La promulgazione dello Statuto Albertino da parte del prodittatore Depretis –
che con l’assenso del Cavour aveva sostituito Garibaldi impegnato nella prosecuzione della guerra – fu considerata dagli autonomisti, già critici nei confronti dell’azione politica del prodittatore, un colpo basso contro le loro istanze e deteriorò i rapporti con i moderati unitari. Si verificò un avvicinamento tra autonomisti e democratici, che però non ebbe sviluppi perché il governo di Torino presentò intanto un progetto di riforma dell’ordinamento statale su basi regionali, che veniva incontro alle
richieste dei regionisti siciliani, mentre Cavour assicurava che il
governo non intendeva «togliere a ciascuna delle regioni storiche
della penisola gli elementi di vita propria che la natura ed i secoli hanno accumulato in essa». Fu facile perciò a Filippo Cordova, che aveva preso il posto del La Farina, rilanciare la campagna annessionistica con una ripresa delle manifestazioni di
piazza e l’azione di alcuni giornali, cui i democratici opponevano «Il Precursore» del Crispi e altre dimostrazioni. I moderati
riuscirono anche a portare sulle loro posizioni il Depretis, che
però a sua volta non riuscì a convincere Garibaldi e fu costretto
a dimettersi dall’incarico.
Lo scontro tra le due opposte tendenze si era fatto assai aspro:
il Crispi, che pure aveva favorito la promulgazione dello Statuto,
sulle pagine del «Precursore» accusò i fautori dell’annessione immediata di volere «il carcioffo e non l’Italia» e di essere «i più
grandi nemici dell’unità d’Italia»; Garibaldi gli fece eco con un
proclama in cui li qualificava «miserabili» e «codardi»; e i moderati, nella parte più conservatrice, pensarono addirittura a un
colpo di Stato contro il Dittatore, che il suo ritorno a Palermo il
17 settembre per insediare personalmente il nuovo prodittatore
Mordini non rese più possibile. Venne creato un nuovo governo
di mazziniani e «condizionisti» – cioè coloro che, pur non mettendo in discussione l’annessione, la volevano condizionata da
un’Assemblea – e si fissarono al 21 ottobre le elezioni per l’Assemblea dei rappresentanti che avrebbe deciso i tempi e i modi
dell’annessione.
Mentre a Palermo l’autonomista Salvatore Vigo, i mazziniani
e, seppur contrari all’Assemblea di rappresentanti, gli stessi mo-
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Palermo
derati costituivano comitati per affrontare le prossime elezioni,
da Napoli si apprendeva che il prodittatore Pallavicino era riuscito a imporre a Garibaldi il plebiscito e ne aveva fissato la data al 21 ottobre. Ciò provocò in città notevole fermento, anche
perché si temeva che Napoli, votando incondizionatamente l’annessione, potesse avere nel nuovo Regno un trattamento privilegiato rispetto alla Sicilia. C’era inoltre il rischio che i risultati del
plebiscito di Napoli, e quindi la decisione dei napoletani, potessero valere anche per la Sicilia, nella sua qualità di provincia dell’ex Regno delle Due Sicilie, il che non era affatto gradito ai siciliani. Per il plebiscito premevano anche le altre città dell’isola,
timorose che Palermo, diventando la sede di un’Assemblea di
rappresentanti, continuasse a godere di una posizione di privilegio; mentre le continue assicurazioni di Torino sul rispetto delle
libertà amministrative compatibili con l’unità politica del nuovo
Stato e la decisione del Parlamento di non accettare annessioni
condizionate orientavano per il plebiscito anche gli autonomisti.
A Mordini non rimase altro che annullare le elezioni per l’Assemblea, fissare per la stessa data il plebiscito e istituire – perché
esponesse al governo di Torino le aspirazioni e gli interessi dei siciliani – un Consiglio straordinario di Stato, presieduto dall’Ugdulena e composto dagli uomini più rappresentativi del mondo
politico e culturale dell’isola.
La giornata elettorale, in una città interamente pavesata di
drappi tricolori, trascorse tra feste e cortei, con musica in testa e
ritratti di Vittorio Emanuele. Il risultato non era in discussione:
su 36.252 elettori, soltanto 20 osarono esprimersi contro l’annessione. L’annessione al Regno d’Italia chiudeva definitivamente un’epoca e ne apriva una nuova, che per Palermo significava
sacrificio di vecchie aspirazioni, ma anche superamento della
«nazione» siciliana, acquisizione di un patrimonio ideale alla cui
elaborazione la Sicilia era rimasta per certi versi estranea, partecipazione più ampia e consapevole alla vita moderna.
4. Le speranze deluse
Alle grandi speranze e ai facili entusiasmi che avevano caratterizzato il periodo precedente, subentrò presto però la delusio-
III. L’unificazione difficile
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ne e, già prima della famosa insurrezione del 1866, Palermo fu
più volte sul punto di sollevarsi contro il governo. Sul breve periodo, la rivoluzione del 1860 si rivelava per la città un’operazione completamente in perdita, perché gli svantaggi materiali
che ne seguivano e che coinvolgevano soprattutto i ceti subalterni, ma anche il ceto medio impiegatizio, erano assai più pesanti dei modesti vantaggi forniti da una libertà di stampa e di
associazione, che, date le condizioni socio-economiche della
città, solo pochi potevano apprezzare. La nuova realtà con cui
bisognava fare i conti era assai ben diversa da quella sognata, per
la quale si erano affrontati sacrifici e difficoltà inenarrabili, e, con
l’irritazione per il nuovo ordine di cose e per tutto ciò che sapesse di piemontese, si faceva strada il convincimento che l’unificazione non rappresentasse quel toccasana miracoloso che si era
sperato. Nel 1870 ne era addirittura convinto lo stesso questore,
il quale in un suo rapporto al prefetto attribuiva il grave scontento che ormai aveva contagiato ogni ordine di cittadini al fatto che «dei sacrifici non pochi e durissimi che per l’unità d’Italia ha subìto Palermo niun pro’ gliene è derivato, dopo più che
un decennio, se se ne eccettui quello morale ed astratto di far
parte d’una grande Nazione, magro conforto del resto per chi
non ha più pane da sfamarse sé e la propria famiglia».
Sotto i Borboni, in assenza di industrie e con un commercio
asfittico, Palermo, come sappiamo, era vissuta esclusivamente
sulla rendita fondiaria della sua aristocrazia ormai in crisi e sulla
vita fittizia creata dagli uffici amministrativi, che adesso venivano progressivamente smantellati per effetto dell’accentramento
cui il governo, smentendo iniziali promesse, si era convertito, sino al punto da sopprimere improvvisamente la stessa luogotenenza (1862), che era stata concessa per soddisfare i sentimenti
autonomistici dei siciliani; oppure scadevano di importanza perché trasformati in organi provinciali. Ciò significava la perdita
del posto di lavoro per una «numerosissima classe senza risorse
e senza beni di fortuna», che cadeva nella «più commiserevole
miseria», perché ai primi due anni di aspettativa seguiva il licenziamento. La rimozione dagli impieghi era peraltro cominciata
subito dopo l’annessione, sia per ridimensionare i ruoli della pubblica amministrazione – notevolmente gonfiati sotto la Dittatura,
che aveva abbondato nella concessione di incarichi e uffici a
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Palermo
esponenti e amici del partito d’azione – sia per consentire l’assunzione di elementi vicini al gruppo di potere moderato, spesso continentali, che si ritenevano a ragione più ligi al nuovo governo, ma il cui comportamento rigidamente burocratico sino all’ottusità feriva sensibilmente la facile suscettibilità dei palermitani. E mentre funzionari e impiegati borbonici, grazie a rapide
conversioni, riuscivano in buona parte a conservare i loro impieghi, gli elementi più vicini al partito democratico venivano epurati. Pur continuando inizialmente a godere dello stipendio, gli
impiegati a disposizione perdevano sicuramente particolari benefici economici («certi maggiori assegnamenti», li chiamava il
luogotenente Della Rovere) e soprattutto erano privati dei privilegi che inevitabilmente comportava la titolarità di un ufficio, in
un’epoca in cui, come ancor oggi del resto, il soddisfacimento di
un diritto del cittadino equivaleva alla concessione di un favore.
Gli avvocati subivano duramente le conseguenze della ristrutturazione degli uffici amministrativi e giudiziari a vantaggio
degli altri capoluoghi di provincia, e perciò anch’essi ingrossavano le file degli scontenti, tra i quali non dobbiamo dimenticare
una pletora di postulanti delusi, spesso convertiti dell’ultima ora,
che finivano per trasformarsi in antigovernativi. Ma il malcontento non risparmiava neppure coloro che conservavano l’impiego, perché l’ascesa dei prezzi che caratterizzò gli anni immediatamente successivi all’unificazione riduceva notevolmente il potere d’acquisto dei loro stipendi e si risolveva in una limitazione
dei consumi che finiva col penalizzare anche i ceti che vivevano
con il commercio.
Ad alienare i favori al nuovo governo contribuiva notevolmente la difficilissima situazione della finanza statale e la conseguente necessità di incrementare le entrate e ridurre determinate spese, a vantaggio di altre ritenute prioritarie. I Borboni – è
noto – si erano limitati al buon governo dell’arretratezza e perciò avevano limitato all’indispensabile le imposte, preferendo
bloccare lo sviluppo del paese piuttosto che gravare la popolazione di ulteriori tassazioni. Il nuovo Stato ebbe invece coscienza del divario che separava l’Italia dagli altri paesi europei e mirò
a superarlo a tutti i costi, prima che diventasse incolmabile. E i
mezzi necessari a promuovere lo sviluppo economico furono reperiti anche attraverso un inasprimento delle imposte esistenti e
III. L’unificazione difficile
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l’introduzione di nuove, tra cui quelle di ricchezza mobile, di registro e di bollo, oltre al ripristino della odiatissima imposta sul
macinato, che in Sicilia Garibaldi aveva abolito. Per di più gli anni 1863-1866 furono caratterizzati da una grave crisi economica
mondiale, che se fu più acuta in Gran Bretagna, faceva sentire i
suoi effetti anche in Italia, tanto che nel maggio 1866 si dovette
ricorrere al corso forzoso.
I piccoli proprietari dell’agro circostante, che soffrivano l’aumento delle imposte erariali e delle sovrimposte provinciali e comunali, contestavano il divieto della coltivazione del tabacco
(1867), una coltura concentrata quasi esclusivamente nella Conca d’Oro e in rapida espansione per gli alti profitti che assicurava. La mancanza di sicurezza, che li costringeva a subire l’intermediazione mafiosa, li portava inoltre a criticare pesantemente i
provvedimenti di disarmo cui spesso ricorrevano le autorità, perché li mettevano nell’impossibilità di difendersi senza peraltro
riuscire a disarmare la delinquenza, notevolmente rinforzata dagli amnistiati del ’60 ritornati a piede libero e spesso dai renitenti
di leva. La leva obbligatoria era causa di una dura opposizione
in tutta l’isola, che si concretizzava appunto in un elevato numero di renitenti.
La popolazione palermitana soffriva particolarmente la decisa volontà del nuovo Stato di stroncare i tanti abusi e le illecite
solidarietà che il regime borbonico aveva tollerato e su cui si fondava spesso la vita dell’intera città. Già prima che l’introduzione
del corso forzoso bloccasse i lavori pubblici promessi e progettati, creando nuovo malcontento, l’esasperazione per la situazione venutasi a creare era tale che la plebe perdette addirittura il
tradizionale rispetto per i ceti elevati, se nel Carnevale del 1864,
al Foro Italico e in altri luoghi, lanciò fango e pietre contro le
«carrozzate» dei «Signori». L’episodio spinse «Il Precursore» ad
ammonire che «se non si provvede in tempo, qualche dì avremo
scene più disgustose ancora. Non bisogna abbandonare a se stessa la classe dei nullatenenti, se non si vuole che alle rivoluzioni
politiche faccia seguito la rivoluzione sociale». Il procuratore generale presso la Corte d’Appello rilevava nel 1867, forse non a
torto, come nei palermitani mancasse in genere «la tolleranza della fatica e del lavoro», ma è pur vero che nei primi anni dopo l’unità, malgrado l’impegno dei sindaci moderati, le possibilità di
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Palermo
occupazione – lo afferma un pubblicista molto vicino al governo
– erano modestissime, se «il lavoro che dà Palermo basta ad occupare onestamente appena un quarto della popolazione». Gli
altri tre quarti vivevano di «illeciti guadagni, e cioè il contrabbando, il giuoco clandestino, la camorra nel commercio e negli
affari, l’impostura e la baratteria su tutto quello che gli capita
d’innanzi; e non può essere altrimenti per chi non vuol gettarsi
in mare o morir di fame».
La soppressione delle numerose corporazioni religiose della
città (1866) provocò alla popolazione nuovi rilevanti danni, perché se molti impiegati si ritrovarono da un giorno all’altro senza
lavoro e ridotti sul lastrico, senza lavoro si ritrovarono anche numerosi artigiani e non pochi avvocati che ne curavano gli affari,
mentre ai poveri venivano meno le elemosine dei conventi, spesso loro unico mezzo di sostentamento, cui da allora cominciò a
provvedere in qualche modo il Comune.
Anche il clero – che come sappiamo era stato largo di simpatie nei confronti della rivoluzione e ancora nel 1862 faceva opera di convinzione a favore della leva e sosteneva, esortando il papa a riconoscere i diritti del popolo italiano, che il potere temporale non era un dogma irrinunciabile cui si potessero sacrificare gli interessi della cristianità – aveva di che dolersi: leggi eversive dell’asse ecclesiastico che colpivano sensibilmente la ricca
Chiesa palermitana; favori accordati alla propaganda protestante (nel 1861 fu fondata una stazione valdese, motivo di fiere polemiche); diffusione della stampa pornografica e della prostituzione autorizzata (nel 1871 esistevano in città ben 37 postriboli
con 313 meretrici, su una popolazione di 230.338 abitanti); perdita del monopolio dell’insegnamento; continuazione della politica borbonica di progressivo esautoramento del clero nell’amministrazione delle opere pie, a vantaggio di laici vicini al partito di governo; ostilità nei confronti dei preti garibaldini, invisi
peraltro alla stessa Curia, che accentuava sempre più la sua intransigenza; diffusione del socialismo, considerato figlio della rivoluzione liberale; legge sul matrimonio civile; anticlericalismo
degli esponenti più rappresentativi della nuova classe dirigente,
che spesso si concretizzava in provvedimenti così rozzi da suscitare l’indignazione dello stesso «Il Precursore», un giornale vicino al Crispi che pur non lesinava gli attacchi alla religione, se la
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stampa cattolica lo ribattezzò «Il Persecutore». Si erano cioè
create situazioni che neppure i preti liberali, beneficiati dalla concessione di incarichi vari, potevano giustificare, cosicché l’atteggiamento della maggioranza del clero nei confronti del nuovo
Stato ben presto mutò e negli elementi più conservatori e reazionari diventò opposizione e talora anche collusione con i borbonici, adesso paladini dei loro privilegi assieme ad alcuni qualificati rappresentanti del regionismo.
L’aristocrazia palermitana era riuscita indubbiamente a bloccare con l’unificazione qualsiasi tentativo di rivoluzione sociale,
ma l’accentramento sabaudo, privando l’isola di quell’autonomia
per la quale essa aveva fatto ben due rivoluzioni, impediva alla
stessa aristocrazia di riprendere interamente in mano il potere
politico perduto con l’abolizione del Parlamento siciliano (1816)
e, per reazione, la spingeva nuovamente tra le braccia del legittimismo borbonico. E infatti, i non pochi aristocratici che si erano schierati con Garibaldi o con Mazzini si ritrovavano a militare nel partito d’azione, cioè tra le file dell’opposizione, assieme
ai clerico-regionisti, mentre coloro che si erano schierati a Destra
con il partito di governo non riuscivano a superare la concorrenza degli elementi borghesi e si vedevano spesso relegati in ruoli puramente rappresentativi che non davano potere. Nei primi
quattro decenni dopo l’unità, parecchi palermitani entrarono a
far parte del governo nazionale, ma soltanto Antonio di Rudinì,
che fu anche più volte presidente del Consiglio, apparteneva all’aristocrazia, e tuttavia non alla più antica e prestigiosa che aveva fatto la storia dell’isola nei secoli precedenti. Anche a livello
di amministrazione locale, l’aristocrazia, tra i cui membri era stato sempre scelto il pretore della città, dopo il 1860 fu costretta a
fare largo spazio alla borghesia: ben quattro dei sette sindaci che
ressero il Comune sino al 1880 furono di estrazione borghese e
degli altri solo il marchese di Rudinì godeva di titolo nobiliare.
Essa perciò si convinceva sempre più che a trarre i maggiori vantaggi politici dalla rivoluzione del ’60 erano stati la borghesia imprenditrice e soprattutto il ceto medio dei professionisti, dalle cui
file provenivano buona parte dei parlamentari siciliani eletti nel
1861. Ciò spiega perché nel 1874 i rappresentanti dell’opposizione meridionale al governo della Destra fossero in Sicilia es-
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Palermo
senzialmente esponenti della nobiltà terriera, per tanti versi ancora classe dominante.
5. I partiti politici
La vita politica palermitana si articolava attorno a quattro partiti: moderato (Destra), d’azione o democratico (Sinistra), borbonico-clericale, regionista. Si trattava, ovviamente, di schieramenti e tendenze più che di organizzazioni come quelle che ci
sono oggi familiari, senza strutture ben definite quindi e neppure sedi e relative tessere, che non servivano in un’età in cui il corpo elettorale era ristrettissimo, pari a meno del 2 per cento della popolazione (nel 1861, su una popolazione di 194.463 abitanti, gli aventi diritto al voto furono appena 3.762 per le politiche
e 1.150 per le amministrative), e pochissimi si recavano alle urne (dal 52 per cento dei votanti nelle politiche del ’61 si passa al
29 per cento nel ’65, al 27 nel ’67 e addirittura al 18 nel ’70).
Il partito moderato, chiamato anche della Concordia, raggruppava i liberali che si erano battuti per l’annessione non condizionata, ma siccome era il partito che appoggiava il governo
(un appoggio spesso piuttosto tiepido, in verità) vi erano confluiti anche tutti coloro che – come è sempre accaduto in Italia
– si erano affrettati a correre in soccorso dei vincitori. E perciò,
accanto ad alcuni tra i maggiori esponenti dell’emigrazione palermitana e a uomini pacifici e amanti dell’ordine, aristocratici e
borghesi che avevano combattuto i Borboni, ma li avrebbero anche accettati sol che fossero stati più illuminati, militavano – come notava un testimone insospettabile – «persone di mal affare,
facinorosi, accoltellatori, che spesso con grandissimo scandalo e
danno del governo si veggono nominati anco a posti governativi
per quella protezione che una setta [= partito] dà sempre ai suoi
adepti». Gli avversari li chiamavano dispregiativamente «malva»
o «torinesi» e li accusavano di sudditanza nei confronti della politica di accentramento del governo, ma in realtà i moderati, almeno nei primi anni dopo l’unità, non rinunziarono alla possibilità di ottenere per la Sicilia una forma amministrativa particolare. Desistettero quando si resero conto che, grazie ai favori del
governo, riuscivano a impedire che la rivoluzione potesse dege-
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nerare in un rivolgimento sociale. Neppure loro erano completamente soddisfatti del nuovo corso e ne coglievano gli aspetti
negativi, ma notavano «i difetti senza bile, senza apporli tutti –
come per Michele Amari facevano invece i regionisti – a que’ che
chiamate continentali, e senza pretendere che si potrebbe governare secondo quel tipo di ordine, di giustizia e di perfezione, che
ognuno può disegnare nel suo cervello, ma che non s’incarnò mai
in terra né in cielo». Disponevano di alcuni organi di stampa, il
più importante dei quali era «Il Corriere Siciliano».
Gli esponenti più rappresentativi del moderatismo palermitano erano organizzati in logge massoniche che successivamente si
unificarono nella Loggia Madre siciliana diretta dal principe di
Sant’Elia. Anche i democratici avevano le loro logge, anzi furono i primi, dopo la liberazione di Palermo, a ricostituire la Massoneria, che dopo il fallimento della rivoluzione del ’48 aveva attraversato un periodo di sbandamento, perché i più importanti
affiliati erano costretti all’esilio. Per evitare di essere assorbiti dal
Grande Oriente di Torino, in cui prevalevano i moderati, nel
1862 il Supremo Consiglio – sedente a Palermo «finché Roma
non sarà la capitale d’Italia» – nominò presidente Garibaldi e si
impegnò a preparare l’impresa di Roma, conclusasi poi infelicemente ad Aspromonte.
I massoni del Supremo Consiglio di Palermo costituivano il
gruppo dirigente del partito d’azione palermitano, la Sinistra, che
raggruppava democratici di varie tendenze (repubblicani, mazziniani, seguaci di Garibaldi, liberali di sinistra, ecc.). Nei primi
anni dopo il 1860, il carattere censitario del corpo elettorale e il
requisito dell’istruzione elementare facevano elettoralmente di
questo partito una minoranza, molto agguerrita però e intraprendente, con numeroso seguito tra gli studenti dell’Ateneo –
che spesso ne appoggiavano l’azione politica con rumorose manifestazioni – e notevole ascendente sulle masse popolari, tra le
quali rimaneva assai vivo il mito di Garibaldi. Per il Maniscalco
in esilio, la sua forza consisteva non tanto nel numero, quanto
nell’audacia dei suoi membri e nella capacità di intimidazione dei
loro pugnali, con chiaro riferimento ai mafiosi che vi militavano
o lo appoggiavano. Il partito d’azione o democratico – detto
«partito esagerato» dalle autorità – si differenziava dal moderato non tanto per la pregiudiziale repubblicana, destinata presto
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Palermo
a cadere nel Crispi e nei suoi sostenitori, né per una maggiore
apertura verso i problemi sociali, presente soltanto nella minoranza radicale che poi confluirà nel socialismo, quanto piuttosto
per il problema della liberazione di Roma e di Venezia, che esso
anteponeva a qualsiasi questione di politica interna. Il governo
invece era convinto che il problema fondamentale fosse la costruzione del nuovo Stato e che iniziative affrettate contro il papa e l’Austria, per l’isolamento diplomatico in cui l’Italia si trovava, potessero avere gravi ripercussioni in campo internazionale e rimettere in discussione l’appena raggiunta unificazione nazionale. E così gli azionisti – come si è detto – si collocavano all’opposizione, assieme a borbonici, clericali e regionisti, cioè a
tutti coloro che per un verso o per l’altro avevano motivi di grave insoddisfazione nei confronti del nuovo Stato e la cui polemica antigovernativa trovava facile presa in larghissimi strati della popolazione palermitana, danneggiati dalla rottura degli equilibri parassitari su cui da secoli si era retta la vita della città.
Il partito borbonico, dopo un comprensibile periodo di smarrimento, aveva allacciato i contatti con i fuoriusciti – tra cui, oltre al Maniscalco esule a Marsiglia, da Roma tenevano le fila delle varie cospirazioni il conte di Capaci, il principe della Scaletta,
il principe di Campofranco, il barone Malvica – e con molta circospezione cominciò a tessere le sue trame, chiamando a raccolta tutti i legittimisti e i nostalgici del vecchio regime, compresi
ovviamente gli uomini di Maniscalco e una parte dell’alta aristocrazia (principe di Valdina, duca di Cumia, conte Tasca, ecc.),
preoccupata che la diffusione delle idee di libertà finisse con il
compromettere l’ordinamento sociale e non del tutto rassegnata
al nuovo ordine. Ne era a capo il marchese di Villarena Vincenzo Mortillaro, ex direttore delle imposte.
Se i borbonici erano costretti a mimetizzarsi e a operare preferibilmente nell’ombra, i clericali non avevano le stesse preoccupazioni e sui loro organi di stampa («Religione e Patria», «Il
Presente», «L’Amico della Religione», «L’Ape Iblea», «La Sicilia Cattolica») attaccavano talora duramente la politica del governo e ospitavano spesso scritti di elementi vicini al partito legittimista, spingendo così i moderati e le stesse autorità di polizia a parlare di un unico partito clericale-borbonico. In realtà, è
difficile valutare compiutamente il grado di filoborbonismo del
III. L’unificazione difficile
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clero palermitano, perché gli incriminati lo negavano e si consideravano vittime di persecuzioni del governo, mentre le autorità
erano portate spesso a esagerarlo per giustificare provvedimenti restrittivi nei confronti di oppositori del nuovo regime, i quali poi venivano scarcerati per mancanza di prove. D’altra parte,
i borbonici si guardavano bene dall’ammettere apertamente di
esserlo: il Mortillaro, direttore del «Presente» – un giornale al
quale collaboravano clericali come i canonici Domenico Turano, poi vescovo di Agrigento, e Sanfilippo, ed ex funzionari borbonici – non ammise mai di essere il capo del «Comitato» di Palermo, come risulta invece inequivocabilmente da fonti di parte
borbonica. Ma anche se contatti e convergenze più o meno occasionali tra preti zelanti e borbonici non mancarono, i clericali palermitani, con a capo il barone Vito D’Ondes Reggio, il marchese di Roccaforte e il principe di Lampedusa, più che ai nostalgici del ritorno di Francesco II erano vicini alle posizioni dei
regionisti, di cui accettavano la polemica contro il centralismo
statale, la difesa degli interessi della Sicilia, la lotta contro la soppressione delle corporazioni religiose e l’alienazione dell’asse ecclesiastico.
Tra i regionisti militava buona parte dell’intellettualità palermitana, ma anche alti burocrati e avvocati. La loro roccaforte era
Palermo, dove costituivano il partito elettoralmente più forte,
mentre godevano di scarsissimo seguito nel resto dell’isola; e ciò
è comprensibile se si considera che il programma per il quale si
battevano mirava a salvaguardare soprattutto il ruolo della ex capitale del Regno di Sicilia. Anche se esisteva un’ala radicale che
propugnava il separatismo, i regionisti erano soprattutto dei liberali convinti dell’opportunità che la Sicilia godesse di una sua particolare autonomia. La battaglia regionistica non era, almeno nelle intenzioni, in funzione antiunitaria e perciò potevano essere
contemporaneamente regionisti e unitari. Avversari leali come il
marchese di Rudinì riconoscevano che l’ostracismo che il governo dava ai regionisti (nel 1865, il prefetto propose addirittura il
trasferimento d’ufficio per alcuni tra gli esponenti più rappresentativi) era causa di gravi danni, perché significava emarginare
uomini ragionevoli e scienziati, che hanno colla virtù e cogli scritti illustrato il paese, che pel suo bene soffersero esilio e patimenti molti;
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Palermo
uomini in gran parte attempati e prudenti, che il popolo da lungo
tempo si è avvezzato a rispettare; uomini d’ordine ed amanti di legalità; convinti, se non plaudenti, che in seno al regno d’Italia è soltanto sperabile il bene di questa terra; desiderosi più che altri di larghezze
amministrative, e persuasi al tempo stesso che debbano chiedersi e
discutersi nell’aula del Parlamento Nazionale.
Proprio per il notevole prestigio da essi goduto, le loro critiche al sistema («Ti manca la prosperità, ti manca la sicurezza; tu
sei sgovernato, insultato, fatto segno all’odio dell’ipocrita consorteria», si legge in un loro manifesto ai siciliani) trovavano un terreno molto favorevole e, senza che lo volessero, contribuivano
grandemente a «incoraggiare i sagrestani, i borbonici e i malandrini» – come faceva osservare Amari al La Lumia – e ad alimentare quel malcontento su cui fondavano le loro possibilità di
successo le varie agitazioni e congiure che si macchinavano a Palermo.
6. L’oscuro episodio dei pugnalatori
È difficile valutare nella giusta misura la credibilità delle varie congiure che si susseguirono a Palermo ben oltre il primo decennio dopo l’unificazione e di cui è rimasta larga traccia nella
documentazione degli organi di polizia, come pure la spontaneità
delle manifestazioni antigovernative, perché è accertato che le autorità erano portate a gonfiare le mene reazionarie o repubblicane e non erano estranee, grazie all’opera di agenti provocatori,
alla preparazione di avvenimenti che giustificassero la repressione violenta e la violazione della legalità democratica cui spesso
ricorrevano nei confronti delle opposizioni. Talora siamo proprio
in presenza di una strategia della tensione ante litteram decisa ai
livelli più alti. Pochissimi giorni dopo il suo insediamento come
luogotenente, il Montezemolo, ad esempio, esprimeva al ministro
dell’Interno il convincimento che «forse un tumulto che ci dia
plausibile occasione di mettere la mano sopra alcuni dei capi
avrebbe conseguenze più felici che funeste». Premesso che i capi cui fa riferimento erano quelli del partito d’azione, è possibi-
III. L’unificazione difficile
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le pensare che il luogotenente non facesse poi niente per concretizzare il suo convincimento? O che i suoi dipendenti, a conoscenza di un tale desiderio, non si sentissero autorizzati a realizzarlo, andando magari oltre le sue stesse intenzioni? Purtroppo, i funzionari continentali che monopolizzavano nell’isola tutti i poteri civili e militari erano convinti, come il generale Govone nel 1863, che la Sicilia non fosse ancora completamente uscita dallo stato di barbarie; e forse non avevano torto, perché venti
anni prima a denti stretti lo aveva riconosciuto anche Michele
Amari, pur criticando che la si considerasse assai più barbara di
quanto non fosse. Sbagliavano però quando, convinti che l’isola
non fosse ancora pronta ad accettare l’ordinamento liberale, ricorrevano all’uso di strumenti illegali e a una continua violazione delle libertà politiche e personali, sicuramente non degni di
uno Stato liberale.
Nei confronti dei presunti borbonici e dello stesso clero, che
si cominciava a sospettare avesse parte nelle mene reazionarie, le
autorità usavano talora la mano pesante, mentre i rapporti con il
partito d’azione, pur se non mancavano momenti di aspra polemica antigovernativa, via via migliorarono, soprattutto dopo che
Rattazzi, succeduto a Ricasoli nel marzo 1862, inviò a Palermo il
marchese Giorgio Pallavicino come prefetto e il generale Giacomo Medici come comandante della Guardia Nazionale, entrambi considerati amici di Garibaldi. Incoraggiato dall’equivoca condotta del governo, il 28 giugno Garibaldi giunse in città per organizzare la spedizione che avrebbe dovuto liberare Roma. Un
suo infuocato comizio antinapoleonico dal palazzo comunale suscitò entusiasmi e consensi, e ancora una volta la Sicilia – che pur
era la regione in cui il fenomeno della renitenza alla leva più allarmava le autorità – rispose magnificamente al fatidico appello
«o Roma o morte»:
Era – scriveva Andrea Guarneri, testimone oculare – uno spettacolo più che interessante, commovente sino alle lacrime. Non v’ha famiglia che non lacrimi, che non abbia un membro, un parente partito nelle successive spedizioni. Padri di famiglia, giovani, ragazzi di
quattordici e di tredici anni sono partiti, di tutti i ranghi, di tutti i colori, di tutte le età accorrono a arruolarsi.
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Palermo
Ma l’energico intervento di Napoleone III convinse il Rattazzi a bloccare la marcia dei garibaldini verso Roma e il 29 agosto
l’eroe fu ferito dalle truppe italiane ad Aspromonte. La notizia
provocò in città costernazione e rabbia, che diedero luogo a lunghe manifestazioni antigovernative, non conclusesi tragicamente
soltanto per il responsabile comportamento della guarnigione,
che non rispose alle provocazioni della folla, e la mediazione, sollecitata da Crispi, di personaggi autorevoli come il duca della
Verdura, il barone Turrisi, il barone Favara, l’onorevole La Loggia, che in precedenza avevano tentato invano di dissuadere Garibaldi dall’impresa. Lo stato d’assedio decretato il 20 agosto e
la sospensione della libertà di stampa si protrassero sino al 16 novembre, con conseguenze amarissime per i volontari garibaldini,
considerati alla stregua di malfattori e briganti, e i militanti del
partito d’azione, trattati con una durezza e un rigore incredibili,
con una carica di odio che stupisce, perché ne erano oggetto gli
uomini che più degli altri avevano fatto l’Italia e che avevano messo e mettevano a repentaglio la vita per la patria, con il solo torto di non voler comprendere le esigenze di carattere internazionale che imponevano una diversa strategia. Si giunse addirittura
a vietare l’esposizione del ritratto di Garibaldi e a considerare
reato passibile di carcerazione la richiesta dell’esecuzione in pubblico del suo inno. Due anni dopo lo stato d’assedio proclamato
dalle autorità borboniche, a Palermo si ritornava così agli arresti
arbitrari, alle deportazioni, e persino alle fucilazioni per detenzione di armi, cioè a sistemi che provocavano una notevole carica di odio verso i piemontesi, perché ricordavano gli aspetti peggiori del passato regime che si era creduto non dovessero mai più
ritornare:
Siamo stati governati come schiavi venduti – accusò, quindici mesi dopo, «Il Precursore» –, non legge non giustizia concessa, esaltati
i nostri nemici, i patrioti oppressi, a noi soli tolta la libertà con lo stato di assedio, noi fucilati senza giudizio, arrestati in massa, sbattuti
per tutte le prigioni d’Italia, a noi fatto colpa di amare la patria e Garibaldi; noi spiati, calunniati, arrestati a stormi sopra semplici indicazioni di un cagnotto austriaco; noi umiliati d’ogni maniera nello esercito, ne’ pubblici offici; noi sottoposti a leggi non fatte per noi, noi
governati col militarismo che ci asseta, ci tortura, ci abbrucia, ci arresta le nostre donne, i nostri vecchi, i nostri bambini; noi vituperati
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al cospetto del mondo in pieno parlamento, chiamati barbari da un
ignorante soldato [il generale Govone].
In questo clima, sembra quasi addirittura per meglio giustificarlo, si inserisce l’oscuro episodio dei pugnalatori che la sera del
1º ottobre 1862 colpirono, quasi simultaneamente in diversi punti della città, tredici ignari passanti, provocando notevole sgomento nella cittadinanza. Le autorità attribuirono l’accaduto a
una congiura reazionaria e ne approfittarono per imporre immediatamente il disarmo generale e anche per coinvolgervi alcuni
mesi dopo elementi del partito d’azione e qualche regionista. I
moderati erano d’accordo che si trattasse di una operazione concepita da borbonico-clericali, allo scopo di spargere il terrore tra
la popolazione e dimostrare che il governo italiano non era in
condizione di preservare l’ordine; e che si volesse inoltre costringere il governo a varare provvedimenti che servissero ad aumentare il malcontento, come ad esempio il disarmo, assai malvisto dai proprietari. Ma quando il Maniscalco, esule a Marsiglia,
apprese dal «Giornale Officiale» che i sospetti cadevano sui borbonici, si indignò per quello che considerava un espediente del
governo, mentre un ventennio dopo il regionista Raffaele – ricordando gli avvenimenti – esprimeva il convincimento che le pugnalazioni costituissero proprio un mezzo per giustificare il disarmo generale e le nuove persecuzioni a carico dei siciliani, e ne
attribuiva la trama al questore Bolis. Anche alla luce della più recente indagine storiografica, la tesi di una trama reazionaria appare assai poco credibile, mentre si conferma il ruolo inquietante del Bolis, che appare il vero ‘inventore’ dell’episodio.
La magistratura credette al movente indicato dalla polizia
(«attentato diretto alla distruzione e cangiamento dell’attuale forma di Governo») e riconobbe la responsabilità del partito borbonico-clericale di Palermo, ma escluse inizialmente ogni responsabilità del partito d’azione, nella convinzione che «il partito esagerato, che dispone ed abusa della stampa, dei circoli, delle tribune, di ogni sorta di mezzo clamoroso, che fa appello al
sentimento e all’immaginazione ed innalza le bandiere dell’insurrezione, non ha bisogno di ricorrere a questi mezzi».
Anche se la colpevolezza dei mandanti non fu provata, l’episodio sembrava chiuso il 13 gennaio 1863 con l’emissione della
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Palermo
sentenza che condannava organizzatori e sicari alcuni a morte e
altri ai lavori forzati a vita, quando la stessa sera fu pugnalato un
venditore di pane, che si avviava tranquillamente verso casa. L’arresto di tre «individui di pessima condotta e camorristi» non
tranquillizzò la città, che anzi ripiombò nel panico. Grazie all’opera di un infiltrato, sembra manovrato dal Bolis, la magistratura riuscì a ricostruire, sia pure indiziariamente e con scarse prove, le fila della cospirazione, e il 13 marzo procedette a una serie di arresti e di perquisizioni che interessarono anche il palazzo arcivescovile e quello del principe di Sant’Elia, considerato
«capo ed autore di attentato contro la sicurezza dello stato», che
non poté essere arrestato per l’immunità parlamentare di cui godeva. Il Sant’Elia era uno degli uomini più in vista della città:
esponente di primissimo piano del partito moderato e senatore
del Regno, spesso veniva delegato da Vittorio Emanuele a rappresentarlo a Palermo nelle cerimonie ufficiali. Ma era anche
stretto parente dell’arcivescovo, di cui aveva sposato la nipote, e
il Comitato borbonico di Roma lo considerava ancora recuperabile alla causa di Francesco II. Assieme a parecchi preti (il ciantro della Cattedrale monsignor Calcara, il canonico Sanfilippo,
ecc.), sulla cui attività cospirativa gravavano forti sospetti, all’ultimo momento furono arrestati, su pressione della Questura, anche il Raffaele, il generale garibaldino Corrao e altri, cioè esponenti del partito regionista e dell’ala di sinistra del partito d’azione, i quali però furono prosciolti in istruttoria o assolti al processo. Il Sant’Elia non fu neppure rinviato a giudizio, perché il
Senato non concesse mai la prescritta autorizzazione, lasciando
nell’angoscia il sostituto procuratore Giacosa che aveva condotto le indagini, intimamente convinto della colpevolezza del principe.
Giovanni Corrao – un operaio calafato che assieme a Pilo aveva preceduto in Sicilia la spedizione dei Mille e che Garibaldi
aveva promosso generale – era il capo palermitano di una delle
due più forti correnti in cui i democratici cominciavano a differenziarsi dopo l’episodio di Aspromonte, che aveva innescato all’interno del partito d’azione un vivace dibattito che accentuava
sempre più le differenze e i contrasti. A lui e ai suoi amici, fermi
nella loro pregiudiziale repubblicana e più sensibili alle istanze
dei ceti meno abbienti, guardavano soprattutto le masse popola-
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ri. Pochi mesi dopo la sua liberazione, Corrao, dopo essere sfuggito a una precedente aggressione, cadeva vittima a Brancaccio
di un mortale agguato, organizzato – secondo i suoi seguaci – dalla Questura. E non è improbabile, perché alla Prefettura risultava che egli fosse l’anello di congiunzione tra i borbonici e la malavita locale e che stesse per organizzare un moto insurrezionale
in occasione dell’anniversario di Aspromonte. Il notevole ascendente di cui egli godeva tra i palermitani, e non solo negli ambienti popolari, costituiva sicuramente un grosso pericolo, dato
che alla sua attività destabilizzante guardavano con simpatia anche latitanti e renitenti di leva, ormai sempre più numerosi dopo i fatti di Aspromonte. La sua morte provocò grande emozione nella cittadinanza, che osservò il lutto con la chiusura delle
botteghe e l’esposizione di drappi neri ai balconi, mentre una
commissione di nobili lanciava un proclama e imponeva l’inumazione della salma nel Pantheon di S. Domenico, suscitando vivaci polemiche che portarono a una successiva traslazione nella
chiesa dei Cappuccini, da dove un secolo dopo le spoglie passarono nel chiostro della Società di Storia Patria, dove oggi riposano.
L’altra corrente del partito d’azione era capeggiata da Francesco Crispi, sulle cui posizioni si ritrovava buona parte dell’aristocrazia e della borghesia che militava nella Sinistra e appoggiava la coalizione liberale che reggeva il Comune. Già nel gennaio 1863 si osserva una prima significativa differenziazione tra
i due schieramenti: mentre Saverio Friscia, Giuseppe Badia, fra’
Pantaleo, Francesco Bonafede, Edoardo Pantano, il principe di
San Vincenzo e parecchi altri costituivano l’Associazione Democratica Italiana di Palermo, il cui «scopo fisso e culminante» era
il compimento dell’unità nazionale e che fu immediatamente
sciolta con la forza per ordine del regio commissario, il crispino
Perroni Paladini e il regionista Raffaele, riuniti in casa del barone Riso, davano origine all’Associazione per la tutela dei diritti
del popolo presieduta dal Crispi, che chiedeva invece per la Sicilia il rispetto delle garanzie costituzionali in quei mesi quasi
completamente ignorate. La rottura tra le due correnti si ebbe
tra la fine del ’63 e l’inizio del ’64, dopo la conclusione del dibattito parlamentare sui sistemi adottati in Sicilia, nella lotta alla renitenza alla leva e alla delinquenza, dal generale Govone, il
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Palermo
quale si era comportato con una spietatezza ingiustificata, sino
a sequestrare i parenti dei ricercati e a porre in stato d’assedio
interi paesi, privati addirittura dell’acqua. Fu allora che per giustificarsi il Govone parlò di una Sicilia non ancora passata dalla
barbarie alla civiltà. L’approvazione alla Camera a larghissima
maggioranza il 10 dicembre 1863 della fiducia al governo provocò per protesta le dimissioni di Garibaldi e di altri deputati della Sinistra, decisi a continuare l’opposizione fuori dall’aula parlamentare. Alcuni di essi approdarono poi sulle posizioni di democrazia socialista. Crispi, che alla Camera aveva rinfacciato duramente al governo l’illegalità dello stato d’assedio e l’applicazione contro i patrioti della legge Pica sul brigantaggio, preferì
non dimettersi e da Torino continuò a fare da pompiere, esortando i suoi amici a non offrire con il loro comportamento occasione per dimostrazioni e tumulti popolari. E con lui restò la
maggioranza del partito d’azione che, convinta dell’opportunità di un’intesa con la monarchia per non compromettere l’unità
del paese, si trasformava sempre più in una opposizione costituzionale.
Proseguiva intanto l’opera di ‘piemontesizzazione’ dell’isola
affidata a funzionari continentali, con i locali sempre più emarginati perché considerati «corrotti e passionati». Ciò contribuiva
ad aumentare le incomprensioni e ad approfondire il solco tra
paese legale e paese reale. Da un lato, un governo deciso a stroncare con ogni mezzo qualsiasi accenno di opposizione e incapace di un minimo di autocritica, di duttilità, di intelligenza politica per comprendere la carica di provocazione che potevano inevitabilmente contenere certi provvedimenti, come ad esempio il
ritorno a Palermo nel 1864 dell’odiatissimo generale Govone e
qualche mese dopo anche del generale dei carabinieri Giovanni
Serpi, accanito persecutore dei garibaldini; provvedimenti che
inasprirono ancor più gli animi e diedero luogo a numerosi duelli tra ufficiali e palermitani, in uno dei quali rimase ferito lo stesso Govone. Un governo, dicevo, rappresentato da una burocrazia sospettosissima e intollerantissima, che non perdonava niente all’esuberanza dei palermitani. Dall’altro lato, una popolazione che aveva certamente il torto di non voler comprendere le difficoltà di ordine internazionale e anche interno con cui il nuovo
Stato doveva fare necessariamente i conti, ma dotata di una fede
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incrollabile in Garibaldi e in Vittorio Emanuele, capace di entusiasmi eccezionali e di fiammate patriottiche incontenibili nelle
varie ricorrenze civili o in occasione di avvenimenti quali la venuta di Garibaldi per preparare l’impresa di Roma (giugno 1862);
l’inaugurazione del primo tronco ferroviario da Palermo a Bagheria (aprile 1863); la collocazione della statua raffigurante Palermo in piazza Fieravecchia, da dove era stata rimossa dalla polizia borbonica (maggio 1863); la visita del principe Umberto, accolto trionfalmente da una folla esultante (marzo 1864); l’arrivo
da Malta, dove era morto il 2 maggio 1863, della salma di Ruggero Settimo; la guerra di liberazione del Veneto: momenti di felicità o di intensa e sofferta commozione, in cui il popolo dimenticava i torti subiti e si stringeva compatto attorno alle istituzioni. Se l’Italia appena unificata non si sfaldò, non fu certo per
il pugno di ferro usato dalle autorità contro la Sicilia, ma piuttosto perché nei palermitani e nei siciliani il sentimento nazionale
e la fede nei destini della patria furono sicuramente assai più forti dell’odio verso gli uomini che rappresentavano le istituzioni.
Perché è bene precisare che i sistemi non cambiarono e le autorità continuarono a violare le leggi e i fondamentali diritti dei cittadini, sciogliendo associazioni operaie, reprimendo la libertà di
stampa, usando l’arresto come arma di vendetta politica; e tutto
ciò grazie anche alla compiacenza della magistratura, spesso succuba del potere politico e della polizia, cosicché lo Stato liberale continuò ancora a comportarsi come uno Stato di polizia, al
cui confronto quello borbonico appariva addirittura più rispettoso dei diritti umani:
Il domicilio de’ cittadini non fu sacro allora, non lo è stato oggi –
riferiva un esule del ’48 alla Commissione parlamentare di inchiesta
dopo la rivolta palermitana del 1866 –: ma gli arresti si facevano senza mandato del magistrato allora ed oggi. Ma gli uomini marcivano
illegalmente nelle prigioni allora e vi marciscono oggi: si deportavano all’isola di Favignana allora e si deportano oggi, si volevano e si
vogliono i responsabili di un delitto non coloro che lo hanno commesso, ma ben’anco i parenti, i congiunti sino al settimo grado de’
colpevoli e sino de’ soli imputati. Queste mostruosità si commettevano allora e si commettono oggi, ma vi ha di più. Si parlò ai tempi di
Maniscalco della cuffia del silenzio mezzo certamente atroce, barba-
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Palermo
ro, selvaggio, ma non si toglieva la vita senza giudizio, senza difesa,
senza sentenza.
A nulla, come si vede, erano valse le energiche proteste contro il trattamento riservato dal governo alla Sicilia, che da alcuni
anni erano state ripetutamente elevate dai parlamentari isolani,
primi tra tutti Vito D’Ondes Reggio e Francesco Crispi, e persino Filippo Cordova, uno dei rappresentanti siciliani più qualificati del partito di governo.
7. La rivolta del ‘sette e mezzo’
Alla morte del Corrao, la successione passò a Giuseppe Badia, un fabbricante di cera assai sensibile alle istanze di giustizia
sociale e ai problemi dei ceti subalterni, già condannato a morte
dai Borboni e costretto all’esilio, da dove era ritornato nel 1860
per combattere nell’esercito garibaldino e partecipare successivamente, agli ordini dello stesso Corrao, alla spedizione conclusasi ad Aspromonte. Nella sua azione destabilizzante, egli non
esitò a entrare in collusione con elementi borbonici e clericali che
miravano allo stesso scopo e che gli fornivano i mezzi finanziari
per ingaggiare squadre di facinorosi da utilizzare in sommosse
antigovernative. Più tardi, in una lettera a Garibaldi, se ne dichiarerà pentito. Ormai però i due tronconi del partito d’azione
marciavano ognuno per conto proprio e poteva anche accadere
che si trovassero minacciosamente di fronte su opposte posizioni, come in occasione delle manifestazioni provocate dal disegno
di legge Vacca sulla soppressione delle corporazioni religiose e
l’incameramento dei beni da parte dello Stato (1864).
Già l’approvazione della legge Corleo sull’enfiteusi forzosa
dei beni ecclesiastici (1862) aveva dato luogo a polemiche e a varie pubblicazioni. Ma ora la polemica si faceva assai più accesa e
coinvolgeva un po’ tutti i partiti e la stampa palermitana. Gli azionisti del Perroni Paladini si schierarono assieme ai moderati contro i «battaglioni di oziosi», cioè i numerosi religiosi che popolavano i tanti conventi siciliani e palermitani in particolare. Per
regionisti e azionisti dissidenti del Badia, i quali vedevano dietro
l’incameramento da parte dello Stato il desiderio della borghesia
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di impadronirsene, i beni ecclesiastici appartenevano al popolo
e perciò dovevano assegnarsi ai vari comuni. Per la Società Operaia, le corporazioni andavano soppresse senza però l’incameramento dei loro beni, che dovevano costituire patrimonio del popolo. Del tutto contrari al disegno di legge erano ovviamente borbonici e clericali, per i quali proprietaria dei beni doveva continuare a rimanere la Chiesa. L’8 gennaio 1865, in casa del duca
della Verdura si riunirono moderati e democratici, per organizzare un meeting e redigere un indirizzo al Parlamento per una
rapida approvazione della legge di soppressione, la quale avrebbe dovuto però tenere nella giusta considerazione le esigenze particolari della Sicilia, tutelare il posto di lavoro dei dipendenti laici dei monasteri, mantenere in vigore la legge Corleo sulla censuazione degli stessi beni. Al grande comizio che si tenne il 22
successivo nell’atrio dell’Università, i due partiti liberali, moderato e democratico, si presentarono uniti e per l’occasione furono suonati sia la marcia reale sia l’inno di Garibaldi, in precedenza considerato fuori legge. La manifestazione, sotto la presidenza onoraria di Garibaldi, fu però clamorosamente turbata da
fischi, oltraggi e schiamazzi provocati da una opposizione assai
eterogenea: borbonici, clericali, malandrini prezzolati e soprattutto dissidenti del Badia, nei cui confronti era già stato emesso
un mandato di cattura che lo costringeva alla latitanza. Dovette
intervenire la Guardia Nazionale, che riuscì ad allontanare i disturbatori – «facce livide e delittuose», secondo «Il Precursore»
– e a evitare il peggio.
La rottura tra le due più forti correnti del partito d’azione
diventava insanabile. L’ala crispina accusava gli irregolari di tradire la causa italiana e di alimentare il malcontento popolare,
che favoriva il gioco dei legittimisti, con i quali a volte colludevano; i seguaci del Badia ribattevano duramente accusando il
Perroni Paladini e gli altri azionisti di essere confidenti della polizia e di essersi venduti al governo. In realtà, di fronte al pericolo di una Restaurazione borbonica, i moderati del partito d’azione mettevano il silenziatore alla loro polemica antigovernativa e si stringevano ancor più alle autorità, raccomandando ai loro aderenti la concordia nell’interesse della patria. La loro stampa, con «Il Precursore» in prima linea, da tempo conduceva
un’accanita campagna per stimolare le autorità a una maggiore
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Palermo
vigilanza contro le mene reazionarie e, già nel luglio del 1863,
aveva denunciato:
I borbonici alzano le creste, si agitano alla sordina, causa è lo sgoverno in cui versiamo ed il malcontento, che pare a bello studio fosse esteso in tutte le classi. Noi però mentre riproviamo l’attuale andamento di cose, non lasciamo di schiacciare la testa alla biscia la più
velenosa, la quale a torto e a dritto vorrebbe mordere. Noi non li temiamo, gittino pure la maschera, e si mostrino a viso aperto, invece
di affissare cartelli col «Viva Francesco II, abbasso i tiranni», ed allora vedranno che sarà loro corrisposto lo istesso trattamento che si
ebbero il 27 maggio.
La linea di appoggio al governo in funzione antiborbonica era
confortata dal consenso dello stesso Mazzini, il quale – anche se
faceva carico al governo della «triste e imbecille condotta» che
causava il malcontento su cui si appoggiavano le mene reazionarie – nel giugno 1865 consigliò ai suoi seguaci di schierarsi con
le autorità e disapprovò quei repubblicani come il Badia che credevano di congiurare con i borbonici e i clericali, sperando poi
di instaurare la repubblica. Alcuni mesi dopo, Mazzini modificò
il suo atteggiamento e consigliò l’indipendenza «fra i due estremi, borbonismo e governo», ma non accettò mai l’accordo dei
repubblicani palermitani con i reazionari che produrrà poi quel
«moto acefalo e senza nome» del settembre 1866.
Proprio nel ’66, la preoccupazione della Sinistra moderata di
fronte alla ripresa del borbonismo era diventata tale da far passare addirittura in secondo piano la guerra di liberazione del Veneto, che, tenacemente voluta negli anni precedenti, adesso costituiva motivo di ulteriori preoccupazioni perché rendeva più facile un colpo di mano da parte della reazione:
Qui fra noi – scriveva «Il Precursore» nell’aprile 1866, con un linguaggio che ci appare assolutamente inconsueto e che dimostra il lungo cammino compiuto dai seguaci di Crispi – più che alla guerra nazionale e alla rivoluzione bisogna pensare a ciò che tenterebbero di
compiere gli uomini della guerra civile e della reazione clericale [...].
Qui dove il malcontento e l’odio contro un governo improvvido e
sciagurato sono nella massima tensione, al primo scoppio della guer-
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ra nazionale, al subitaneo movimento di quei generosi che sono sempre i più pronti a marciare nell’avanguardia delle patrie battaglie, all’ansiosa aspettativa dei primi fatti d’armi fra gl’Italiani e i loro eterni nemici, si tenterebbe qualche tafferuglio plateale, qualche moto illiberale e spietato, qualche dimostrazione armata in favore del trono
rovesciato.
Altrettanto vigili nel denunciare la ripresa del borbonismo
erano gli studenti universitari, sia attraverso la stampa, sia attraverso manifestazioni promosse da Edoardo Pantano, talora in
collaborazione anche con la Società Operaia, sottratta al controllo degli irregolari del Badia. A questo proposito, è opportuno ricordare che i democratici, oltre alle associazioni aventi finalità strettamente politiche, costituirono anche società operaie
di mutuo soccorso, organizzate, secondo l’insegnamento del
Mazzini, tra gli artigiani e i lavoratori più emancipati. Seppur
molto lentamente, sorsero anche società operaie sulle base dei
mestieri esercitati, talvolta su sollecitazione degli stessi moderati, i quali intendevano sottrarre i lavoratori all’influenza dei mazziniani.
Contrariamente alle preoccupazioni della Sinistra moderata,
l’armistizio che in attesa della pace concludeva la guerra di liberazione del Veneto (1866) non venne sfruttato dai legittimisti
per concretizzare le loro trame in un’azione antigovernativa, che
avrebbe avuto qualche possibilità di successo per l’assenza delle
truppe, richiamate ai confini. In realtà, il legittimismo palermitano da solo e senza l’aiuto degli uomini del Badia non era assolutamente in grado di mobilitare la piazza, e questo giustifica la sua
inazione. Badia in carcere e i suoi seguaci fuori non potevano
d’altra parte ignorare del tutto l’ammonimento del Mazzini, che
considerava gravemente colpevole un moto repubblicano che
avesse messo in pericolo l’unità nazionale, e perciò desistettero
da qualsiasi tentativo che avrebbe potuto compromettere l’esito
della guerra, a causa dell’eventuale richiamo nell’isola di una parte delle truppe impegnate contro l’Austria. La guerra aveva peraltro riacceso l’entusiasmo dei palermitani e dato luogo a una
serie di esaltanti manifestazioni patriottiche in cui il nome di Vittorio Emanuele veniva inneggiato assieme a quello di Garibaldi.
La partecipazione della città ai preparativi e poi alle fasi della
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guerra era stata spontanea e senza riserve, e la sua fede nella vittoria quasi incrollabile, persino dopo l’infausta giornata di Custoza.
La sconfitta di Lissa e l’ingloriosa conclusione della guerra
provocarono inevitabilmente notevole delusione, appena temperata dalla liberazione del Veneto. Per gli irriducibili seguaci del
Badia era giunto il momento di agire, anche perché ormai la legge sulla soppressione delle corporazioni religiose, approvata all’inizio di luglio, cominciava a far sentire i suoi effetti negativi sulla società palermitana e consentiva di coinvolgere nell’impresa i
cattolici e le masse popolari, oltre, naturalmente, i numerosi latitanti e i detenuti dell’Ucciardone che affidavano le speranze di
una rapida liberazione a una sommossa cittadina che rovesciasse
il governo e, come più volte era avvenuto in passato, aprisse loro le porte del carcere. Inoltre, come prevedeva anche il prefetto Torelli, la situazione tendeva sicuramente a peggiorare per l’interruzione dei lavori pubblici da parte degli appaltatori, con la
scusa del corso forzoso; per la siccità che aveva già danneggiato
la produzione granicola e manteneva elevato il prezzo del pane
(il prezzo medio del grano, che nel 1865 era stato pari a lire 18,60
a ettolitro, saliva nel 1866 a lire 25,57), oltre a privare dell’acqua
le borgate della città e a impedire il funzionamento di non pochi
mulini, con conseguente vertiginoso aumento dei costi della molitura del grano; per l’imminente chiamata alle armi della classe
1846, che avrebbe provocato un aumento dei renitenti, e quindi
dei latitanti, in conseguenza della propaganda borbonica e clericale contro lo scomunicato governo italiano. E di contro, la forza pubblica disponeva di un organico assai ridotto, non sufficiente neppure in tempi normali, anche perché il colera che aveva già colpito il continente faceva ritardare l’arrivo di nuove truppe, costrette a osservare il regolare periodo di contumacia.
Il pericolo che Palermo potesse dare da un giorno all’altro
«uno scandalosissimo esempio» era perfettamente avvertito da
«Il Precursore» del 22 agosto, che ne attribuiva la colpa all’azione del questore Pinna, il quale aveva fatto ampio ricorso al provvedimento di ammonizione giudiziaria nei confronti di sospetti
per i quali non era possibile trovare prove consistenti di reità, cosicché nella provincia di Palermo, alla vigilia dei sette giorni e
mezzo di insurrezione vissuti dalla città nel settembre ’66, gli ammoniti erano circa 5.000. A parte l’arbitrarietà dell’applicazione,
III. L’unificazione difficile
115
soprattutto quando si trattava di colpire avversari politici, il Pinna – avvalendosi poi della legge che, nell’approssimarsi della terza guerra di indipendenza, assegnava al governo poteri eccezionali – aveva spesso trasformato l’ammonizione in domicilio coatto ed ecceduto in arresti di rappresaglia nei confronti di parenti
di renitenti alla leva, con il risultato di provocare il sovraffollamento delle carceri (l’Ucciardone, progettato per 1.500 detenuti, ne ospitava 2.300, parecchi dei quali ignoravano il capo d’accusa) e di contribuire notevolmente a ingrossare il numero dei
latitanti, spesso proprio per sfuggire al domicilio coatto. I risultati dell’operazione del generale Medici contro latitanti e banditi, condotta dal maggio all’ottobre 1865, che aveva portato tra
l’altro all’arresto del Badia, erano stati perciò vanificati e nell’agro circostante si erano nuovamente ricostituite bande armate,
che – approfittando della scarsa presenza di forza pubblica – derubavano viaggiatori, sequestravano ricchi proprietari e bloccavano quasi interamente i traffici tra la città e l’interno dell’isola,
con ripercussioni negative sull’occupazione degli addetti al commercio e alle attività manifatturiere.
A fine agosto, apparvero alcuni proclami che, con toni da Le
ultime lettere di Jacopo Ortis, davano per consumato «il sacrifizio dell’Unità, della Libertà, dell’Indipendenza, dell’onore d’Italia», attaccavano la «masnada di ladroni [che] han governato
per sei dolorosissimi anni la Patria nostra» (che non era – è bene sottolinearlo – la Sicilia, ma l’Italia), deprecavano la monarchia sabauda, accusata di tradimento per le disfatte di Custoza
e Lissa, inneggiavano alla repubblica e incitavano alla rivolta. Ormai tutti credevano – i carcerati dell’Ucciardone ne erano sicurissimi – che la sommossa fosse imminente. Tutti tranne le autorità: il prefetto Torelli, ingannato dal questore Pinna, tre giorni
prima del 16 settembre comunicava al ministro dell’Interno che
Palermo era tranquilla. Il questore sapeva dei preparativi per
l’insurrezione, ma era convinto di poterla controllare attraverso
i suoi informatori segreti e tranquillizzava le autorità militari e
gli stessi carabinieri, magari per attribuirsi successivamente il
merito di averla sventata. Come in altre occasioni, la rivolta ‘controllata’ doveva servire alla polizia per giustificare poi nuove retate. «Il Precursore» comprese il gioco e accusò il questore di
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Palermo
proteggere i capi dell’agitazione: il Pinna fece arrestare il direttore del giornale.
Gli organi di stampa governativi e la pubblicistica coeva di
parte moderata tentarono successivamente di accreditare l’interpretazione di una matrice brigantesca e borbonico-clericale della rivolta, che si sarebbe avvalsa del «fecciume delle più abiette
classi della società». Anche il mazziniano Bagnasco, in una lettera al Crispi, parla di moto a carattere reazionario, malgrado la
copertura della bandiera repubblicana per ingannare le masse.
Ma alla luce delle più recenti indagini storiografiche appare indubbio ormai che il via sia stato dato dai repubblicani del Badia
che trovarono nel malandrinaggio e nei numerosi latitanti dell’agro cittadino e dei paesi circostanti la prima forza d’urto, che fece da esca all’esplosione violenta dell’esasperazione e dell’odio
popolare contro misure poliziesche e militari spesso intollerabili
e contro un’azione governativa e municipale (si pensi, ad esempio, alla lotta contro il contrabbando), che alterando – come si è
accennato nelle pagine precedenti – gli equilibri parassitari su cui
si era retta la vita della città, senza offrirle valide alternative a breve scadenza, aveva provocato un notevole disagio materiale e morale. Borbonici e clericali soffiarono certamente nel fuoco e molto probabilmente finanziarono le squadre (i benedettini di Monreale furono accusati di aver fornito cospicui mezzi ai rivoltosi,
tra cui 200 fucili della Guardia Nazionale che tenevano in deposito), ma non ne furono gli attori principali, pur se è stata accertata la partecipazione di elementi del clero, esasperato per la soluzione data al problema delle corporazioni religiose; e perciò la
rivolta non ebbe motivazioni separatistiche né antiunitarie, ma
più semplicemente repubblicane nei promotori e fortemente antigovernative nei ceti subalterni (operai senza lavoro, ex impiegati del macino, cocchieri, muratori, macellai, artigiani, ecc.), che
vi aderirono con l’entusiasmo già manifestato nelle precedenti occasioni e al grido di «viva santa Rosalia», che talora si alternava
con quello di «viva la repubblica», non tanto perché la plebe palermitana si fosse improvvisamente convertita alla repubblica,
quanto per il significato antigovernativo che esso assumeva nella circostanza. Che la rivolta non avesse motivazioni antitaliane
lo dimostra, inoltre, il rispetto con cui gli insorti, diversamente
che nelle precedenti insurrezioni antiborboniche, trattarono i lo-
III. L’unificazione difficile
117
ro prigionieri, tanto che, per gli «atti generosi e nobili» di cui la
plebe si rese protagonista, al Pagano sembrò che «l’indole ne fosse modificata e che a idee civili ella volgesse». È difficile attribuire il diverso comportamento popolare a una rapidissima modificazione dei costumi e non piuttosto a una diversità di motivazione, ma se così fosse, significherebbe che i sei anni di governo italiano avevano pure avuto, e ne ebbero sicuramente, dei risvolti positivi.
All’alba del 16 settembre, la città fu così invasa da bande armate provenienti dalle campagne circostanti, alcune delle quali
al comando del latitante Salvatore Nobile e del monrealese Salvatore Miceli, già a capo di squadre di volontari nel ’48 e nel ’60
e appena liberato dal carcere per l’intervento del Pinna, intervento che si presta certamente a dei sospetti, se si pensa che il
questore aveva l’arresto facile, come dimostra il caso del direttore del «Precursore», e spesso disattendeva gli ordini di scarcerazione dell’autorità giudiziaria. Entravano in azione anche le squadre cittadine e il popolo insorgeva ovunque, trovando le armi in
due magazzini e soprattutto al Tribunale, dove si conservavano
fucili e pistole sequestrati in precedenza dall’autorità giudiziaria.
Già nella mattinata gli insorti potevano considerarsi padroni della città. Non riuscirono però a vincere la resistenza delle truppe
a difesa dell’Ucciardone, che fu oggetto di numerosi furibondi
attacchi allo scopo di liberare i detenuti, tra cui il Badia, e coinvolgerli nella rivolta. Anzi, perdettero il Miceli, colpito da scariche di mitraglia che gli troncarono le gambe.
Diversamente dal 1860, nobiltà e borghesia («la cittadinanza», per usare l’espressione delle fonti) rimanevano sostanzialmente estranee alla rivolta, piuttosto attonite e senza riuscire a
«raccapezzarsi chi avesse spinto quel moto, chi fosse per capitanarlo». Intuivano comunque sicuramente il carattere repubblicano e antigovernativo del movimento, se soltanto il terzo giorno l’aristocrazia aderì all’invito di far parte di un Comitato provvisorio con quasi tutti gli elementi vicini al partito d’azione,
preoccupati soprattutto di frenare gli eccessi dei rivoltosi, alla cui
costrizione attribuiranno successivamente la loro partecipazione.
Al contrario, «le masse pugnavano ovunque senza ristarsi mai:
eppure non aveano ordini, né capi, che capi non erano quei comandanti di squadre, gente facinorosa e messa innanzi ad esse
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Palermo
forse più dal caso che dall’altrui volere». Le diverse e talora confuse motivazioni della rivolta, non sempre chiare neppure agli
stessi insorti, e il fatto che tra i promotori non ci fossero personaggi noti e di spicco davano ai contemporanei l’impressione che
il movimento fosse acefalo, ma in realtà da circa 40 giorni operava a Palermo un Comitato rivoluzionario, presieduto dal repubblicano Lorenzo Minneci, seguace del Badia e anch’egli scarcerato dal Pinna poco tempo prima, che ritroveremo negli anni
successivi tra le file dell’Internazionale, assieme allo stesso Badia
e a parecchi altri repubblicani. Del Comitato facevano parte anche il camorrista (leggi: mafioso) Michele Oliveri, nella cui casa
si riunivano i congiurati, il benedettino padre Placido Spadaro,
e parecchi altri sconosciuti repubblicani, che le autorità di polizia insisteranno a considerare borbonici travestiti e che lo stesso
Mazzini condannerà. Senza la loro direzione nella fase dei preparativi e nei primi due giorni della rivolta, non si giustificherebbe il successo iniziale, che non può spiegarsi soltanto con la
scarsità di truppe presenti in città o con l’incapacità dei generali italiani di organizzare la controffensiva. Saranno stati, come
vuole il Pagano, «uomini facinorosi e d’indole manesca», ma – a
parte il fatto che parecchi di essi avevano già congiurato contro
i Borboni e avevano al loro attivo la precedente esperienza del
’60 e taluni anche quella del ’48, con la sola differenza «che ora
si chiamano briganti perché non vi fu alcuno che prese il negozio e [...] al 1848 e al 1860 si chiamarono eroi», come scriveva
Gaspare Bivona a Francesco Crispi – l’attacco alla città dalla campagna e le successive fasi dell’occupazione mostrano chiaramente come i capi non mancassero di capacità tattiche e seguissero
un piano organizzativo ben preciso, anche se non privo di punti
deboli come nel caso del ritardo con cui si provvide al taglio dei
fili del telegrafo. I problemi, semmai, vennero dopo, quando si
trattò di gestire la vittoria: non essendo riusciti a liberare dal carcere il Badia, il 18 mattina dovettero ricorrere a nuovi capi per
costituire un nuovo Comitato provvisorio, del quale fecero parte
gli aristocratici cui si è accennato, il borbonico monsignor Gaetano Bellavia, il dottor Onofrio Di Benedetto e Francesco Bonafede, la vera mente della rivolta in qualità di segretario del Comitato, che aveva già partecipato al ’48 e congiurato con Spinuzza
III. L’unificazione difficile
119
nel ’56, e perciò era stato condannato a morte e poi a 18 anni di
carcere, dal quale lo aveva liberato nel ’60 la venuta di Garibaldi.
Il nuovo Comitato – di cui facevano parte ben tre membri autorevoli della Massoneria (i principi di Linguaglossa e di San Vincenzo e il dottor Di Benedetto), il ruolo della quale nella vicenda andrebbe approfondito – si limitò comunque a frenare i saccheggi e a insinuare nell’animo degli insorti il convincimento che
la loro azione, per l’arrivo intanto dei rinforzi inviati dal governo, non poteva avere sbocchi positivi, tanto che parecchi cominciarono a riprendere la via del ritorno già prima degli scontri decisivi del giorno 21. Quando i soldati riconquistarono il municipio e raggiunsero Palazzo Reale, dove da giorni si erano asserragliate le autorità, i capisquadra si resero conto che la sconfitta era ormai inevitabile e, dopo aver chiesto invano, attraverso
alcuni ufficiali prigionieri, di poter contrattare un’amnistia che
salvasse la vita ai più compromessi, approfittarono delle tenebre
e lasciarono la città. L’indomani alle 12 i soldati erano definitivamente padroni di Palermo e nel pomeriggio faceva il suo ingresso il generale Raffaele Cadorna, comandante delle truppe e
regio commissario con poteri straordinari per l’intera provincia.
A distanza di un decennio, la plebe palermitana ricorderà ancora quei giorni con compiacimento, con vanto – rilevava irritato il questore –, «col tanto strombazzato aforisma di popolo delle iniziative, quasiché quel triste avvenimento fosse stato il precursore della Comune di Parigi». Intanto però doveva fare i conti con il colera portato dai soldati – attribuito al veleno sparso a
cura del governo e debellato dopo quasi un anno, quando aveva
fatto parecchie migliaia di vittime – e un nuovo stato d’assedio,
che significava arresti indiscriminati, disarmo e tribunali militari, alla cui competenza passavano anche i processi già in corso
che potessero avere un qualche riferimento alla rivolta. Provvedimenti contro i quali – come già in passato – continuarono a
scagliarsi le opposizioni, ma sempre ben graditi se non addirittura invocati dai moderati. Così, con l’Ucciardone che scoppiava per i suoi 3.600 detenuti, i tre tribunali militari si misero al lavoro e, in quaranta giorni di attività, emisero 8 sentenze di condanna a morte (di cui solo due eseguite, mediante fucilazione alla schiena, alle falde del Monte Pellegrino), 48 ai lavori forzati a
vita, 37 ai lavori forzati da 10 a 20 anni, 10 a pene minori e 63
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Palermo
assoluzioni. Furono arrestati quasi tutti i componenti del Comitato provvisorio, presto comunque rilasciati. Per punire più in
fretta quei religiosi che si ritenevano implicati negli avvenimenti, si accelerò lo scioglimento delle corporazioni religiose e si arrestò l’arcivescovo di Monreale, l’ottantenne filosofo Benedetto
D’Acquisto: Crispi, che lo ebbe maestro all’Università, giudicò la
carcerazione un insulto alla scienza. Anche l’ottuagenario arcivescovo di Palermo, G.B. Naselli, fu chiamato a render conto del
suo operato e rimproverato aspramente di non essersi adoperato
per pacificare gli animi, ma la risposta ferma e dignitosa del prelato ribaltò sul governo la responsabilità morale dell’accaduto.
Il governo, da parte sua, non mancò di fare qualche autocritica e, per evitare che in futuro analoghi tentativi insurrezionali
trovassero ampi consensi tra la popolazione (le cospirazioni del
gruppo del Badia, amnistiato dopo qualche anno, continuarono
ancora negli anni Settanta, dapprima sotto la bandiera repubblicana e successivamente sotto quella dell’Internazionale), cominciò a tenere in più seria considerazione il problema Palermo. Già
il Cadorna aveva consigliato l’opportunità di «sostituire agli arbitri della polizia, pur troppo lamentati per lo innanzi, l’efficace
forza della legge»; di «valersi della autorità e dei consigli di alcuni uomini sinora tenuti in disparte», con chiaro riferimento ai
regionisti, considerati «uomini [...] onesti innanzi tutto»; di destinare «una maggiore spesa [...] per opere pubbliche a peso dello Stato o per lo sviluppo di quelle istituzioni per cui contraddistinguesi la civiltà di molte altre provincie del Regno»; di «non
dare a certe leggi, e specialmente di Sicurezza Pubblica, una draconiana applicazione, che toglie loro il debito effetto anzi le fa
feconde di maggior danni». I provvedimenti eccezionali vennero
presto revocati e già nel gennaio 1867 si promulgò un’amnistia,
che però ebbe una lenta applicazione. A reggere gli uffici più rappresentativi della provincia furono chiamati, per la prima volta,
dei siciliani: il marchese di Rudinì la Prefettura e Giuseppe Albanese, fratello del più noto Enrico e vicino al partito d’azione
moderato, la Questura. Il Comando militare venne affidato al generale Medici, valoroso eroe del Risorgimento e uno dei partecipanti alla spedizione dei Mille. Fu inoltre sollecitata l’esecuzione
di lavori pubblici a spese dello Stato e del Comune, mentre la
Camera approvava la nomina di una Commissione parlamentare
III. L’unificazione difficile
121
di inchiesta sulle condizioni della città, che presentò la sua relazione nella seduta del 22 luglio 1867.
La notizia della sua istituzione provocò in città una fioritura
di studi e proposte, allo scopo di orientarne in un senso o nell’altro i risultati. Per la burocrazia, la Camera di Commercio e i
moderati locali, il problema fondamentale era quello della sicurezza pubblica, che poteva essere risolto solo con il ricorso a una
legislazione eccezionale, che per la verità la Sicilia aveva più volte sperimentato con i noti risultati. Di contro, altri, soprattutto
di parte regionista, contestavano una simile impostazione del
problema e insistevano per la concessione di una maggiore libertà
amministrativa. Lo stesso procuratore generale Giuseppe Borsani considerava un errore insistere nell’uso di mezzi repressivi eccezionali e auspicava piuttosto leggi speciali che consentissero
nuovi sbocchi occupazionali per alleviare il malcontento popolare. La Commissione operò rapidamente e, a conclusione dei suoi
lavori, presentò cinque progetti di legge, quattro dei quali furono approvati dal Parlamento. Si trattava complessivamente, rispetto ai mali che la stessa Commissione aveva accertato, di provvedimenti insufficienti e per di più di difficile attuazione come
dimostra la lentezza con cui si procedette nella costruzione delle strade. Non passò invece il disegno di legge in materia giudiziaria che ribadiva la validità del procedimento indiziario nell’accertamento dei reati e nell’attribuzione delle condanne per
quei detenuti i cui atti giudiziari erano stati distrutti durante la
rivolta. La sua sospensione sine die provocò l’indignazione dei
moderati palermitani, ai quali stava essenzialmente a cuore il problema della sicurezza pubblica, e il Rudinì, che aveva condizionato l’accettazione dell’incarico di prefetto della città in un momento così difficile all’accoglimento di alcune richieste, tra cui la
«deportazione temporanea ma lunga» dei «ribaldi notori», rassegnò per protesta le dimissioni, condivise pienamente dalla
stampa moderata.
8. La mafia tra Borboni e Savoia
La relazione conclusiva della Commissione parlamentare di
inchiesta su Palermo dedica al fenomeno mafioso qualche fuga-
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Palermo
ce accenno e bandisce rigorosamente i due termini camorra e mafia, usati soltanto in alcune deposizioni a essa rilasciate. Dimenticanza ingiustificabile, se si pensa che proprio gli anni immediatamente successivi all’unificazione italiana costituiscono una
fase di rapida espansione del fenomeno e che Palermo era la città
dove esso aveva avuto la sua culla e dove – a giudizio dei contemporanei – si manifestava con maggiore veemenza: è assolutamente da respingere, a questo proposito, la tesi, affermatasi nell’ultimo cinquantennio, di una mafia che ha avuto le sue origini
nelle zone interne latifondistiche ed economicamente arretrate,
da dove si sarebbe poi spostata verso le zone costiere. I contemporanei erano inoltre convinti che essa preesistesse al loro tempo e tale convinzione durò per tutto l’Ottocento. Le definizioni
che ne davano erano comunque ben diverse da quelle oggi correnti: per i più si trattava di un fenomeno delinquenziale, sinonimo di camorra, malandrinaggio, brigantaggio; per altri di un
fatto comportamentale, spesso addirittura privo di elementi delinquenziali. In realtà, come tutti i fenomeni storici, la mafia ha
subìto una sua evoluzione e ha dovuto modificare nel tempo i
suoi caratteri, i suoi strumenti, le sue alleanze, la sua stessa fisionomia, con una spregiudicata flessibilità che le ha consentito di
adattarsi alle situazioni più diverse per trarne immutati vantaggi.
E infatti, la mafia di oggi non è più quella dell’Ottocento e neppure quella dell’immediato dopoguerra. Non è senza significato,
d’altra parte, che ogni epoca, ogni inchiesta parlamentare, abbia
dato di essa una sua definizione.
Diversamente da quanto si riteneva nell’Ottocento, i mafiologi e la storiografia del secondo dopoguerra sono generalmente
contrari a spostare il termine a quo del fenomeno mafioso anteriormente all’unità d’Italia, nella convinzione che esso si caratterizzi soprattutto come connivenza tra delinquenza e potere pubblico e che come tale si fosse manifestato solo dopo il 1860. Anche per la Commissione parlamentare antimafia, che ha concluso i lavori nel 1976, la storia della mafia è caratterizzata dall’«intrico di complicità e di connivenze col potere formale dello Stato», poiché connotazione specifica del fenomeno è «l’incessante
ricerca di un collegamento con i pubblici poteri». Per evitare
però di considerare di natura mafiosa qualsiasi atto di corruzione di pubblici funzionari, è indispensabile nella definizione del
III. L’unificazione difficile
123
fenomeno tener conto di altri elementi caratterizzanti, come l’intimidazione e il ricorso alla violenza fisica, senza i quali la collusione tra delinquenza e potere non può considerarsi mafiosa.
Inoltre, l’attività delinquenziale con relativo esercizio della violenza non sempre si è esplicata in collusione con il potere costituito, ma talvolta in concorrenza con esso o in sostituzione, perché in Sicilia, prima e dopo l’unità, il vero potere spesso non è
stato detenuto dallo Stato, ma dai ceti dominanti, con cui si è collegata la malavita, in opposizione al potere legale. Conseguentemente, ciò che rende diversa la mafia dalla delinquenza comune
è non tanto il collegamento con il potere pubblico, quanto piuttosto il collegamento con il potere tout court, che non è necessariamente il potere costituito. E allora la tesi di un 1860 come termine a quo del fenomeno mafioso non trova più valide motivazioni.
Per Palermo lo stretto rapporto tra malavita e potere, tanto
pubblico (quello viceregio) quanto privato (quello dei baroni, in
una città che non era soggetta alla giurisdizione feudale), è ampiamente documentato dalle fonti, a cominciare quanto meno dai
primi decenni del Cinquecento. Quando nel 1565 il viceré spagnolo Garcia de Toledo giunse a Palermo, la trovò oppressa dalla presenza di «molti spataccini e bravacci che vivevano imperiosamente, inquetando e componendo [= taglieggiando]» impunemente, perché protetti da «signori e uomini potenti», «nobili» – come espressamente rilevava un cronista dell’epoca – che
«volevano dominare» la città, servendosi di robuste squadre di
bravi. A parte le estorsioni nei confronti dei mercanti, documentate anche da altre fonti, «si occidevano uomini per le strade di giorno e non se ne parlava», «si rapivano donne e si facevano altri enormi eccessi pubblicamente», e «chi li contraddiceva si trovava allo spesso morto ed assassinato». Non mancavano
neppure gli scontri tra gruppi rivali nelle strade e nelle piazze,
con morti da ambo le parti lasciati sul terreno, che ci ricordano
le lotte dei nostri anni tra opposte cosche mafiose per la conquista della supremazia cittadina.
Alcuni viceré spagnoli non avevano addirittura esitato a concedere amicizia e favore a colui che nella seconda metà del Cinquecento veniva considerato il «capo di tutti i bravacci» e re del
mercato della Vucciria, Girolamo Colloca, che, riverito da tutti,
124
Palermo
era solito passeggiare tranquillamente per la città con un codazzo di guardaspalle. Quando poi il viceré Marco Antonio Colonna, l’eroe della battaglia di Lepanto, lo fece catturare e lo condannò a morte, il più bel mondo della città («signori, cavalieri e
dame») si mosse in suo favore. Intervenne persino il Comune «in
forma di città», cioè con atto ufficiale del suo Senato, che ci fa
pensare all’esistenza di rapporti assai poco limpidi tra autorità
comunali e delinquenza. In precedenza, il Colonna stava per giocare un altro brutto tiro alla feudalità che colludeva con la malavita: era riuscito a ottenere l’estradizione dalla Toscana a Palermo di un famoso bandito, Rizzo di Saponara, che «aveva pratica con molti signori del regno [di Sicilia] e [...] era da quelli favorito». I protettori riuscirono però a far avvelenare il bandito
sulla nave che lo portava a Palermo, per paura che, torturato, ne
facesse i nomi. Il comportamento del Colonna rappresenta comunque un fatto quasi isolato nella storia della Sicilia spagnola,
perché la debolezza del governo non consentiva allo Stato di
rompere i legami tra nobiltà e delinquenza e lo costringeva spesso a tollerarli apertamente e a farsene connivente, sino a ostacolare il normale corso della giustizia1.
La situazione non appare diversa attorno alla metà del Seicento: «i cavalieri più ragguardevoli che ponno tirare con loro
gran parte del regno», cioè i grandi baroni, commettevano – si
legge in una relazione del tempo – «atrocissimi delitti» che rimanevano impuniti, perché la giustizia veniva conculcata senza
1
Erroneamente, l’Alongi (G. Alongi, La maffia, Forni, Bologna 1977, 1ª
ed. 1886, p. 50) attribuisce al principe di Galati il convincimento che l’«alta
maffia» avesse sempre goduto dell’immunità da parte del governo, dai tempi
del viceré conte d’Olivares (fine Cinquecento) sino a quelli del ministro dell’Interno Nicotera (1876-1877). A sostegno cita il Turiello, il quale però parla
del signor Galati e non del principe di Galati (cfr. P. Turiello, Governo e governati in Italia, a cura di P. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1980, p. 32). Mi è
sorto il sospetto che autore della lettera riportata dal Turiello potesse essere il
dottor Gaspare Galati, allora a Napoli per sfuggire alla mafia palermitana, ma
la consultazione della fonte («Gazzetta di Napoli», 22 – non 2 – luglio 1876)
dimostra che ne è autore il pubblicista Domenico Galati, che nulla aveva a che
vedere con il principe di Galati. Sulle orme dell’Alongi – quasi sempre non citato –, tutti coloro che hanno ripreso il concetto lo hanno sempre, erroneamente ripeto, attribuito al principe di Galati. È la dimostrazione della leggerezza con cui è stata spesso affrontata la storia della mafia.
III. L’unificazione difficile
125
timore dalle «persone potenti», le quali, divise in fazioni e «parzialità» continuavano a tenere alle loro dipendenze «gente facinorosa carica d’arme da fuoco prohibite», persino quando erano
a passeggio in carrozza. Anche i mercanti che facevano capo al
genovese Giovanni Andrea Massa, diventato prima conte e poi
duca, avevano i loro bravi e addirittura riuscirono a farne nominare uno, Francesco Cannella, giurato della città, una carica che
equivale a quella odierna di assessore comunale. Il Cannella si
sdebitò subito, facendo acquistare al Comune ben 13.000 tonnellate di grano, fornito dagli stessi mercanti a un prezzo assai
più alto di quello di mercato, con una perdita per l’amministrazione di una somma elevatissima.
I rapporti tra aristocrazia e delinquenza si strinsero ancor più
nella prima metà dell’Ottocento. La soppressione della giurisdizione feudale decretata dalla Costituzione del 1812 aveva privato l’aristocrazia di un effettivo potere legale, che si era trasferito,
per quanto riguarda la giustizia, nelle mani di funzionari statali
non più dipendenti – almeno giuridicamente, perché di fatto continuavano spessissimo a esserlo – dai baroni e, per quanto riguarda l’amministrazione civica, nelle mani di personaggi che non
sempre erano disposti a comportarsi, come in passato i giurati di
nomina baronale, da docili servitori degli antichi feudatari. La fine dell’antico Regno di Sicilia, unificato con quello di Napoli, e
la conseguente soppressione del Parlamento (1816) privavano
inoltre – come si è già accennato – l’aristocrazia di un notevole
potere politico. Tutto ciò poteva determinare – e talvolta la determinò – la rottura delle vecchie gerarchie politiche e sociali e la
creazione di nuove, non più legate ai vecchi detentori del potere
e agevolate in qualche modo anche dall’assolutismo napoletano,
che mirava a collegarsi direttamente con i ceti borghesi scavalcando l’intermediazione aristocratica.
Gli ex feudatari non si rassegnarono e già in occasione dei
moti palermitani del 1820 concretizzarono il loro sentimento antiborbonico e antistatualistico nella volontà di dar vita a uno Stato siciliano indipendente, cioè in una rivendicazione politica che
serviva peraltro a incanalare la sollevazione popolare su un obbiettivo lontano dalla eversione sociale. Ai moti parteciparono attivamente la delinquenza e gli evasi dalla Vicaria e dal bagno penale, ai quali il governo provvisorio, composto quasi esclusiva-
126
Palermo
mente da aristocratici, si affrettò a concedere una larga amnistia.
Da allora l’accordo tra aristocrazia e popolo in funzione antinapoletana sarà una costante della storia palermitana. Intanto, per
continuare a mantenere di fatto quel potere legale passato allo
Stato e ai comuni dopo il 1812, gli ex feudatari ricorsero a un antico sperimentato sistema: il mantenimento di «una forza che stava attorno a loro e della quale essi si sono sempre serviti per farsi giustizia da sé senza ricorrere al governo [...]; pei furti, per le
vendette personali, nonché per qualunque oggetto per cui in altre condizioni si sarebbe dovuto ricorrere alle autorità si ricorreva a questa gente, e per me – ne deduceva il duca di Cesarò –
qui sta l’origine della mafia».
L’intervento della malavita nelle rivoluzioni del ’48 e del ’60
era ammesso da esponenti della Sinistra, che confermano come
la mafia non fosse un fenomeno apparso all’improvviso dopo il
1860. Secondo il senatore barone Turrisi, già membro del governo rivoluzionario del ’48 e presidente del Comitato di guerra,
allora il baronaggio si era avvalso della mafia che proteggeva, perché soltanto «gli uomini della setta» e la «numerosa classe dei
guardiani rurali e dei contrabbandieri dell’agro palermitano» erano in possesso di armi. E così nel 1860:
Al 4 aprile 1860 era in armi tutta la setta dei vecchi ladri che serbavano in animo il più feroce odio alla polizia borbonica: in armi era
tutta la gioventù che vivea col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei contrabandieri dell’agro palermitano.
D’altra parte, sappiamo già dal duca di Cesarò come il reclutamento delle squadre fosse avvenuto anche tra elementi dalla fedina penale niente affatto limpida, legati alla aristocrazia che li
proteggeva. Delle squadre, ad esempio, facevano parte, oltre a
noti banditi come il bagherese Giuseppe Scordato e il monrealese Salvatore Miceli, personaggi come Salvatore Licata, Antonino Giammona, Giuseppe Badalamenti (‘u zu Piddu Ranteri) e tali Cusumano e Di Cristina, già allora in odore di mafia, che ritroveremo negli anni successivi a capo di cosche mafiose. Qualcuno di essi (Scordato, Miceli e forse Giammona) aveva partecipato anche agli avvenimenti del ’48 e lo abbiamo visto impegnato anche in quelli del ’66.
III. L’unificazione difficile
127
Sia pure a posteriori, attorno al 1870, due personaggi di primo piano della vita politica palermitana dell’Ottocento indicavano quindi col nome di mafia la malavita con cui l’aristocrazia
si era accordata in funzione antiborbonica. Qualcuno sostiene
addirittura che il termine mafia circolasse già nel ’48: ovviamente con un significato ormai ben diverso da quello in uso nella prima metà del Settecento, quando mafiusedda stava a indicare, secondo il Pitrè che aveva trovato il vocabolo in una poesia dell’epoca, cosa o persona bella e di qualità superiore. Non c’è dubbio però che i termini mafia e mafiusu abbiano cominciato a
diffondersi soltanto dopo il 1860, in seguito alla rappresentazione nel 1863 della nota commedia di Gaspare Mosca e Giuseppe
Rizzotto I mafiusi della Vicaria, che tratta della vita e delle abitudini di un gruppo di malandrini del carcere palermitano dell’Ucciardone: il Mosca, secondo il Pitrè, avrebbe adottato il termine mafiusu dai ragazzi della Fieravecchia, che lo usavano col
significato di prepotente. Nel 1865, il vocabolo mafia venne adottato anche dal prefetto Gualterio in un suo rapporto al ministro
dell’Interno, per designare una «associazione malandrinesca» legata a determinati partiti politici: ai liberali nel ’48, ai Borboni
nella Restaurazione successiva, ai garibaldini nel ’60.
Il riferimento ai Borboni conferma come neppure la connivenza tra delinquenza e potere pubblico fosse un fatto nato all’improvviso con l’unità d’Italia, ma caratterizza – come si è già
accennato a proposito dell’azione dei viceré spagnoli – anche periodi anteriori della storia dell’isola. Il luogotenente Satriano aveva amnistiato i delinquenti implicati nell’insurrezione del ’48 e
aveva addirittura nominato capitani d’arme gli ex capisquadra
Miceli e Scordato. Riprendendo poi una vecchia politica, Maniscalco reclutò tra essi parte del personale delle Compagnie d’armi, che avevano il compito di dare la caccia ai ladri e l’obbligo
di indennizzare i proprietari per i furti subiti. Come osservava
nel 1871 Tommasi-Crudeli, le Compagnie d’armi – costituite da
«ribaldi matricolati, non di rado capitanati dal più matricolato di
tutti, il quale colla sua Compagnia si faceva mallevadore della sicurezza di un distretto» – limitavano il malandrinaggio monopolizzandolo. Lo Stato cioè transigeva con i malfattori e affidava
loro la sicurezza pubblica, poco curandosi dei sistemi che essi
usavano per mantenerla. Allo scopo di limitare il malandrinaggio
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Palermo
nella città e i furti a danno di privati, Maniscalco consentiva inoltre alla camorra palermitana l’esercizio su larga scala del contrabbando a danno delle finanze comunali, sino al punto che esso era considerato quasi un mestiere onesto e veniva praticato da
migliaia di palermitani. Se si considera che il contrabbando sarà
una delle attività preferite sino ai nostri giorni dalla mafia cittadina, non crediamo di sbagliare assimilando ai mafiosi di qualche anno dopo i camorristi che lo controllavano al tempo di Maniscalco e anche in precedenza.
Non sembra, infatti, accettabile la differenziazione tra camorra e mafia tentata nel 1875 dall’avvocato Giacomo Pagano,
per il quale la camorra era soltanto «un guadagno illecito sulle
transazioni economiche» e la mafia «l’abitudine di fare astrazione del diritto e della legge, [...] l’inno quotidiano alla forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi o di idee», una definizione quest’ultima che considera soltanto gli aspetti più appariscenti. Come poi sarà per i mafiosi, i
contrabbandieri-camorristi protetti da Maniscalco, ossia dal potere pubblico, non si limitavano a guadagnare illecitamente sulle transazioni economiche o a esercitare il contrabbando, ma erano capaci al momento opportuno di usare abbondantemente la
violenza, se il mazziniano Rosario Bagnasco li considerava «gente che non la perdona né anche a Dio». Ecco perché la camorra
palermitana non era altro che la mafia prima che il nuovo termine si affermasse e soppiantasse l’antico, come asseriva già nel
1874 il professor Giuseppe Stocchi.
L’avvento dello Stato liberale offrì alla mafia nuove possibilità
di affermazione e di espansione. È vero, le amministrazioni comunali moderate epurarono abbondantemente il corpo delle
guardie daziarie, che con la loro acquiescenza e spesso connivenza agevolavano l’attività dei contrabbandieri, la cui arroganza superò ogni limite nel 1862, quando attaccarono a coltellate
le guardie urbane di Porta d’Ossuna, provocando morti e feriti.
Ma la malavita era capace di crearsi facilmente attività alternative, grazie al disordine che caratterizzò i primi anni del Regno d’Italia. Intanto, i suoi ranghi si rinfoltirono notevolmente, a causa
della situazione di disagio economico venutasi a creare dopo l’unità, del ritorno in libertà degli ex detenuti dell’Ucciardone amnistiati, dello scioglimento delle squadre garibaldine e dell’eser-
III. L’unificazione difficile
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cito meridionale, della renitenza alla leva: fattori tutti che favorivano una violenta recrudescenza del brigantaggio nelle campagne e una rapida diffusione della delinquenza cittadina, con conseguente aumento del numero degli attentati, dei sequestri e dei
delitti in genere, spesso impuniti per l’incapacità della polizia di
reperire le prove.
È impressionante, ad esempio, nei primi anni dopo l’unità il
numero di attentati subiti da uomini politici della città: tra i tanti ne furono vittime l’ex segretario di Stato Domenico Peranni;
il filomazziniano Giambattista Guccione, consigliere di Corte
d’Appello, assassinato a colpi di pistola (mandante veniva considerato l’onorevole Paolo Paternostro, su cui si avanzavano gravi
sospetti di collusione con la mafia); il regionista Salvatore Vigo,
che ne considerava mandanti i liberali; il generale Corrao, che
una prima volta riuscì a sfuggire agli aggressori, ma non la seconda; il giornalista Francesco Perroni Paladini, esponente di
primissimo piano dell’ala moderata del partito d’azione che dopo i fatti di Aspromonte si era avvicinata al governo e si opponeva vivacemente al gruppo estremista del Badia, il cui arresto
era stato attribuito a una sua delazione; Carlo Trasselli, ucciso da
uno dei capisquadra del ’66, per avere operato l’arresto del Badia. L’esasperazione della lotta politica offriva così alla malavita
un nuovo campo d’azione e l’attentato mafioso diventava un mezzo di trasmissione di messaggi politici. E allo stesso modo il graduale allargamento dell’elettorato rendeva sempre più ricercata
la sua intermediazione nella raccolta di un più ampio consenso
elettorale e rinsaldava ulteriormente il perverso rapporto mafiapolitica.
L’industria del sequestro alzò sempre più il tiro e le vittime –
piuttosto che rivolgersi a una polizia che dava scarsissimo affidamento, perché, come ai tempi di Maniscalco, non mancavano
tra le sue file ex ladri e delinquenti che proteggevano gli antichi
colleghi e colludevano con la mafia – preferivano pagare in silenzio, transigendo con coloro che un esponente moderato chiamava «i terribili dominatori della mafia e del pugnale», l’arma allora preferita assieme alla pistola. La sfiducia nell’azione dello
Stato, come rilevava con amarezza il Rudinì, portava non solo alla impossibilità da parte degli onesti di emanciparsi, ribellandosi, dalla camorra (leggi: mafia), ma anche al manutengolismo. E
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Palermo
perciò, come in passato, c’erano proprietari che continuavano a
proteggere la delinquenza:
Taluni proprietari [...] – i moderati denunciavano nel 1862 dalle
colonne del «Corriere siciliano» – tengono poi al loro servizio, non
sappiamo se per necessità o per mal vezzo (e forse per l’una e l’altra
ragione) dei malandrini di primo conio, i quali se da un lato sono potenti a far rispettare la robba dei padroni, dall’altro lavorano ad alleviare le mandrie e i ricolti dei vicini e si servono della protezione di
chi li paga e del prestigio del nome per prepotere sul debole. In questo caso la garenzia del proprietario rimane lettera morta e sarebbe
desiderabile che la autorità, senza tener conto di baroni, di conti o di
marchesi, domandasse le fedi di perquisizione dei loro guardiani o i
certificati del giudice, del questore, del sindaco etc.
Persino il senatore barone Turrisi, presidente del Consiglio
provinciale (1867-1878) e leader della coalizione liberale che amministrava il Comune, non sfuggì al sospetto di farsi manutengolo di banditi e nel 1874 dovette subire un improvviso sopralluogo alla sua azienda agricola modello di Sant’Anastasia, presso Castelbuono, che egli considerò un oltraggio alla sua persona: peraltro, in privato, parlamentari della stessa Sinistra moderata nella quale egli si collocava lo indicavano come il capo della mafia,
probabilmente perché, come ex comandante della Guardia Nazionale nel ’60, continuava a mantenere rapporti con elementi sospetti, tra cui Giammona. Più spesso però, soprattutto nell’agro
palermitano (Uditore, Colli, ecc.), dove la proprietà della terra
era assai frazionata e stava notevolmente sviluppandosi l’agrumicoltura, erano i proprietari a dover subire la ‘protezione’ della
malavita, che impediva loro la piena fruizione del territorio:
I mafiosi delle campagne di Palermo – si legge in un memoriale
alla Commissione di inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche
della Sicilia (1875), a firma del chirurgo palermitano Gaspare Galati, costretto a trasferirsi a Napoli con la famiglia, terrorizzato dalla
mafia di Uditore che gli aveva ucciso un dipendente, ferito quasi mortalmente un altro, reciso agrumi, per vendicarsi del licenziamento e
della successiva denunzia per tentato omicidio di un suo affiliato in
precedenza alla dipendenze del Galati – s’impongono come castaldi
o custodi delle proprietà rurali, ed ivi rubano sopra i lavori dei cam-
III. L’unificazione difficile
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pi, sopra la vendita dei prodotti, sopra i compratori di essi prodotti,
su tutto. Oltre a ciò, con lettere di scrocco, smungono talvolta la borsa dei loro padroni, o gli impediscono di recarsi nei loro poderi, per
esercitarvi una modesta sorveglianza. Se poi al proprietario salta il
grillo e licenzia il custode o il castaldo infedele, il malcapitato che ardisce surrogarli sarà immancabilmente trucidato [...]. Per lo più i proprietari di fondi, posti nella dolorosa necessità di perdere i profitti
delle loro proprietà e forse anche la vita, risolvono di venderle o darle in affitto. Qui entra l’opera dell’associazione, la quale non permetterà mai che alcuno si attenti a presentare una ragionevole offerta, sì
per la compera, come per lo affitto; gli oblatori avvertiti o consapevoli si staranno lontani e cheti; se no saranno spenti. Intanto la società farà presentare dai suoi clienti un’offerta rinvilita per la compra
o per lo affitto; il proprietario per non perder tutto, bisogna che si
accomodi alla circostanza, e la società dividerà tra i suoi membri quel
tanto che si pagherà di meno al proprietario per l’affitto nel corso di
dieci o dodici anni della sua durata, o per la vendita. Quasi tutti i giardini di agrumi ed i fondi rustici attorno a Palermo si trovano dati in
affitto per lunga serie di anni o venduti a vilissimo prezzo a potenti
mafiosi.
Altre fonti confermano la denuncia del Galati, il quale inoltre lamentava la collusione tra mafia e polizia, che per coprire i
rei e sviare le indagini non solo arrestava innocenti, che venivano inevitabilmente assolti in istruttoria, ma forniva alla delinquenza preziose informazioni che mettevano in grave difficoltà
le vittime dei suoi soprusi. In verità il governo italiano, nel tentativo di trovare soluzioni al problema della sicurezza pubblica,
non si comportava tanto diversamente dal vituperato governo
borbonico, soprattutto dopo il 1866. Il prefetto Rudinì (1867) riprese l’antico sistema di combattere una parte della malavita utilizzando la stessa malavita, un sistema fatto proprio successivamente anche dal prefetto Medici (1868-1873). Una parte della
mafia fu così arruolata nel corpo dei militi a cavallo, che veniva
ironicamente chiamato dei briganti «purificati». Appoggiato dal
generale Medici, il questore Albanese si spinse sino ad assegnare ai più influenti mafiosi la sicurezza pubblica nelle zone in cui
abitavano. Gli abusi della polizia, che occultava alcuni reati e ne
favoriva altri, partecipava ai furti – in casa di una guardia che faceva parte del gabinetto del questore Albanese furono trovati og-
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Palermo
getti rubati al Museo Nazionale e sembra anche refurtiva proveniente dai furti nella cancelleria della Corte d’Appello e in abitazioni private – e riscuoteva tangenti sul gioco del lotto clandestino, determinarono un conflitto con l’autorità giudiziaria, che
nel 1871 portò all’incriminazione di funzionari e agenti. Nei confronti dell’Albanese il procuratore generale Tajani spiccò addirittura un mandato di cattura come mandante di alcuni assassinii, che non fu eseguito perché il questore si rifugiò a Napoli. Lo
scalpore fu enorme, anche a livello nazionale, perché era chiaro
che, attraverso il questore, il magistrato intendesse colpire il Medici. Attorno al Tajani si fece il vuoto e da parte della mafia si
pensò persino di attentare alla sua vita, approfittando di una manifestazione per l’anniversario della presa di Roma. Contro di lui
si schierò anche la stampa palermitana, compreso «Il Precursore» dell’opposizione crispina, e così al procuratore generale non
rimase che presentare le dimissioni e lasciare la città, qualche
giorno prima della sentenza assolutoria per insufficienza di prove nei confronti dell’Albanese. I quattro testimoni citati dal Tajani contro il questore furono successivamente tutti assassinati.
Purtroppo, in quegli anni (ma il discorso vale anche per il periodo successivo), se non mancò qualche coraggioso magistrato
che si assunse sino in fondo le sue responsabilità, la magistratura palermitana spesso non fu all’altezza della situazione, o perché troppo sensibile alle pressioni del potere politico o perché
troppo condizionata dai ceti dominanti e dalla stessa mafia, al
punto che il procuratore Borsani, predecessore del Tajani, scandalizzato per l’esito di un processo, rilevava, in un rapporto al
ministro della Giustizia, che in Sicilia «gli uomini che hanno denaro» non erano soggetti alle leggi penali. Sembra di ascoltare
quel suo lontano predecessore del Cinquecento che informava
l’imperatore Carlo V di come nell’isola «non se fa iusticia de homini de qualitati», ma soltanto «de panni baxi et de quilli cussì
disventurati que non tenino cui procurari, pregari et importunari pro ipsi».
Il prefetto Rasponi (1874-1875), successore del Medici, avvertì la necessità di un taglio con il passato e invitò coloro che
rappresentavano la legge a essere esempio di virtù e di coraggio
civile «che non tollera transazione alcuna con gli uomini del delitto e coi nemici naturali della umana società», ma poi volle for-
III. L’unificazione difficile
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temente come questore il Biundi, che il presidente della Corte
d’Appello indicava come intimissimo amico del capomafia dei
Colli Salvatore Licata. Anche se neppure lo stesso presidente
sfuggiva al sospetto di proteggere i malfattori, le sue accuse appaiono credibili, se si considera che il Biundi ritornò a teorizzare la necessità di servirsi della mafia per combattere il brigantaggio che rendeva insicuri gli scambi e gli spostamenti tra la città
e il suo entroterra.
E tuttavia, malgrado il governo fosse costretto a transigere con
essa, la delinquenza mafiosa, più che alla polizia, era saldamente
collegata all’ala più radicale e antigovernativa del partito d’azione (Corrao, Badia, ecc.), che talora addirittura non disdegnava
di fare da anello di collegamento tra la stessa e il partito borbonico. Ma un po’ tutti i democratici, i grandi delusi dell’unificazione italiana, continuavano a mantenere rapporti con la mafia,
come dimostra l’appoggio che essa forniva ai candidati della Sinistra alle elezioni politiche. E tra i democratici militava anche
una parte consistente dell’aristocrazia palermitana che si era
schierata all’opposizione costituzionale e quindi rimaneva tagliata fuori dalla direzione politica del paese sino all’avvento al potere della Sinistra nel 1876. Il timore di poter perdere, assieme al
potere politico passato nelle mani dei ‘piemontesi’ e della borghesia settentrionale, anche il potere economico che ancora manteneva e che continuava a farne il ceto dominante, spingeva questa parte dell’aristocrazia a non interrompere i legami contratti
con la malavita, che le vicende risorgimentali avevano rinsaldato. La mafia perciò continuava a servirla ed essa ricambiava intervenendo a favore dei suoi componenti ogni qual volta si trovassero in difficoltà con le autorità.
L’alleato della mafia protegge i malfattori, aiutandoli a fuggire se
arrestati, intrigando presso la magistratura o l’autorità coi potenti
mezzi di cui dispone per impedire le condanne, sollevando al bisogno la cosiddetta opinione pubblica, per mezzo dei giornali di cui dispone, contro i funzionari che li fanno arrestare, e contro il governo
che sostiene quei funzionari.
Così scriveva nel 1875 Leopoldo Franchetti, per il quale, se
l’industria della violenza aveva acquistato in Sicilia «ragioni sue
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Palermo
proprie ed indipendenti, [...] la forza che le ha permesso di porsi in questa condizione e che la fa sussistere, sta nella classe dominante», la quale, sol che avesse voluto usarli, disponeva «di
mezzi materiali e di autorità morale molto superiori al bisogno,
e per schiacciare materialmente la classe facinorosa, e per distruggere il suo predominio sull’opinione pubblica per mezzo del
proprio».
Un esempio concreto ci dimostra meglio quale fosse, di fronte a mafiosi in difficoltà, il comportamento dell’aristocrazia palermitana, appoggiata da professionisti borghesi di Sinistra. Per
le autorità, prefetto e questore, il cinquantacinquenne Antonino
Giammona era il capo della mafia di Uditore e Passo di Rigano,
implicato nell’attentato al dipendente del dottor Galati e sottoposto quindi al provvedimento di ammonizione. Giammona era
nato povero e sino al ’48 aveva fatto il contadino a giornata, ma
– e ciò lascia non poco perplessi sulla sua effettiva provenienza
sociale – sapeva comporre una lettera e far di conto. Partecipò
agli avvenimenti del ’60 e militò nella Guardia Nazionale, raggiungendo il grado di capitano. Ma è assai probabile che fosse
stato presente anche ai fatti del ’48 e che proprio in quell’occasione avesse racimolato la somma, che gli consentì subito dopo
di trasformarsi in gabelloto (fittavolo) di giardini dell’agro palermitano e successivamente in proprietario di un consistente patrimonio, che il questore valutava in 200.000-300.000 lire. Nel
1866 si schierò a favore dell’ordine e nel 1875 era ormai un ‘don’
rispettato da tutti e presiedeva l’Associazione dei terziari di San
Francesco d’Assisi di Uditore, una vera e propria cosca mafiosa,
a giudicare dal numero di pregiudicati che ne facevano parte. La
posizione di prestigio raggiunta gli consentiva di controllare almeno una trentina di voti, e ne faceva un capo elettore a beneficio dei candidati della Sinistra, tra i cui militanti trovava i suoi
difensori. Contro il provvedimento di ammonizione in quanto
mafioso, il Giammona poteva infatti presentare attestati di buona condotta e di benemerenza a firma di due aristocratici, il barone Turrisi e il marchese Pasqualino, entrambi – ciò va segnalato – proprietari di agrumeti e terreni nella zona controllata dal
Giammona.
Se i due nobili facevano da mallevadori, la difesa, una difesa
appassionata, veniva assunta dall’avvocato Gestivo, un ex re-
III. L’unificazione difficile
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pubblicano che sembrava essersi ritirato dalla politica e che invece proprio quell’anno si era presentato candidato al Consiglio
comunale, risultando sonoramente sconfitto. Gestivo colse l’occasione della sua deposizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla Sicilia del 1875-1876, per lanciarsi –
non richiesto – nella difesa della posizione del Giammona, considerato «un uomo che ha reso grandi servizi all’ordine e alla libertà in tempi difficili, e in 1860 rese anche servizi alla pubblica
sicurezza»; un uomo che nel 1866 «ebbe l’onore ed il piacere di
esercitare la sua influenza in pro dell’ordine». Qual era in fondo
il reato del Giammona? Egli si era soltanto associato in «una specie di lega degli abbienti contro i non abbienti [...] per fare argine contro le invasioni degli scroccatori [...] una specie di guardia nazionale a tutela ciascuno degli interessi suoi». Grazie a tale associazione, proprietari e gabelloti di giardini «sono prevalsi
[...] sino al punto di non far succedere delitti, né reati, né scrocchi». Solo l’odio degli invidiosi li aveva «dipinti come persone facinorose, mafiose, sospette».
È vero che il provvedimento di ammonizione veniva comminato spesso a innocenti, talvolta rei soltanto di professare idee
politiche antigovernative, ma non sembra davvero sia il caso del
Giammona, che operava non nella zona dei Colli, come sosteneva il Gestivo, ma a Uditore, dove – come risulta da un elenco
pubblicato dal «Precursore» – si era verificata una serie impressionante di morti ammazzati che smentiscono tragicamente la deposizione del Gestivo. Sorge anche il sospetto che l’indicazione
dei Colli come luogo d’azione del Giammona fosse un errore voluto, un espediente difensivo per impedire alla Commissione di
poter collegare il Giammona a quella tragica serie. Sarà forse soltanto un caso, ma alle elezioni comunali dell’anno successivo l’avvocato Gestivo, che aveva intanto cambiato partito ed era passato tra i regionisti, risultò il primo degli eletti, precedendo capi
storici del regionismo e personaggi assai più noti di lui.
Nello stesso 1876, con l’ascesa al potere della Sinistra, l’opposizione baronale allo Stato italiano andò al governo e anche la
mafia diventò governativa.
IV
TRA MODERATISMO E REGIONISMO
1. Le amministrazioni moderate
In base alla legge comunale piemontese del 1859 estesa alla
Sicilia, l’antico pretore di Palermo veniva sostituito dal sindaco,
nominato per un triennio dal governo tra i membri della giunta
(8 assessori effettivi e 4 supplenti), eletta ogni anno in autunno
da un Consiglio comunale di 60 membri, che a sua volta si rinnovava annualmente per un quinto sulla base della anzianità nella carica. Il primo Consiglio comunale risultò costituito dagli uomini più rappresentativi della città: noti aristocratici, prestigiosi
intellettuali, affermati professionisti, qualificati imprenditori. Ma
a conferma del fatto che la rivoluzione del ’60 aveva modificato
in qualche modo i rapporti di classe, rileviamo come primo degli eletti fosse il magistrato Pietro Castiglia, terzo e quinto gli imprenditori Paolo Briuccia e Vincenzo Florio, sesto Mariano Stabile, settimo e ottavo due avvocati, Di Marco (il più noto civilista della città) e Santocanale, nono Gaetano Daita, decimo il funzionario Francesco Di Giovanni. Tra i primi dieci si erano piazzati soltanto due titolati, il clerico-regionista marchese di Roccaforte al secondo posto e l’azionista duca della Verdura al
quarto. Tutti gli altri aristocratici, grandi e piccoli, venivano dopo e i principi di Torremuzza e di Mirto addirittura al ventisettesimo e al trentatreesimo posto, l’azionista barone Turrisi al ventottesimo.
La vittoria dei moderati impediva all’uscente pretore duca
della Verdura di essere riconfermato a capo dell’amministrazione civica come sindaco. Fu scelto il cavaliere Salesio Balsano del-
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Palermo
la Daina (1818-1896), cadetto di una famiglia baronale originaria di Vicari, un paese dell’interno, che come consigliere comunale era stato eletto al ventesimo posto e come assessore al terzo. Ignoriamo in base a quali criteri sia avvenuta la scelta del governo: probabilmente non era possibile trovare tra i moderati
personaggi di maggiore prestigio disposti ad assumere la carica,
come dimostra anche il fatto che, due anni dopo, alla morte del
sindaco Stabile, si dovette ricorrere al giovanissimo marchese di
Rudinì e più tardi a un altro giovane, Emanuele Notarbartolo.
Non c’è dubbio però che la nomina del Balsano rappresenti, in
ogni caso, una svolta assai significativa nella storia della città, perché per la prima volta a capo della civica amministrazione non
sedeva più un alto esponente dell’aristocrazia. La sua azione amministrativa risultò però insufficiente ed egli fu costretto presto
a dimettersi, sostituito nel dicembre 1862 dal ben più esperto
Mariano Stabile (1806-1863), il capo dei moderati palermitani,
scomparso pochi mesi dopo, nel luglio successivo.
Un po’ imprenditore e un po’ intellettuale, Stabile aveva partecipato in prima linea alla rivoluzione del ’48 ed era stato escluso dalla successiva amnistia borbonica, in quanto membro autorevolissimo del governo e consigliere assai ascoltato di Ruggero
Settimo. Era stato quindi esule a Londra e poi a Parigi, dove assieme al principe di Granatelli e allo storico Michele Amari aveva redatto una protesta contro i Borboni. Nei sette mesi in cui fu
sindaco della città, si sforzò di dare impulso all’attività edilizia attraverso la stipulazione di mutui, nella convinzione che le opere
pubbliche erano «un bisogno, più che materiale, politico, perché
quando il paese vedesse e toccasse con mani la trasformazione
materiale del suolo, le strade, le ferrovie ecc., allora sarebbe più
facile fargli sopportare quelle misure legislative che dovrebbero
esser prese». Attraverso i lavori pubblici, egli riteneva giustamente di creare nuovi posti di lavoro per gli operai in difficoltà
per la crisi dell’edilizia privata, mentre, gonfiando i ruoli dell’amministrazione municipale, offriva una nuova sistemazione a
parecchi che l’avevano perduta. Ottenne che finalmente venisse
attuata la legge Mordini che poneva a carico dello Stato i debiti
del Comune; ristrutturò l’amministrazione del dazio; fece applicare i regolamenti di polizia urbana, acquistandosi non poche inimicizie; impegnò particolarmente il Comune nella diffusione del-
IV. Tra moderatismo e regionismo
139
l’istruzione con l’istituzione di nuove scuole a suo carico, che passarono da 19 a 46, compresa, finalmente, la scuola serale per gli
operai.
Gli successe uno dei suoi principali collaboratori, il ventiquattrenne Antonio Starrabba, marchese di Rudinì (1839-1908),
che godeva dell’appoggio di Michele Amari. Sulla linea già tracciata da Stabile, egli aprì molte altre scuole elementari (il loro numero fu più che triplicato), risolvendo anche il problema della
formazione del corpo docente con l’assunzione a carico del Comune della scuola magistrale femminile; e diede una spinta notevole ai lavori pubblici, avvalendosi anche dell’assistenza di un
ufficio tecnico appositamente istituito. A livello europeo si era
fatto strada il convincimento che gli interventi edilizi dovessero
programmarsi e coordinarsi dalla pubblica amministrazione, attraverso appositi organi tecnici; ma soprattutto si erano modificate le concezioni urbanistiche, donde il ricorso sempre più continuo alla «tecnica haussmanniana» degli sventramenti, allo scopo dichiarato di bonificare quartieri malsani e con l’intento segreto di favorire la costruzione di nuovi grandi complessi edilizi
con cui rivalersi ampiamente delle spese sostenute. L’amministrazione Rudinì continuò perciò nella politica di sventramento
già iniziata dopo il 1860 e reperì nuove aree edificabili, grazie alla demolizione di vecchie case espropriate («meschine casipole
in anguste e tenebrose stradelle»), alla rimozione delle macerie
dei bombardamenti borbonici e al ripianamento di baluardi, terrapieni e giardini; una politica che ebbe l’appoggio della cultura
del tempo e che oggi è ferocemente criticata dagli urbanisti, i
quali però, nel caso di Palermo, farebbero bene anche a considerare quanto fosse igienicamente degradato l’interno della città
al momento dell’unificazione italiana. Contemporaneamente, allo scopo di migliorare le infrastrutture cittadine e talora di crearne di nuove, venivano lastricati con basole corso Vittorio Emanuele e parecchie altre strade, altre selciate e altre inghiaiate; rifatti marciapiedi e fognature nelle arterie principali; appaltata la
costruzione di case per gli operai sull’area del Noviziato e avviata – sull’esempio di altre grandi città italiane – la costruzione di
nuovi mercati nella zona degli Aragonesi e a Porta San Giorgio,
dimostratisi poi un grosso errore e perciò giustamente criticati
dalle successive amministrazioni, costrette a trasformarne i loca-
140
Palermo
li in uffici e scuole; completata a cura dell’imprenditore francese Favier la rete d’illuminazione con fanali a gas, in sostituzione
di quelli ad olio; costruito infine il Giardino Garibaldi di piazza
Marina, su progetto di G.B. Filippo Basile, mentre rimanevano
ancora in fase di studio la costruzione di un teatro politeama e
di un teatro lirico.
Interventi isolati, d’accordo, ma volti soprattutto a migliorare le assai precarie condizioni igieniche della città, per una spesa di 3.500.000 lire, possibile grazie ai contratti di mutuo per
complessivi sei milioni e mezzo stipulati con la Cassa Depositi e
Prestiti e con l’impresa Galland. Il mutuo con la Galland era contestato dal Raffaele, per il quale la costruzione dei mercati e di
un politeama non valeva il forte aggravio che ne derivava alle finanze comunali, costrette per pagarlo a ricorrere a nuovi dazi sui
generi alimentari di prima necessità, con conseguente aumento
del costo della vita. D’altra parte, l’introito corrente del Comune, seppure notevolmente aumentato rispetto al periodo borbonico (il bilancio era passato dai 2.399.049 lire del 1859 a
4.844.067), non avrebbe mai consentito di varare una seria politica di opere pubbliche, perché serviva appena a coprire le spese di ordinaria amministrazione, che adesso comprendevano anche quelle di alcuni nuovi servizi pubblici, tra cui anche il corpo
dei pompieri e l’ufficio di economia e statistica.
E tuttavia, il problema igienico era ben lungi dall’essere risolto, anzi assillerà costantemente le successive amministrazioni.
Il pericolo più serio per la salute pubblica era rappresentato dalle fognature, che nelle strade interne erano addirittura prive di
sbocco. I condotti centrali sboccavano a mare, ma nelle immediate vicinanze della città, e siccome erano comuni alle acque piovane, davano luogo a esalazioni pericolosissime per la salute degli abitanti, che dovevano difendersi anche dalla malaria provocata dalle acque stagnanti della laguna di Mondello, che non si
sapeva ancora se conveniva colmare o bonificare con canali di
scolo. Improrogabile era anche la costruzione di un nuovo grande cimitero, per eliminare il sistema di inumazione in uso, che
Rudinì considerava, a ragione, barbaro oltre che illegale, e che
così descriveva:
Si apre ogni giorno una fossa profonda; ivi si calano quanti cada-
IV. Tra moderatismo e regionismo
141
veri si raccolgono alla giornata, non solo senza casse, ma quasi sempre ignudi, sopra ognuno de’ quali si sparge una quantità di calce per
ottenerne la consumazione.
Complessivamente, l’amministrazione Rudinì fece di tutto
perché Palermo diventasse una città più moderna e al passo con
i tempi. Non c’è dubbio che il sindaco guardasse Palermo pensando all’Europa, che i giovani aristocratici della sua generazione conoscevano molto bene perché amavano già trascorrervi le
vacanze. Ma è altrettanto indubbio che l’amministrazione illuminata e allo stesso tempo severa dei moderati – di Stabile come
di Rudinì, di Balsano come di Notarbartolo – non ebbe mai il
consenso pieno della città, quando non fu addirittura impopolare. Le iniziative del Rudinì davano luogo a trasformazioni e mutamenti non sempre graditi, sia per la mentalità conservatrice dei
palermitani, sia perché spesso urtavano abitudini inveterate e ledevano anche interessi particolari, contribuendo ad accrescere il
malcontento. Certi provvedimenti non erano graditi neppure alla parte più conservatrice del moderatismo palermitano, se il
principe di Sant’Elia, nel considerare il municipio responsabile
degli avvenimenti del 1866, lo chiamava «civilizzatore violento,
intempestivo, guastatore di molti interessi e offensore di molte
suscettibilità». Né erano molto gradite la rigorosa applicazione
delle disposizioni di polizia urbana e la mano pesante nel punire le infrazioni, che appariva spesso vessatoria.
Ce n’era abbastanza dunque perché, già prima del settembre
1866, l’amministrazione Rudinì fosse tra le più odiate della storia della città, e da due anni si mormorava che, in caso di rivolta, i Quattro Canti sarebbero diventati tre, con evidente allusione all’eventuale distruzione del Palazzo Rudinì, che nel ’66 non
fu poi incendiato solo per non compromettere gli edifici adiacenti. Gli avversari e i palermitani in genere non perdonarono
mai al Rudinì l’‘infamità’ di essersi schierato allora dalla parte
dello Stato e, dopo la sua morte nel 1908, la città non solo non
prese il lutto, ma gli negò a lungo l’intitolazione di una strada.
Eppure, Rudinì è stato uno dei due soli palermitani (l’altro fu
Vittorio Emanuele Orlando) che siano riusciti, in centoquaranta
anni di vita unitaria, a ricoprire la carica di presidente del Consiglio dei ministri!
142
Palermo
Quando, nel dicembre 1866, egli lasciò la carica di sindaco a
Salesio Balsano, la posizione dei moderati al Comune era, se non
compromessa, meno solida che in passato, a causa dei risultati
sfavorevoli delle ultime elezioni amministrative, che avevano
rafforzato l’opposizione regionista, favorita dall’appoggio del clero zelante e dai voti dei cattolici. L’ingresso dei cattolici nella lotta politica era già avvenuto nelle elezioni parlamentari del 1865,
quando in tre dei quattro collegi cittadini furono eletti con il loro determinante appoggio – e in parte anche dei borbonici – i
candidati regionisti D’Ondes, Perez, Roccaforte. Il successo elettorale regionista – che si ripeté nel ’67 con la riconferma di D’Ondes e Roccaforte, la rielezione di Emerico Amari (deputato sino
al ’64) e l’elezione del principe di Galati, ultimo pretore borbonico della città – era visto come la conseguenza inevitabile del
malcontento causato dalla politica governativa nei confronti della Sicilia, ma in realtà la buona tenuta del partito liberale moderato nel resto dell’isola dimostra invece che esso aveva ben altre
ragioni, individuabili, più che nella politica generale del governo
verso la Sicilia, nella particolare situazione determinatasi nella
città dopo l’unificazione per la perdita dei suoi ‘privilegi’.
Al Comune di Palermo i moderati continuavano tuttavia a godere della maggioranza, che consentiva al Balsano di durare ancora per un biennio (1866-1868). Con il duplice scopo di dare
lavoro e di distruggere focolai dell’infezione colerica che colpiva
la città, l’amministrazione comunale promosse lavori pubblici
consistenti nell’abbattimento di edifici pericolanti e nella copertura dei fossati – sarebbe meglio dire cloache – che circondavano il Castello a mare. E non appena il morbo cominciò a declinare furono intensificati i lavori per la costruzione – su progetto
dell’architetto comunale Giuseppe Damiani Almeyda – del Politeama e si avviarono i lavori per la costruzione del mercato degli
Aragonesi e di demolizione degli ex monasteri delle Stimmate e
di S. Giuliano, sulla cui area si intendeva innalzare il nuovo grande teatro lirico, tra le proteste dei cattolici che ritenevano più opportuna la costruzione di ospedali e orfanotrofi. Venivano inoltre approvati dal Consiglio comunale piani parziali di ampliamento di iniziativa privata, all’origine negli anni successivi, in assenza di un organico piano generale, dell’espansione a macchia
d’olio della città nelle zone di Madonna dell’Orto all’Olivuzza,
IV. Tra moderatismo e regionismo
143
Boscogrande alle Terre Rosse, Radalì, Montalbo, Sampolo, Orti
Trippodo.
Se sotto le amministrazioni moderate la città aveva compiuto
notevoli progressi, ancora moltissimo rimaneva da fare e Balsano, nel momento in cui (ottobre 1868) lasciava la carica di sindaco al regionista Domenico Peranni, che la terrà un quinquennio (1868-1873), ne aveva lucida consapevolezza:
Insufficiente la pubblica beneficenza e per ricoveri di mendicità e
per ospedali, il servizio medico, meno che nelle borgate, punto migliorato, ci manca un cimitero a norma delle leggi, e in corrispondenza della sentita pietà verso i defunti; nessun provvedimento per
deviare le acque piovane, che scorrendo da’ monti soprastanti, e entrando per porta di Castro, minacciano rinnovare le sofferte alluvioni: le vie pubbliche, meno le poche rifatte, tutte malconce, abbandonate, intraggittabili, vicoli stretti e tortuosi, ove luridi, bassi e umidi
tuguri raccolgono la più bisognosa classe del popolo; fogne mal coverte e peggio costruite, e tutto reclama provvedimenti, e tutti gridano e vogliono che si provveda.
2. La svolta clerico-regionista al Comune
L’esigua maggioranza che aveva consentito al Balsano di reggere per un biennio era stata spazzata via dalle elezioni amministrative del 1868 per il rinnovo del quinto degli amministratori
comunali, elezioni che avevano visto la più alta percentuale di votanti (34 per cento) su un corpo elettorale da qualche anno notevolmente aumentato, ma ancora di poco superiore alle cinquemila unità (2,57 per cento della popolazione). Alla sconfitta moderata non era estraneo il ritorno massiccio nella competizione
elettorale dell’alta aristocrazia, che dopo il 1861 si era pressoché
disinteressata delle vicende comunali e che adesso riusciva a far
eleggere tre principi, due marchesi e due baroni. Malgrado le due
ali del liberalismo, la Destra moderata e la Sinistra democratica,
si fossero coalizzate, la rappresentanza liberale al Comune fu ridotta in minoranza (25 su 60) dalla schiacciante vittoria dei clerico-regionisti, che si ripeterono ancora nel 1869, quando continuando a sfruttare il malcontento antigovernativo della città non
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Palermo
lasciarono nessun seggio, né al Comune né alla Provincia, alla
coalizione liberale guidata dal barone Turrisi. Ciò determinava
un ricambio notevole del corpo dei consiglieri comunali: già nel
1866, dopo le cinque elezioni parziali che avevano rinnovato l’intero Consiglio del 1861, solo 22 consiglieri sui 60 usciti di carica risultavano riconfermati, mentre nel Consiglio del 1869, che
comprendeva gli eletti dal 1865 al 1869, soltanto 18 erano stati
già consiglieri in precedenza. «La Regione», l’organo dei regionisti, poteva perciò scrivere:
Sul Governo battuto i vinti del 1860 – oggi dopo nove anni di abnegazione, di perseveranza e di lotte – hanno finalmente eretta la loro bandiera. Gli uomini del Governo s’affrettino fuggire da questa
terra ché il tempo incalza ed un nuovo settembre [1866] è vicino.
I borbonico-clericali, sempre più uniti nella lotta al nuovo Stato, si muovevano su due fronti: l’attività cospirativa e l’inserimento nelle istituzioni liberali sotto la bandiera del regionismo,
allo scopo di conquistarne i vertici e piegarle ai loro scopi. La rivolta del ’66 non aveva, infatti, posto fine all’attività sovversiva,
anzi le opposizioni borbonico-clericale e mazziniano-repubblicana – quest’ultima appoggiata ormai apertamente dalla Massoneria, che nel 1869 offrì al Mazzini, ricevendone un cortese rifiuto,
la carica di Gran Maestro già tenuta da Garibaldi – si diedero
migliori organizzazioni e intensificarono le cospirazioni, che
complessivamente non produssero però risultati positivi, sia perché le autorità non abbassarono mai la guardia e spesso, grazie
all’opera dei soliti agenti provocatori, ne prevennero le iniziative
con un largo ricorso ad arresti, ammonizioni e condanne al domicilio coatto, sia perché – di fronte all’intensificarsi della propaganda borbonica – le due ali del liberalismo, cui si univano talora gli stessi mazziniani, mettevano la sordina ai loro dissensi e
facevano blocco contro il risorgente legittimismo. Di contro, le
autorità riuscivano a neutralizzare le agitazioni dei repubblicani,
che costituivano sempre una grossa minaccia all’ordinamento sociale, proprio grazie all’appoggio degli amici dell’ordine che militavano tra le fila del legittimismo. Non mancarono tuttavia momenti di riavvicinamento tra gli opposti estremismi, i repubblicani e i borbonici, che non ebbero comunque sbocchi concreti.
IV. Tra moderatismo e regionismo
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Fu assai più facile per i reazionari l’inserimento nelle istituzioni liberali, come dimostra appunto la loro partecipazione alla
gestione del Comune durante l’amministrazione Peranni. Dopo
le amministrative del 1868, per suggerimento del prefetto Medici, la scelta del governo per la carica di sindaco cadde sul trapanese Domenico Peranni (1802-1875), il quale – amico personale
del Minghetti, che aveva sposato la vedova del principe di Camporeale, dei cui beni Peranni era amministratore – era tra i componenti della giunta comunale colui che offriva maggiori garanzie di lealismo istituzionale. Malgrado l’età avanzata, Peranni era
ancora energico e godeva di stima anche presso gli avversari, che
pur denunciando i limiti e le carenze della sua amministrazione,
riconoscevano l’impegno e l’onestà personale del sindaco. Egli si
rifiutava di passare per clericale («penso come voi del Cielo e del
Papa», aveva scritto a Crispi qualche anno prima), rivendicava
una condotta «ben lungi dall’oscurantismo e dal Sillabo» e si considerava piuttosto amico dell’ordine e della libertà. Complessivamente, nell’amministrazione della città, diede prova di moderazione e di equilibrio, evitando rotture traumatiche con il governo, che, dopo le sue dimissioni nel 1873, volle premiarlo con
la nomina a senatore. Al di là delle sue convinzioni religiose e
delle sue personali doti, è indubbio però che, specialmente nei
primi anni, la sua attività amministrativa fosse pesantemente condizionata in senso reazionario dalla presenza borbonico-clericale al Comune.
Avevano comprato la vittoria e dovettero pagare a chi loro l’aveva venduta – rilevava un elettore liberale –. E pagarono con l’amicizia ai retrivi d’ogni risma, amicizia, e, diciamol pure dipendenza che
li obbligò a rispettare le più sciocche superstizioni, ad andare a rilento nelle novità, a logorarsi non cercando il bene del Comune ma
mendicando l’appoggio dell’infima plebe, giacché quello del popolo
di giorno in giorno veniva loro mancando.
Strano destino quello della borghesia intellettuale palermitana! Riusciva, finalmente, a proporsi come ceto dirigente e ad assumere responsabilità amministrative e veniva tacciata di conservatorismo dagli avversari liberali e persino dagli eredi di antichi feudatari che più di essa avevano saputo adeguarsi ai nuovi
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Palermo
tempi. Sotto la bandiera del regionismo – che non rinunciava ancora alla speranza di una amministrazione separata per la Sicilia
– si erano infatti rifugiati gli aristocratici più tradizionalisti e conservatori della città, che adesso sedevano a Palazzo delle Aquile
come consiglieri e talora come assessori, e partecipavano alla gestione del Comune assieme all’intellighentia cittadina (Emerico
Amari, Giovanni Bruno, Francesco Paolo Perez, Domenico Peranni, Andrea Guarneri, Isidoro La Lumia, Agostino Todaro,
ecc.). Così, alla progettualità, allo spirito di iniziativa, al dinamismo che, rispetto al passato, avevano caratterizzato le amministrazioni moderate, subentrava la cultura della conservazione,
delle piccole cose, dell’ordinaria amministrazione, la nostalgia
per le tradizioni dell’antico Senato e per privilegi e diritti, che
giustamente gli avversari consideravano anacronistici.
A documentare la svolta basterebbe forse considerare soltanto l’andamento delle contravvenzioni: 2.984 per lire 6.597,50 nel
’68, sotto la sindacatura Balsano, contro 1.296 per lire 1.924,50
nel ’69 con Peranni sindaco. Il marchese di Spedalotto, uno dei
capi del partito clericale, nella qualità di assessore allo Stato Civile sabotava le disposizioni governative sul matrimonio civile, in
linea con il comportamento delle autorità religiose. E nel 1870,
in occasione della presa di Roma da parte delle truppe italiane,
il Municipio – in contrasto con quanto avveniva in città, dove si
susseguivano le manifestazioni patriottiche – teneva una condotta piuttosto fredda, meritandosi l’accusa di nutrire sentimenti clericali e di parteggiare per la reazione. Non mancarono ovviamente le proteste della cittadinanza, più o meno organizzate, e
addirittura, la sera del 22 settembre, un corteo di circa 20.000
persone, che inneggiavano al re, a Roma e all’esercito per le vie
cittadine, concluse la sua manifestazione con grida di ostilità sotto le abitazioni del sindaco e dell’assessore professor Bruno.
La presa di Roma costituiva un duro colpo per i due opposti
estremismi, che non avevano mai smesso di agitarsi e di cospirare. Ancora qualche mese prima, le autorità temevano uno sbarco da Malta di forze borboniche al comando dell’ex generale Bosco, mentre contemporaneamente gli agitatori repubblicani mettevano a punto un piano rivoluzionario che prevedeva simultanee insurrezioni a Milano, Torino, Genova, Bologna, Messina,
Catania e Palermo, dove si era verificato un riavvicinamento tra
IV. Tra moderatismo e regionismo
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i mazziniani e il gruppo del Badia. Scoppiata la guerra francoprussiana, Mazzini ritenne addirittura giunto il momento di agire e venne personalmente a Palermo per dare il via al moto insurrezionale che avrebbe dovuto estendersi al continente. Ma fu
arrestato al suo arrivo nel porto con il postale da Napoli. Ora,
l’occupazione italiana di Roma indeboliva notevolmente l’opposizione repubblicana, perché la privava di uno dei suoi più importanti cavalli di battaglia, mentre la fine del potere temporale
vanificava ancor più le speranze dei legittimisti e metteva in momentanea crisi il partito clericale, che subiva una dura sconfitta
nelle elezioni politiche del novembre successivo, anche a causa
della scomparsa dalla scena dei due leader più prestigiosi, Emerico Amari deceduto e Vito D’Ondes Reggio ritiratosi per solidarietà con Pio IX: la rappresentanza parlamentare della città ne
usciva completamente rinnovata per l’elezione del regionista
Francesco Ferrara, dei democratici Paolo Paternostro e barone
Riso, del moderato Corrado Lancia di Brolo. Dello sbandamento dei clericali approfittava il sindaco Peranni per sottrarsi in
qualche modo ai pesanti condizionamenti degli elementi più reazionari della coalizione che lo sorreggeva, al punto che nel giugno 1871 il Municipio poteva festeggiare con una grande illuminazione l’ingresso a Roma di Vittorio Emanuele.
La politica seguita dall’amministrazione Peranni nel settore
dei lavori pubblici fu polemicamente diversa da quella delle precedenti amministrazioni moderate: il necessario anteposto all’utile, l’utile al bello e al lusso. Si riconoscevano i progressi della
città sotto i sindaci moderati, ma contemporaneamente si osservava come «il lusso non abbastanza ponderato di alcune opere
grandiose o superflue fa maggiormente rilevare la mancanza di
quelle veramente utili». Era chiaro il riferimento ai contestatissimi mercati e al teatro Politeama, «così malamente collocato» da
interrompere sin quasi a occultare con le sue «alte fabbriche» il
magnifico corso Scinà. Le uniche concessioni al piacere e al bello furono perciò il restauro del teatrino della musica al Foro Italico; la indispensabile copertura dei mosaici venuti alla luce a
piazza Vittoria in occasione della preparazione dei fuochi d’artificio con cui si festeggiò la venuta dei principi reali; e l’accettazione dell’offerta dell’artista Valenti per la costruzione del tempietto in stile corinzio di piazza Castelnuovo con una spesa mo-
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Palermo
desta, grazie al contributo dell’erede di Ingham, Willie Whitaker,
che volle scongiurare il pericolo che l’area davanti casa sua fosse utilizzata per la costruzione di un albergo. Il Comune era disposto a cedere il suolo e l’acqua a imprenditori privati che avessero voluto costruire uno stabilimento balneare – ritenuto necessario in seguito alla diffusione dell’uso dei bagni di mare, che
aveva in pochissimi anni moltiplicato le costruzioni di capanne
di legno sulle spiagge vicine – ma non si trovò nessuno disposto
ad accettare la concessione. Si trovò invece una società disposta
a dotare la città di linee tranviarie per un servizio di veicoli a trazione animale («ferrovie a cavalli»), già adottato in altre città europee.
Non volendo ricorrere a nuovi mutui, Peranni non poteva
proseguire l’opera di risanamento di alcuni quartieri popolari avviata dalle amministrazioni moderate. Egli riconosceva che «sarebbe [...] di gran sollievo [...] lo sgombrare alcuni luoghi di casipole mal costruite, parte cadenti, e angustissimo ricovero immondo e malsano di gente poverissima», come quelle «abitazioni che formano vicoli stretti, umidi, immondi [...] vicino l’antico
monastero dei Benedettini all’Albergharia», ma la loro distruzione «che la umanità stessa raccomanda» aveva un costo troppo
elevato per il bilancio comunale. Con i fondi ordinari, l’amministrazione riusciva infatti a provvedere appena alla normale manutenzione degli edifici, al rifacimento di alcune strade e alla progettazione di qualche altra (via Emerico Amari).
Il sindaco si rendeva conto che la sua amministrazione segnava una battuta d’arresto nello sviluppo della città e che la necessità di non scontentare da un lato i conservatori e la stessa plebe e dall’altro il governo centrale lo condannava all’immobilismo,
in un periodo che era invece di espansione economica per il resto del paese, grazie all’apertura del canale di Suez (1869): nel
1872 se ne giustificava con la necessità di concedersi un momento
di sosta, dopo lo sforzo delle precedenti amministrazioni, allo
scopo di «rendere possibile con una condotta di raccoglimento
e di avveduta economia il ritorno a condizioni migliori». C’erano – diceva – da rimettere in sesto il bilancio e nuovi oneri da
assolvere; di contro, la capacità contributiva della città aveva raggiunto la punta più alta, dato che il gettito fiscale era passato dai
due milioni del 1862 ai quasi cinque milioni e mezzo del 1869 e
IV. Tra moderatismo e regionismo
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ormai tendeva alla stabilità, perché il prezzo elevato dei generi
alimentari provocava una diminuzione dei consumi e un aumento del contrabbando che si riflettevano sulle entrate del Comune, basate quasi esclusivamente sui dazi indiretti. In realtà, il gettito fiscale continuò ancora ad aumentare e proprio nel 1872 superò i sei milioni e mezzo. E tuttavia, malgrado si limitasse spesso all’ordinaria amministrazione, la sindacatura Peranni finì con
il lasciare alla successiva gestione debiti per alcuni milioni, che
fanno dei suoi ultimi anni un periodo di disordine contabile e di
stanchezza in attesa dell’inevitabile fine.
3. L’Internazionale e la riorganizzazione dei clericali
La crisi del mazzinianesimo dopo il 1870 coinvolse anche i repubblicani di Palermo, malgrado gli sforzi del giovanissimo Camillo Finocchiaro Aprile: parecchi, come già in passato, deponevano le ‘vesti rivoluzionarie’ per accostarsi alla monarchia o si
allontanavano temporaneamente dalla politica attiva; altri, i più,
finivano tra le file dell’Internazionale socialista, attiva sin dalla
seconda metà del 1871, grazie alla propaganda dei reduci garibaldini della guerra franco-prussiana, tra cui il conte Federico e
fra’ Pantaleo. Ma – anche se il socialismo, nella versione bakuniniana, aveva già avuto a Palermo una qualche diffusione sin da
quando, tra il ’65 e il ’66, l’ex mazziniano Saverio Friscia era venuto a costituirvi una sezione della Società Italiana Rivoluzionaria Sociale – l’Internazionale trovava difficoltà ad affermarsi, sia
per il modesto sviluppo del ceto operaio in assenza di grosse industrie, sia perché gli stessi operai erano più sensibili al richiamo del partito clericale. Non avevano successo, ad esempio, i tentativi di indurre allo sciopero per miglioramenti salariali alcune
categorie di operai, né i tentativi di collegamento con le società
operaie, perché quelle più politicizzate erano in crisi e altre preferivano non impegnarsi politicamente. L’unico successo degli internazionalisti era costituito dalla fondazione nel 1873 – a iniziativa di Salvatore Ingegneros, un operaio cappellaio, capo del Comitato repubblicano di Palermo, convertitosi al socialismo – del
giornale «Il Povero», al quale collaboravano operai della Fonderia Oretea.
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Palermo
Se gli internazionalisti non costituivano ancora motivo di
preoccupazione per le autorità, assai più pericoloso appariva il
gruppo del Badia, su cui nel 1873 così si esprimeva il prefetto
Medici:
Un partito veramente pericoloso, se pure può dirsi partito, è quello che va atteggiandosi secondo gli avvenimenti ora a repubblicano,
ora a borbonico; è una schiera assai numerosa di uomini di perduta
fama, di nessuna fede e di nessun principio, e che non ha altra bandiera che quella del disordine. Attorno a questi uomini si raggruppano tutti quegli elementi, e sono numerosissimi, che hanno preparate
e compiute le giornate del settembre 1866. Dalle fila di costoro partono talvolta quelle puerili e sterili manifestazioni o con petardi o con
bandiere rosse, colle quali intendono far credere al popolo che le speranze di una prossima riscossa non sono perdute. Lo atteggiarsi però
degli antichi capi non varia dalla linea di condotta di partito puro borbonico: vilipendere cioè ad ogni occasione le attuali istituzioni ed attendere gli eventi, e questo fanno con assiduo lavoro il noto Badia, il
Borgo, Del Bosco, Izzi, Foti, Corteggiani, Badessa [Abbadessa?] ed
altri.
A causa del carattere censitario del sistema elettorale, l’opposizione dell’estrema Sinistra non aveva alcun peso nella battaglia
elettorale, che vedeva invece il ritorno dei clericali, dopo un comprensibile periodo di smarrimento che era costato la brutta sconfitta nelle politiche del 1870. Diversamente dai borbonici più accaniti – che avevano trovato un capo nel conte di Capaci ritornato nell’isola e, non ancora rassegnati alla nuova realtà, riprendevano a cospirare, seppure con speranze sempre più fievoli – i
clericali abbandonarono quasi completamente l’attività cospirativa e – con l’appoggio del nuovo arcivescovo Michelangelo Celesia, che non a torto la Questura giudicava «accanito infallibilista» e borbonico, perché nel 1860 era stato l’unico vescovo siciliano a preferire l’esilio pur di non giurare fedeltà al nuovo Stato – diedero una nuova forma alla loro opposizione, puntando
soprattutto sull’organizzazione di una vasta rete propagandistica
e assistenziale. Con l’intento di moralizzare le masse, assistere i
bisognosi e sottrarre le classi operaie all’influenza delle nuove
dottrine socialiste, costituirono perciò, sotto la presidenza del
marchese di Spedalotto, la Società primaria per gli interessi cat-
IV. Tra moderatismo e regionismo
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tolici, collegata a livello nazionale con analoghe istituzioni e che,
per la sua attività sobillatrice nel nome del «papa prigioniero»,
cominciò a preoccupare seriamente le autorità di polizia.
Preoccupavano non poco anche alcune prese di posizione dell’arcivescovo, il quale costringeva con varie minacce alla ritrattazione i preti liberali o che avessero tenuto in passato cariche pubbliche, mentre contemporaneamente lanciava l’interdetto contro
la chiesa di S. Domenico, che aveva ormai assunto sempre più le
funzioni di Pantheon cittadino e dove si sarebbe dovuta svolgere una manifestazione civile per commemorare Mazzini, organizzata dalle società operaie, dall’Università e dalle logge massoniche. Preoccupava inoltre la decisa volontà dell’arcivescovo di
creare con ogni mezzo un partito dei cattolici compatto e disciplinato, pronto a battersi per la realizzazione dei suoi scopi, tra
i quali – secondo il prefetto – la conquista delle amministrazioni
comunali della provincia e in primo luogo di quella di Palermo,
in linea con quanto avveniva contemporaneamente altrove, a Roma, a Napoli – dove la lista clericale fu detta «del cardinale» – e
in numerosi altri centri minori. Mentre per le elezioni politiche i
cattolici si orientavano per una posizione di assoluta intransigenza, la loro partecipazione alle amministrative sarà poi ufficialmente sancita dal primo Congresso Cattolico di Venezia del
1874, proprio su sollecitazione del palermitano Vito D’Ondes
Reggio.
4. La rottura dell’alleanza clerico-regionista e il ritorno dei moderati al Comune
Nelle amministrative del 1872, per i cattolici i risultati furono ben diversi da quelli sperati. I rapporti con i regionisti – che
il clerico-borbonico Mortillaro chiamava «guastamestieri» – si
erano deteriorati, sia perché non tutti i regionisti gradivano l’appoggio dei giornali dei clericali intransigenti, che giustificava
l’accusa di clericalismo da parte degli avversari liberali, sia perché gli ultraintransigenti pressavano per una lista di cattolici puri, convinti non a torto che taluni regionisti non fossero disposti a seguirli sul piano delle rivendicazioni temporalistiche. I due
partiti si presentarono perciò ciascuno con lista propria, con il
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Palermo
risultato di favorire una prima ripresa dei liberali. Ancora una
volta, di fronte alla pressione clericale, i liberali di Destra e di
Sinistra riuscivano a ritrovare la concordia (Mortillaro, in verità,
parlava di «connubio mostruoso») e così nelle amministrative
del luglio 1873 completarono il successo, riconquistando per un
triennio (1873-1876) la guida del Comune con il capo dell’ala
moderata, cavaliere Emanuele Notarbartolo di San Giovanni
(1834-1893), il quale però inizialmente accettò di tenere soltanto le funzioni di sindaco, senza assumerne la carica (settembre
1873).
Le due ultime elezioni erano state assai più sentite e combattute delle precedenti, tanto che nel 1872 si ebbe la più alta percentuale di votanti del periodo 1863-1877 (51 per cento), anche
per la maggiore partecipazione dei pubblici funzionari, che non
è estranea alla ripresa liberale; e anche nel 1873 la percentuale si
mantenne elevata con il 41 per cento degli elettori, il cui numero era intanto cresciuto di quasi il 30 per cento (da 6.056 a 7.708
unità).
Ai clerico-regionisti la perdita del Comune bruciava terribilmente e fecero di tutto per mettere in crisi la nuova amministrazione, sino a dimettersi in massa per provocare lo scioglimento
del Consiglio comunale. Ma poiché continuavano a rimanere in
carica oltre la metà dei componenti, la giunta ritenne che esso
non perdesse la sua validità e indisse perciò le elezioni suppletive, che si tennero il 15 marzo 1874. I risultati furono completamente negativi per la lista regionista, svantaggiata dall’astensionismo dei cattolici (i votanti furono appena il 27 per cento del
corpo elettorale), e per la Giovane democrazia, una nuova formazione politica nata da una scissione all’interno della Sinistra liberale, che a livello nazionale si collegava al processo di formazione appena avviato della Sinistra giovane, che farà la sua comparsa nelle elezioni politiche del novembre successivo. Sindaco
venne pertanto confermato Emanuele Notarbartolo, che adesso
poteva contare su una più robusta maggioranza. Quarto dei sei
figli di un cadetto del principe di Sciara e modesto proprietario
terriero, egli era, come suol dirsi, un uomo tutto d’un pezzo, alieno da qualsiasi compromesso e piuttosto fermo e deciso nelle sue
azioni. Anteriormente al 1860 era stato per qualche anno all’estero e aveva appreso le lingue, ma la sua cultura era rimasta piut-
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tosto modesta, tranne in economia politica di cui era appassionato. Ufficiale dell’esercito sardo, si dimise per partecipare alla
spedizione dei Mille e combatté a Milazzo. Alla morte di Mariano Stabile, fu tra i giovani della Destra moderata che ne raccolsero l’eredità, emarginando i vecchi notabili. Amico e collaboratore del Rudinì, fu al suo fianco nelle famose giornate del «sette
e mezzo». Più volte assessore nelle giunte moderate e ultimamente amministratore dell’Ospedale Civico, il cui patrimonio era
riuscito a salvare dal dissesto, aveva già dato ampie prove di onestà, competenza e anche coraggio, doti che confermerà come sindaco e soprattutto come direttore generale del Banco di Sicilia
dal 1876 al 1889, incarico che non è estraneo alla sua tragica fine nel 1893.
Il problema al quale l’amministrazione Notarbartolo dedicò
il maggiore impegno fu la ripresa dei lavori pubblici, allo scopo
di ridurre la disoccupazione. La città fu trasformata in cantiere:
mai in passato si erano realizzate tante opere pubbliche come nel
triennio della gestione del Notarbartolo, sicuramente uno degli
amministratori più capaci che Palermo abbia avuto, come
vent’anni dopo riconoscevano persino i cattolici. A parte il completamento del mercato degli Aragonesi e la copertura del Politeama, che era stato inaugurato ancora incompleto nel 1874, grazie a opportune variazioni di bilancio furono avviate opere pubbliche (pavimentazione stradale, rifacimento parziale della rete
fognante e della rete idrica, costruzione del teatro lirico, estensione dell’impianto di illuminazione ad alcune borgate, ecc.) sino a quando «le braccia mancarono al lavoro; quando le cave e
le fabbriche non furono più sufficienti a fornire i materiali di costruzione; quando tutta la città in tutti i punti presentò il magnifico spettacolo del lavoro e del rinnovamento». Altri operai erano infatti impegnati contemporaneamente nella costruzione, a
spese dello Stato, della circonvallazione ferroviaria, che nel 1874
collegò la stazione al porto, dove intanto si effettuavano i lavori
di escavazione del fondo e di prolungamento del molo per 130
metri (un primo prolungamento per 160 metri era stato realizzato nel 1865). Le nuove opere portavano il molo a 653 metri e
consentivano una superficie ancorabile di ettari 41,50. Molto opportunamente, l’amministrazione comunale si preoccupò di allargare la via del Borgo, che collegava il molo alla città, e so-
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Palermo
prattutto di costruirvi una banchina che rese più funzionale il
porto e migliorò notevolmente l’aspetto della zona. Anche alla
Cala si effettuarono – inizialmente a spese dello Stato e successivamente del Comune – lavori di escavazione del fondo, che fu
portato da m 2-3 a m 5-5,50.
Grazie all’accelerazione impressa ai lavori pubblici dalle giunte Notarbartolo, Palermo poté offrire nel 1875 ai partecipanti al
XII Congresso degli Scienziati – tra cui Terenzio Mamiani, i francesi Renan e Labordieu, i tedeschi Mommsen e Hartwing – un
aspetto completamente diverso rispetto all’ultimo periodo borbonico. La ripresa della politica degli sventramenti che aveva caratterizzato le precedenti amministrazioni moderate portò alla
demolizione del pericolante convento della Mercè e di parecchie
case che impedivano la vista della chiesa degli Eremiti e ne rendevano tortuosa la via antistante, mentre fu completato l’abbattimento dei due monasteri delle Stimmate e di S. Giuliano, sulla
cui area, all’inizio del 1875, il sindaco poneva la prima pietra del
Teatro Massimo.
Sin dagli ultimi decenni del Settecento, l’amministrazione comunale aveva pensato all’opportunità di dotare Palermo di un
grande teatro pubblico, ma il governo borbonico negò sempre il
permesso, che pur concesse a Messina, alimentando ulteriormente la rivalità tra le due città. Per i palermitani, la costruzione
del teatro era diventata ormai una questione di civiltà, oltre che
di orgoglio campanilistico di fronte alle altre due città siciliane,
Messina e Catania, entrambe fornite di teatro comunale. A unificazione avvenuta, quello del teatro fu perciò uno dei primi problemi che si posero le amministrazioni moderate e così, assieme
al Politeama, grande teatro popolare, fu decisa la costruzione di
un teatro lirico. Al concorso internazionale bandito dall’amministrazione Rudinì parteciparono ben 35 concorrenti italiani e stranieri. Dopo quattro anni, la Commissione giudicatrice presieduta dal celebre architetto tedesco Goffredo Semper assegnò il primo premio al progetto del professore Giovan Battista Filippo Basile, che finalmente nell’ottobre del ’74 venne adottato anche dal
Consiglio comunale. La decisione, voluta tenacemente dal Notarbartolo che ne aveva fatto una condizione irrinunciabile, fu
presa all’unanimità, ma con la presenza di appena la metà dei
consiglieri: ciò lascia intuire quanto essa fosse stata contrastata,
IV. Tra moderatismo e regionismo
155
a opera soprattutto della parte regionista, che ne aveva ritardato
l’approvazione e ora appoggiava con Perez il progetto del Damiani Almeyda, risultato quarto al concorso.
Si pensava di ultimare i lavori in quattro-cinque anni (in realtà
essi subirono lunghe interruzioni e furono ultimati solo nel 1897,
anno in cui il teatro fu anche aperto al pubblico), destinando intanto al pagamento del mutuo di lire 2.500.000 la dote di lire
127.500 che annualmente, tra discussioni e opposizioni di varia
natura, finiva con l’assegnarsi per gli spettacoli del Teatro Bellini, come ormai si chiamava l’ex Real Teatro Carolino. Ciò consentiva di non intaccare le altre voci del bilancio, pur se determinava per alcuni anni una riduzione degli spettacoli lirici, che
talora continuarono tuttavia a darsi al Politeama e al Circo, un
teatro costruito nel 1872 nel giardino del convento dei Padri Domenicani. Purtroppo, però, la spesa prevista nel 1874 in tre milioni, nel ’78 era salita a quattro milioni e mezzo e alla fine risultò
di circa sette milioni (per inciso, anche il costo del Politeama fu
notevolmente superiore al preventivo di lire 600.000, se nell’83
ammontava a lire 2.500.000 e si calcolava in un milione la spesa
per il suo completamento). La costruzione del Teatro Massimo
andò perciò molto per le lunghe e, oltre a essere fonte di violenti polemiche e recriminazioni, costituì senza dubbio una grossa
palla di piombo per le successive amministrazioni, costrette a impegnarsi nella continuazione dei lavori a danno di altre infrastrutture assai più necessarie. La città finiva così con il pagare duramente una struttura destinata a esclusivo uso della sua classe dominante, che aveva inteso portare Palermo al livello della maggiori città europee.
A merito della giunta Notarbartolo deve ascriversi il riordinamento contabile, che – oltre a mettere l’amministrazione nelle
condizioni di conoscere con esattezza la sua posizione finanziaria e di eseguire puntualmente i pagamenti, senza i ritardi degli
ultimi tempi della gestione Peranni, quando i debiti si pagavano
con tre anni di ritardo – consentì di scoprire il pauroso deficit di
cassa (oltre un milione) del tesoriere marchese Ferreri, il quale
fu denunciato all’autorità giudiziaria e morì in carcere, lasciando
al Comune un debito di lire 400.000, il cui recupero, all’inizio
del nuovo secolo, non era ancora avvenuto per l’inerzia delle successive amministrazioni e appariva seriamente compromesso.
156
Palermo
Per assicurare il pagamento dei mutui contratti per la costruzione del Teatro Massimo e l’esecuzione di altre opere pubbliche,
il Notarbartolo operò storni e variazioni di bilancio, senza ricorrere a un aumento delle aliquote fiscali, che anzi per alcuni articoli vennero ridotte o addirittura abolite, grazie alla riorganizzazione dell’amministrazione daziaria. La pressione fiscale tuttavia doveva essere elevata. Non abbiamo i dati per il singolo Comune di Palermo: nel ’75 le entrate daziarie dei comuni dell’intera provincia, di cui certamente quello di Palermo assorbiva una
grossissima fetta, collocavano la provincia di Palermo ai primissimi posti per quota pro capite: lire 8,07, contro una media nazionale di lire 3,05, che, se per Genova saliva a lire 10,20, a Milano
era appena di lire 4,75 e a Torino addirittura di lire 3,86. La spesa
comunale pro capite in provincia di Palermo superava la media
nazionale per spese generali (lire 3,82), polizia locale e igiene (lire
2,26), sicurezza pubblica e giustizia (lire 0,74), beneficenza (lire
0,65) e culto (lire 0,43), ma non per opere pubbliche (lire 2,50, media nazionale lire 2,99) e istruzione (lire 1,29, media nazionale lire 1,40). Se però la spesa comunale pro capite per opere pubbliche in provincia di Palermo non era molto più bassa che nelle
province più evolute ed era, ad esempio, più alta che a Milano
(lire 1,98), il divario era invece notevole per la spesa di istruzione
pro capite: in provincia di Milano si spendeva un terzo in più che
a Palermo, a Genova metà in più, a Torino oltre il doppio.
5. La Sinistra al potere
La caduta della Destra – alla quale contribuiva in maniera determinante l’iniziativa dei parlamentari meridionali: la mozione di
sfiducia era del palermitano Morana – e la conseguente ascesa
della Sinistra nel marzo del 1876 ebbero ripercussioni anche in sede locale. I rapporti all’interno della coalizione liberale che reggeva il Comune si deteriorarono e moderati e democratici si presentarono alle elezioni amministrative con liste separate. In verità,
i democratici, impegnati nella preparazione delle elezioni politiche anticipate – che videro il successo dei loro candidati Ferrara,
Morana, Tumminelli e Caminneci –, si disinteressarono quasi del
tutto delle amministrative, che furono caratterizzate dalla presen-
IV. Tra moderatismo e regionismo
157
za di parecchie liste. La grande maggioranza dei cattolici, in assenza di una propria lista, si astenne per il «ribrezzo di doversi accomunare con gente misgradita», sottolineava il Mortillaro. Come
spesso era accaduto quando i liberali non riuscivano ad accordarsi, i regionisti riportarono un successo strepitoso, che tuttavia ancora non dava loro la maggioranza assoluta in Consiglio. La situazione si presentava oltremodo difficile, perché tra i liberali, che
pur continuavano ad avere la prevalenza, i rapporti non erano migliorati e Notarbartolo finiva col non avere più la maggioranza.
Peraltro, dal 1º febbraio egli aveva assunto la direzione del Banco
di Sicilia ed era troppo impegnato nel salvare dal dissesto il maggiore istituto di credito siciliano per poter continuare ancora a fare il sindaco. L’unica persona che avrebbe potuto mettere su una
maggioranza era il senatore Francesco Paolo Perez (1812-1892),
da un quarantennio esponente di primissimo piano della cultura
locale e noto teorico dell’autonomismo siciliano.
Sino al 1865 e anche oltre, Perez era stato uno degli uomini
di punta del regionismo, tanto che il prefetto ne aveva chiesto il
trasferimento lontano da Palermo. Il successivo soggiorno di alcuni anni a Firenze, dove nel ’67 lo chiamò il ministro Ferrara
con l’incarico di consigliere della Corte dei Conti del Regno, non
interruppe del tutto i suoi rapporti con la città e gli amici regionisti. E tuttavia, la permanenza fiorentina gli aprì nuove prospettive politiche, che si concretizzarono nel ’71 con la nomina a
senatore e lo portarono infine a riconoscersi assieme a parecchi
altri regionisti sulle posizioni della Sinistra meridionale – che
esprimeva il malcontento dei notabili locali contro il fiscalismo
dei governi della Destra e l’accentramento ‘piemontese’ – e quindi a far parte del nuovo blocco di potere, in cui la classe dominante meridionale, abbandonato l’atteggiamento protestatario tenuto sotto la Destra, assumeva un ruolo spesso determinante, che
finiva col costituire una remora non indifferente allo sviluppo democratico del paese. E come esponente più rappresentativo della Sinistra palermitana, nel dicembre del ’77, sarà addirittura
chiamato a far parte dell’esecutivo nazionale, sembra grazie alla
protezione di Crispi.
Una sindacatura del Perez non era neppure sgradita ai regionisti, presso i quali egli continuava a riscuotere consensi, né poteva essere osteggiata dai moderati, i quali proprio nel 1876 ne
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Palermo
proponevano la candidatura al Consiglio provinciale. La scelta
del governo per la carica di sindaco cadde quindi su di lui. Con
Perez raggiungeva finalmente il vertice dell’amministrazione locale la generazione che aveva fatto il ’48, subìto l’esilio e preparato il Risorgimento. Anche i suoi successori (Giovanni Raffaele,
il barone Turrisi e, più oltre, il duca della Verdura) erano noti
esponenti della vecchia guardia risorgimentale che ormai cominciava a estinguersi per cause naturali. Tra i loro predecessori, a
parte Stabile, nessuno poteva vantare un così illustre passato: né
Balsano né Peranni, né ovviamente, per ragioni di età, Rudinì e
Notarbartolo.
L’amministrazione Perez (1876-1879), della quale facevano
parte anche parecchi che erano stati nelle giunte Notarbartolo,
riprese il problema del completamento della rete ferroviaria, di
cui si era occupato anche Peranni. Paradossalmente – rilevava il
sindaco – la mancanza di ferrovie avrebbe provocato alla città
meno danni del mancato completamento della Palermo-Caltanissetta, che avvantaggiava esclusivamente le province orientali e
in particolare Catania, verso cui – grazie alla linea ferrata che la
collegava con Caltanissetta – si dirigeva ormai il traffico dell’interno dell’isola che in passato aveva trovato il suo sbocco naturale nel porto di Palermo. Roma finalmente decise la costruzione di due tronchi, uno per Vallelunga, a completamento della Palermo-Catania, e una diramazione per le Caldare sino a Girgenti. Contemporaneamente, con finanziamenti statali, si lavorava al
tratto Palermo-Carini, primo tronco della linea Palermo-Trapani
via Marsala, e al porto dove continuò l’escavazione del fondo roccioso. Alla Cala i lavori di scavo interessarono soprattutto il tratto dove sboccavano le fognature per consentire l’abbassamento
di alcuni sbocchi sotto il livello del mare.
Per il resto, furono portati a compimento lavori iniziati sotto
la gestione Notarbartolo e fu continuata la costruzione del Teatro Massimo. La via Libertà venne prolungata sino al villino Cuccia e furono avviati i lavori per la costruzione di una litoranea sino al cimitero dei Rotoli e della via Villafranca, che avrebbe dovuto servire il nuovo quartiere Boscogrande in fase di urbanizzazione. Altre strade furono rifatte e parecchie migliorate grazie
alla demolizione di vecchie case all’Albergheria e al Capo. La rete tranviaria fu continuata a opera di una nuova società: dopo la
IV. Tra moderatismo e regionismo
159
costruzione delle rimesse e delle scuderie all’Acquasanta, entrò
in esercizio il tratto da piazza Marina all’Acquasanta e alla Noce
(1878), in attesa del completamento delle altre linee che facevano capo al Molo, ai Porrazzi, a Sampolo, a Romagnolo e alla stazione ferroviaria, la cui costruzione fu decretata dal governo proprio mentre il Perez era ministro dei Lavori Pubblici.
Al Perez mancava una maggioranza stabile, perché i gruppi
eterogenei che lo appoggiavano erano spesso in disaccordo tra
loro. Egli era inoltre portato a disinteressarsi delle più importanti
faccende comunali, affidate alle sole forze degli assessori e nell’ultimo periodo al regionista cavaliere Giulio Naselli di Gela, assessore delegato funzionante da sindaco. Le sue assenze dalla
città, per assolvere contemporaneamente ai compiti di ministro
dei Lavori Pubblici (dicembre ’77-marzo ’78) e della Pubblica
Istruzione (luglio-novembre ’79), aggravavano la situazione e l’instabilità della maggioranza, che lo costrinse addirittura alle dimissioni quando – subito dopo le amministrative del ’78 favorevoli ai regionisti – il Consiglio elesse una giunta a lui avversa, quasi interamente costituita da regionisti, parecchi dei quali avevano fatto parte delle giunte Peranni.
Nell’insistere con il ministro dell’Interno perché le dimissioni del sindaco non venissero rigettate, il prefetto rilevava l’inefficienza della gestione Perez, l’inosservanza delle leggi sugli Enti locali e il continuo ricorso «ad indecorosi espedienti per continuare nella irregolarità senza parere». Le sue dimissioni vennero inizialmente accettate, ma successivamente il governo lo riconfermò nella carica, che egli tenne ancora per quasi un anno,
sindaco più di nome che di fatto, anche perché contemporaneamente ricopriva la carica di Presidente del Consiglio provinciale
(agosto ’78-agosto ’79).
6. L’ultima giunta regionista
L’instabilità della maggioranza era la conseguenza dei risultati delle ultime elezioni comunali. Dopo la sconfitta liberale alle
amministrative del 1876, nel ’77 si ritornò alle vecchie alleanze:
i regionisti ripresero a flirtare con i clericali e presentarono una
lista comune, mentre partito costituzionale (così si chiamava
160
Palermo
adesso il partito moderato) e Sinistra storica, stretti nell’Unione
liberale progressista, presentavano anch’essi una lista comune,
che vinse largamente le elezioni. Ma i liberali ripresero a litigare
tra loro e alle amministrative del ’78 i democratici del barone Turrisi finivano addirittura nella lista regionista assieme ai clericali,
mentre il partito costituzionale si presentava con una sua lista. In
verità, i regionisti esclusero dalla lista i loro uomini più rappresentativi per dare spazio ai liberali, tra cui Perez e Turrisi, così
che essa appariva al prefetto «un concordato fortuito di diversi
partiti» che disorientò gli elettori. La partecipazione della cittadinanza fu infatti assai scarsa (appena 1.400 votanti) e il responso delle urne molto favorevole alla lista regionista: il sindaco Perez fu rieletto consigliere, ma il barone Turrisi restò fuori. Ciò
che accadde dopo in Consiglio comunale (secondo semestre del
1878) ne fu la logica conseguenza: la conflittualità aumentò notevolmente e portò – come si è detto – alla elezione di una giunta regionista, con conseguenti dimissioni del Perez, poi comunque ancora riconfermato nella carica.
Una breve schiarita si ebbe dopo le amministrative del ’79,
che consolidarono ulteriormente il gruppo regionista, ponendo
fine – secondo il prefetto – a «quello stato di incertezza che aveva negli ultimi anni inceppato l’amministrazione comunale per
l’impossibilità di fare assegnamento sopra una maggioranza costante fra due partiti [clerico-regionista e liberale] che si bilanciavano per il numero dei consiglieri». Con la maggioranza del
Consiglio comunale ormai nuovamente in mano ai regionisti, la
soluzione più opportuna apparve il passaggio delle consegne al
loro leader, il senatore Giovanni Raffaele (Naso 1804-Palermo
1882), membro autorevole della Massoneria locale. Lo stesso Perez, allora ministro della Pubblica Istruzione, appoggiò il prefetto nell’opera di convinzione del Raffaele, piuttosto recalcitrante
ad accettare per la sua avanzata età (novembre 1879).
Già nelle sue dichiarazioni programmatiche – riprendendo un
tema caro ai regionisti –, egli preannunziava che l’«era delle spese di puro lusso e di prematuro abbellimento» si era conclusa,
pur se l’amministrazione si impegnava a ultimare le opere in corso. Nel caso la crisi annonaria si fosse aggravata, non escludeva
il ricorso al calmiere, che le precedenti amministrazioni liberali
– in linea con i princìpi del liberismo economico – non avevano
IV. Tra moderatismo e regionismo
161
più voluto riesumare. E intanto aumentava notevolmente lo stanziamento per la pubblica beneficenza, per sovvenire soprattutto
ai bisogni dei nuovi poveri creati dalla rapida trasformazione della città nell’ultimo ventennio.
Il povero che noi dobbiamo sorreggere nel disgraziato cammino
della sua vita – si proponeva il sindaco – non è tanto quegli che stende la mano per la via, o picchia alle nostre porte. Noi lo anderemo a
cercare piuttosto in quei luridi ed ignoti buggigattoli che si dicono
case, e dovrebbero dirsi canili. Colà intere famiglie, che già una volta ebbero onesta rappresentanza sociale, oggi languiscono di fame,
coperte dal solo pudore che le tiene lontane da ogni evidenza per difetto anche di vestimenta. E non possono e non oserebbero correr le
vie elemosinando, e nelle infermità non sanno decidersi di presentarsi allo spedale.
Nella ricerca della «miseria pudica, ma non meno reale, che
colpiva una parte della classe borghese», il sindaco si imbatté in
«casi così affliggenti, e condizioni così desolanti da vincere qualunque anticipazione. Famiglie intiere stese sul nudo suolo, senza abiti e senza risorse, uomini di ingegno, educati ad una vita
agiata, ridotti alla più ributtante miseria vennero forniti di un pane quotidiano, di un letto e qualche volta di un abito o di un soccorso in denaro». E così, la spesa per la beneficenza che sino al
1877 non aveva mai superato le 250.000 lire, nel 1880 arrivò a
quasi 500.000 lire, con una eccedenza sulle previsioni di 73.000
lire, mai verificatasi in precedenza. Si dava inizio a un movimento ascendente della spesa di beneficenza che toccherà la punta
massima nel 1890 con un esito di 732.000 lire. A beneficio dei
ceti più diseredati, Raffaele, che era ostetrico, istituì la condotta
medica a domicilio. Per il resto, non riuscì a fare che ben poco,
sia per il breve tempo a disposizione, sia per la «cieca opposizione» degli avversari.
L’opposizione all’amministrazione si fece durissima dopo i risultati delle elezioni politiche e amministrative del 1880, disastrosissimi per i regionisti, sconfitti duramente nel primo collegio di Palermo, dove il loro candidato Palizzolo – malgrado l’appoggio del ministro dell’Interno Depretis, tramite il prefetto Bardesono – fu battuto da Crispi, che per l’occasione, su sollecita-
162
Palermo
zione di Rudinì, ebbe anche i voti dei moderati, in odio appunto ai regionisti. Anche negli altri collegi cittadini vinsero candidati delle forze di Sinistra: Mariano Indelicato, G.B. Morana e
Valentino Caminneci, il quale ultimo si avvalse anche dei voti dei
moderati e di una parte dei regionisti. La campagna elettorale si
era trasformata in una violenta accusa alla gestione del Raffaele,
che perdette pure l’amicizia personale di Crispi. Le successive
amministrative portarono in Consiglio ben venti liberali, tra cui
il professore Vito Cusumano, uno dei protagonisti della polemica tra i liberisti e i riformatori e più tardi esponente prestigioso
del «socialismo della cattedra». Nel settembre del 1880, il Raffaele dovette perciò lasciare la carica di sindaco al barone Turrisi Colonna.
V
IL TRASFORMISMO
1. Il ritorno dei Gattopardi
Con il senatore barone Nicolò Turrisi Colonna (1817-1889)
coronava il suo lungo inseguimento alla conquista del potere cittadino quella parte della classe dominante palermitana che, pur
avendo combattuto i Borboni e fatto la rivoluzione, dopo l’unità
era rimasta sostanzialmente all’opposizione, sia quando il Comune era stato nelle mani dei regionisti, sia quando era stato gestito dalla stessa coalizione liberale, all’interno della quale essa
rappresentava pur sempre una forza di minoranza. Il trionfo della Sinistra significava perciò il ritorno dell’aristocrazia, anche se
della parte più progressista e illuminata, al vertice della cosa pubblica, come era anteriormente al 1861, prima della nomina a sindaco di Salesio Balsano. Malgrado la fortissima prevalenza borghese all’interno del Consiglio comunale – la rappresentanza aristocratica in Consiglio si assottigliava sempre più: nel 1885 vi facevano ancora parte 4 principi, 2 duchi, 4 marchesi, 1 conte e 4
baroni; nell’89 appena 2 principi, 1 duca, 3 marchesi, 1 conte e
2 baroni – a sindaco ora veniva scelto quasi sempre un titolato.
Dal 1880, infatti, per oltre un quindicennio, il Comune fu retto
prevalentemente da esponenti dell’alta aristocrazia.
Anche all’interno della giunta comunale, l’aristocrazia riconquistò in certi momenti più spazio che in passato e soprattutto
un peso superiore alla sua rappresentanza in Consiglio: della prima giunta Turrisi faceva parte anche il neosenatore principe Corrado Valguarnera di Niscemi, che aveva partecipato giovanissimo agli avvenimenti palermitani del 1860 e che cento anni dopo
164
Palermo
rivivrà nelle vesti del Tancredi gattopardiano, il convinto sostenitore del principio cui da secoli l’aristocrazia siciliana ispirava il
suo comportamento: «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». E tuttavia, proprio per il fatto che la
giunta venisse eletta da un Consiglio comunale, a sua volta pur
sempre espressione di un corpo elettorale che la riforma del 1889
allargava ulteriormente, rendendo elettivo anche il sindaco, la riconquista aristocratica del Comune non poteva significare un ritorno puro e semplice alla situazione preunitaria. Ormai, la borghesia cittadina si era irrobustita e si poneva certamente in una
posizione di maggiore indipendenza nei confronti dell’aristocrazia, la quale, a sua volta, nei suoi elementi più dinamici si apriva
all’accettazione del sistema capitalistico e talora anche delle speculazioni capitalistiche.
Rispetto al ventennio precedente, la sindacatura Turrisi significava anche l’avvio di un nuovo modo di gestire gli affari municipali. Come a Roma, dove il Depretis, già sin dai primi ministeri, aveva privilegiato l’amministrazione sulla politica e cominciato a governare grazie al trasformismo che amalgamava in una
maggioranza parlamentare ampie frazioni della Sinistra e della
Destra, a Palermo il nuovo sindaco aveva imposto alla coalizione liberale che lo appoggiava un programma che escludeva dalla gestione municipale qualsiasi questione politica, nel tentativo
di assorbire all’interno della maggioranza democratica, oltre ai
regionisti superstiti, anche una parte degli uomini della Destra.
Sistema che sarà continuato dai suoi successori e che faceva del
sindaco non più l’espressione di una maggioranza politica chiaramente caratterizzata, bensì il punto di convergenza di interessi particolari e contingenti, che superavano gli schieramenti tradizionali e le etichette di partito e rimettevano in gioco esponenti
del regionismo che sembravano definitivamente sconfitti.
Se è vero che certi prodromi possono farsi risalire alla sindacatura Perez, non c’è dubbio che il nuovo sistema era anche la
conseguenza della disfatta regionista del 1880, che venne a privare per oltre un ventennio il Consiglio comunale di una opposizione politicamente qualificata. Il partito regionista non si riprese più dalla batosta subita: deceduti o ritiratisi dalla lotta i
suoi maggiori esponenti, esso continuava a essere tenuto in vita
da uomini nuovi, legati tra loro più che da princìpi politici dalla
V. Il trasformismo
165
necessità di tutelare interessi individuali e di parte. Ne era a capo Raffaele Palizzolo, un termitano più volte assessore nelle giunte Peranni, ora membro del Consiglio d’amministrazione del
Banco di Sicilia, fortemente sospettato di essere stato manutengolo del famoso bandito Leone. Nel 1882, il prefetto lo aveva aiutato a conquistare il seggio parlamentare nel collegio di TerminiCefalù, dietro promessa che egli si sarebbe fatto «sostenitore ad
ogni evento della politica del governo» e si sarebbe astenuto dall’ingerirsi per molti anni nelle faccende comunali. Ed effettivamente Palizzolo, tranne quando la presidenza del Consiglio fu tenuta da Crispi, si schierò sempre dalla parte del potere – sia alla Camera, dove la mafia di Caccamo prima e dell’Albergheria
dopo continuò a eleggerlo, sia al Comune di Palermo, dove nel
1885 fu rieletto consigliere – ottenendo in cambio favori per i
suoi amici e la possibilità di tutelare meglio i propri interessi e
anche quelli dell’Esattoria, nella quale era cointeressato.
Si affermava la regola – seguita scrupolosamente da tutte le
successive amministrazioni cittadine – di assegnare i posti vacanti
non sulla base del merito, bensì degli interessi personali della
maggioranza del momento, col risultato di gonfiare enormemente gli organici e di creare una burocrazia municipale inefficiente
e spesso arrogante e prepotente anche nei confronti degli stessi
amministratori, che erano i primi a lamentarsene. Nel 1901, la
Commissione di inchiesta sulle amministrazioni comunali del
ventennio 1880-1900 rilevava come gli amministratori vedessero
negli impiegati
non tanto gli organi dell’amministrazione comunale, quanto gli elettori influenti, i manipolatori indispensabili delle elezioni. Gli impiegati, alla lor volta, sapendo la parte importante che erano chiamati a
rappresentare nelle battaglie elettorali, si sentivano e si atteggiavano
rispetto ai consiglieri, agli assessori e qualche volta anche rispetto ai
sindaci, non come dei dipendenti, ma quasi come dei protettori, di
guisa che a poco a poco venivano a snaturarsi completamente i rapporti gerarchici che debbono intercedere tra amministratori ed impiegati in un’azienda pubblica ben ordinata [...]. Il concetto stesso
dell’impiego municipale era falsato nella sua base, apparendo piuttosto come un premio di servizi resi, come un mezzo di facile sistemazione d’individui scarsamente capaci in cerca di collocamento, come
un benefizio, diremmo quasi, nel senso medioevale della parola, an-
166
Palermo
ziché come un munus publicum nel senso classico rinverdito dal diritto pubblico. E così accadde che gl’impiegati – impreparati, in gran
parte deficienti di studî e di attitudini, mancanti quasi sempre di buona volontà e di serî propositi di diligenza e di lavoro – invece di essere i servitori del municipio ne divennero i padroni.
È la storia di un secolo fa che continua sino a noi. Nessuna
meraviglia, allora, se nell’anno 1900 dei 300 impiegati municipali – tra cui parecchi dalla fedina penale macchiata – solo 27 risultassero assunti attraverso concorso e dei 33 impiegati degli uffici finanziari solo uno fosse in possesso del diploma di ragioniere, malgrado dal 1862 funzionasse un Istituto tecnico (intitolato poi a Filippo Parlatore) con una sezione per il Commercio
e l’Amministrazione (le altre sezioni riguardavano Agronomia e
Agrimensura, Meccanica e Costruzioni, Concia e rifinizioni delle pelli). Si può dire davvero che non ci fosse amministrazione
che rinunciasse alla possibilità di assumere a man bassa amici e
protetti: Turrisi fu il primo sindaco che consacrò il principio che
le assunzioni dovessero farsi per concorso, ma fu anche il primo
che lo disattese, coprendo, senza concorso appunto, alcuni posti
di applicato. È incredibile come i più spregiudicati nel distribuire impieghi per scopi elettorali fossero proprio gli uomini di cultura come Turrisi o come il professore Cusumano o l’ex rettore
Paternò. I funzionari, a loro volta, non erano da meno degli amministratori e spesso trasformavano l’ufficio in un proprio feudo, nel quale trovavano impiego numerosi parenti. E non mancavano tra gli impiegati coloro che riscuotevano tangenti, come
tali Traina e Librino, i quali percepivano il 2 per cento sulle somme che il Comune pagava all’Impresa Favier, la società concessionaria del servizio di illuminazione a gas: scoperti, furono condannati a due anni di reclusione.
A livello di Consiglio comunale, il succedersi di giunte di coalizione e monocolori, più o meno allargate a qualche regionista
o a qualche clericale, non stimolate da minoranze qualificate, determinava l’esaurirsi della dialettica politica, malgrado la presenza in Consiglio degli uomini più rappresentativi della città. Di
contro, la riottosità dei consiglieri superava di gran lunga i limiti raggiunti negli ultimi tempi della sindacatura Perez e il dibattito scadeva assai spesso a feroce polemica sulle persone o si ap-
V. Il trasformismo
167
piattiva per dare spazio alla congiura e alla faida, alimentata dalle varie fazioni che si neutralizzavano a vicenda e rendevano assai spesso difficilissima la composizione annuale della giunta. Né
le elezioni parziali o generali, per quanto rinnovassero il Consiglio, riuscivano a modificarne i codici comportamentali, anche
perché con la dissoluzione dei partiti tradizionali, auspicata a livello nazionale persino dal Minghetti e favorita a Palermo dal
prefetto Bardesono (1879-1887), uomo di fiducia del Depretis,
la lotta elettorale da confronto di idee e di programmi scadeva a
contrasto di interessi e di ambizioni, che inevitabilmente poi si
riproponevano in Consiglio. Si realizzavano così le aggregazioni
più impensate:
tutto quello – annotava il cronista del «Giornale di Sicilia» – che prima non era stimato politicamente corretto, si fa alla luce del sole e
senza tanti complimenti. Il liberale dà il braccio indifferentemente al
clericale, al retrivo e magari al diavolo; i rossi contrattano coi neri; il
galantuomo coll’arruffone; il principe col ciabattino, formando uno
strano amalgama, una specie di olla putrida che a solo pensarci farebbe rivoltare gli stomachi più forti.
La formazione delle liste, che quasi sempre avevano in comune i nomi più prestigiosi, non ubbidiva più a motivazioni politiche, ma assai spesso a criteri clientelari:
uno si porta – continuava il «Giornale di Sicilia» – perché gli fa comodo entrare nei consigli del Comune o della Provincia; perché l’entrarvi gli farà acquistare influenza e considerazione; uno è portato perché fa comodo a coloro che lo portano, che da lui sperano favori e
protezioni. Quanti compromessi, quante transazioni, quanti mercati!
Così del Consiglio comunale potevano tranquillamente far
parte avvocati che avevano tra i loro clienti le Società che gestivano in appalto i servizi pubblici e che molto spesso erano in contrasto con il Comune, dal quale riuscivano a ottenere transazioni favorevoli.
La sindacatura Turrisi non durò a lungo, malgrado l’appoggio incondizionato del prefetto, che lo riteneva il solo capace di
mantenere l’accordo all’interno della maggioranza del Consiglio,
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Palermo
in quanto l’uomo più autorevole e rispettato del partito democratico, e malgrado egli avesse sicuramente ben meritato dalla popolazione per la serietà e l’impegno con cui aveva affrontato i
problemi della città. Turrisi, infatti, non era soltanto un intellettuale, autore di apprezzati saggi di economia agraria, ma anche
un uomo estremamente pratico, dotato di straordinaria energia e
profondo conoscitore di uomini e cose, a tal punto che, volendo
affrontare seriamente il problema dei poveri, non esitò, lui massone, a ricorrere a padre Giacomo Cusmano: nacque così la Casa per anziani e orfani. Alle due giunte da lui presiedute nel 18801882 si deve tra l’altro l’avvio di studi e indagini per la risoluzione del problema fognario, nella consapevolezza che fosse
quanto mai opportuno «un periodo di sosta nelle opere che devono abbellire la nostra città, un periodo di raccoglimento per
quel tempo che sarà necessario a rimettere nelle condizioni normali la comunale azienda». Egli fu il primo, infatti, a rendersi
conto che la situazione finanziaria del Comune non fosse così rosea come appariva dai bilanci, avendo accertato, per gli esercizi
sino al 1879, un deficit di un milione e mezzo.
Gli strascichi provocati dalla revisione degli organici municipali, le polemiche sulle pesanti spese di costruzione del Teatro
Massimo, i contrasti all’interno del suo stesso partito, che pur
avendo la maggioranza in Consiglio era diviso in un’ala ministeriale cui egli apparteneva e un’ala dissidente, finirono presto col
logorare il suo rapporto con lo stesso Consiglio e la giunta. La
preoccupazione di dover affrontare nuove spese – anche personali, che le proprie finanze non consentivano – per la celebrazione del sesto anniversario dei Vespri siciliani (1882), e la pretesa della Associazione Democratica – responsabile di buona parte delle crisi comunali sino a fine secolo – di sostituire quattro
assessori con altri di suo gradimento lo convinsero dell’opportunità di abbandonare la carica e ritirarsi a Sant’Anastasia (o fuggire precipitosamente, come malignamente scrissero i suoi avversari), sebbene godesse del favore dell’opinione pubblica, che
si era espressa anche in dimostrazioni di piazza per convincerlo
a rimanere a capo dell’amministrazione (gennaio 1882).
I dissidi e le fratture non erano una prerogativa dei soli democratici e non mancavano neppure tra i moderati, tra i quali
l’ex sindaco Notarbartolo si opponeva ostinatamente alla propo-
V. Il trasformismo
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sta del prefetto per una giunta che comprendesse «i migliori fra
i diversi partiti, i quali avessero uniformità di idee amministrative e potessero quindi sulla base del programma Turrisi assicurare una forte maggioranza».
Il Consiglio fu sul punto di sciogliersi, avvenimento mai accaduto in precedenza, ma alla fine il marchese Pietro Ugo delle
Favare (1827-1898), un ex conservatore con qualche nostalgia
borbonica e trascorsi regionistici passato tra i democratici, riuscì
a comporre una giunta di otto democratici e quattro moderati.
Sulle orme del Turrisi, anche il marchese Ugo, cui faceva difetto
una salda fede politica, si proponeva di ispirarsi soltanto al buon
andamento dell’amministrazione municipale, escludendo dalla
sua azione «ogni idea di politica o di partito». Solo che al partito si sostituiva assai spesso la fazione. A differenza del Turrisi,
aristocratico illuminato ed esperto amministratore, che si era formato alla scuola del padre Mauro, intraprendente imprenditore,
Ugo era essenzialmente un rentier, che aveva delegato ad altri
l’amministrazione del suo vasto patrimonio e non dimenticava le
origini feudali della sua famiglia, pur essendo azionista della Navigazione Generale Italiana (Ngi). Carattere autoritario e poco
tollerante di freni e limitazioni, era inoltre portato a sovrapporre la sua volontà a leggi e regolamenti, agevolato dal prestigio che
gli derivava dal suo blasone, da una lunga tradizione familiare a
servizio dello Stato con incarichi di altissima responsabilità (il
nonno Pietro era stato capo della polizia borbonica attorno al
1820 e luogotenente generale di Sicilia dal 1824 al 1830, distinguendosi per l’accanimento contro il movimento liberale) e dalla sua stessa posizione personale di deputato da più legislature e
di consigliere comunale quasi ininterrottamente dal 1867, con
qualche esperienza da assessore.
È bene tuttavia sgombrare subito il campo da possibili equivoci: l’inosservanza delle leggi da parte dei sindaci, che caratterizza un po’ tutte le gestioni municipali degli anni di cui ci occupiamo, non mirava al conseguimento di lucri personali o familiari. Anzi spesso – ed è proprio il caso di Ugo, che ospitò a
sue spese Garibaldi venuto a Palermo per le celebrazioni dei Vespri – la carica richiedeva oneri e spese personali che non tutti i
consiglieri erano disposti a sopportare; e perciò sulla stampa dei
decenni successivi sino al fascismo si farà costante riferimento ai
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Palermo
sindaci dell’Ottocento, e soprattutto a Notarbartolo, Turrisi,
Ugo, Verdura, quando si vorranno indicare personaggi al di sopra di ogni sospetto e amministratori integerrimi. Ma anche per
quei sindaci era difficile resistere agli appetiti di amici e clienti,
tra i quali c’erano anche consiglieri comunali. Proprio per soddisfarli, si finiva spesso per trasgredire la legge, sovrapponendo
all’interesse pubblico quello dei singoli, come documenterà ampiamente l’Inchiesta del 1901.
La prima sindacatura Ugo durò un triennio (1882-1885), malgrado sull’amministrazione comunale continuassero a scaricarsi
le tensioni, le astiosità, i veti incrociati, gli odi personali, che mettevano i consiglieri l’uno contro l’altro. Per le elezioni amministrative del 1882 circolavano almeno sei liste, tra cui, per la prima volta a Palermo, anche una clericale, della quale faceva parte il vecchio marchese Mortillaro assieme a parecchi altri titolati
(in tutto: due principi, due duchi, due marchesi, un barone) e
che gli avversari definirono «lista d’altri tempi». Non a torto, se
per Mortillaro l’età borbonica era «un’epoca che ormai s’invidia
e il cui confronto strazia amaramente». La lista era appoggiata da
«La Sicilia Cattolica», un periodico che considerava «l’attuale
municipio [...] il più anti cristiano di quanti se ne sono avuti dal
1860 in qua; e il più meschino e il più scandaloso». Non è difficile ipotizzare che essa avesse l’avallo pieno dell’arcivescovo Celesia, che proprio in quei mesi insisteva presso la Santa Sede perché togliesse il non expedit e consentisse ai cattolici di partecipare anche alle elezioni politiche, nella convinzione che l’astensione fosse più di danno che di vantaggio per la Chiesa. Sonoramente sconfitti dall’elettorato, i cattolici accusarono la Prefettura di avere favorito, attraverso il voto dei questurini e degli agenti
governativi, la vittoria dei democratici. In realtà, bastavano pochi gruppi di elettori organizzati per decidere il risultato, data
l’indifferenza con cui la cittadinanza palermitana, anche quella di
parte clericale, seguiva le varie competizioni elettorali: malgrado
l’accanimento dei contendenti, l’elettorato infatti continuava nel
suo assenteismo, tanto che, su un corpo di 11.000 elettori per le
amministrative, raramente si superavano i 2.000 votanti.
Anche le elezioni politiche del 1882 si svolsero in un clima incandescente. La nuova legge elettorale, consentendo nelle consultazioni politiche il suffragio a coloro che pagavano 19 lire di
V. Il trasformismo
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imposte e avessero 21 anni di età e la licenza della seconda classe elementare, aveva quasi triplicato il corpo elettorale (da 5.173
a 14.461) e coinvolgeva nella competizione nuovi strati cittadini.
L’allargamento dell’elettorato e l’accorpamento dei quattro precedenti collegi uninominali in un unico collegio a scrutinio di lista costringevano inoltre le organizzazioni politiche a uno sforzo
assai più ampio e consistente rispetto al passato, quando le elezioni si svolgevano quasi a livello di mandamento, e ciò contribuiva a rendere più animata la competizione. Ancora una volta
la vittoria arrise ai candidati della Sinistra (Crispi, Morana, Caminneci e Indelicato). Con il sostegno dei moderati fu anche eletto Simone Cuccia, professore di diritto pubblico nell’Università
e il miglior penalista della città.
A rendere ingovernabile il Comune furono però i risultati delle amministrative del 1884. Per il Mortillaro, «questa volta, più
che negli anni precedenti, le stranezze, gl’intrighi, le defezioni, le
imprudenze, le imbecillità, i soprusi per le elezioni municipali in
Palermo, furono incredibili, sorpassarono il verisimile». Effettivamente, la confusione era al culmine. Anche i cattolici cominciarono a litigare tra loro: «La Sicilia Cattolica» ricusò la lista del
Comitato cattolico di santa Rosalia, che aveva preparato le precedenti elezioni, e di contro – dimenticando di aver salutato pochi anni prima la caduta dei moderati al grido di «meglio i sinistri che i destri» – fece sua la lista dei moderati dell’Associazione Costituzionale Unitaria, che a sua volta aveva dei nomi in comune con la lista democratica. Il Comitato di santa Rosalia rispose pubblicando un nuovo giornale («L’Avvenire»), che attaccò
duramente «La Sicilia Cattolica». I risultati elettorali (votò appena 1/6 degli aventi diritto) furono così contraddittori da prestarsi alle interpretazioni più disparate: per «La Sicilia Cattolica»
erano stati eletti ben sette oppositori del sindaco Ugo; per «L’Amico del Popolo», organo di stampa vicino alla Questura, i nuovi eletti rafforzavano l’amministrazione in carica.
Ma non fu così e pochi mesi dopo il sindaco Ugo fu costretto a lasciare la carica, aprendo con il suo abbandono una lunga
e difficile crisi. Trovare un successore non era agevole, anche perché, a giudizio del prefetto, tranne il barone Turrisi, che però non
riusciva a far accettare agli altri le sue idee, nessun uomo politico palermitano, neppure lo stesso Ugo, sarebbe stato capace di
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Palermo
programmare seriamente il futuro economico e igienico della
città, che – secondo il prefetto – «era in balia della più strana
confusione». In effetti, la sindacatura Ugo si era caratterizzata
per il suo immobilismo, con conseguente blocco dei progetti elaborati da Turrisi. Il problema idrico, che si era fatto particolarmente grave, non fu risolto, perché il progetto dell’ingegner Capitò per l’adduzione dell’acqua di Scillato fu ritenuto troppo costoso e ancora non era pronto il progetto dell’ingegner Castiglia
per una diga presso San Martino, tra Monte Cuccio e il Colle del
Paradiso. A causa del grande sviluppo assunto dalle colture irrigue della Conca d’Oro, che abusivamente utilizzavano l’acqua
per la città, la disponibilità giornaliera, che nel 1844 era di 300
litri pro capite, si era ridotta a 144 nel 1872 ed era scesa ormai
sino a 75 litri. Solo nel campo giudiziario Ugo mostrò un incredibile attivismo, con il risultato di impelagare il Comune in una
serie di liti che alla fine ammontavano a circa 130.
Per quasi tutto il 1885, il Consiglio comunale, all’interno del
quale la conflittualità si era ulteriormente aggravata, non riuscì a
mettersi d’accordo sul nome del successore e, come facenti funzione, ressero la carica il cavaliere Salvatore Romano Lo Faso,
l’avvocato Giuseppe La Farina e il duca Fortunato Vergara di
Craco, tutti della fazione democratica che faceva capo a Ugo.
La situazione si risolse solo alcuni mesi dopo le amministrative del luglio 1885, che ancora una volta si svolsero tra polemiche, accuse, scissioni, convergenze e alleanze impensabili qualche anno prima. A fronte di un partito democratico alla deriva e
frantumato in correnti, moderati, regionisti e clericali tendevano
a fare blocco unico. Ma anch’essi subivano qualche importante
defezione e gli stessi clericali erano divisi al loro interno: erano
appena ricomparsi sulla scena politica locale e già alcuni di loro
pensavano a trarne vantaggi personali, adeguandosi perfettamente al clima instauratosi da qualche tempo al Comune. E infatti, annotava amaramente il Mortillaro, «taluni avrebbero voluto d’intransigenti composto il sindaco ed il Consiglio. Altri
avrebbero desiderato far comunanza con chicchessia purché molti posti fossero conservati per essi».
La città aveva urgente bisogno di una giunta efficiente, che affrontasse meglio la situazione sanitaria, assai critica per via del colera che imperversava con costi enormi per le casse comunali, e
V. Il trasformismo
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desse una spinta decisiva al piano di risanamento, utilizzando i
vantaggi offerti dalla legge per Napoli. La soluzione della crisi non
fu facile, perché nessun partito aveva la maggioranza e per di più
numerosi consiglieri non potevano entrare in giunta in quanto magistrati, consiglieri provinciali, deputati nazionali, ecc. Alla fine
(novembre 1885) si raggiunse l’accordo sul nome del senatore duca Giulio Benso della Verdura (1816-1904), appena rieletto consigliere comunale dopo un’assenza di parecchi anni dalla città.
Grande collezionista di rarità bibliografiche e di quadri, Verdura,
già senatore del municipio palermitano negli anni 1846-1848, aveva partecipato ai fatti del ’48, che gli valsero l’esilio sino al ’58, e
aveva subìto qualche settimana di carcere nel ’59. Pretore con Garibaldi nel 1860 e presidente del Consiglio provinciale nel periodo
1863-1867, aveva venduto nel 1861 il suo ex feudo Verdura e si
era dato agli affari, investendo buona parte del ricavato in azioni
della Banca degli Stati Sardi, poi diventata Banca Nazionale, del
cui Consiglio d’amministrazione fece parte per diversi anni, entrando in rapporti di amicizia con Bastogi, Bombrini e altri grandi della finanza italiana. A distanza di venticinque anni, il «sindaco delle barricate» – come fu chiamato dai palermitani nel ’60 –
ritornava ora a capo dell’amministrazione cittadina. Ma la fazione democratica del professore De Luca Aprile non lo considerava
abbastanza liberale, mentre per i moderati egli era troppo democratico. Nella sua giunta entravano moderati e democratici, come
già in precedenti occasioni, ma anche due clerico-regionisti.
2. Il trasformismo dell’antitrasformismo, ossia l’idillio CrispiRudinì
Neppure la soluzione Verdura fu di lunga durata. Il sindaco
pagò soprattutto per le polemiche che accompagnavano e seguivano ogni consultazione politica e che finivano talora con il ripercuotersi sui fragili equilibri su cui si reggevano le giunte comunali. Alle politiche del 1886, il candidato del governo Depretis era l’onorevole Morana, che poteva contare sull’appoggio del
prefetto Bardesono, il quale, oltre a mobilitare la Questura, fece
pressioni su Verdura perché si schierasse dalla sua parte. Ma il
sindaco che sosteneva le candidature di Crispi, di cui era molto
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Palermo
amico, e di Cuccia, non accettò le sollecitazioni, ribadite in un
vivace colloquio che segnò praticamente le sorti della giunta.
L’elettorato era però largamente a favore dei candidati dell’opposizione al governo, senza sottilizzare sulla loro collocazione, Destra o Sinistra, che tutti ormai tendevano a considerare superata. Nella lotta al governo Depretis, Palermo veniva addirittura a trovarsi in prima fila, perché – in campo nazionale – l’opposizione antigovernativa era capeggiata dai due più eminenti uomini politici della città, Crispi, che la rappresentava in Parlamento, e il marchese di Rudinì, che era stato suo sindaco e,
sebbene eletto in un collegio della Sicilia orientale, conservava
ancora solidi agganci con la città natale. Il primo era uno dei capi della Sinistra storica che nel 1883 avevano costituito la pentarchia, in opposizione alla politica trasformistica del Depretis; il
secondo guidava, assieme a Sonnino e Salandra, il gruppo dissidente di Destra, contrario anch’esso al Depretis. L’opposizione
al governo da Sinistra e da Destra aveva avvicinato i due uomini
politici, che dopo qualche anno si ritroveranno, uno dopo l’altro, alla guida del paese. I loro rapporti diventarono così amichevoli che, qualche giorno prima delle elezioni, Rudinì non esitò
a lasciare il suo tranquillo collegio di Siracusa per correre a Palermo in aiuto di Crispi, che andò addirittura ad accoglierlo alla
stazione, accompagnato dal sindaco Verdura. Al comizio di Carini, Crispi inneggiò al passato patriottico del marchese e Rudinì
prese anch’egli la parola per dichiarare che, pur militando da
molti anni nello schieramento avversario, aveva sempre creduto
dovere di onesto siciliano votare per Crispi.
Noi non possiamo dimenticare – continuò – i suoi servigi alla Patria: non possiamo dimenticare Crispi nella rivoluzione, Crispi nella
spedizione dei Mille, di cui fu la mente e l’organizzatore politico. Noi
non possiamo dimenticare che il solo uomo di Stato che la Sicilia ha
in Parlamento è Crispi. È dovere di coscienza, di onore di patria, deporre nell’urna concordi il nome di Francesco Crispi.
E così, per combattere il trasformismo del governo, i due campioni dell’opposizione non esitavano a ricorrere anch’essi al trasformismo! La vittoria dell’opposizione era scontata, ma Crispi
non fu il primo degli eletti, che risultarono nell’ordine: Paterno-
V. Il trasformismo
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stro, Cuccia, Crispi, Puglia e Amato Pojero. Morana, sconfitto a
Palermo, fu eletto a Caltanissetta.
Battuto alle elezioni politiche, il prefetto volle prendersi la rivincita al Comune di Palermo, sottraendolo agli amici di Crispi,
grazie alla collaborazione del barone Turrisi, il quale anelava anch’egli a una rivincita. Peraltro, il barone non era tipo da rimanersene a lungo in disparte e da tempo aveva cominciato a condurre dietro le quinte un’azione di disturbo nei confronti dell’amministrazione, non disdegnando talora di servirsi dei regionisti del Palizzolo, già suo fiero avversario e ora accomunato a
lui nell’avversione per il Crispi. Verdura fu perciò costretto a dimettersi (ottobre 1886) e a capo dell’amministrazione civica ritornò nuovamente Turrisi, invocato quasi all’unanimità da tutti i
partiti rappresentati in Consiglio e dalla stampa cittadina.
E Turrisi, «vincendo – come scriveva il prefetto al ministro
dell’Interno – tutta la sua repugnanza e facendo sacrificio della
vita», accettò, salvando così la città «dal disdoro di uno scioglimento del Consiglio e dai danni gravissimi risultanti dal protrarsi di una crisi che durava da tanto tempo», proprio quando bisognava avviare i lavori di risanamento per i quali la giunta Verdura aveva ottenuto un mutuo di 30 milioni. Ma l’improvviso
peggioramento nel settembre 1887 delle sue già precarie condizioni di salute rese indispensabile la nomina di un nuovo sindaco. Il principe di Scalea non volle accettare l’incarico e il Consiglio elesse assessore anziano il commendatore Salesio Balsano:
l’elezione dell’assessore anziano era solitamente un’indicazione al
governo per la successiva nomina del sindaco. Il continuo ricorso a personaggi del passato (se Verdura era stato l’ultimo pretore, Balsano era stato il primo sindaco!) per formare amministrazioni cui si pronosticava vita difficile dimostra da un lato il grado di ingovernabilità raggiunto ormai dal Consiglio comunale e
dall’altro anche la sua incapacità di rinnovarsi dando spazio a uomini nuovi, come era avvenuto dopo l’unità.
Ma neppure il vecchio notabile moderato riuscì nell’intento e
dovette passare la mano nuovamente al duca della Verdura, che
dopo estenuanti trattative riuscì a comporre una giunta di coalizione che poteva contare su un’ampia maggioranza e sull’amicizia del nuovo presidente del Consiglio Crispi. Verdura riuscì così ad assicurare alla città quasi un triennio di stabilità (1887-
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Palermo
1890), durante il quale diede notevole impulso all’opera di risanamento. Nell’ambito del risanamento, merita di essere segnalato l’impegno per risolvere il problema idrico, con l’impianto di
numerose fontanelle pubbliche e la stipula di un contratto per la
conduttura dell’acqua di Scillato con la società inglese Redfern,
Alexander e C., che però dopo qualche anno rinunziò all’esecuzione dei lavori.
3. Sotto il segno di Crispi
La nuova legge comunale del 1889 concedeva l’elettorato attivo in base alla capacità e non più al censo, determinando così,
nelle consultazioni amministrative, un allargamento del corpo
elettorale di circa il 50 per cento (da 10.545 a 15.756), peraltro
parzialmente vanificato dalle modifiche del 1894, che richiedevano un accertamento culturale davanti al pretore assistito da un
maestro, cui molti non vollero sottoporsi perdendo il diritto di
voto. In novembre furono perciò tenute le elezioni per il rinnovo dell’intero Consiglio, avvenimento che non accadeva dal lontano 1861. Da più parti si auspicava un vasto ricambio della rappresentanza municipale, anche in considerazione del fatto che, se
si continuava a votare come in passato senza liste ufficiali, adesso si potevano però esprimere sino a 48 preferenze: per tutelare
le minoranze la legge limitava il numero di preferenze a non oltre i 4/5 dei 60 consiglieri da eleggere. E tuttavia, ci si rendeva
conto che non era facile scalzare buona parte dei consiglieri
uscenti, che potevano contare su una consistente base elettorale,
frutto di solidi rapporti personali e clientelari, favoriti dalla crisi
dei partiti tradizionali. La propaganda elettorale fu ancora una
volta caratterizzata dalla più completa assenza di programmi e di
idee da parte dei numerosissimi candidati in corsa, ai quali spesso non mancavano invece ambizione e spregiudicatezza.
Come al solito, le varie liste proposte dagli immancabili comitati difettavano di una seria caratterizzazione politica ed erano costituite da elementi che talora avevano assai ben poco in comune. La lista della cattolica Unione palermitana, fatta propria
da «La Sicilia Cattolica», se escludeva massoni e nemici manifesti della religione, comprendeva, assieme a noti clericali, ex re-
V. Il trasformismo
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gionisti come Palizzolo e Giulio Naselli di Gela, moderati come
Balsano e Scalea, democratici come Ugo e Oliveri, e persino filoradicali come l’avvocato Luigi Dagnino. Assieme a Ugo, proponeva inoltre parecchi componenti della sua prima giunta del
1882, quella giunta, per intenderci, che lo stesso giornale allora
aveva definito la più anticristiana dal ’60 in poi. C’era davvero il
rischio che gli elettori disorientati finissero – come giustamente
temeva un anonimo lettore del «Giornale di Sicilia» – con il comporre con il loro voto «un’amalgama arlecchinesca, dalla quale
non si può sperare un indirizzo unico e sicuro nell’andamento
della pubblica cosa».
La partecipazione dell’elettorato fu assai numerosa e sentita,
come raramente era accaduto nelle altre precedenti consultazioni (votò il 48 per cento contro il 35 per cento dell’anno precedente), ma il ricambio della rappresentanza consiliare avvenne
soltanto parzialmente: i nuovi eletti furono 17, poco più di 1/4
del Consiglio. I big naturalmente furono tutti rieletti, ma alcuni
come Perez e Guarneri agli ultimissimi posti, e questo provocò
risentimenti e polemiche, che durarono a lungo perché i due alle parziali dell’anno successivo neppure furono rieletti. La Massoneria riuscì a riconfermare i suoi esponenti, mentre la rappresentanza aristocratica subiva una vera falcidia, per la mancata rielezione di 5 principi, 2 marchesi, 1 conte, 2 baroni, e si riduceva
ad appena 2 principi, 1 duca, 3 marchesi, 1 conte e 2 baroni, toccando il minimo storico nel corso dell’Ottocento. Inoltre, i nobili, che spesso nel recente passato avevano conquistato i primi
posti, si videro scavalcati dal magistrato Di Menza e dal professore Emanuele Paternò, i quali precedettero tutti gli altri, tra cui
il sindaco in carica Verdura e il marchese Ugo. L’allargamento
del corpo elettorale aveva avvantaggiato la borghesia e, tra le forze politiche, i democratici, che nel nuovo Consiglio godevano di
una maggioranza schiacciante: ben 43 seggi, contro i 12 dei moderati e i 5 dei clericali. Ma ciò non valse a ridurre la conflittualità all’interno del Consiglio, che talora toccò vertici raramente
raggiunti.
Verdura si dimise nell’aprile del 1890, perché attribuì valore
di sfiducia all’approvazione di una sospensiva su una sua proposta di aumentare il personale di alcuni uffici. Le dimissioni colsero di sorpresa il Consiglio, che pochi mesi prima, sia pure con
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Palermo
otto voti in più rispetto a Paternò, lo aveva riconfermato a capo
dell’amministrazione, in base alla nuova legge comunale che, nei
comuni di oltre diecimila abitanti, attribuiva ormai al Consiglio
e non più al governo anche la scelta del sindaco. Gli successe il
capo dell’opposizione Emanuele Paternò (1847-1935) – figlio di
un esule del ’48 che egli, bambino, aveva seguito ad Alessandria
d’Egitto; e ora rettore dell’Università, chimico di fama internazionale e alto esponente nazionale della Massoneria – che doveva a Crispi la nomina a senatore e che non era neppure sgradito
ai moderati dell’Associazione costituzionale, i quali ne avevano
sempre inserito il nome nelle loro liste. La sua gestione dovette
necessariamente fare i conti con l’opposizione del gruppo Verdura, peraltro rafforzatosi dopo le amministrative parziali del luglio 1890 grazie all’elezione del principe di Gangi, che veniva
considerato capace di contendergli con successo la poltrona di
sindaco. Sino ai primi mesi del 1891, Paternò riuscì comunque
ad avere la meglio sull’opposizione, dosando con accortezza la
presenza in giunta di crispini e di rudiniani.
In occasione delle elezioni politiche dell’ottobre 1890, egli
prese l’iniziativa della costituzione di un comitato per la rielezione di Crispi, che fu presieduto da Ugo e del quale facevano
parte anche alcuni moderati. Il successo di Crispi, presidente del
Consiglio in carica, fu completo. Con lui al primo posto, furono
rieletti a Palermo Amato Pojero e Cuccia, seguiti dagli avvocati
Antonio Marinuzzi e Angelo Muratori. A Caltanissetta veniva
eletto Napoleone Colajanni, candidatosi anche a Palermo, dove,
pur mancando l’elezione, riportava un buon successo grazie ai
voti dei clericali. La candidatura Colajanni nel collegio di Palermo era maturata in conseguenza del rilancio nell’ultimo decennio dell’opposizione radical-repubblicana, che – dopo la crisi degli anni Settanta – si era riorganizzata, spesso a danno dell’area
internazionalista e socialista, e aveva dato vita, a opera soprattutto di studenti universitari, tra cui numerosi quelli della provincia, a circoli, associazioni e a vari organi di stampa dalla effimera durata. Da qualche settimana egli aveva assunto la direzione del quotidiano progressista «L’Isola», che aveva ripreso per la
terza volta le pubblicazioni, in concorrenza con il crispino «Giornale di Sicilia», e si avvaleva della collaborazione di radicali e di
socialisti. Già sotto la direzione di Uriele Cavagnari (1888), «L’I-
V. Il trasformismo
179
sola» aveva condotto duri attacchi contro la Navigazione Generale Italiana di Florio, accusata di aver tratto ingenti profitti dalla spedizione africana, praticando noli eccessivi con la complicità
del governo Depretis; e contro Palizzolo, chiamato «capitano della mafia» e farabutto degno del domicilio coatto. Attacchi che
continuarono violentissimi anche sotto la direzione Colajanni.
La caduta di Crispi, nel febbraio 1891, sostituito alla presidenza del Consiglio dal palermitano Rudinì, modificò sensibilmente i rapporti tra le varie componenti dell’area liberale, che
per alcuni anni nel nome di Crispi avevano trovato una certa
unità, anche se poi in Consiglio comunale avevano continuato a
far prevalere le fazioni. Ormai i tempi dell’idillio Crispi-Rudinì
erano lontanissimi e ognuno riprendeva la sua libertà d’azione.
D’altra parte, chiunque avesse voluto mantenersi indipendente
nello scontro tra i due, avrebbe finito inevitabilmente col rimanerne stritolato. Paternò pagò a caro prezzo la sua volontà di non
schierarsi con nessuno dei due. Si rifiutò, infatti, di mettersi alla
testa dei crispini per costituire una forte opposizione al nuovo
governo, verso il quale anzi non si mostrò sfavorevole, con il risultato di inimicarsi l’Associazione Democratica, cui il suo comportamento bruciava terribilmente. Egli cercò allora di migliorare i rapporti con i moderati e, nelle parziali del 1891, favorì l’elezione del presidente del Comitato per l’Esposizione Nazionale, il principe di Camporeale, un ex diplomatico vissuto parecchi
anni all’estero, figliastro ed erede del defunto leader dei moderati italiani Marco Minghetti, che aspirava alla leadership della
Destra palermitana e dei grandi agrari siciliani. Ma quando Camporeale tentò di trasformare il gabinetto del sindaco in una agenzia politica del presidente Rudinì, Paternò si rifiutò e fu una nuova rottura. L’attacco contro la sua gestione assunse allora toni di
una violenza inaudita, sino alle offese personali.
Mai forse nella storia della città una giunta comunale fu così
osteggiata dal Consiglio come la giunta Paternò, che sicuramente non era peggiore delle altre e a cui si devono in breve tempo
numerose opere pubbliche (copertura del Teatro Massimo, completamento del Politeama, pavimentazione di via Ruggero Settimo, apertura e costruzione di nuove strade, prolungamento e sistemazione di altre, tra cui via Libertà, rifacimento di tratti di fognatura e della rete idrica, ecc.), per le quali non bastò la mano-
180
Palermo
dopera locale e fu necessario richiederne a Caltanissetta, Catania
e Napoli. C’è da chiedersi se fosse semplice caso che a capo dei
tre gruppi che facevano la guerra al professore Paternò fossero
tre esponenti dell’alta aristocrazia siciliana, il duca della Verdura, il marchese delle Favare e il principe di Camporeale, o non
fosse invece conseguenza della reazione aristocratica all’avanzata della borghesia professionale, di cui il professore Paternò, anche se discendente dai duchi di Sessa, era certamente uno dei più
degni rappresentanti. Il marchese Ugo delle Favare guidava il
gruppo dei crispini, ma personalmente aspirava a sostituire Paternò per poter accogliere – come aveva già fatto nel 1882 con
Garibaldi, in occasione del sesto centenario dei Vespri – i sovrani in visita a Palermo per l’inaugurazione dell’Esposizione Nazionale (novembre 1891). Anche la popolazione era con lui, perché – come rilevava il prefetto – desiderava «a capo del Comune un Signore, che vive fastosamente e che possa con lusso e magnificenza far gli onori della Città all’arrivo de’ Sovrani». Il sindaco invece non era ricco e – come osserverà tredici anni dopo
l’onorevole Marinuzzi – era soltanto figlio delle sue opere. Solo
nel 1910, dopo l’estinzione del ramo principale dei duchi di Sessa e quando da quasi un ventennio si era trasferito presso l’Università di Roma e aveva già alle spalle una lunga carriera politica
suggellata dall’elezione a vicepresidente del Senato, re Vittorio
Emanuele III gli conferì il titolo di duca.
Paternò riuscì ancora a resistere per tutto il 1891, sino a quando cioè la compattezza del suo gruppo non mostrò i primi segni
di sfaldamento, in seguito all’inchiesta sull’amministrazione del
dazio e alla ristrutturazione del servizio fortemente volute dal sindaco, che costarono a parecchi la perdita del posto di lavoro e
talora anche la denuncia all’autorità giudiziaria. La mancata approvazione degli storni da lui proposti a chiusura di bilancio lo
costrinse alle dimissioni.
4. Dai marchesi ai mercanti: la borghesia alla riconquista del Comune
Come spesso accadeva, se era facile costringere un sindaco a
buttare la spugna, era poi difficilissimo trovarne un altro che po-
V. Il trasformismo
181
tesse contare su una maggioranza omogenea e duratura. I crispini puntavano su Ugo, con Balsano assessore delegato, oppure sul
principe di Gangi, che però avrebbe avuto bisogno dell’appoggio del gruppo Paternò. I moderati non ritenevano che sul nome
di Ugo fosse possibile coagulare una solida maggioranza e rilanciavano la candidatura Balsano, con una giunta di elementi non
compromessi nelle passate lotte. Si pensò a una sindacatura Amato Pojero, che però non era disposto a rinunciare alla medaglietta parlamentare. A Paternò non andavano bene né Ugo né Balsano e proponeva il suo vice Oliveri. Alla fine la spuntò Ugo, con
una giunta che comprendeva crispini e rudiniani (gennaio 1892),
con il clericale Benso Celeste assessore delegato e almeno due
massoni (Siragusa e Donatuti) tra gli assessori. Ma ormai la lotta tra il gruppo Paternò-Oliveri e il gruppo Ugo-Amato PojeroBonanno caratterizzerà gli anni sino alla fine del secolo e renderà
assolutamente ingovernabile il Consiglio comunale.
Intanto, la prima preoccupazione della nuova giunta Ugo fu
quella di trovare una soluzione al problema dell’acqua di Scillato, per la cui conduttura si stipulò in fretta con l’impresa Vanni
e Biglia un nuovo contratto dalle clausole poco chiare, che daranno luogo a una vertenza conclusa nel 1897 da una transazione ritenuta disastrosa per il Comune. La situazione finanziaria
era ormai ben diversa dal passato, quando il continuo incremento dei dazi aveva consentito tra il 1880 e il 1892 una ripresa dell’espansione della spesa comunale con evidente beneficio per la
città. Il gettito daziario in sensibile diminuzione dal 1893, da un
lato contribuiva ad aggravare il dissesto delle finanze comunali,
che apparirà in tutta la sua gravità negli ultimissimi anni del secolo, e dall’altro costringeva l’amministrazione a limitare i suoi
interventi, proprio in un periodo di crisi economica per la città,
in conseguenza della pesante crisi agraria che dalla fine degli anni Ottanta si era abbattuta sul meridione d’Italia.
Le elezioni parziali del 1893 furono perciò disastrosissime per
la giunta in carica. Tra i grandi sconfitti il duca della Verdura, da
poco dimessosi dalla carica di direttore generale del Banco di Sicilia per irregolarità di gestione, che non fu neppure rieletto. La
maggioranza che sosteneva Ugo venne meno e quando, a fine anno, il Consiglio criticò l’inefficienza delle norme varate dall’am-
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Palermo
ministrazione per frenare la diminuzione degli introiti daziari, il
sindaco si dimise.
Lo sostituì il commendatore Eugenio Oliveri (1842-1925), già
assessore delegato nelle giunte Paternò e uno dei capi della fazione del partito democratico ostile a Ugo. La qualifica professionale di Oliveri era quella di «negoziante», ma il termine allora aveva un significato più esteso che non oggi: la categoria comprendeva i titolari di imprese commerciali, dai piccoli bottegai ai
proprietari di grandi magazzini, dalle grosse case di import/export ai finanzieri e agli imprenditori. Si occupava in particolare
dell’esportazione di manna e doveva essere abbastanza agiato,
perché abitava in un palazzo di proprietà a piazza Marina, parte
del quale era stato anche sede della Camera di Commercio tra l’82
e il ’90. Il padre Giovanni, anch’egli commerciante, era stato esponente di primo piano della Sinistra repubblicana a Palermo, consigliere comunale negli anni 1872-1876, membro e poi presidente della Camera di Commercio negli anni Settanta e componente
della Commissione di sconto del Banco di Sicilia, questo gli consentì di agevolare la concessione di grossi prestiti alla società armatoriale La Trinacria, che fallirà nel 1876 e del cui Consiglio
d’amministrazione faceva pure parte. Anche Eugenio era legato
al mondo bancario, in qualità di membro del Consiglio d’amministrazione della Cassa di Risparmio dal 1883, vicepresidente dal
1890 al 1894 e nel 1912, e infine presidente dal 1913 al 1924. Nel
1903 lo ritroviamo anche titolare di uno stabilimento di costruzioni meccaniche di recentissima fondazione, in cui si fabbricavano caldaie, presse idrauliche, frantoi, mulini, motori per impianti industriali, macchine marine, automobili a vapore sino a 50
cavalli e a benzina da 5 a 100 cavalli, con motori da 1 a 8 cilindri.
L’elezione nel dicembre 1893 del primo sindaco borghese dopo tredici anni di gestioni aristocratiche costituiva un fatto di importanza rilevante, paragonabile alla svolta verificatasi subito dopo l’unità con l’elezione di Salesio Balsano. I risultati però non
cambiarono. Peraltro, con Oliveri ritornavano in giunta parecchi
che avevano fatto parte delle precedenti amministrazioni Paternò, cosicché la rivincita della Massoneria non poteva essere
più completa. Il sindaco si rese subito conto che
il mio compito doveva essere meno splendido e meno lusinghiero di
quello che toccò ai miei predecessori, e che la mia strada era irta di dif-
V. Il trasformismo
183
ficoltà d’ogni specie. Ed in vero ad un paese che ha assistito ad un incessante sviluppo di lavori e di servigi che son la principale sorgente
del pubblico bene stare, il dover dire che questa continua progressione non va più di conserva con uguale aumento di risorse, che tutto ha
un limite e che bisogna arrestarsi, almeno pel momento, per non essere obbligati poi a retrocedere, non è il più lusinghiero dei compiti.
Oliveri fu perciò costretto a ridurre le spese dell’amministrazione, avvenimento che non si verificava da lungo tempo, ma per
il resto la sua azione fu scarsamente incisiva e talora anche molto debole nella difesa degli interessi comunali.
Nel novembre 1894, quando – come era consuetudine a Palermo, dopo ogni elezione annuale per il rinnovo del quinto dei
consiglieri, per consentire al Consiglio comunale di scegliere liberamente una nuova giunta – anche la giunta Oliveri presentò
le sue dimissioni, sebbene proprio quell’anno non ci fossero state elezioni, la maggioranza che la sosteneva esisteva soltanto sulla carta. Le dichiarazioni a favore si sprecavano, ma al momento
di rinsanguare la giunta con nuove forze, i consiglieri proposti
per un incarico assessoriale si tiravano indietro. La minaccia dell’arrivo di un commissario regio costrinse i gruppi rivali a un accordo: sei assessori al gruppo Oliveri, che aveva la maggioranza
in Consiglio, e sei al gruppo Ugo. Ma la pretesa di Ugo di ottenere anche l’incarico di assessore delegato o anziano per l’avvocato Pietro Bonanno fu ritenuta inaccettabile da Oliveri. L’accordo sfumò e la vecchia giunta Oliveri rimase in carica sino alle elezioni amministrative generali del luglio 1895.
5. La crisi del crispismo e l’avanzata del socialismo. I Fasci dei lavoratori
La lotta per la conquista del Comune aveva alla base motivazioni personali e generazionali (i quaranta-cinquantenni Paternò
e Oliveri contro l’ultrasessantenne Ugo), ma anche di classe: la
borghesia intellettuale, industriale e commerciale, che viveva e
partecipava allo sviluppo capitalistico del suo tempo e che aveva
contribuito alla crescita della città dopo l’unificazione, non riteneva più di dover delegare la gestione del potere cittadino a mem-
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Palermo
bri della vecchia aristocrazia terriera, che lo avevano esercitato
spesso con una mentalità paternalistica e ancora legata a schemi
quasi feudali. Nel contrasto, aveva un ruolo sicuramente rilevante la Massoneria, perché i sette massoni dell’ultima giunta Paternò si erano ridotti a tre nell’ultima giunta Ugo, di cui solo uno
assessore effettivo, per salire a cinque con la giunta Oliveri. La
presenza di massoni in entrambi gli schieramenti si giustifica col
fatto che, sotto il Gran Maestro Adriano Lemmi, la Massoneria
si era trasformata in un ‘superpartito’ legato a più schieramenti,
in modo da poter esercitare comunque il controllo sul potere.
In ogni caso, il contrasto tra i due gruppi non era dovuto a
motivazioni politiche, perché i sindaci dell’epoca, tranne Turrisi,
erano tutti legati a Crispi, compreso Paternò. E ciò anche quando il crispismo a Palermo era ormai in crisi e si contavano già importanti defezioni. La crisi del crispismo si nota già nelle politiche anticipate del novembre 1892. Con Rudinì alla presidenza
del Consiglio, seguito nel maggio 1892 da Giolitti, gli avversari
palermitani di Crispi ripresero fiato e le elezioni politiche offrirono loro la possibilità di rifarsi, puntando su candidati di sicura fede anticrispina. La ristrutturazione dei collegi elettorali voluta da Giolitti per bloccare l’avanzata dei partiti di massa – ripartendo nuovamente in quattro collegi uninominali la città –
agevolò il compito degli oppositori di Crispi, i quali si sarebbero trovati in maggiore difficoltà se avessero dovuto operare sull’intera città. Palizzolo si candidò nel primo collegio (Palazzo
Reale), dove poteva contare sull’appoggio della mafia della zona
e su un’affezionata clientela, che egli curava ormai da quasi venticinque anni. Il trentenne principe di Trabia, che qualche mese
prima era stato vicepresidente di un Comitato che intendeva risollevare le sorti del moderatismo in Sicilia, scelse il terzo collegio (Molo). La sua improvvisa candidatura creava problemi a parenti e amici: lo zio principe di Scalea si era impegnato con Muratori e il cognato Ignazio Florio jr. era legato a Crispi. Scalea rimase in disparte, ma Florio, dopo le prime esitazioni, si schierò
apertamente dalla parte del cognato, mettendogli a disposizione
tutta la sua influenza, che nel collegio Molo era veramente notevole. Trabia, da parte sua, non esitò a introdurre nella lotta politica palermitana un elemento di novità, destinato a grande successo nelle elezioni successive: l’acquisto di voti per 5-10 lire ca-
V. Il trasformismo
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dauno, che dimostra la sua spregiudicatezza e che gli costerà alcuni processi per corruzione elettorale.
Il liberalismo democratico palermitano si strinse ancora una
volta attorno a Crispi, che nel secondo collegio (Monte di pietàCastellammare) non ebbe altri concorrenti (la candidatura di tale Lupo ebbe pochissimi voti). Ma per i democratici i risultati
elettorali furono un mezzo insuccesso. Se Crispi non ebbe problemi e Simone Cuccia nel quarto collegio (Tribunali) ebbe facilmente la meglio su Valentino Caminneci, che da sempre aveva goduto dell’appoggio di elementi della mafia, i fedelissimi crispini Marinuzzi e Muratori soccombettero malamente di fronte
a Palizzolo e a Trabia negli altri due collegi.
La crisi del crispismo palermitano toccò il fondo nelle successive elezioni politiche del maggio 1895, malgrado si svolgessero con Crispi nuovamente alla presidenza del Consiglio. Nel
primo collegio Palizzolo trionfò facilmente contro l’anarchico
Emanuele Gulì e il socialista Bernardino Verro; e così pure Trabia nel terzo collegio contro il socialista catanese De Felice Giuffrida. Nel secondo collegio Crispi si trovò di fronte il socialista
Barbato, che riuscì a sottrargli oltre un terzo dei voti. La lotta più
accanita si svolse nel quarto collegio, dove in ballottaggio il socialista Rosario Garibaldi Bosco prevalse sul crispino Augusto
Laganà. Il successo di Bosco non era dovuto però ai voti socialisti: per lui infatti votarono tutti coloro che aspiravano al quarto
collegio, che, data la condizione di ineleggibilità dello stesso Bosco (in carcere e non ancora in possesso del requisito dell’età), si
sarebbe reso presto nuovamente disponibile. Come era nelle previsioni, l’elezione di Bosco fu annullata e nel 1896 fu poi eletto
Bonanno.
I candidati dei socialisti palermitani nei quattro collegi cittadini erano i dirigenti dei Fasci dei lavoratori, in carcere perché
ritenuti colpevoli di cospirazione contro lo Stato e condannati a
pene detentive sino a 18 anni. I Fasci erano delle federazioni di
leghe e di società operaie e di mestieri costituitesi in Sicilia nel
biennio 1892-1893. In particolare, il Fascio palermitano era sorto attorno alla metà del ’92 dalla fusione di oltre un centinaio di
società operaie e di mutuo soccorso, per iniziativa di radicali, repubblicani, socialisti e anarchici, sollecitati da operai lombardi in
visita all’Esposizione Nazionale. Diversamente dalle vecchie so-
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Palermo
cietà operaie di mutuo soccorso, legate spesso a esponenti della
Sinistra parlamentare e controllate dai ceti padronali, che non
erano mai andate oltre la richiesta del diritto di voto alla classe
operaia, i Fasci erano soprattutto organismi di resistenza economica e politica, con carattere spiccatamente classista, e in quanto tali rappresentavano certamente una novità nel panorama politico siciliano, tanto più che essi non tardarono ad aderire al nuovo Partito dei lavoratori.
La loro costituzione era da una parte il frutto della crisi agraria cui si è accennato, che esasperava i contrasti tra le classi, e
dall’altra – come osservava F. De Luca – anche conseguenza dell’adesione «alle nuove idee sociali [di] molti giovani repubblicani dell’isola, la cui classe intelligente e studiosa non si mostrava,
poco prima del 1890, gran fatto tenera del socialismo, creduto
un ritorno a vecchie utopie e a un ordinamento di sociale dispotismo». Quei giovani intellettuali cioè grazie ai quali il movimento
prendeva maggiore coscienza e si collegava con il socialismo su
scala nazionale. Mentre le adesioni al socialismo si moltiplicavano, il movimento dei Fasci assumeva sempre più una dimensione regionale e la sezione di Palermo si elevava al ruolo di guida
dell’intero movimento siciliano, grazie alla direzione del presidente ragioniere Rosario Garibaldi Bosco e all’opera di proselitismo del medico Nicolò Barbato, di Piana degli Albanesi, e del
segretario comunale Bernardino Verro, di Corleone, ai quali si
deve la fondazione di numerose sezioni nei paesi dell’interno.
La rapida diffusione dei Fasci, che avevano anche un loro organo di stampa («Giustizia sociale»), preoccupò notevolmente i
grandi proprietari terrieri. Cominciarono così le sollecitazioni al
governo Giolitti perché intervenisse a stroncare le manifestazioni e gli scioperi dei contadini, che chiedevano nuovi patti colonici e un miglioramento dei salari. Giolitti rispose con l’arresto
preventivo dei dirigenti: Barbato e altri finirono in carcere con
l’accusa di partecipazione a una riunione non autorizzata a San
Giuseppe Jato, Verro per discorsi sediziosi a Palazzo Adriano. In
un congresso tenutosi a Corleone (luglio 1893), i contadini richiesero l’abolizione del contratto di terraggio e la sua sostituzione con il rapporto mezzadrile, ritenuto assai più vantaggioso
per i coloni (patti di Corleone). Il rifiuto di proprietari e gabelloti provocò un grande sciopero contadino, che coinvolse nume-
V. Il trasformismo
187
rosi paesi della parte centro-occidentale dell’isola e si protrasse
dalla metà di agosto per tutto novembre, con risultati quasi dappertutto positivi in termini di miglioramenti contrattuali. Ma gli
agrari non rimasero inoperosi e se da un lato erano costretti a
scendere a patti, dall’altro accrescevano la pressione sul governo
per l’adozione di provvedimenti energici, compreso lo scioglimento dei Fasci, del resto già proposto sin dal maggio precedente
dal prefetto di Palermo, che li riteneva pericolosi per l’ordine
pubblico. Giolitti tenne duro, ma con il ritorno di Crispi alla presidenza del Consiglio (dicembre ’93), che segnava l’inizio di un
processo autoritario durato sino agli ultimi anni del secolo, per i
Fasci fu la fine, agevolata sia dal mutamento di linea del Partito
Socialista Italiano (la nuova denominazione assunta dal Partito
dei lavoratori al Congresso di Reggio Emilia), che determinò una
presa di distanza dai Fasci, in quanto costituiti da masse contadine incolte e non completamente proletarizzate; sia dal comportamento di parecchie sezioni dei Fasci che organizzarono manifestazioni contro la politica daziaria dei municipi, sfociate spesso in tafferugli per l’intervento della forza pubblica e di squadre
private al soldo dei maggiorenti locali, con seguito di morti tra
gli stessi manifestanti, assalti a casotti daziari, devastazioni di edifici pubblici.
La conclusione fu la dichiarazione dello stato d’assedio, l’arresto dei capi del movimento, che erano anche i capi del Partito
Socialista in Sicilia, e il loro processo a opera di tribunali militari, con condanne durissime, scontate solo in parte per l’amnistia
concessa dal successivo governo Rudinì. La risposta del socialismo palermitano alla condanna dei suoi capi fu appunto la candidatura di Verro, Barbato, De Felice Giuffrida e Bosco nei quattro collegi di Palermo e l’elezione di Bosco a deputato, poi annullata.
6. Dall’accordo clerico-moderato al primo scioglimento del Consiglio comunale
Lo scontro tra le due fazioni rivali del partito democratico palermitano ebbe una breve tregua in occasione delle elezioni amministrative generali del luglio 1895, dovuta alla preoccupazione
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Palermo
per l’accordo tra moderati e clericali, che si presentavano, come
in altre città italiane, in una lista comune. Alla base dell’accordo
non c’erano tanto, almeno a Palermo, serie motivazioni politiche,
quanto piuttosto il desiderio di un profondo ricambio all’interno del Consiglio comunale, che consentisse di strappare il potere ai gruppi che, seppure in contesa tra loro, lo gestivano ormai
da troppi anni.
Dall’altra parte si rispose con un’altra lista comune, che fu
detta del Municipio, perché comprendeva i nomi di buona parte dei consiglieri uscenti e di quasi tutti gli amministratori che
negli ultimi anni si erano avvicendati al Comune e spesso si erano dati battaglia. La campagna elettorale e le votazioni si svolsero in un clima accesissimo, con la giunta in carica accusata – non
a torto – di corruzione elettorale e di servirsi dei fondi destinati
alla beneficenza per scopi elettorali. Votò il 60 per cento dell’elettorato, ma ancora una volta la vittoria arrise ai democratici,
che continuavano a godere nel nuovo Consiglio di una maggioranza schiacciante. Gli eletti della lista clerico-moderata furono
appena nove, mentre non riuscivano a ritornare a Sala delle lapidi il principe di Camporeale, il vecchio senatore Guarneri e il
commendatore Giulio Naselli di Gela. La presenza della lista clerico-moderata aveva finito però con l’avvantaggiare l’aristocrazia,
la cui rappresentanza usciva nuovamente rafforzata dalle elezioni. Tra i nuovi consiglieri spiccava la figura del medico Giuseppe Pitrè, il padre degli studi di tradizioni popolari in Sicilia, che,
seppur presente nella sola lista dell’Associazione Democratica, risultava il primo assoluto degli eletti, seguito dall’onorevole Palizzolo, che l’anno precedente era stato alla Camera relatore della legge sul risanamento della città. Complessivamente, le elezioni rinnovavano il Consiglio per un terzo, ma il ricambio non produsse effetti diversi rispetto al passato, se non per la giunta in carica, che fu costretta a passare la mano al gruppo rivale del marchese Ugo.
Il quinquennio sino alla fine del secolo è caratterizzato da un
susseguirsi di giunte e di commissari regi e costituisce senza dubbio uno dei periodi più neri della storia dell’amministrazione comunale palermitana, durante il quale si consumò la credibilità di
una classe politica che, se non era esente da critiche, aveva anche indiscutibili meriti per il contributo fornito, tra ritardi in-
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spiegabili e slanci generosi, polemiche feroci e unanimismi senza riserve, alla crescita della città dopo l’unificazione.
Per l’ultima volta, nel luglio 1895, il marchese Ugo ritornò a
capo dell’amministrazione comunale e con lui ritornarono quasi
tutti i vecchi assessori che lo avevano coadiuvato nelle precedenti
esperienze. E ancora una volta, Ugo – cui si deve il contratto con
la ditta Schuckert e C. di Norimberga per l’illuminazione elettrica delle borgate, sino ad allora a petrolio, che rompeva il monopolio dell’Impresa Favier – cadde sui provvedimenti per migliorare l’amministrazione daziaria, ritenuti insufficienti dal Consiglio (agosto 1896).
Per i cattolici la crisi poteva avere un solo sbocco: l’arrivo di
un regio commissario, non siciliano ovviamente, ma «del più alto Piemonte, se possibile», perché – e avevano ragione – «Palermo ne ha abbastanza delle persone che si possono chiamare i capopartiti del Consiglio; sono uomini provati, inetti a frenare le
esigenze dei galoppini e degli amici – che sono da entrambe le
parti, e non del solo gruppo che fa capo al Marchese Ugo». A
nulla sarebbe valso perciò «sostituire ad Ugo e suoi altri uomini,
i quali del resto troverebbero sempre la ostinata opposizione degli altri, abbastanza numerosi, e si troverebbero sempre a vivere
di espedienti, di transazioni, col danno loro personale e dell’amministrazione».
Con una maggioranza risicatissima (25 voti su 49), venne rieletto sindaco Oliveri, appoggiato soltanto da una parte dei crispini, e cioè i «paternoniani», e pochi altri, tra cui alcuni del
gruppo Pitrè (il buon Pitrè era appena arrivato in Consiglio e già
disponeva di un suo pacchetto di voti, che però ancora non riusciva a controllare completamente). I crispini che invece facevano capo a Ugo, cioè gli «ughiani», si unirono ai clerico-moderati e puntarono su Michele Amato Pojero, che riuscì a racimolare ben 22 voti, attingendo anche dal gruppo Pitrè. Il dualismo
Oliveri-Amato Pojero era un fatto nuovo nella storia dell’amministrazione cittadina, che trascendeva le persone stesse dei rivali,
entrambi espressione della borghesia imprenditoriale. La vecchia
aristocrazia, non potendo puntare su un suo esponente da contrapporre all’Oliveri, utilizzava un altro borghese, Amato Pojero
appunto, che dopo trascorsi democratico-crispini si accingeva a
rientrare nell’area moderata.
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Palermo
Il sindaco Oliveri non riuscì a comporre una giunta credibile, a causa del rifiuto di alcuni di farne parte e delle dimissioni
di altri appena eletti. All’agonia dell’amministrazione poneva fine due mesi dopo lo scioglimento del Consiglio comunale (novembre 1896), con conseguente nomina di un commissario governativo, il commendatore Luigi Angelo Pantaleone, a capo dell’amministrazione comunale. Il ricorso al commissario era la logica conseguenza dei primi risultati di un’inchiesta straordinaria
sul Comune di Palermo disposta dal Regio Commissario per la
Sicilia, conte Codronchi, che aveva accertato un pesantissimo
ammanco di cassa (lire 1.283.339) presso la Tesoreria comunale,
il cui direttore Antonio Martines peraltro, dopo venti anni, non
aveva ancora prestato cauzione. Lo scandalo fu enorme, sia per
il grande prestigio sino ad allora goduto dal funzionario, sia perché chiamava in causa ben undici amministrazioni comunali, che
non solo lo avevano aiutato in tutti i modi a sfuggire all’obbligo
di prestare la cauzione, ma non avevano esercitato la benché minima vigilanza sulla sua attività, come dimostrava la costante assenza di verifiche di cassa. L’istruttoria giudiziaria scagionò successivamente gli amministratori da qualsiasi forma di complicità,
ma intanto i sospetti e le accuse coinvolgevano l’intera classe politica e contribuivano a rendere ancora più incandescente l’atmosfera cittadina di quegli anni di fine secolo.
7. Codronchi e la conquista clerico-moderata del Comune
Mentre Alessandro Tasca sul settimanale socialista «La Riscossa» bollava il disciolto Consiglio come banda di malfattori,
per il gruppo Oliveri e il «Giornale di Sicilia», rimasto fedele a
Crispi, non c’erano dubbi: lo scioglimento del Consiglio e la nomina del Pantaleone erano una manovra di Codronchi e perciò
di Rudinì, ritornato a capo del governo da pochi mesi (marzo
1896), per sottrarre ai democratico-crispini l’amministrazione
comunale. Non si voleva prendere atto che la giunta Oliveri era
nata già morta. Ciò non significa però che Codronchi fosse rimasto neutrale nelle vicende cittadine. Egli infatti si preoccupò
di ridurre in tutti i modi l’influenza politica del Crispi in Sicilia,
che grazie alla sua seconda presidenza del Consiglio (1893-1896)
V. Il trasformismo
191
era nuovamente in ripresa. Dopo le politiche del marzo 1897,
«La Sicilia Cattolica» non a torto poteva riconoscergli il merito
di avere determinato la fine politica di alcuni personaggi legati a
Crispi.
A Palermo la campagna elettorale si era trascinata piuttosto
fiaccamente, movimentata soltanto dai socialisti, i cui capi erano
ritornati in libertà. Già divisi in rivoluzionari e riformisti, i socialisti avevano presentato candidati in tutti e quattro i collegi, godendo anche dell’appoggio dei rudiniani contro i candidati crispini e viceversa. Codronchi sosteneva fermamente i rudiniani
Palizzolo e Trabia, il quale aveva anche l’aiuto del cognato Florio. Nei primi tre collegi, Palizzolo, Crispi e Trabia ottennero una
facile riconferma, ma al quarto l’uscente Bonanno vinse solo al
ballottaggio sul radicale Alessandro Paternostro, che aveva potuto contare anche lui sull’appoggio di Codronchi (il ministero
Rudinì si reggeva ancora sull’accordo col radicale Cavallotti, implacabile nemico di Crispi). Per l’occasione, Bonanno perfezionò
ulteriormente la tecnica dell’acquisto dei voti, il cui prezzo era
stato intanto notevolmente aumentato: all’elettore venivano consegnate due mezze banconote da lire 10, con promessa di completamento dei due pezzi mancanti solo a elezione avvenuta.
L’azione di Codronchi ebbe più successo in occasione delle
amministrative anticipate del maggio 1897, i cui risultati, determinando la sconfitta dei democratico-crispini, riportavano – a distanza di un ventennio – i moderati al vertice dell’amministrazione cittadina. È bene ricordare tuttavia – per evitare di attribuire agli avvenimenti significati che non ebbero – che a Palermo, anche se continuavano a esistere le vecchie etichette di partito e anzi con la presidenza Rudinì si era tentato un rilancio del
vecchio partito moderato, la distinzione tra moderati e democratici era assai più sfumata di quanto non indichi il significato
dei due termini: lo dimostrano anche i frequenti passaggi dall’uno all’altro campo di parecchi dei nostri protagonisti. In particolare, per gli anni di cui ci occupiamo si può dire che esistesse
solo un’area liberale, all’interno della quale si muovevano rudiniani e crispini, suddivisi a loro volta in paternoniani e ughiani.
Al di là delle colorazioni politiche e delle etichette di partito,
ancora una volta come nel 1895 la vicenda elettorale si ridusse
allo scontro tra il vecchio Consiglio e i suoi oppositori, o – se si
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Palermo
vuole – tra la lista egemonizzata dal gruppo Oliveri – che comprendeva buona parte dei consiglieri uscenti, tra cui parecchi che
in passato avevano militato nelle file dell’Associazione Costituzionale – e la lista ‘ministeriale’ e ‘commissariale’, fortemente sostenuta da Codronchi, i cui galoppini acquistavano voti al prezzo di 10-25 lire l’uno. Ma anche il gruppo Oliveri – per il quale
lavoravano numerosi impiegati comunali, che ne auspicavano il
ritorno a capo dell’amministrazione – fece circolare parecchio denaro.
Per la vittoria moderata fu però decisivo l’accordo con i rappresentanti locali dell’Opera dei Congressi Cattolici, i quali si
erano resi conto che a Palermo, diversamente da Milano, i cattolici da soli non avevano la forza elettorale per sostenere vittoriosamente una loro lista e che perciò l’unica strada da seguire
era quella già tracciata in precedenza, con qualche successo: l’accordo con i moderati. Furono così varate due liste, una moderata (quella che i democratici chiamavano ministeriale) e una clericale, che avevano però in comune ben 43 nomi, tra i quali Ugo
e Pitrè (presenti anche nella lista democratico-crispina), e un
buon numero di nobili, ma più ancora di volti completamente
nuovi sulla scena politica locale. Complessivamente ritornarono
in Consiglio 47 vecchi membri, ma il rinnovamento fu assai più
largo di quanto non sembra, perché il numero dei consiglieri era
stato portato da 60 a 80, 15 dei quali eletti dalle nove borgate
della città (Brancaccio, Villagrazia, Mezzomonreale, Boccadifalco, Uditore, Resuttana, Pallavicino, Tommaso Natale, Falde). I
nobili erano riusciti ad aumentare ulteriormente la loro rappresentanza, ma per l’allargamento del Consiglio a 80 membri più
che di un rafforzamento si trattava di un mantenimento delle posizioni.
Per l’elezione del sindaco e della giunta furono determinanti
i voti dei consiglieri delle borgate vicini all’area clerico-moderata e talora addirittura a capo di cosche mafiose: il senatore Michele Amato Pojero (1850-1914) con una maggioranza di otto voti ebbe così ragione del commendatore Oliveri e lanciò un grandioso programma comprendente il riordinamento dell’amministrazione daziaria, sogno irrealizzato di numerose giunte, un nuovo piano finanziario e la sistemazione delle numerose vertenze
con le società concessionarie dei servizi pubblici.
V. Il trasformismo
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Parlare di svolta clerico-moderata al Comune di Palermo sembra però eccessivo: Amato Pojero, nipote ex filia del finanzierearmatore Michele Pojero, console generale d’Austria-Ungheria,
proprietario con il fratello Giuseppe della Banca Siciliana di Anticipi e Sconti, era stato in passato legato a Crispi e sin dal 1882
aveva collaborato con Ugo, segnalandosi come uno degli uomini
più rappresentativi del suo gruppo e delle amministrazioni da lui
costituite. Non era perciò un uomo nuovo, ma piuttosto il successore di Ugo nella lotta contro il gruppo Paternò-Oliveri, tanto che la sua giunta fu votata anche da una parte dell’opposizione democratica. Era nuova piuttosto la giunta: gli assessori vennero quasi interamente scelti tra i consiglieri neoeletti e quasi nessuno di essi aveva precedenti esperienze amministrative.
Giunta rinnovata quindi, il cui impegno e la cui operosità furono indiscutibili, anche se i risultati non sempre furono quelli
sperati, per errori dovuti a inesperienza o a incapacità. E tuttavia non sembra corretto il giudizio della Commissione di inchiesta sul Comune di qualche anno dopo, secondo cui «la gestione
Amato Pojero segna uno dei periodi più tristi e disgraziati dell’amministrazione comunale di Palermo, un periodo di disordine, di confusione, di perplessità degli amministratori di fronte
alla gravissima crisi che il Comune attraversava» e che – è bene
ricordarlo – la giunta Amato Pojero aveva ereditato dalle precedenti gestioni. Le transazioni che mettevano fine, purtroppo solo temporaneamente, ad annose vertenze con le società concessionarie dell’acqua di Scillato e del gas, e il contratto per la trazione elettrica nelle linee tramviarie, che la Commissione di inchiesta ritiene disastrosi, devono piuttosto ascriversi a merito della giunta, perché risolvevano problemi che si trascinavano ormai
da troppo tempo, con sensibili danni sul funzionamento di importanti servizi pubblici. In particolare, l’acqua di Scillato consentiva ai palermitani una disponibilità di 100 litri al giorno pro
capite.
È certo invece che l’amministrazione non fu capace di risolvere il problema del dazio, problema assai complesso e anche pericoloso, perché – come rilevavano i clericali – la sua risoluzione
richiedeva «forza, vigore, disprezzo di pericoli e diremmo anco
disprezzo della vita». Se infatti l’organico era stato notevolmente epurato dal commissario Pantaleone, bisognava ancora fare i
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Palermo
conti con il contrabbando in fase di espansione, con la pesantezza delle tariffe e infine con le conseguenze negative per il gettito fiscale provocate dall’allargamento della cinta. Proprio il problema della cinta daziaria determinò nei confronti della giunta
una mozione di sfiducia da parte del Consiglio, che portò alle sue
dimissioni (novembre 1898).
Mentre i cattolici auspicavano la venuta a Palermo di un regio commissario che si fermasse per dieci anni a capo dell’amministrazione, 37 consiglieri rieleggevano per la terza volta sindaco il commendatore Oliveri, che qualche giorno dopo fu anche nominato senatore. Caduto ormai Rudinì dalla presidenza
del Consiglio (giugno 1898), i rapporti tra rudiniani e crispini
erano diventati assai meno tesi e perciò Oliveri non sarebbe stato alieno dal varare una giunta che fosse espressione di tutte le
forze rappresentate nel Consiglio comunale. Ma i grossi calibri si
tiravano indietro e di contro le mezze figure facevano a gara per
entrare in giunta. Alla fine, i seguaci del defunto marchese Ugo
e i paternoniani si accordarono e costituirono una giunta di cui
facevano parte numerosi assessori della giunta Oliveri del 1897
e cinque fedelissimi delle giunte Ugo. L’unico assessore di prima
nomina era alle Finanze l’avvocato Masi, difensore degli interessi dell’Impresa Favier contro il Comune. Non è improbabile che
l’accordo fosse stato favorito dalla Massoneria, a cui aderivano la
metà degli assessori (6 effettivi e 1 supplente) e che, dopo la parentesi clerico-moderata, ritornava trionfalmente nella stanza dei
bottoni. Proprio in quegli anni, la Massoneria era impegnata a livello nazionale a fronteggiare l’intensificarsi della propaganda dei
cattolici e si adoperava perché le varie frazioni del partito liberale ponessero fine ai loro dissidi, che favorivano la conquista cattolica dei consigli comunali e provinciali.
La giunta Oliveri esordì con il proposito di ridurre le uscite,
ma non ne ebbe poi la forza e cercò invece, in tutti i modi, di accrescere le entrate. Le sue proposte di rimaneggiamento delle tariffe daziarie non furono però approvate dal Consiglio comunale, il quale peraltro era caratterizzato da un impressionante assenteismo. Ormai l’amministrazione comunale era diventata impopolarissima. Per un attimo, nella seduta del 18 gennaio 1900,
il Consiglio ritrovò una certa unanimità nell’approvazione con effetto immediato di una nuova tariffa daziaria, che provocò lo
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sciopero dei macellai e le proteste dei commercianti. Di fronte
alle manifestazioni popolari contro il sindaco e il Consiglio, che
talora degenerarono in aperta violenza, il prefetto – che pur aveva dato il suo assenso preventivo – annullò il provvedimento. Alla giunta non rimasero che le dimissioni, seguite immediatamente da quelle dell’intero Consiglio, motivate con l’impossibilità «in
questo momento di restituire al bilancio del 1900 il necessario
equilibrio»: il disavanzo comunale e il caos in cui era caduta la
gestione amministrativa avevano ormai raggiunto punte mai toccate. A Palazzo delle Aquile ritornava un regio commissario, il
cavaliere Mario Rebucci (Caverzo 1850-Bologna 1928).
8. L’effimera vittoria dei partiti popolari
Nel luglio successivo (1900) si svolsero ancora una volta le elezioni amministrative anticipate, tra il disinteresse pressoché generale, per il ritiro dalla competizione di buona parte di coloro
che avevano calcato la scena politica nell’ultimo decennio. Rudiniani e crispini – che ormai rappresentavano l’opposizione costituzionale al governo nazionale, molto forte a Palermo, come avevano dimostrato le politiche del mese precedente – non intendevano impegnarsi, almeno a livello di capi, e persino il «Giornale
di Sicilia», che aveva quasi sempre proposto ai lettori una sua lista, preferiva rimanere alla finestra, piuttosto che presentare una
accozzaglia di nomi, sia pure rispettabili, ma dai princìpi contrastanti. Solo per l’impegno del prefetto De Seta, i liberali riuscirono a presentare una loro lista, sarcasticamente chiamata «lista
del prefetto», che comprendeva oppositori costituzionali e ministeriali.
I cattolici volevano fare piazza pulita anche dei loro consiglieri, i quali «nell’ultimo Consiglio ebbero financo paura di dire che nel bilancio non si dovesse diminuire la cifra per la festa
di santa Rosalia». Si trattava dei clerico-moderati eletti nel 1897,
i quali avevano scarsissimi legami con il nuovo movimento cattolico, che in linea con il pensiero sociale di Leone XIII puntava a recuperare il rapporto tra la Chiesa e le grandi masse operaie e contadine e che a Palermo aveva ormai assunto un notevole sviluppo, in connessione e in concorrenza con l’analogo svi-
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Palermo
luppo del movimento socialista dopo i Fasci. Elementi di spicco
del movimento cattolico locale erano il sacerdote Ignazio Torregrossa, collaboratore della «Cultura Sociale» del Murri e convinto sostenitore dell’opportunità della costituzione di un partito operaio cattolico, e l’avvocato Vincenzo Mangano, entrambi
formatisi nell’ambito dell’Opera dei Congressi, dalla quale si erano gradatamente distaccati per costituire un gruppo democratico-cristiano, cui aderirono anche Giuseppe Lo Cascio, Emanuele Arezzo, Giuseppe Jannelli e altri. Per i cattolici, l’organizzazione delle elezioni fu curata dall’Opera dei Congressi e dal Comitato elettorale cattolico, che riuscirono a presentare una lista
destinata a riscuotere notevole successo.
Altre liste presentarono le borgate e radicali e socialisti, che
avevano un punto di forza nell’inerzia degli altri. La presenza nella lista socialista del giovanissimo principe Alessandro Tasca di
Cutò convogliò su di essa anche voti di ambienti aristocratici e
di non pochi monarchici delusi e sfiduciati. Tasca, considerato
dal prefetto «svelto ed intelligente», era infatti «imparentato con
tutte le migliori famiglie della città e da tempo non breve spende il capitale del suo finora ricco patrimonio in pro’ del partito»,
al quale aveva aderito sin dagli anni dei Fasci. Ormai abbandonate le iniziali tendenze rivoluzionarie, dirigeva «La Battaglia»,
un settimanale da lui fondato nel 1898. Per i socialisti votarono
anche numerosi impiegati comunali, per ripicca contro i consiglieri uscenti che non erano riusciti ad approvare il nuovo organico, nella convinzione che i socialisti fossero i soli – come scrivevano in una lettera anonima al prefetto – «che avranno la forza di attuarlo, rompendo la ‘cricca’ di coloro che si pappano indennità assegni e i famosi soprassoldi».
I risultati delle elezioni furono sorprendenti: i liberali ottennero appena 32 seggi, contro 20 dei cattolici – tra cui anche Torregrossa, Arezzo e Mangano –, 18 dei socialisti e 10 dei radicali.
Le proporzioni del successo sorpresero gli stessi socialisti, che
non erano preparati a gestirlo e non seppero infatti gestirlo. Nessun partito aveva da solo la possibilità di costituire la giunta, perché – come rilevava l’ex deputato Marinuzzi, motivando le sue
dimissioni dalla carica di sindaco, cui nell’agosto 1900 il Consiglio unanime lo aveva eletto – il voto dei palermitani (9.211 votanti su 16.350 iscritti) aveva ubbidito al «desiderio del nuovo
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senza sapersi staccare dal passato. Uguale tendenza verso gli ideali più avanzati e le più pure idee conservatrici». I veti incrociati
facevano il resto e non consentivano a Marinuzzi – che anche il
prefetto riteneva il più adatto a formare un’amministrazione, per
le simpatie di cui godeva presso tutti i partiti, compreso quello
socialista – di costituire una giunta. Per socialisti e radicali, infatti, non doveva entrare in giunta nessuno dei precedenti amministratori (ben 19 dei 32 consiglieri liberali lo erano stati), ritenuti responsabili della gravissima crisi finanziaria attraversata
dal Comune e disistimati anche a livello personale. Inoltre, i socialisti, in base alle decisioni del Congresso di Bologna del 1897,
non intendevano entrare a far parte di amministrazioni dove non
fossero maggioranza assoluta (ma a Messina ne facevano parte,
senza essere maggioranza assoluta). Erano disposti tuttavia a votare alcuni candidati radicali con i quali avevano costituito un
unico gruppo consiliare. Ma gli altri liberali, per solidarietà nei
confronti dei loro colleghi di partito, così violentemente attaccati, si rifiutavano di far parte della maggioranza. E i cattolici, che
non giustificavano l’astensionismo dei socialisti, da parte loro,
non erano disposti a partecipare a giunte che non comprendessero rappresentanti di tutti i partiti presenti in Consiglio. L’assassinio di Umberto I contribuì ad acuire i dissidi, perché i socialisti si rifiutarono di votare in Consiglio un ordine del giorno
di fedeltà alla monarchia, e a Marinuzzi non rimase altra soluzione che dimettersi subito dopo la sua elezione a sindaco.
Il Consiglio comunale fu immediatamente sciolto e furono indette nuove elezioni per il settembre successivo. Per opporsi all’avanzata socialista e sotto la spinta emotiva provocata dalla uccisione del re, su iniziativa del commendatore Ignazio Florio jr.,
i liberali di tutte le gradazioni decisero di dar vita a un unico
grande partito, che prese il nome di «monarchico liberale». Il
successo non poteva essere più completo: 80 seggi su 80 alla lista liberale, nessuno ai partiti popolari. Per Colajanni era la rivincita della mafia.
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Palermo
9. L’inchiesta sul Comune
Il Consiglio comunale ne uscì profondamente rinnovato: rispetto al vecchio Consiglio eletto nel 1897, i nomi nuovi erano
oltre la metà. Meno rinnovata era la rappresentanza aristocratica, che inoltre perdeva un quarto dei suoi componenti (da 16 a
12). Riguadagnava però il principe di Camporeale, senatore Pietro Paolo Beccadelli (1852-1918), che ritornava a Sala delle lapidi dopo alcuni anni di assenza, per essere eletto immediatamente sindaco della città.
L’elezione a sindaco di Camporeale sanzionava la sconfitta
dell’esperimento borghese al Comune, che i fatti avevano dimostrato incapace di risolvere i gravi problemi della città. Camporeale era un conservatore tenace, ma aveva già dato prova, come
presidente dell’Esposizione Nazionale, di carattere, intelligenza
e capacità operativa, doti che confermò anche da sindaco e che
gli consentirono di avviare con risultati positivi il risanamento
morale e amministrativo del Comune, grazie anche alla valida collaborazione del democratico Marinuzzi, assessore anziano. Tra le
sue iniziative deve segnalarsi il «Patto di Palermo» del marzo
1901, una manifestazione con la quale Palermo riproponeva il
suo ruolo di guida della Sicilia e che vide la partecipazione di sindaci e rappresentanti del mondo agricolo e commerciale di numerosi comuni dell’isola, allo scopo di «affermare qui, nella gloriosa metropoli, che la regina del Mediterraneo è stanca di essere la sacrificata d’Italia».
Se tutti – rilevava qualche anno dopo lo stesso Camporeale –
erano stati uniti nel nome del re, non tutti lo erano invece sull’assetto da dare alle questioni comunali e perciò all’interno del
Consiglio si determinò presto una spaccatura tra il nuovo e una
parte del vecchio gruppo dirigente, che avrebbe voluto continuare ad amministrare con gli antichi sistemi. Ancora una volta,
la rottura, più che per serie ragioni politiche, avvenne per questioni di potere, che valsero a frantumare definitivamente gli
schieramenti tradizionali all’interno dell’area liberale. Se, infatti,
il gruppo Camporeale comprendeva buona parte dell’aristocrazia moderata, non mancavano neppure noti democratici come il
crispino Marinuzzi, o gli ex ughiani avvocato Giovanni La Farina, presidente della Camera di Commercio e numerose volte as-
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sessore, e l’emergente avvocato Di Martino, anche lui più volte
assessore. Di contro, l’opposizione a Camporeale, se comprendeva numerosi democratici, tra cui Pitrè e parecchi che avevano
fatto parte delle giunte Ugo o delle giunte Paternò-Oliveri, era
capeggiata, oltre che dal democratico Bonanno, anche da Giuseppe Tasca Lanza, ex presidente dell’Associazione Democratica
vicina a Crispi, da anni ormai passato tra i moderati, tanto da
considerarsi un rudiniano. Quando il Consiglio respinse il nuovo compromesso (il terzo) con la Schuckert per l’illuminazione
delle borgate, Camporeale, che non aveva un carattere docile ed
era assolutamente alieno dai patteggiamenti, si dimise (maggio
1901).
Subito dopo il suo insediamento, il Consiglio aveva però trovato un momento di concordia per votare all’unanimità la costituzione di una Commissione di inchiesta sull’andamento amministrativo e finanziario del Comune, che avesse come base i rapporti degli ispettori Ciuffelli e Maglione del 1896, le relazioni dei
due regi commissari Pantaleone e Rebucci e le risultanze del processo Martines, al fine di accertare cause e responsabilità della crisi in cui versava (ottobre 1900). Già nel 1899 alla Camera erano
state lanciate gravissime accuse contro le amministrazioni comunali di Palermo e di Napoli ed era stata anche proposta un’inchiesta, necessità insistentemente ribadita nelle due ultime campagne elettorali dai partiti popolari, primo tra tutti quello socialista, che ne avevano fatto un punto fermo dei loro programmi.
L’inchiesta, che la Commissione – costituita dai consiglieri comunali barone Paino, avvocato Armao, professore Marcacci, ingegnere Torrente, e presieduta dal Consigliere di Stato commendatore Carlo Schanzer, poi più volte ministro – volle limitare agli ultimi due decenni, fu eseguita in appena undici mesi. La
sua attendibilità è però messa in discussione dalla valanga di rettifiche e smentite provocate dalla pubblicazione dei risultati in
tre grossi volumi (Roma 1901). Non c’è dubbio che la Commissione sia incorsa in errori che con minor fretta avrebbe potuto
evitare e che i suoi giudizi appaiono talora ingiusti, scarsamente
motivati e persino contraddittori. La sua requisitoria, inoltre, raramente tiene conto di circostanze attenuanti, perché i fatti vengono valutati sulla base dei risultati, senza considerare il contesto o le motivazioni che avevano potuto determinarli. Dalle sue
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Palermo
censure non si salvava quindi nessuna delle quindici amministrazioni dell’ultimo ventennio, sebbene l’onestà personale dei
sindaci rimanesse fuori discussione, anche quella del senatore Paternò, accusato, ingiustamente, dai socialisti di avere lucrato sui
fondi per i restauri di Palazzo delle Aquile e per i festeggiamenti dell’Esposizione Nazionale. D’accordo, perché, specialmente i
sindaci, erano davvero persone al di sopra di ogni sospetto e spesso dotate anche di indubbie capacità nel campo della propria attività professionale o privata. Ma può dirsi lo stesso degli assessori e dei consiglieri? Per non far torto a nessuno, la Commissione sparava nel mucchio e colpevolizzava tutte le amministrazioni del ventennio, quando invece bisognava preoccuparsi di
una più rigorosa attribuzione delle responsabilità. Prendiamo il
caso della burocrazia municipale, le cui colpe venivano considerate gravissime. Altrettanto gravi erano le colpe della classe politica, che aveva assunto funzionari e impiegati incapaci con criteri clientelari, senza preoccuparsi eccessivamente dei meriti. Ma
non tutte le amministrazioni ne erano responsabili nella stessa
misura, mentre è indubbio che tutte subirono le conseguenze della sua incompetenza e della sua lentezza, contro le quali i rimedi diventavano di difficile attuazione.
La Commissione si rese conto di non essere riuscita ad approfondire (o non volle?) le responsabilità e tentò di giustificarsene con la necessità di concludere in tempi rapidi i suoi lavori,
che furono resi oltremodo difficili dalla reticenza dei testi, in alcuni dei quali essa «giunse a punto tale da togliere qualunque serio valore alle loro deposizioni», e dall’impossibilità di consultare importanti documenti, introvabili a causa del disordine dell’archivio comunale, ma forse anche perché sottratti all’attenzione della stessa Commissione. La burocrazia municipale fece, infatti, di tutto per boicottare l’inchiesta, fornendo notizie con notevole ritardo e spesso in modo incompleto e poco chiaro,
cosicché – per quanto riguarda la gestione finanziaria – «le conclusioni della Commissione [...] si riportano a cifre che, pur essendo state raccolte con la massima cura, non possono garantirsi per assolutamente precise».
Pur con i limiti indicati, il lavoro costituisce in ogni caso una
fonte di valore eccezionale per la storia della città e sarebbe anzi auspicabile che esso fosse oggetto di un apposito studio. Lo è
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come documento in se stesso, cioè come l’atto politico più importante di un dibattito che animò la vita cittadina negli anni a
cavallo tra i due secoli e che interessò anche la magistratura. Lo
è per la grandissima quantità di dati che fornisce, indipendentemente dai giudizi cui danno luogo e che possiamo non accettare. Se non sempre approfondita, l’indagine fu certamente vasta e
riguardò il funzionamento degli uffici municipali e dei servizi
pubblici, la regolarità delle più importanti concessioni, la gestione patrimoniale e finanziaria del Comune. E seppur spesso non
approfondì le singole responsabilità, riuscì comunque a mettere
in luce una prassi amministrativa spesso corporativa e basata su
irregolarità di ogni sorta, sul clientelismo e la corruzione elettorale, sulla sovrapposizione di interessi privati a quelli pubblici,
sulla mancanza di una chiara e lungimirante visione dei più importanti problemi e degli interessi generali della città.
Il silenzio che, dopo qualche anno, ha avvolto l’inchiesta, a
tal punto che ai nostri giorni se n’era perduta quasi completamente la memoria, anche a livello storiografico, non è perciò giustificato.
10. Le cause della crisi finanziaria del Comune
La crisi finanziaria del Comune negli ultimissimi anni dell’Ottocento era la conseguenza di disfunzioni ed errori che risalivano piuttosto indietro nel tempo e coinvolgevano tanto la burocrazia quanto la classe dirigente. La Commissione rilevò, a ragione, come «la poca attitudine dei funzionari, la trascuratezza
degli assessori e l’uso continuato di metodi empirici ed irrazionali, produssero tale un disordine, che quasi non si comprende
come, ciò non ostante, l’amministrazione abbia potuto funzionare finora». Il primo elemento su cui essa si sofferma a lungo, documentandone gli effetti negativi, è quindi l’impreparazione della burocrazia municipale nelle faccende finanziarie. La Ragioneria generale non solo non impediva gli errori degli amministratori ma ne era la causa. Gli amministratori ebbero però il torto
di non darle un ordinamento razionale e di aggravarne il disordine con ingerenze arbitrarie. Ciò spiega «quel cumulo di errori, tutta quella incomprensibile deficienza di metodo e quel di-
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sordine contabile che contribuì non poco a condurre il municipio all’attuale grave condizione finanziaria».
La Ragioneria generale trascurò non soltanto la regolare tenuta della contabilità – impedendo così agli amministratori di
avere un quadro sempre chiaro e preciso della situazione finanziaria del Comune, da servire come fondamento dell’azione amministrativa – ma non esercitò alcun controllo sull’attività dell’Economato e della Tesoreria per impedire abusi e irregolarità.
L’ufficio dell’Economato aveva potuto così sempre più derogare
dai suoi compiti istituzionali.
Il funzionamento della Tesoreria mostrava poi irregolarità incredibili, sia nella tenuta dei libri contabili che nel rapporto tra
amministrazione e tesoriere. A parte l’assenza di vigilanza della
Ragioneria e degli amministratori nella gestione della cassa, che
consentì ad esempio al tesoriere Martines di accumulare l’enorme vuoto cui si è accennato, sindaci e assessori – sebbene il regolamento lo vietasse – disponevano spessissimo pagamenti in
«conto sospeso», in attesa che i relativi provvedimenti venissero
formalizzati dalla Ragioneria e possibilmente anche dalla giunta
con apposita deliberazione. Ma la formalizzazione spesso ritardava di anni, quando si era perduta «ogni traccia dei precedenti amministrativi, sicché non si poteva più, per molti di essi, verificare se erano stati oppure no rimborsati al tesoriere».
La mancanza di scritture contabili accurate, inoltre, non consentiva agli amministratori di determinare, ai fini dell’annuale bilancio di previsione, il costo effettivo dei servizi municipali. Ma
neppure per le altre spese si avevano idee chiare, o per l’assenza
di preventivi o perché assai spesso i preventivi non erano corretti, cosicché il costo finale di talune opere raggiungeva cifre impensabili al momento in cui se ne era decisa l’esecuzione: l’esempio più eclatante era la costruzione del Teatro Massimo, inaugurato finalmente nel 1897, con un costo finale di oltre sette milioni a fronte di un preventivo di due milioni e mezzo. I bilanci
preventivi venivano stravolti anche dalle abitudini degli amministratori di sconfinare ben oltre i limiti di spesa previsti.
Né più corretti erano i bilanci consuntivi. Essi danno annualmente sino al 1891 un avanzo, tranne per l’85, l’87 e l’89; dal
1892 in poi si verifica un deficit annuale, che supera il mezzo milione nel ’93 e si mantiene costante negli anni successivi, con una
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forte diminuzione nel ’95 e un gravissimo aumento nel ’98. In
realtà, la situazione era assai ben diversa, perché sino al 1885 il
pareggio del bilancio era stato possibile solo grazie all’inserimento tra le entrate effettive di 250.000 lire l’anno derivanti da
un mutuo di due milioni per la costruzione del Teatro Massimo,
i cui lavori erano stati bloccati per contrasti con l’impresa costruttrice e con lo stesso progettista professore Basile, a cui fu
tolta la direzione dell’opera. Nel 1886 il deficit fu coperto inserendo tra le entrate ordinarie la riscossione del mutuo per il risanamento della città, escamotage cui si ricorse più volte negli anni successivi, cosicché a fine secolo l’azienda comunale aveva un
debito di un milione e mezzo nei confronti del fondo per il risanamento. Nell’intero ventennio, solo il 1888 si sarebbe chiuso
con un avanzo reale di 210.000 lire.
Nelle spese si era ecceduto per tutto il ventennio, anche se il
culmine si toccò negli anni 1890-1893 e 1898-1899 sotto le amministrazioni Verdura, Ugo, Paternò e Oliveri. Si spendeva troppo perché si spendeva male e giustamente la Commissione contestò agli amministratori «la soverchia facilità e leggerezza nell’ordinare ed erogare le spese, l’incuria nel rendere conto delle
anticipazioni avute o dei fondi amministrati, e favoritismi personali parecchi», oltre l’assoluta mancanza di controlli sull’erogazione delle stesse spese.
E tuttavia, ancora sino al 1892 la situazione poteva considerarsi sotto controllo, grazie al continuo incremento, ben oltre
ogni più rosea previsione, del gettito daziario, con cui si poteva
far fronte al contemporaneo aumento delle spese non sempre necessarie e utili. La svolta avvenne nel 1893 e fu la crisi finanziaria, sempre più incontrollabile, malgrado l’aumento nel ’95 della sovrimposta ai tributi diretti, la quale non bastava a compensare la diminuzione del gettito daziario, dovuta in parte a riduzioni tariffarie e all’aumento del contrabbando. Diminuzione che
gli amministratori non vollero mai prendere in considerazione al
momento della formazione del bilancio preventivo per non essere costretti a limitare le spese annuali, le quali – con qualche eccezione – continuarono a mantenersi elevate e talvolta anche a
progredire.
Come è noto, le entrate del Comune si basavano quasi esclusivamente sull’imposta daziaria. Il suo gettito, che nel 1881 era
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Palermo
di lire 7.356.473, raggiunse la punta massima di lire 9.540.407 nel
1892, per crollare sino ai livelli di partenza nel 1898 (lire
7.386.251). Ancora nel 1900 si manteneva sui livelli più bassi (lire 7.691.572). Inoltre, dal 1893 esso si mantenne sempre inferiore
alle previsioni e nel 1898 si verificò addirittura una differenza di
quasi 900.000 lire in meno. Nel periodo dal 1893 al 1900, la sproporzione tra previsione e accertamento ammontò complessivamente a due milioni, con conseguenze gravissime per la finanza
comunale. Di contro, la previsione di spesa, che sino al 1885 si
era mantenuta al di sotto degli otto milioni, balzò a dieci e mezzo nel 1886 e a oltre quattordici nel 1891, si mantenne attorno
ai dieci sino a tutto il 1895, superò i quindici nel 1896 e si attestò sui diciassette milioni nel 1897-1898. E così il deficit complessivo, che a fine 1880 era di quasi 1.300.000 lire, a fine 1896
– anche a causa del vuoto di cassa causato dal Martines – aveva
superato i quattro milioni e mezzo e a fine 1900 era salito a lire
6.264.916.
Per l’assestamento del bilancio, la Commissione avanzava diverse proposte, tra cui anche l’imposizione di un nuovo tributo
a larga base come l’imposta di famiglia. Se correttamente applicata, essa avrebbe potuto fornire un’entrata cospicua alle casse
comunali e ridurre la pressione fiscale che gravava soprattutto
sulle masse popolari, a causa del sistema di tassazione indiretta
in vigore a Palermo come altrove. Ma in Italia le amministrazioni comunali del tempo erano in generale contrarie al ricorso all’imposta di famiglia e, quando non potevano esimersi dall’applicarla, adoperavano aliquote così basse che il suo gettito finiva
col costituire una parte assai modesta delle entrate comunali. È
quanto si verificherà a Palermo: la Commissione di inchiesta prevedeva un gettito annuo di circa 500.000 lire, ma quando nel
1904 l’imposta di famiglia risulterà in vigore il suo gettito toccava appena le 175.000 lire, che equivalgono all’1,9 per cento dei
proventi tributari del Comune. E d’altra parte, neppure un gettito come quello ipotizzato dalla Commissione avrebbe risolto il
problema finanziario del Comune di Palermo, che aveva invece
bisogno di riforme assai più radicali.
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11. Il risanamento
Una grossa fetta della spesa comunale serviva per il pagamento dei mutui contratti nell’ultimo ventennio per il miglioramento e l’istituzione di alcuni servizi e per il risanamento della
città, oneri che il bilancio del Comune non era affatto in grado
di sopportare. Il mutuo di trenta milioni per il risanamento, estinguibile in 35 anni a un tasso del 3,5 per cento, comportava un
onere annuo di quasi un milione e mezzo, che solo per la metà
era compensato dalla contemporanea estinzione di precedenti
mutui. L’amministrazione Verdura che lo contrasse non si pose
inizialmente il problema dei mezzi disponibili in bilancio per il
suo ammortamento e quando, nel gennaio 1890, se ne occupò, si
basò su calcoli che si rivelarono non corretti. I nodi vennero al
pettine negli anni successivi, in conseguenza della caduta del gettito daziario: in assenza di entrate alternative, il soddisfacimento
del mutuo finiva inevitabilmente con l’incrementare il disavanzo
complessivo del bilancio e diventava una spesa assolutamente insostenibile, malgrado l’onere annuale fosse più ridotto del previsto per la mancata utilizzazione dell’intera somma mutuata e per
il prolungamento a 50 anni del periodo di ammortamento.
La mancanza di un serio piano di finanziamento del progetto di risanamento, oltre a compromettere notevolmente il bilancio comunale, si ripercuoteva negativamente sulla realizzazione
delle opere in programma, le cui previsioni di spesa peraltro subivano dopo il 1890 consistenti aumenti, a causa della revisione
catastale dell’imponibile dei fabbricati da espropriare e di nuove
imposte sulle espropriazioni a favore dello Stato. Ma era scorretto un po’ tutto l’indirizzo dato all’opera di risanamento, con
il risultato che all’inizio del nuovo secolo si era realizzato troppo
poco in rapporto alle spese sostenute e di contro c’era ancora
moltissimo da fare con le ultime rate del mutuo chiaramente insufficienti.
La necessità di risanare la città era stata già avvertita dall’amministrazione Rudinì, che nel 1866 approntò un piano di bonifica che non ebbe seguito. La proposta di un risanamento igienico dell’intera città fu rilanciata nel 1881 dall’amministrazione
Turrisi, ma solo la preoccupazione che l’epidemia colerica presente a Napoli nel 1884 si propagasse, come poi avvenne, anche
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Palermo
a Palermo convinse gli amministratori e l’opinione pubblica dell’indifferibilità della soluzione del problema igienico, e quindi
della necessità di «sventrare i quartieri più densi di popolazione
e sistemarli igienicamente; collegare alla demolizione di case nei
vecchi rioni la costruzione di rioni nuovi, coordinando al piano
di risanamento quello di ampliamento; provvedere ad un razionale sistema di fognatura generale della città; assicurare, infine,
alla popolazione buona e sufficiente acqua potabile». Si trattava,
come si vede, di un intervento settoriale e in ogni caso puramente
edilizio e urbanistico, non collegato cioè a un piano di complessivo sviluppo economico della città.
Già nel corso del 1885, oltre alla realizzazione di opere di sistemazione stradale e sottostradale, si procedette alla demolizione di parecchi tratti di bastioni e mura di cortina che chiudevano il vecchio centro, all’affitto dell’acqua Tortorici e alla sua adduzione in città. L’anno appresso l’amministrazione Verdura
chiese il mutuo di 30 milioni: doveva servire in gran parte a finanziare il piano regolatore di risanamento e ampliamento redatto nel 1886 dall’ingegnere Giarrusso (lire 19.600.000) e il piano di fognatura generale redatto dall’ingegnere Castiglia (lire
6.000.000). La nuova epidemia colerica del 1887 convinse però
l’amministrazione dell’opportunità di eseguire lavori parziali, in
attesa che si definissero nuovi progetti di risanamento e di fognatura. Furono perciò prelevate per l’esecuzione alcune parti del
vecchio piano Giarrusso per la bonifica dei rioni Conceria, Giliberti, Pozzo e Pozzillo, Porticatello, Kalsa, Albergheria, e si diede inizio alle espropriazioni saltuarie di immobili da demolire.
Si stabilivano così importanti precedenti che contribuiranno
al fallimento del piano di risanamento. In attesa infatti che il governo approvasse i nuovi piani redatti nel 1889 e varasse un’apposita legge con l’accoglimento di alcune richieste dell’amministrazione, le giunte Paternò e Ugo continuarono con il sistema
dei prelevamenti parziali (rioni San Giuliano, San Vito, Sant’Antonino, Serraglio, Sant’Antonio, Conceria e Lattarini), finendo
talora col pregiudicare la corretta esecuzione dei lavori successivi e anche il completamento dell’intero piano. Inoltre, le espropriazioni saltuarie nei punti più disparati, talora per compiacenza, talora per impedire che i privati apportassero agli immobili
da demolire migliorie che ne elevassero il valore, immobilizzava-
V. Il trasformismo
207
no per anni cospicue somme non più utilizzabili per le opere di
risanamento. Né mancavano ‘errori’ rappresentati da acquisti di
immobili, che si riconoscevano poi non necessari. E come se non
bastasse, sul fondo dei 30 milioni si facevano gravare anche altre
spese non previste nel piano di risanamento.
Dopo l’approvazione della legge 19 luglio 1894, che rese finalmente esecutivo il «piano particolareggiato di risanamento e
conseguenziale ampliamento» redatto dal Giarrusso nel 1889, furono completate le opere di bonifica nei rioni Sant’Antonio e
Conceria, che portarono nel 1898 all’apertura del terzo tronco
della via Roma compreso tra il corso Vittorio Emanuele e la via
Bandiera, la cui realizzazione, assieme a quella del primo e del
quinto tronco, era considerata opera di risanamento. Contemporaneamente, sotto le amministrazioni Oliveri e Ugo, si dava inizio ai lavori in sei diversi rioni, tra cui Porta San Giorgio e San
Francesco Saverio, ma la vicenda Martines provocò il rallentamento e poi il blocco delle opere in corso, perché l’amministrazione fu costretta a utilizzare i fondi del risanamento per sopperire ai bisogni della gestione ordinaria, con un ulteriore indebitamento del Comune nei confronti della gestione speciale del risanamento. Ci si rendeva inoltre conto dell’opportunità di ripensare interamente il problema del risanamento, per evitare in
avvenire gli errori del passato.
Fu deciso di utilizzare intanto le somme residue di dieci milioni e mezzo per un programma assai più ridotto, che comprendesse la rete fognante, e fu anche allestito un piano finanziario per l’esecuzione dei lavori. Ma il loro avvio era subordinato alla sistemazione del bilancio comunale, che avrebbe consentito il recupero delle somme in passato distratte per i bisogni
ordinari dell’amministrazione, dato che non era possibile richiedere alla Cassa depositi e prestiti il pagamento di altre rate del
mutuo, senza poter dimostrare che le rate riscosse erano state effettivamente utilizzate per i lavori di risanamento. Lo scioglimento del Consiglio comunale nel 1900 contribuiva ad allontanare ulteriormente la soluzione del grave problema.
La conclusione è amara: se da un lato il mutuo aveva contribuito, con gli oneri annuali che comportava, ad aggravare la situazione finanziaria del Comune, dall’altro i lavori sin allora eseguiti riguardavano opere di secondaria importanza e i risultati
208
Palermo
conseguiti erano alquanto modesti. Né migliori risultati si erano
raggiunti con i lavori della rete fognante
sia perché – come sottolineava la Commissione di inchiesta – è mancato un progetto generale definitivo di fognatura, e non si è seguito
quindi il metodo razionale ed igienico di procedere man mano nelle
opere da valle a monte; sia perché nello stesso sistema di esecuzione
saltuaria che ha prevalso finora, non solo non si è completata la fognatura in alcuno dei rioni dove s’iniziarono i lavori, ma non si è provveduto neppure, per le fogne costruite, all’impianto dei sifoni per i
lavaggi, né si è pensato al coordinamento ed alla sistemazione delle
fogne private.
Paradossalmente, il risultato più positivo appare l’adduzione
in città dell’acqua di Scillato, grazie a una transazione con l’impresa esecutrice dei lavori che, non solo i contemporanei, ma anche i posteri ancora parecchi anni dopo, continueranno a giudicare disastrosa per la città!
VI
L’ETÀ GIOLITTIANA
1. L’opposizione socialista
Il clima politico d’inizio secolo continuava a essere arroventatissimo. I socialisti non perdonavano a Florio di avere spianato la via alla concentrazione monarchico-liberale e continuavano
ad attaccarlo con estrema violenza dalle colonne della «Battaglia», cui rispondeva altrettanto duramente Rastignac (Vincenzo
Morello) sulle colonne dell’«Ora». Quando nel marzo 1901 i
2.357 operai del Cantiere Navale, dello Scalo di Alaggio e della
Fonderia Oretea – che erano organizzati dalle associazioni mutualistiche controllate da Florio –, allo scopo di interessare il nuovo governo Zanardelli-Giolitti ai problemi delle industrie cittadine in crisi, attuarono il primo grande sciopero della storia del
movimento operaio siciliano, che durò dieci giorni e diede luogo a gravi incidenti, «La Battaglia» non esitò a parlare di «insurrezione ordinata dai capitalisti» e di «rivoluzione marca Florio», dimostrando con il suo intervento che esso non godeva dell’appoggio dei socialisti.
Altro bersaglio del settimanale socialista era l’onorevole Bonanno, definito idiota, vanesio, corruttore. Bonanno era solito rispondere per le rime e un giorno, al Teatro Massimo, fu aggredito a schiaffi dall’ingegnere Drago, uno dei leader del socialismo riformista palermitano. Nell’immancabile duello alla sciabola che ne seguì, Drago rimase gravemente ferito. Poi «La Battaglia» se la prese con la dottrina e la morale cattolica, suscitando le ire del cardinale Celesia, che ne proibì la lettura «sotto pena
di peccato mortale» (luglio 1901). La penna più brillante del set-
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Palermo
timanale era il «principe rosso» Alessandro Tasca, che negli anni
successivi risulterà assieme a Drago aderente alla Massoneria di
Palazzo Giustiniani. A lui si dovevano gli attacchi più violenti, sino ai limiti del ricatto. I suoi avversari asserivano che il denaro gli
serviva solo per il gusto di spenderlo nei cafés-chantants, ai tavoli
da gioco, nelle alcove delle dive del Varietà, in cospicue elargizioni al partito di cui costituiva la più importante risorsa finanziaria, tanto che già prima della guerra mondiale non possedeva
più nulla e durante il fascismo si ridusse quasi all’elemosina.
La violenza verbale dei socialisti non era riservata soltanto agli
avversari, ma usata anche nei rapporti interni tra le diverse fazioni del partito, ognuna delle quali aveva un proprio organo di
stampa. Come i democratici, che raramente riuscivano a trovare
accordi duraturi nella gestione del potere, anche i socialisti erano tra loro in grave disaccordo sul modo di condurre l’opposizione, disaccordo che talora sfociava in lotta aperta sino a rasentare lo scontro fisico tra le opposte fazioni. Venivano alla luce le
contraddizioni del movimento socialista palermitano, costituito
essenzialmente da intellettuali e professionisti di estrazione borghese, con scarsi legami con la classe operaia e con le campagne,
orientati per il rifiuto del massimalismo e l’accettazione delle tesi turatiane. Solo alcuni si ispiravano alla corrente rivoluzionaria
di Ferri e Barbato e si dicevano intransigenti e decisi a combattere coloro che si servivano del socialismo per soddisfare ambizioni personali.
Perciò, più che motivazioni ideologiche, dissidi e contrasti
avevano alla base interessi elettorali e personali: il duo Tasca-Drago faceva di tutto per screditare Rosario Garibaldi Bosco e sottrargli la leadership della Camera del lavoro, che nelle mani del
sindacalista costituiva un grosso ostacolo alla realizzazione del
programma di aggregazione delle masse popolari della città con
scopi prettamente politico-elettorali, cui essi miravano. Lo accusavano così di scarsa capacità organizzativa e di voler trascinare
gli operai ai piedi del sindaco Giuseppe Tasca Lanza e della consorteria al potere, costringendo il sindacalista a fondare un suo
periodico, «Il Giornale dei lavoratori», da cui rispondeva accusando «La Battaglia» di difendere la camorra (leggi: mafia) palermitana. A sua volta, Drago, quando si parlò di un possibile in-
VI. L’età giolittiana
211
gresso in giunta di Bosco, replicò qualificandolo come capo della camorra proletaria che stava per sostituire quella borghese.
La partecipazione dei socialisti e dei radicali alle competizioni elettorali e più tardi anche alla vita amministrativa in qualità
di oppositori o di amministratori rendeva però più chiaro il quadro politico e finalmente dotava il Consiglio di forze politicamente qualificate. Il timore di un successo dei socialisti all’inizio
e la necessità di bloccarne l’ascesa successivamente, se non valsero a rendere più compatte le maggioranze consiliari, all’interno delle quali le ambizioni personali e la litigiosità non riuscivano a placarsi, fecero venir meno il proliferare di liste da parte di
associazioni ed enti vari che aveva caratterizzato il primo quarantennio dopo l’unificazione. Con il nuovo secolo, il numero
delle liste in lotta si ridusse notevolmente e di conseguenza crebbe il ruolo dei notabili che le organizzavano. Si ha l’impressione
di trovarsi talora di fronte a veri e propri comitati di affari, che
organizzavano le elezioni e decidevano le sorti delle varie giunte,
dall’esistenza breve e sempre precaria e travagliata, che si alternavano periodicamente con i regi commissari.
Gravemente inquinante era in tal senso l’intervento di Ignazio Florio jr. nelle vicende elettorali e amministrative della città.
In precedenza, la sua famiglia si era quasi sempre limitata a controllare dall’esterno la situazione, ma il declino politico di Crispi
e Rudinì, che privava Palermo di due importanti punti di riferimento e la collocava ancora una volta all’opposizione antigovernativa, non poteva lasciare indifferente Ignazio Florio, che già avvertiva i segni di un mutato atteggiamento del governo nei suoi
confronti. Già l’aristocrazia agraria, che aspirava a una più favorevole perequazione fondiaria, non aveva esitato a passare all’opposizione e fu allora che nacque l’idea di uno schieramento
di forze, quasi un partito – e si parlerà infatti anche di partito
agrario siciliano –, che valesse a tutelare a livello nazionale gli interessi agrari e industriali dell’isola e del Meridione, aggregando
imprenditori e proprietari terrieri attorno a un programma meridionalistico, e in particolare a un «progetto Sicilia» che promuovesse sia lo sviluppo di una agricoltura moderna e di una efficiente flotta peschereccia d’alto mare, premesse indispensabili
per la creazione di industrie di trasformazione (conserve alimentari), sia un rilancio dell’industria mineraria dello zolfo, in modo
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Palermo
da giustificare l’esistenza di una grande flotta mercantile per l’esportazione del prodotto e quindi il godimento delle sovvenzioni statali da parte delle società armatoriali, ossia della Navigazione Generale Italiana di Florio.
Nel quadro del «progetto Sicilia» – che con la mediazione di
Florio coinvolse talora i radicali e una parte dei socialisti – si inseriscono iniziative quali la costituzione nel 1899 del Consorzio
Agrario Siciliano, con Florio presidente e membri autorevoli i socialisti professore Salvioli e avvocato Lo Vetere, i quali – pur di
trovare una via d’uscita dal sottosviluppo – finivano praticamente con il rinunciare alla lotta di classe, sacrificata all’alleanza con
i gruppi più dinamici del blocco agrario e la borghesia più avanzata della città; la fondazione del quotidiano «L’Ora» da parte di
Florio, con il «proposito della difesa continua e organica degli
interessi del Mezzogiorno e della Sicilia», pochi giorni dopo
(aprile 1900) che un decreto catenaccio del governo Pelloux sospendeva la legge sulle costruzioni navali del 1896 e vanificava
l’impianto del Cantiere Navale di Palermo, contribuendo perciò
a rafforzare il fronte di opposizione antigovernativa, che faceva
dell’«Ora» la sua bandiera; l’appoggio di Florio ai candidati dell’opposizione costituzionale e socialista nelle politiche del giugno
1900; il suo patrocinio della lista di concentrazione monarchicoliberale nelle amministrative di settembre, che provocò però la
rottura con Colajanni, che da allora cessò la sua collaborazione
con «L’Ora»; il «Patto di Palermo» del marzo 1901; il collegamento di Florio con Sonnino e il suo antigiolittismo; la riunione
del 1901 al Politeama – promossa da Camporeale – di proprietari terrieri siciliani e di rappresentanti di società agricole; l’Esposizione Agricola Siciliana del 1902 con notevole partecipazione di imprese e di visitatori.
Il «progetto Sicilia» non riuscì comunque a decollare, perché
lo schieramento che avrebbe dovuto sostenerlo era assai disomogeneo e presto si sfaldò, per la rottura tra Florio e Colajanni
e per il passaggio nell’area giolittiana, ossia nell’area governativa,
di parecchi parlamentari della città. Dopo le elezioni politiche
del 1904, «L’Ora» riprese l’idea di uno schieramento di forze siciliane e propose la formazione di un Fascio parlamentare siciliano, trovando il consenso entusiastico dell’antico regionista
Guarneri e del socialista Lo Vetere, da anni sostenitore della ne-
VI. L’età giolittiana
213
cessità della fondazione di un partito agrario siciliano. Ma gli altri socialisti si opposero nettamente e liquidarono come «nebulosa agraria» la formazione di un partito al di sopra di tutti i partiti, inevitabilmente conservatore, protezionista, antidemocratico
e possibilmente regionista.
Florio non la smise tuttavia di intervenire direttamente nelle
vicende politiche e amministrative della città, inizialmente a favore dei democratici, poi a vantaggio dei socialisti, ma sempre
sulla base di ben precisi interessi privati, che solo in parte coincidevano con quelli della città. E con lui scese in lizza don Filippo Pecoraino, proprietario del più importante e moderno mulino dell’isola in corso dei Mille, con il risultato che a ogni elezione il denaro scorreva a fiumi. Quanto esso valesse in una competizione elettorale appare abbastanza evidente se si considera
che l’elettorato palermitano aveva una assai scarsa maturità politica. Ben a ragione, il sacerdote Torregrossa parlava nel 1905 di
«massa incosciente di elettori, di tutti i colori, che si inspirano alle simpatie e alle antipatie personali, ai pettegolezzi, agli interessi ed alle [...] gratitudini, e si lasciano conquistare ingenuamente dai camaleonti opportunisti ed ambiziosi che si fan democratici con l’associazione democratica, massoni con i massoni, cattolici con i cattolici, spacciatori di biglietti da cinque lire con le
coscienze venali, così come si camufferebbero da socialisti se potessero turlupinare i socialisti».
Dopo le elezioni parziali del luglio 1908, il «Giornale di Sicilia» rilevava come «la votazione di ieri ha provato alla evidenza
che la dignità e l’onestà politica del nostro corpo elettorale va sempre più degradando: e di ciò diedero esempio popolari, democratici e clericali, tutti preoccupati di falciare la maggior quantità
di messe possibile nel campo della corruzione»; ed esprimeva il
timore, assai fondato, che gli stessi mezzi usati nelle elezioni, ossia la corruzione, potessero essere utilizzati – ma già lo erano! –
per «infeudare il potere nelle mani di una oligarchia, che ai propri fini, più o meno mascherati, sia in grado di profondere migliaia e migliaia di lire sul mercato elettorale». Non è un caso, d’altra parte, che i socialisti riuscirono – come vedremo – vittoriosi
solo quando ebbero l’appoggio finanziario di Florio e/o Pecoraino e soccombettero malamente quando esso venne meno.
Con il denaro a farla da padrone nelle campagne elettorali,
non c’era più spazio per i migliori. In passato, era rarissimo che
214
Palermo
la candidatura al Consiglio di una personalità della cultura andasse incontro a una bocciatura. Col nuovo secolo non c’era più
possibilità di successo elettorale per coloro che non erano inseriti organicamente in uno schieramento, a meno che non si
chiamassero Palizzolo, che poteva contare su un elettorato particolare. E così, il Consiglio cominciava a riempirsi di personaggi sconosciuti, arrivisti, mezze calzette in cerca di gloria e di
potere, che consideravano la carica municipale non come servizio alla cittadinanza, bensì come strumento di elevazione sociale, di affermazione e talora anche di arricchimento. E perciò,
denaro, corruzione, brogli elettorali, presenza costante della
mafia nelle competizioni elettorali e nella vita amministrativa e
politica caratterizzeranno ormai, più che nel passato, gli anni sino al fascismo.
2. Mafia e politica: il caso Notarbartolo
Dopo l’avvento al potere della Sinistra, la mafia aveva reso ancor più organici i suoi rapporti con il mondo politico, aiutando
il governo, alla fine degli anni Settanta, a liquidare il brigantaggio e mettendo la sua influenza, soprattutto dopo che la riforma
del 1882 aveva notevolmente allargato il corpo elettorale, a disposizione dei candidati al Parlamento, in particolare di quelli
governativi, che ricambiavano intervenendo a favore dei suoi
membri in difficoltà con le autorità di polizia e agevolando in tutti i modi i suoi loschi traffici, primo fra tutti il contrabbando. La
Commissione di inchiesta sul Comune accertò come al tempo in
cui tenne la direzione del dazio Salvatore Perricone (decennio
1880-1890) fossero in vigore, come in età borbonica, «loschi accordi con alcuni capi mafiosi, ai quali si conferiva facoltà di esercitare in determinata misura il contrabbando, purché provvedessero ad impedire che altri esercitasse la medesima frode», il
che non era sicuramente possibile senza il consenso più o meno
tacito delle autorità municipali e dei più influenti uomini politici della città.
Dopo il 1897, quando anche le borgate cominciarono a eleggere loro rappresentanti al Consiglio comunale, la mafia ne approfittò per insediare addirittura suoi esponenti a Palazzo delle
VI. L’età giolittiana
215
Aquile. Il Salvatore Licata di Andrea, eletto nel 1897 come rappresentante di Resuttana Colli, riconfermato nel luglio 1900 nella lista dei cattolici delle borgate e ancora nel settembre successivo nella lista di Camporeale e nel 1902 all’ultimo posto della lista democratica di Tasca Lanza e Bonanno, era il nipote diretto
di Salvatore Licata capomafia della zona dei Colli nel 1875: qualche anno dopo egli verrà indicato come «gran mafioso». Nel 1904
– secondo un anonimo che non si firmava, «perché la mafia è più
potente del governo» – egli si accordò con il prosindaco Bonanno, che evidentemente non gradiva una sua ricandidatura, ma
non intendeva rinunciare ai voti che il mafioso controllava: Licata non ripresentava la candidatura al Consiglio comunale, «a
patto che a mezzo della sua mafia nelle campagne ci [= a Bonanno] dovevan fare avere tutti i voti della borgata dei Colli, e
in compenso il Bonanno ci [= a Licata] dovrà dare un posto al
Municipio di 500 lire al mese». Sarà forse coincidenza di nomi,
ma nel 1906 tra gli impiegati del Comune si incontra un Salvatore Licata che viene nominato ispettore alle ville comunali.
Anche Salvatore Conti era un personaggio assai in odore di
mafia: rappresentante di Brancaccio in Consiglio, eletto nel 1897,
riconfermato nel luglio 1900 nella lista dei cattolici delle borgate e nel settembre successivo in quella di Camporeale, nel 1908
veniva indicato dalla Questura come «il noto Salvatore Conti»,
con chiaro riferimento al suo ‘potere’ nella borgata. E in effetti
da altre fonti veniva indicato come capomafia di Settecannoli
(Brancaccio). Né essi erano i soli mafiosi del Consiglio: il prefetto De Seta nel 1899 parlava di consiglieri notoriamente mafiosi,
che avevano bloccato l’azione moralizzatrice dell’ultima giunta
Oliveri, e faceva riferimento ai rappresentanti delle borgate, uno
dei quali, Francesco Motisi (Mezzomonreale), era addirittura latitante, mentre Filippo Vitale (Boccadifalco) era stato privato del
porto d’armi. In particolare, quest’ultimo, legato all’onorevole
Palizzolo, era stato confinato al tempo del prefetto Malusardi
(1876-1878) e nel 1900 veniva considerato il capomafia di Altarello di Baida (Boccadifalco).
Quando non poteva candidare suoi esponenti, la mafia concedeva il suo appoggio, spesso determinante, a candidati amici.
Come operasse ce lo spiega con ricchezza di particolari, che la
stampa coeva conferma, il Cutrera:
216
Palermo
I mafiosi di Palermo [...] costituiscono la parte più importante del
galoppinismo elettorale. È spesso nelle loro mani l’esito di una elezione, e perciò è a loro che si raccomandano i candidati, di qualunque
colore politico, mettendo a loro disposizione la borsa. Qualche volta
il candidato può anche essere un antico e devoto amico della mafia.
In questo caso gli amici si offrono di appoggiare la candidatura con
entusiasmo e disinteresse. Al mafioso-galoppino competono quattro
operazioni [...]. Fare il giro di tutti gli elettori influenzabili del collegio, promettendo ricompense materiali o morali, ma più queste ultime, perché l’elettore sa che rende un favore ad un amico che merita, e
perciò il favore che rende non è mai perduto, perché all’occorrenza
l’amico è sempre amico e se ne può avere bisogno. Compiuto questo
lavoro il mafioso passa ad un’altra operazione, ancora importante: con
la sua presenza nella sala delle elezioni tiene d’occhio tutti gli amici ed
aderenti, evitando che i galoppini dell’opposizione gli tolgano i suoi
clienti. Cominciate le operazioni di scrutinio gli amici si riuniscono e
stanno pronti ad appoggiare con la voce, e la presenza in atteggiamento
risoluto, le contestazioni a favore del proprio candidato. Ad essi spetta in ultimo improvvisare una dimostrazione popolare, per acclamare
il loro candidato, se riesce vincitore alle urne.
L’onorevole Palizzolo era stato più volte accusato dagli avversari di avere utilizzato ampiamente, durante le sue campagne
elettorali, il sostegno della mafia, sia quella di Caccamo che quella palermitana del mandamento Palazzo Reale. L’accusa non era
infondata: al processo nel 1883 contro i cinque fratelli Amoroso
e altri, ritenuti responsabili di nove omicidi e di un mancato omicidio, egli e l’onorevole Caminneci furono testimoni a discarico
di alcuni imputati poi condannati a morte. Malgrado il presidente
della Corte si preoccupasse di precisare che l’associazione di malfattori non era «per nulla politica, come alcuno potrebbe credere», le attestazioni di fiducia da parte dei parlamentari mostrano
un rapporto inquietante, che potrebbe andare ben oltre l’interessamento per la concessione del porto d’armi a noti pregiudicati loro elettori, alcuni dei quali, come i fratelli Amoroso, già implicati nella rivolta del ’66. Ma quelli di Palizzolo e Caminneci
non rappresentano casi isolati, anche se forse erano i più appariscenti. Nessuno dei deputati eletti in provincia di Palermo sembra del tutto immune da collusioni mafiose o da quel particolare tipo di rapporto che i giudici palermitani hanno recentemen-
VI. L’età giolittiana
217
te definito contiguità. Nel suo collegio di Caccamo, l’onorevole
Rudinì, ad esempio, poteva contare sull’appoggio dei Saeli a
Montemaggiore e di Leonardo Avellone, sindaco a vita di Roccapalumba. Non sappiamo chi fossero i Saeli, ma di Leonardo
Avellone il «Giornale di Sicilia» nel 1892 delineava un gustoso
ritratto che sembra uscito dalle pagine dei volumi della Commissione antimafia dei nostri anni Settanta:
Il comm. Avellone è un uomo agiato, che s’avvicina ai sessanta anni, pingue, simpatico, furbo quanto un contadino, gentile e servizievole come un padre della compagnia di Gesù, ma vendicativo e infedele con tutti, specie con gli amici, ignorante ma d’ingegno pronto e
versatile tanto al bene quanto al male, amico dei buoni e dei cattivi
con la massima indifferenza, padre di numerosa famiglia e di parenti e di clienti che, all’ombra di lui, esercitano alla loro volta nel circondario di Termini dominio assoluto e prepotente. Egli si è sempre
atteggiato ad uomo d’ordine, moderatissimo, di pura destra, ed ha reso qualche volta ottimi servigi alla pubblica sicurezza, come non s’è
peritato di aiutare e di liberare occorrendo persone di qualunque genere, dipendenti da lui o messesi sotto la di lui protezione.
Durante il ministero Rudinì, Avellone accrebbe il suo potere
sino a comprendere «le nomine dei sindaci e di tutti gli ufficiali
pubblici, la revoca e la promozione degli impiegati, la concessione dei permessi di arme e dei botteghini da lotto e delle rivendite di tabacchi, l’amministrazione delle opere pie, la compilazione delle liste elettorali, l’amministrazione della giustizia, la
direzione della pubblica sicurezza, il controllo diretto degli uffici amministrativi della prefettura di Palermo». Certo, il «Giornale di Sicilia» non era affatto amico di Rudinì, ma il ritratto nel
complesso appare credibile. Un congiunto di Avellone, Salvatore, rudiniano di ferro, nel 1897 fu eletto deputato nel collegio di
Corleone e fu sempre rieletto sino alla morte nel 1913.
Lo stesso Rudinì, durante il suo secondo ministero, aveva consigliato il figlio dell’assassinato Notarbartolo – che a lui, amico
del padre, si era rivolto per ottenere finalmente che si procedesse contro Palizzolo, ritenuto mandante dell’omicidio dell’ex sindaco – di affidarsi a un «buon mafioso», per chiudere nel modo
più sbrigativo una vicenda dolorosa. L’omicidio di Emanuele Notarbartolo, avvenuto sul treno per Palermo, lungo il tratto ferro-
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Palermo
viario Trabia-Altavilla, la sera del 1º febbraio 1893, era apparso
subito un tipico delitto di mafia. La vittima era un uomo integerrimo, che aveva risanato il Banco di Sicilia senza guardare in
faccia nessuno, chiudendo inesorabilmente i cordoni del credito
a personaggi emergenti, ma scarsamente solvibili, e procedendo
senza indugio al recupero di numerosi crediti in sofferenza. È
probabile che l’azione restrittiva del direttore del Banco avesse
anche affossato o impedito che si affermassero iniziative della
gracile borghesia industriale dell’isola, che avrebbero potuto assumere un ben diverso sviluppo se sorrette dalla possibilità di un
più facile ricorso al credito bancario. È certo, in ogni caso, che
essa aveva leso non pochi interessi e soprattutto aveva impedito
che i denari del Banco servissero a finanziare speculazioni e campagne elettorali. Ormai, però, da quasi due anni, Notarbartolo
era stato estromesso dal Banco, sostituito nella carica dal duca
della Verdura, e perciò è difficile credere che la sua morte fosse
una vendetta postuma dei suoi avversari con a capo Raffaele Palizzolo, che aveva fatto parte del Consiglio d’amministrazione
dell’Istituto. Piuttosto, nel clima di scandali bancari denunciato
alla Camera dal Colajanni nel dicembre 1892, che a Palermo
portò alla sostituzione del Verdura con un commissario e poi con
il duca di Craco, l’ombra dell’ex direttore generale, per nulla rassegnato ad accettare la sconfitta, dovette apparire sempre più minacciosa agli occhi di coloro che ne avevano osteggiato l’attività
e ne temevano rivelazioni compromettenti, tanto da decretarne
la morte.
Non fu facile ai familiari del defunto riuscire a portare sul
banco degli imputati il principale indiziato onorevole Palizzolo.
Conosciamo già il personaggio, ma il ritratto che ne fa Gaetano
Mosca – il quale pur non credeva alla sua colpevolezza, perché
a suo parere non poteva essere mafioso un uomo come Palizzolo incapace di mantenere un segreto – è felicissimo:
Raffaele Palizzolo fu un uomo che senza avere studi o meriti speciali, senza avere alcuna notorietà nelle arti produttive della ricchezza e neppure nelle professioni liberali, senza possedere una grande
fortuna, senza essere inscritto ad alcuna parte politica, si diede alla
vita pubblica ed a forza d’attività, di audacia e, bisogna dirlo, d’improntitudine, vi ebbe fortuna [...]. Fu forse il primo che diffuse a Pa-
VI. L’età giolittiana
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lermo l’arte di cattivarsi i suffragi degli elettori mediante favori personali [...]. Fece un numero grandissimo di favori di ogni genere,
grandi e piccini, leciti ed illeciti [...]. A Palazzo Reale aveva una base elettorale granitica e riuscì sempre senza comprare a danari il voto di un elettore.
Dopo quasi sette anni dal delitto, la tenacia di Leopoldo Notarbartolo, figlio della vittima – che aveva trovato un validissimo
aiuto nel socialista Giuseppe Marchesano, avvocato di parte civile nel processo che si teneva presso la Corte d’Assise di Milano – riuscì a ottenere dalla Camera dei deputati l’autorizzazione
a procedere e l’onorevole Palizzolo fu immediatamente arrestato
(dicembre 1899), mentre in città si costituiva un Comitato presieduto dal principe di Camporeale, al quale aderivano anche i
socialisti, allo scopo di onorare la memoria del defunto con un
busto marmoreo nell’atrio della sede del Banco di Sicilia (allora
nell’attuale Palazzo delle Finanze di corso Vittorio Emanuele) e
di contribuire alle spese processuali della famiglia.
La reclusione di Palizzolo non impedì ai suoi fautori di ripresentarne la candidatura alle successive elezioni politiche (giugno 1900). Chi erano costoro? «Sono amici del Palizzolo – comunicava il questore Sangiorgi al prefetto De Seta – tutti i mafiosi, i pregiudicati, coloro che costituiscono permanente pericolo per la sicurezza pubblica siccome gente dedita ai delitti di ogni
genere contro le persone e le proprietà. Costoro non risparmieranno minacce, violenze e intimidazioni per costringere gli elettori onesti a votare pel loro candidato» e imporre «un rappresentante non voluto dalla maggioranza del Paese, con quegli stessi mezzi che [la mafia] adopera per imporre i guardiani ai padroni dei fondi e le taglie ai ricchi proprietari».
A distanza di quasi un decennio, la polizia finiva con il riconfermare sostanzialmente i duri giudizi sul personaggio espressi
sin dal 1888 dai redattori dell’«Isola» e ribaditi da «L’Amico del
popolo», che nel 1892 aveva denunciato la sua ricerca di appoggi presso i peggiori strati sociali, «dove può contare le clientele
a lui più affezionate», e lo aveva considerato «di princìpi molto
incerti, vero opportunista, d’onestà politica molto discussa e molto discutibile». Contrariamente a quanto ne pensassero personaggi come Pitrè, che testimoniò a favore di Palizzolo, giudicato
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Palermo
«persona distinta, corretta, vero gentiluomo [...] correttissimo e
onesto amministratore», la polizia non aveva quindi dubbi sul fatto che il parlamentare, se non mafioso, fosse un protettore di mafiosi. Quanto poi alla sua correttezza amministrativa testimoniata dal Pitrè, altri episodi documentano purtroppo esattamente il
contrario; e ciò indipendentemente dalla sua colpevolezza o no
nel delitto Notarbartolo.
I più impegnati a favore della rielezione di Palizzolo erano
Domenico Pedone e i figli Giovanni e Giuseppe, già denunziati
dalla Questura all’autorità giudiziaria come noti mafiosi. Non
erano però i soli a visitare giornalmente gli elettori del primo collegio e a chiedere o il voto o l’astensione: in ognuno dei rioni che
costituivano il collegio – Palazzo Reale comprendeva anche l’Albergheria e le zone esterne di Altarello, Falsomiele, Villagrazia,
Zisa e Uditore – aveva «sede un gruppo dalla vasta organizzazione di mafia diretta a commettere reati, che da tempo remoto
infesta l’agro palermitano» e che – continuava il questore – sosteneva la candidatura Palizzolo, perché «la di lui salvezza essa
considera salvezza generale di tutti i mafiosi che quest’ufficio [=
Questura] ha denunciato all’Autorità Giudiziaria». La candidatura aveva anche l’appoggio della «Sicilia Cattolica» ed era fortemente sostenuta da un comitato di nobildonne organizzato dalle sorelle di Palizzolo, una delle quali, la duchessa di Villarosa,
aveva coinvolto la madre di Florio, donna Giovanna D’Ondes, e
lo stesso Ignazio, che faceva pressioni su Marchesano, forse già
allora anche suo avvocato, perché, in cambio di un appoggio al
quarto collegio, non presentasse la sua candidatura a Palazzo
Reale. Non mancavano, comunque, le voci di dissenso, prime fra
tutte quelle della maggiore stampa quotidiana, che concordava
sull’inopportunità della candidatura. Il Camporeale, in un comunicato stampa, pur augurandosi che l’imputato fosse innocente, «non fosse altro pel decoro della città che tante volte lo ha
eletto a pubbliche cariche», rilevava anch’egli l’inopportunità
della candidatura, che sarebbe stata «purtroppo interpretata in
tutta Italia in modo ingiurioso per la nostra città. E non ce ne è
bisogno!».
Lo scrutinio non fu favorevole all’onorevole Palizzolo, che riportò 687 voti contro gli 816 del suo avversario, lo sconosciuto
avvocato Giuseppe Di Stefano Napolitani, che si era trovato con-
VI. L’età giolittiana
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tro anche i pochi socialisti del collegio, i cui capi, Cappellani e
Scelsi, parteggiavano per Palizzolo, ma aveva potuto godere dell’appoggio determinante della Massoneria. Il «Giornale di Sicilia», nell’esultare per la sconfitta dei candidati governativi nei
quattro collegi della città (gli eletti appartenevano all’opposizione costituzionale o radical-socialista), rimarcava come l’elezione
del Di Stefano significasse la sconfitta di «tutte le forze ignominiose che si raccoglievano intorno al nome di Raffaele Palizzolo,
forse innocente, ma in carcere per reato comune, e certamente
responsabile da lunghissimi anni delle condizioni tristi di tanta
parte del corpo elettorale palermitano».
Ma neppure i socialisti erano indenni da collusioni con la mafia. Già Garibaldi Bosco aveva tentato invano di coinvolgerla nel
movimento dei Fasci, convinto che senza il suo concorso nessun
moto insurrezionale avrebbe avuto successo. Neppure adesso, secondo fonti confidenziali della polizia, la mafia dei rioni Settecannoli e Brancaccio, che facevano parte del quarto collegio (Tribunali), era disposta a mettersi con i socialisti sostenendo la candidatura Marchesano, perché questi era l’avvocato di parte civile contro Palizzolo nel processo Notarbartolo. Grazie alla mediazione di tale Migliore e di altri conosciuti in carcere al tempo
della repressione dei Fasci, l’ingegnere Drago poté incontrarsi
con i capi mafia dei rioni per convincerli ad appoggiare Marchesano, o quanto meno a non ostacolarlo. Oltre ai socialisti, che
finanziati dai socialisti tedeschi e francesi si mobilitarono al completo (Barbato, Bosco, Drago), a favore di Marchesano si schierarono Trabia, Florio, parte dell’aristocrazia e della ricca borghesia, la Massoneria, gli studenti universitari e numerosi moderati che avversavano in segreto il deputato uscente Bonanno, che
pur faceva parte dell’opposizione costituzionale al governo Pelloux assieme a Crispi, Rudinì e allo stesso Trabia. Il voto a Marchesano non era quindi il frutto di una improvvisa adesione ai
princìpi del socialismo da parte dell’elettorato palermitano, bensì della simpatia personale per il coraggioso avvocato di parte civile nel processo Notarbartolo, del desiderio di cambiamento,
dell’intervento finanziario di Florio, accertato da un’inchiesta
della direzione del Partito socialista nel 1902, e infine anche dell’antipatia per Bonanno. La lotta fu all’ultimo voto: Marchesano
prevalse per soli 3 voti (1.038 contro 1.035), ma nel dicembre
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Palermo
successivo il ballottaggio fu favorevole a Bonanno, per l’ennesima volta accusato dai socialisti di corruzione elettorale. Marchesano pagava per il regicidio di Monza, che aveva creato in tutta
Italia un clima antisocialista, e per l’atteggiamento assunto dai socialisti palermitani in Consiglio comunale (agosto 1900), che aveva determinato la fine del breve idillio con l’aristocrazia e i moderati e il trionfo della lista della concentrazione monarchico-liberale nelle amministrative di settembre. Negli altri due collegi,
Crispi al secondo e Trabia al terzo non ebbero competitori e vennero entrambi riconfermati.
Le vicende del processo di Milano e l’arresto dell’onorevole
Palizzolo portarono la mafia sulle prime pagine dei giornali nazionali e provocarono un ampio dibattito cui parteciparono non
pochi uomini politici e intellettuali. L’enorme clamore ebbe ripercussioni anche in sede politica, con le dimissioni dal governo
Pelloux del ministro della Guerra generale Mirri, che risultò si
fosse gravemente compromesso con Palizzolo e con la mafia durante la sua permanenza a Palermo in qualità di direttore dei servizi di pubblica sicurezza in Sicilia. Da Milano il processo fu trasferito a Bologna, dove riprese il 9 settembre 1901, appassionando l’opinione pubblica italiana, con gli ampi resoconti forniti dalla stampa locale e nazionale sulle vicende processuali, che
coinvolgevano in qualità di testi le più alte cariche dell’isola e noti esponenti politici nazionali, grazie alla cui connivenza Palizzolo aveva spesso potuto orientare a suo favore gli avvenimenti palermitani e talora persino il corso delle indagini. La sentenza si
ebbe dopo quasi un anno, nel luglio 1902, e fu di condanna a
trent’anni di reclusione per Palizzolo. Il «Giornale di Sicilia» coglieva molto bene il senso del verdetto dei giudici bolognesi:
Non è questa, colpita da una sentenza, soltanto la mafia volgare e
minuscola, che dietro le siepi della nostra bella campagna, o nel buio
dei nostri luridi angiporti, compie le sue sanguinose, tenebrose prepotenze; è la mafia aristocratica e potente, l’alto patronato della delinquenza paesana, la consorteria del farabuttismo pubblico e privato, il germe deleterio che si è infiltrato in tutto l’organismo sociale e
politico; è contro questo insieme di cause patogene che si è rivoltata
la coscienza di una giuria, non per disprezzo o per odio regionale, ma
per desiderio del comun bene, per quel senso istintivo di pietà che è
nei buoni di cooperarsi alla guarigione dei mali altrui. La giuria di Bo-
VI. L’età giolittiana
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logna ha, soprattutto, condannato inesorabilmente il fautore principale della mafia; il potere politico che della mafia si è servito come
strumento di sua prava utilità, e ne ha secondato le tendenze e incoraggiata la espansione, per mezzo non solo dei rappresentanti parlamentari, ma perfino della magistratura, spesso asservita al governo per
fini non sempre giustificabili dalle ragioni di Stato.
Ben pochi però a Palermo si ritrovavano sulle posizioni del
«Giornale di Sicilia»: il verdetto di Bologna apparve in città e nell’isola come una condanna dell’intera Sicilia, voluta dal Nord a
danno del Sud, e innescò una violentissima reazione. I negozi di
Palermo presero addirittura il lutto e, a iniziativa di Pitrè, si costituì un Comitato pro Sicilia in difesa del Palizzolo innocente,
vittima di un iniquo errore giudiziario e di pregiudizi inveterati
contro i siciliani. La stampa settentrionale rincarò allora la dose
e giudicò le agitazioni promosse dal Comitato come la riscossa
della mafia, dimostrando di non riuscire a cogliere appieno l’essenza degli avvenimenti siciliani, come quando aveva voluto giudicare l’intera isola attraverso le colpe di Palizzolo. Al Nord non
ci si rendeva conto che la protesta per la condanna costituiva soltanto l’occasione per manifestare al governo la propria insoddisfazione per il trattamento che l’Italia aveva riservato alla Sicilia
sin dal momento dell’unificazione. Insoddisfazione che proprio
in quegli anni di inizio secolo aveva avuto modo di sostanziarsi
di nuove ragioni e di allargarsi – come abbiamo visto – all’intera classe dirigente isolana, coinvolgendo anche nuovi ceti sociali: Florio e gli operai delle sue industrie, preoccupati di poter perdere le concessioni marittime, dopo aver perduto le commesse
per il neonato Cantiere Navale della città; gli operatori economici che subivano le conseguenze delle difficoltà delle aziende di
Florio; i grandi proprietari terrieri che reclamavano una perequazione fondiaria più favorevole; l’aristocrazia decisa a riaffermare ancora una volta nei confronti del governo nazionale il suo
ruolo di ceto dirigente.
Che la sorte di Palizzolo fosse soprattutto un pretesto lo dimostra il fatto che, ad assoluzione avvenuta, né democratici né
moderati lo vollero nelle loro liste per le amministrative. E poi,
basta leggere l’ordine del giorno approvato nella riunione costitutiva del Comitato pro Sicilia, per rendersi conto che ai parte-
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Palermo
cipanti la sorte di Palizzolo interessava solo sino a certo punto.
Dopo l’invito alla cittadinanza a rimanere tranquilla – e ciò premeva parecchio ai promotori del «pro Sicilia» – e lontana da ogni
passione di parte, si manifestava la fiducia più profonda nei confronti della giustizia e dei magistrati italiani, e anzi si protestava
contro il sospetto che l’agitazione potesse intendersi come ribellione e pressione verso i giudici. La deplorazione per il comportamento dei bolognesi, «dominato dalla idea di purificare la Sicilia» e trasceso in manifestazioni che avevano turbato la serenità
del processo, era l’unico contentino concesso ai palazzoliani. Di
contro, l’unico, ma importante, compito assegnato al «pro Sicilia» era quello di «mantenere stretti i vincoli tra i vari paesi dell’Isola nella tutela degli interessi della Sicilia».
Alla base della mobilitazione c’erano anche altre motivazioni:
non a caso animatori del «pro Sicilia» erano proprio quei democratici che avevano retto il Comune negli ultimi due decenni e ai
quali la mobilitazione sicilianista da essi controllata faceva anche
comodo, perché costituiva il modo migliore per far dimenticare
ai palermitani le loro colpe, attribuendo allo Stato tutti i mali della città e dell’isola. All’assemblea costitutiva del Comitato oltre
ai deputati Sanfilippo, Rossi, Avellone, Turrisi, Di Stefano e Bonanno, che non risulta avessero preso la parola, partecipavano
l’intero stato maggiore del partito democratico con parecchi ex
consiglieri comunali, alcuni dei quali avevano anche avuto nel
passato incarichi assessoriali; diversi massoni; qualche esponente dell’alta aristocrazia; il democratico cristiano avvocato Mangano e monsignor Crisafi, direttore della «Sicilia Cattolica». A favore di Palizzolo si schierarono inoltre Florio e il suo giornale
«L’Ora», per i motivi già indicati; i clericali, che più volte ne avevano appoggiato la candidatura al Comune e alla Camera; «Il Sole del Mezzogiorno», quotidiano dei democratici cristiani; «La
Sicilia» di Catania e quella parte della Destra siciliana che si riconosceva sulle posizioni dell’onorevole Sonnino. È altrettanto
significativa l’assenza dal Comitato dei rudiniani Trabia e Camporeale, l’ex sindaco che aveva voluto rompere con i vecchi sistemi di amministrazione ed era stato costretto a dimettersi (maggio 1901); come quella dei giolittiani che facevano capo all’onorevole Orlando a Palermo e all’onorevole Majorana a Catania, i
quali però comprendevano molto bene come la condanna di Pa-
VI. L’età giolittiana
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lizzolo non fosse altro che l’occasione, «la goccia del vaso», per
porre sul tappeto nazionale il problema siciliano; e infine l’assenza di radicali e socialisti.
L’iniziativa – almeno per quanto riguarda Palizzolo – si concluse con il successo: la Cassazione annullò la sentenza di Bologna e il nuovo processo che si tenne a Firenze assolse il principale imputato per insufficienza di prove (luglio 1904). Ma se i
processi non ne provarono la colpevolezza, Palizzolo – come osservò Mosca – «apparve nella sua luce peggiore, se non delinquente almeno protettore di delinquenti e sospetto perfino di relazioni coi briganti». Poco importava tutto ciò alla classe dirigente palermitana, che nella vittoria dell’imputato vedeva anche
l’assoluzione delle sue colpe e la sconfitta di socialisti e radicali,
che quelle colpe avevano per anni denunciato.
Per gli anni successivi, la presenza della mafia nella vita politico-amministrativa della città è più documentata e finalmente ne
parlano, facendo nomi e cognomi, le stesse autorità governative.
Sino al fascismo, la mafia sarà ormai, come si è detto, una presenza condizionante nella vita del Comune – e conseguentemente dell’intera città – allo stesso modo del disavanzo finanziario,
che verrà eliminato soltanto negli anni della sindacatura Lanza di
Scalea.
3. Palermo boccia l’inchiesta
A Sala delle lapidi, malgrado il profondo ricambio avvenuto
all’interno del Consiglio comunale con le elezioni del settembre
1900, ben poco era cambiato quanto a metodi e sistemi e l’illusione che la sindacatura di Camporeale potesse rappresentare
una svolta, tanto nella vita amministrativa del Comune, quanto
nei rapporti tra il capo dell’amministrazione e il Consiglio, era
durata soltanto pochi mesi. Le dimissioni della giunta nel maggio 1901, che chiudevano la breve parentesi moderata al governo municipale, erano il risultato di una crisi che maturava ormai
da qualche tempo, sulla spinta di ambizioni insoddisfatte e della
preoccupazione che l’amministrazione si occupasse di certe responsabilità del passato che si volevano coprire a tutti i costi.
L’opposizione, guidata dall’onorevole Bonanno, non aveva però
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Palermo
uomini da proporre a capo dell’amministrazione, in quanto lo
stesso Bonanno, essendo deputato, era ineleggibile. Si pensò di
eleggerlo pro sindaco per superare l’incompatibilità, ma poi tra
l’avvocato Di Martino, che aveva votato a favore di Camporeale,
e il riluttante ex deputato Tasca Lanza si optò per quest’ultimo,
che fu eletto con 44 voti e 29 schede bianche.
Giuseppe Mastrogiovanni Tasca Lanza (1849-1917), massone,
era un ex parlamentare del collegio di Cefalù, che era stato a capo della crispina Associazione Democratica e che era poi transitato tra i rudiniani. Secondogenito del conte d’Almerita, era imparentato con i Trabia, gli Scalea, i Trigona e naturalmente i Tasca di Cutò. Ciò però non costituì affatto un vantaggio per lui,
perché tra i più accaniti avversari delle amministrazioni che presiedette si trovò proprio i suoi nipoti: inizialmente il solo cavaliere Giuseppe Lanza di Scalea (figlio terzogenito della sorella e
del principe di Scalea), cui si unirono negli anni successivi anche
il conte Romualdo Trigona (marito della nipote Giulia Tasca di
Cutò) e il principe Alessandro Mastrogiovanni Tasca di Cutò (figlio del fratello). Qualche aiuto poteva provenirgli solo dal duca
dell’Arenella (marito della nipote Beatrice Mantegna di Gangi),
ma non risulta che questi abbia mai preso la parola in Consiglio
su problemi essenziali.
La nobiltà dei Mastrogiovanni Tasca era, come sappiamo, di
recentissima acquisizione e per di più il titolo di conte d’Almerita era passato al fratello primogenito Lucio, che lo aveva aggiunto come una fastidiosa appendice ai ben più prestigiosi titoli acquisiti con il matrimonio con l’ultima erede dei Filangieri
principi di Cutò, duchi di San Martino, duchi della Fabbrica,
marchesi di Lucca, ecc., titoli passati in eredità ad Alessandro.
Diversamente dal fratello Lucio, che come principe di Cutò non
volle rinunziare a nessuno dei costosi privilegi che il suo nuovo
rango comportava e perciò continuò a vivere come gli ultimi Gattopardi, Giuseppe mise a frutto quello spirito d’intraprendenza
che aveva consentito ai suoi antenati Mastrogiovanni di elevarsi
economicamente e socialmente sino a imparentarsi con i Lanza
di Trabia, una delle più prestigiose famiglie dell’aristocrazia siciliana. Proprietario di latifondi a Leonforte e a Valledolmo, si dedicava con particolare cura alle aziende modello di Regaleali (Valledolmo) e di Villa Camastra alla periferia della città (oggi me-
VI. L’età giolittiana
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glio conosciuta come Villa Tasca Lanza). Camastra era appartenuta per secoli ai Trabia e gli era pervenuta nel 1876 per donazione della madre Beatrice. Il padre Lucio ne aveva fatto un luogo ameno, tappa obbligata di tutti i visitatori della città, tra cui
membri di famiglie regnanti. Giuseppe utilizzò il resto della tenuta per impiantarvi una moderna azienda, dove coltivava agrumi, viti e gelsi; produceva industrialmente il vino Camastra (medaglia d’oro all’Esposizione di Roma del 1897); allevava bachi,
con rendimenti superiori del 20-40 per cento rispetto agli allevamenti lombardi, vacche svizzere e danesi, cavalli inglesi e api.
L’azienda era dotata di modernissime stalle, cantine, fienili, concimaie, di un impianto idraulico azionato da una caldaia alimentata a carbon fossile, che produceva forza motrice anche per la
trebbiatrice meccanica. Senza dubbio, si trattava della più moderna azienda agraria della Conca d’Oro.
Il nuovo sindaco compose una giunta di elementi quasi tutti
di prima nomina e senza precedenti esperienze amministrative e
dichiarò che avrebbe adottato il programma di Camporeale, che
condensò nei due termini «energia» e «moralità». Ma poté attuare ben poco, perché presto si determinò una spaccatura all’interno della giunta e della stessa maggioranza, a causa del sussidio concesso alla Camera del lavoro, alla cui inaugurazione (settembre 1901) il sindaco partecipò, allo scopo – secondo «La Sicilia Cattolica» – di procurarsi le simpatie dei socialisti palermitani e la benevolenza della «Battaglia» del nipote Alessandro Tasca, con il risultato di scontentare i suoi amici, che da allora
cominciarono a considerarlo un filosocialista, e di non ingraziarsi neppure i socialisti, che continuarono ad attaccarlo sul loro
giornale. Nelle intenzioni di Garibaldi Bosco, che ne era stato il
promotore, la Camera del lavoro avrebbe dovuto contribuire alla composizione delle vertenze che interessavano i lavoratori,
svolgendo un’azione di arbitrato che evitasse gli scioperi e aiutasse gli industriali nel loro sforzo di dotare la città di industrie
moderne.
Le elezioni nel secondo collegio, in seguito al decesso di Crispi, provocarono altre lacerazioni. Si contendevano il seggio due
fedelissimi dello statista scomparso, Marinuzzi e Muratori. Vinse con ampio margine Marinuzzi, che godeva dell’appoggio dei
moderati, del quotidiano «La Sicilia Cattolica» e di un comitato
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Palermo
presieduto dal duca della Verdura, del quale facevano parte anche Scalea, Paternò, Oliveri. Muratori era invece appoggiato dagli avversari della ex giunta Camporeale.
In ottobre, il Consiglio comunale non riusciva a convocarsi
per mancanza di numero legale, ma il colpo decisivo, che portò
alla crisi e al quarto scioglimento del Consiglio in un quinquennio, lo diede la pubblicazione dei risultati dell’inchiesta sul Comune. Già le anticipazioni dei giornali, prima ancora che la relazione fosse consegnata al sindaco e allo stesso ministro dell’Interno, provocarono a metà dicembre le proteste e le dimissioni
di Tasca Lanza, seguite da quelle della giunta. Poiché le censure
della Commissione di inchiesta non risparmiavano le amministrazioni nelle quali, sia il sindaco che altri che facevano parte
della sua maggioranza, avevano avuto in passato incarichi assessoriali, da allora i due schieramenti cominciarono ad assumere
come elemento fondamentale di differenziazione l’adesione o
meno ai risultati dell’inchiesta. Per Camporeale, che aveva guidato l’opposizione alla giunta Tasca Lanza, il Consiglio avrebbe
dovuto autosciogliersi, per lasciare al corpo elettorale il giudizio
sulle conclusioni dell’inchiesta, ma la parte avversa riteneva che
lo scioglimento avrebbe privato il Consiglio dell’innegabile diritto di discuterle. Le dimissioni dei consiglieri della minoranza
convinsero però anche la maggioranza a seguirne l’esempio, per
far cessare un’agitazione che ritenevano artificiosa e che, come è
ovvio, coinvolgeva anche tutta la stampa cittadina. Il Consiglio
venne così sciolto e all’inizio del 1902 a Palazzo delle Aquile ritornò un regio commissario, il commendatore Pietro Veyrat
(Grenoble 1842-Oneglia 1907), che nel 1893-1894 era già stato
alla Prefettura di Palermo come consigliere delegato.
Alle nuove elezioni generali dell’aprile successivo le forze liberali si presentarono ancora una volta divise. Pomo della discordia naturalmente le conclusioni della Commissione di inchiesta, attorno a cui ruotò tutta la campagna elettorale. Da una
parte stavano coloro che le accettavano e dicevano di voler rompere con i criteri amministrativi che, secondo l’inchiesta, avevano portato il Comune alla crisi finanziaria. Dall’altra c’erano coloro che le contestavano e che gli avversari accusavano di voler
continuare negli antichi sistemi di gestione amministrativa. I primi, appoggiati da «L’Ora», si battevano perché in Consiglio si fa-
VI. L’età giolittiana
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cesse meno politica e più amministrazione, nella convinzione che
«il predominio della politica al Palazzo della città e le clientele
elettorali che ne derivavano sono state le cause precipue dei mali che tutti deploriamo». Lo affermava un manifesto di un Comitato centrale amministrativo presieduto dal senatore Guarneri, sostenitore di una lista che gli avversari definivano clerico-moderata e della quale facevano parte ex moderati, ex democratici
e clericali, tra cui Camporeale, Marinuzzi, Peppino Scalea, Trabia, Pitrè, Arezzo – direttore dell’Unione cattolica del lavoro, una
associazione di lavoratori sorta l’anno precedente per limitare
l’influenza della Camera del lavoro –, Mangano, vicedirettore del
«Sole del Mezzogiorno», il nuovo quotidiano cattolico della città,
e altri ancora.
Se i clerico-moderati sfumavano al massimo le tinte politiche,
i democratici le accentuavano e presentavano un programma assai vicino a quello dei socialisti, con al primo posto la riforma tributaria a vantaggio delle classi popolari. Godevano dell’appoggio del prefetto, a cui Giolitti sembra avesse ordinato di impedire a qualunque costo l’elezione di Camporeale. Ma i radicali, che
non accettavano per ragioni politiche di entrare a far parte della
lista clerico-moderata, si rifiutavano – per ragioni morali – di accettare la candidatura nella loro lista, facendo così chiaramente
intendere che consideravano responsabili dei mali del Comune i
candidati della lista democratica e non i clerico-moderati.
Contrariamente a quanto pensava Camporeale, l’elettorato
(9.006 votanti su 16.613 iscritti, ossia il 54 per cento) diede torto alle conclusioni della Commissione di inchiesta e ragione a Tasca Lanza, che fu il primo degli eletti, e ai democratici, che riportarono un successo strepitoso con ben 60 eletti, contro gli appena 10 della lista clerico-moderata. I radicali non riuscirono a
ottenere alcun seggio, mentre i socialisti – dopo la brevissima parentesi del luglio-agosto 1900 – rientravano nuovamente a Sala
delle lapidi con i loro elementi più rappresentativi. La rappresentanza aristocratica si riduceva ormai a pochissimi elementi e
la borghesia professionale rimaneva definitivamente padrona del
campo, anche se per la carica di sindaco sarà spesso costretta a
ricorrere ancora ad aristocratici.
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4. Le municipalizzazioni
Sindaco fu rieletto Tasca Lanza (aprile 1902), il quale, forte
di una robusta maggioranza – costituita da numerosi assessori di
prima nomina, tra cui il barone Colnago e l’avvocato Napoli, due
ex socialisti che nel 1895 erano stati arrestati e destinati al domicilio coatto –, avviò un programma di maggiore apertura verso i problemi dei ceti subalterni e recepì l’invito del commissario Veyrat a tentare qualche esperimento di municipalizzazione
dei servizi pubblici, che proprio nel 1903 veniva regolata da apposita legge. In attesa che la scadenza a fine 1904 del vecchio
contratto per l’illuminazione a gas con l’Impresa Favier, a cui era
subentrata la Società Italiana del Gas, consentisse la municipalizzazione del servizio, fu municipalizzato lo scavo delle fosse e
dei lavori di manutenzione e pulizia del cimitero e furono impiantati un mulino e dei panifici municipali, capaci di una produzione giornaliera di 500 q di farinacei e 200 q di pane, che venivano venduti a prezzi di costo, costringendo le aziende private a mantenere anch’esse bassi i prezzi di vendita.
Mentre si studiava l’opportunità dell’impianto di un più grande mulino con annesso panificio, l’amministrazione, rinnegando
un trentennio di liberismo commerciale, ripristinò il calmiere sui
generi annonari di prima necessità, un retaggio dell’età borbonica che le amministrazioni liberali avevano abbandonato dai tempi della sindacatura Notarbartolo: il calmiere veniva giustificato
con la necessità di combattere la sfrenata speculazione di alcuni
monopolisti, primo tra tutti Filippo Pecoraino, il quale si rifiutò
di applicarlo e ricorse sino in Cassazione, ma intanto il pretore
lo condannava a tre giorni di arresto. Ebbe successo, finalmente, un ennesimo compromesso per l’illuminazione elettrica delle
borgate (in città continuava a sussistere l’illuminazione a gas), che
sostituiva quella a nafta. Ben poco si fece per risanare la situazione finanziaria del Comune e se le condizioni di cassa migliorarono fu solo grazie al gettito daziario superiore alle previsioni.
L’avvio delle municipalizzazioni e la reintroduzione del calmiere non furono indolori, perché il Consiglio si divise in fautori e contrari. La spaccatura interessò anche la maggioranza e la
stessa giunta, tanto da provocare in tempi diversi le dimissioni di
alcuni assessori, e persino l’opposizione socialista, all’interno del-
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la quale al favorevole Bosco si opponeva Tasca di Cutò, per il
quale la municipalizzazione avrebbe comportato per il proletariato pochi vantaggi e nuove imposte. All’interno della giunta, il
capo dell’opposizione al sindaco era Li Donni, uno dei migliori
penalisti della città, che d’accordo con Bonanno mirava a un rimpasto che escludesse l’assessore alle Finanze Tesauro e consentisse l’ingresso dello stesso Bonanno come assessore delegato e
di altri, in modo da rendere prigioniero di una giunta imposta il
commendatore Tasca Lanza, che aveva sempre mostrato una certa indipendenza nei confronti della «cosca», come Alessandro
Tasca, con un vocabolo che avrà grande successo, aveva definito
il gruppo di potere democratico, paragonato appunto a una associazione di gente di malaffare. Anche il sindaco, che era stato
intanto nominato senatore, pensava a un rimpasto che portasse
in giunta gli uomini migliori del Consiglio, in modo da eliminare i dissensi. Quando, perciò, a fine dicembre 1903, il Consiglio
criticò aspramente la transazione con l’opera pia S. Orsola per la
gestione del cimitero, la giunta preferì ritirare la delibera e presentare le dimissioni. Ma il Consiglio, respingendo a larghissima
maggioranza le dimissioni del sindaco, di cui anzi auspicava il ritorno, e accettando invece quelle della giunta, mise in difficoltà
Tasca Lanza, il quale, per solidarietà nei confronti della giunta,
fu costretto a insistere nelle sue dimissioni.
Quando già si riparlava di un nuovo scioglimento del Consiglio, la maggioranza consiliare ritenne di lasciare a capo dell’amministrazione il pro sindaco Bonanno, che in quanto deputato
non era eleggibile a sindaco. Con Pietro Bonanno (1863-1905)
ritornava nuovamente ai vertici dell’amministrazione la borghesia, non però quella imparentata con l’alta aristocrazia, né quella dell’alta finanza o dei grandi imprenditori, bensì la media, se
non addirittura la piccola borghesia. Egli era figlio di un costruttore di carrozze, mastro Stefano, che godeva di una certa
agiatezza, se nel ’60 aveva potuto armare una squadra di popolani della Kalsa per andare incontro a Garibaldi. Studente della
facoltà di giurisprudenza, sposò in municipio, col rito civile,
Francesca di Spedalotto, una fanciulla aristocratica, la cui famiglia si era opposta alle nozze sino a rifiutarsi di intervenirvi. Consigliere comunale dal 1887 e più volte assessore, era stato ripetute volte eletto deputato, ma quasi sempre tra contrasti e recri-
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minazioni. Ormai, dopo la morte di Crispi, aveva assunto decisamente la leadership dei democratici palermitani, le cui file aveva ricomposto, e si avviava quasi certamente a una brillante carriera politica in campo nazionale, se la morte non lo avesse colto ancora nel fiore degli anni, all’inizio del 1905.
I precedenti non giocavano sicuramente a suo favore e ben
pochi gli davano credito: a parte i giudizi dei socialisti, c’erano
le continue accuse di corruzione elettorale, talvolta accertate anche dalla magistratura, che facevano storcere il naso a più d’uno.
Il «Giornale di Sicilia», che aveva appoggiato Tasca Lanza, era
seriamente preoccupato che all’ombra della nuova giunta Bonanno potesse ricomporsi la consorteria che aveva portato ai continui scioglimenti del Consiglio e all’inchiesta sul Comune. Ma
Bonanno stupì tutti, forse anche i suoi stessi sostenitori, perché
come capo dell’amministrazione si comportò in modo assai ben
diverso da come i suoi precedenti potevano far prevedere, sino
a lasciare di sé un’immagine di efficienza e serietà destinata a durare lungamente nella memoria dei palermitani.
Assicuratosi che Giolitti – da qualche mese ritornato alla presidenza del Consiglio e nei cui confronti la giunta si era affrettata a esprimere un atto di devozione – avrebbe tollerato la pro sindacatura, consentendogli di non rinunciare al seggio parlamentare, Bonanno si pose immediatamente all’opera per realizzare il
suo programma, che prevedeva tra l’altro – oltre al risanamento
finanziario – la prosecuzione dell’opera di municipalizzazione
iniziata dalla precedente giunta, con estensione a tutti i servizi
possibili; un’attività amministrativa a servizio non soltanto di alcune classi sociali – come in passato quando si stanziavano milioni per i teatri –, bensì a vantaggio di tutti i ceti, grazie al potenziamento dei servizi idrici, igienici, elettrici e annonari; la continuazione dell’opera di risanamento e la sistemazione dei rioni
Conceria e San Giuliano; la ripresa dell’opera di modernizzazione della città da molti anni trascurata. Il «Giornale di Sicilia» poteva rilevare compiaciuto «l’adozione che la vecchia consorteria
paesana fa del patrimonio delle idee e dei metodi che si appartengono originalmente agli avversari di essa, cioè al giovane partito socialista che la ha vivacemente combattuta». E Bonanno,
«pur restando emanazione di quella consorteria che da lunghi anni spadroneggia nella coscienza degli elettori e nell’amministra-
VI. L’età giolittiana
233
zione del Comune, ha avuto, più che il coraggio, la avvedutezza
di abbracciare le idee dei suoi avversari ed iniziarne prontamente l’attuazione».
L’amministrazione sorta senza dubbio da ambizioni personali metteva a tacere l’opposizione, facendone proprio il programma e soprattutto facendo trionfare, finalmente, le idee sulle persone. Bonanno peraltro operò anche un’intelligente opera di ricucitura, che se non riuscì con Tasca Lanza, che gli rimase sempre ostile, valse a recuperare Tesauro e il socialista Bosco, lasciati opportunamente a dirigere e a occuparsi del servizio di municipalizzazione del pane, di cui erano stati ardenti propugnatori e
che venne potenziato grazie all’acquisto di un forno a vapore di
marca tedesca. Ostili continuarono a rimanergli anche i riformisti della «Battaglia», i quali non lasciavano passare occasione per
attaccarlo duramente come in passato.
I rapporti tra le fazioni socialiste erano notevolmente peggiorati e la spaccatura coinvolgeva anche la Camera del lavoro, il cui
segretario, ragioniere Nenè Raimondi, alle amministrative parziali del luglio 1904 per il rinnovo del terzo del Consiglio, accettò
la candidatura nella lista dei partiti popolari, che comprendeva
radicali e riformisti, mentre gli operai della Camera formavano
una loro lista di sei nomi. La lotta elettorale – come è noto – era
il terreno preferito dai riformisti, che non esitarono a cercare alleanze e a stringere accordi con l’aristocrazia moderata in funzione anti-Bonanno. Al Circolo socialista – anticipando il popolarismo degli anni successivi – si pensò così all’opportunità di una
lista unica tra riformisti, radicali, moderati che facevano capo a
Camporeale e Trabia e fazione democratica del senatore Tasca
Lanza, un ‘fascio’ cioè comprendente le forze di opposizione all’amministrazione Bonanno. Gli intransigenti erano invece orientati per l’astensione e il ritiro da qualsiasi lotta elettorale per dedicarsi all’organizzazione operaia. Per l’astensione si battevano
anche gli anarchici e perciò – svanita la possibilità della lista comune per il ripensamento dei riformisti sull’opportunità di una
alleanza con le forze aristocratiche e borghesi – la lista radicalsocialista aveva ben poche possibilità di successo.
E infatti non valsero né l’assicurazione di Tasca di Cutò sull’appoggio alla lista popolare del principe di Camporeale e del
senatore Tasca Lanza, che facevano anche propaganda contro
234
Palermo
Bonanno per non farlo risultare tra i primi; né ancora – come osservava il questore – l’ingaggio di «persone estranee ai partiti
avanzati ma alquanto mafiose, per imporsi con la forza a coloro
che tentino la corruzione». La vittoria di Bonanno non poteva
essere più completa, perché – oltre a risultare il primo degli eletti, precedendo di mille voti il cavaliere Vincenzo Florio, fratello
di Ignazio, e a far eleggere tutti i suoi amici – riuscì anche a scegliersi la minoranza, facendo convogliare parte dei suoi voti su
cinque candidati radicali a lui graditi, grazie al sistema della scheda girante, cioè con l’inserimento a turno nelle schede dei cinque
nomi della minoranza da eleggere al posto di nomi della maggioranza (luglio 1904). Lo strepito dei socialisti contro i radicali
eletti, accusati di aver ricevuto voti acquistati, fu tale da costringerli a dimettersi, ma il Consiglio non prese mai atto delle dimissioni.
Il successo dei democratici di Bonanno fu agevolato dal ritiro dei moderati, che sarà ormai pressoché definitivo, e dalla incapacità dei cattolici di organizzarsi elettoralmente, anche per i
contrasti tra gli intransigenti, che facevano capo al presidente del
Comitato regionale siculo dell’Opera dei Congressi, Giuseppe
Giglio Tramonte, e il gruppo dei giovani democratici cristiani,
contrasti che erano stati assai accesi negli ultimissimi anni del secolo e che erano riesplosi dopo la recentissima scomparsa del cardinale Celesia: la lista clericale, malgrado l’intervento del Comitato diocesano, andò così incontro a un completo insuccesso.
Bonanno riconfermò il successo nelle politiche di novembre,
indette anticipatamente da Giolitti in risposta allo sciopero generale di settembre proclamato dal partito socialista, dopo alcuni eccidi di lavoratori da parte delle forze dell’ordine in Sardegna e in Sicilia (Castelluzzo, Giarratana). Lo sciopero aveva interessato anche Palermo, per l’adesione degli operai del Cantiere Navale, dei tipografi, dei portuali, degli scalpellini e di altre
categorie. Le elezioni si svolsero in un’atmosfera tranquilla, anche perché Palizzolo, assolto nel processo di Firenze, non ripresentò la sua candidatura e perciò la riconferma degli uscenti Di
Stefano, Marinuzzi, Trabia e Bonanno non fu assolutamente in
discussione.
Ma Bonanno non poté godere a lungo del successo, perché
all’inizio del 1905 una polmonite lo portò alla tomba in pochis-
VI. L’età giolittiana
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simi giorni, tra il compianto unanime dei palermitani, cui si unirono persino «La Battaglia» – che rese omaggio alla sua generosità e al suo coraggio e lo considerò il migliore dei suoi, anche se
aveva combattuto sino all’ultimo i socialisti «con tenacia, con una
brutalità che era la sua lealtà» – e la Camera del lavoro, i cui rappresentanti parteciparono ai funerali, in considerazione del fatto
che il sindaco si era adoperato per l’attuazione di provvedimenti favorevoli alle classi lavoratrici. Effettivamente, la sindacatura
Bonanno segnò una parentesi positiva nella vita amministrativa
della città, per l’attenzione dedicata ai bisogni dei ceti subalterni e la risoluzione in tempi molto brevi di annosi problemi. Particolare impegno dedicò alle opere pubbliche, tra cui la costruzione del primo tronco della strada sul Monte Pellegrino e il rilancio dei lavori di risanamento e di costruzione della via Roma,
in virtù di una legge da lui sollecitata, che autorizzava l’amministrazione a una diversa utilizzazione del residuo mutuo del risanamento. Il suo seggio parlamentare passò al duca dell’Arenella,
che gli avversari consideravano analfabeta e col solo merito di essere figlio del patriota Corrado Valguarnera, principe di Niscemi: grazie ai voti dei clericali, ebbe la meglio sul cugino Alessandro Tasca, a sua volta accusato peraltro di corruzione elettorale, sia dalla polizia che lo denunziò alla magistratura che dal
socialista rivoluzionario Borruso, il quale aveva addirittura proposto la nomina di una commissione di inchiesta.
A Palazzo delle Aquile a Bonanno successe il commendatore
Girolamo Di Martino (1860-1915), che godeva di molte simpatie anche tra gli avversari per la sua disponibilità, che talora però
diventava debolezza, e che aveva avuto modo come assessore in
diverse giunte di accumulare una vasta esperienza amministrativa. Rispetto a Tasca Lanza, che comunque non era disposto a ricandidarsi, era sicuramente più controllabile da parte del gruppo di potere democratico che, dopo la caduta di Camporeale,
aveva ripreso il controllo del Comune. Di Martino riprese il programma di municipalizzazione e in dicembre indisse un referendum popolare che, con 8.708 voti a favore su 9.823 votanti, si
pronunziò per la costruzione di un grande mulino municipale,
che non fu mai realizzato malgrado la Cassa depositi e prestiti si
fosse affrettata a concedere il mutuo per l’importo necessario. La
sindacatura Di Martino durò però appena un anno. I soliti con-
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Palermo
trasti all’interno della maggioranza – provocati dagli amici del defunto sindaco che, guidati da Empedocle Restivo, lamentavano
la mancata esecuzione del programma Bonanno, che Di Martino
aveva dichiarato all’inizio di far suo – convinsero il sindaco a presentare le dimissioni, provocando le proteste dei consiglieri di
parte moderata per le continue crisi municipali causate da fatti
esterni al Consiglio: Di Martino, infatti, cadeva senza che il Consiglio gli avesse mai manifestato la sfiducia.
Nel marzo 1906 per la terza volta ritornava così a capo dell’amministrazione il senatore Tasca Lanza, con una giunta di coalizione, della quale facevano parte anche alcuni degli assessori
uscenti, due consiglieri dell’antico gruppo Bonanno e due del
gruppo moderato. Tasca Lanza riprese la bandiera delle municipalizzazioni, preoccupando «L’Ora», che lo invitava a non discostarsi dal programma Bonanno – che farà comunque, almeno
a parole, da costante punto di riferimento per tutte le giunte sino alla guerra mondiale – e a considerare anche altri bisogni della città, più vivi e urgenti, come la «rigenerazione edilizia», con
particolare riferimento al sistema viario e alla pavimentazione, in
condizioni disastrosissime. Un nuovo referendum popolare decise la municipalizzazione del gas con 8.083 voti a favore e 104 contrari su 18.681 elettori (aprile 1906). Non furono necessari nuovi impianti, perché già Di Martino aveva avviato la pratica per
l’acquisto dell’azienda della Società Italiana del Gas. Grazie alla
gestione pubblica, i privati pagavano il gas a prezzi ridotti e il
Comune veniva a economizzare più della metà della spesa sino
ad allora sostenuta per l’illuminazione viaria e degli edifici comunali. Dovette però affrontare antipatiche controversie col personale esecutivo, che, pur avendo avuto miglioramenti salariali,
non la smetteva di manifestare e scioperare, nella convinzione che
– come rilevava nel 1909 il regio commissario Bladier – dovesse
essere il solo ad avvantaggiarsi della nuova gestione, una convinzione che purtroppo è stata sempre diffusissima tra il personale
delle aziende municipalizzate o nazionalizzate.
In occasione della venuta a Palermo dei sovrani (maggio
1906), si svolse in piazza Ucciardone la cerimonia della posa della prima (e ultima!) pietra del grande mulino municipale, il cui
progetto comprendeva anche un pastificio e un panificio. Vittorio Emanuele III comprese che lo si era voluto strumentalizzare
VI. L’età giolittiana
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e trattò gli amministratori piuttosto duramente. Quattro anni dopo, al tempo della sindacatura Trigona, il Consiglio, unanime, inclusi i socialisti che facevano parte della maggioranza, decise di
revocare la deliberazione sull’impianto del mulino. In attuazione
di un altro punto del programma Bonanno, nell’aprile 1906 fu finalmente istituito il servizio di refezione scolastica, anch’esso impostato dalla precedente giunta Di Martino. Nei primi anni ne
usufruivano circa 10.000 alunni.
La municipalizzazione dei servizi continuò a essere al centro
della successiva campagna elettorale per il rinnovo parziale del
Consiglio (luglio 1906). Gli avversari della municipalizzazione
erano sostenuti da Pecoraino, un industriale che dal nulla era riuscito a creare una fortuna colossale. Tasca Lanza si impegnava
perché i palermitani avessero «pane a buon mercato», mentre il
suo avversario Camporeale parlava di «pane a giusto prezzo». La
campagna elettorale provocò nuove fratture sia tra i democratici, sia tra i socialisti, sia ancora tra i radicali. Tra i democratici
era fortemente contestata la ricandidatura del Tesauro. Il sindaco avrebbe voluto lasciar fuori parecchi dei consiglieri uscenti,
ma alla fine fu costretto a limitare il rinnovamento solo all’indispensabile, per far posto nella lista a un candidato moderato e ad
alcuni amici socialisti di Florio: Bosco, in rappresentanza della
Camera del lavoro, e Lo Vetere e Barbera, come membri della
Lega Commerciale, i quali aderivano per l’impegno di Tasca Lanza a favore della realizzazione di un quartiere industriale. Ufficialmente però la Lega Commerciale aderiva con alcuni suoi rappresentanti alla lista moderata di Camporeale. Inoltre, la presenza dei socialisti Bosco, Lo Vetere e Renzo Barbera, un commerciante di olio originario di Trapani, nella lista del sindaco era vivacemente contestata dal gruppo Tasca-Drago: il partito socialista aveva peraltro una sua lista appoggiata dalle leghe operaie.
Liti anche in casa radicale, dove si contestava l’accordo con Camporeale, la cui lista comprendeva anche l’archeologo Salinas, designato dal Circolo cattolico, e rappresentanti del Circolo dei cacciatori. Il «Giornale di Sicilia» rilevava come
la lotta di programmi che si vuol dare ad intendere [...] è [...] la maschera con cui si nascondono le solite e vecchie competizioni personali, con questo di più e di peggio: che la falange di tutti coloro che
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Palermo
sono interessati a mandare a monte la municipalizzazione del pane e
in ispecie la costruzione del grande molino, si è gittata a corpo perduto in mezzo alla lotta e si è qua e là [il corsivo è mio] infiltrata per
indirizzare a proprio favore la corrente elettorale.
Coloro che erano contrari al grande mulino si annidavano
quindi anche tra i democratici e ciò spiega la lotta alla candidatura Tesauro, il quale, assieme a Bosco, era stato il più accanito
sostenitore della sua costruzione.
I democratici conquistarono 20 seggi e pochissimi andarono
alla lista di Camporeale, che faceva così il suo ritorno a Sala delle lapidi, per dimettersi definitivamente due anni dopo. A distanza di sei anni ritornava anche l’onorevole Palizzolo, che nessuno degli schieramenti in lotta aveva voluto inserire nella propria lista, ma che era riuscito egualmente a farsi eleggere. Ciò significa che, malgrado l’assoluzione di Bologna, Palizzolo per i
politici palermitani era un personaggio con il quale non era opportuno riallacciare i rapporti. E tuttavia egli continuava ad avere ancora un notevole peso elettorale, se da solo riuscì a totalizzare 4.239 voti su 10.772 votanti (elettori 19.206), che costituiscono un grosso successo se si pensa ai 4.001 voti di Camporeale o ai 5.989 del primo eletto, il senatore Di Martino.
Il senatore Tasca Lanza effettuò un minuscolo rimpasto, che
consentì il ritorno in giunta dell’avvocato Somma, radicale: proprio quell’anno si era verificata la prima partecipazione dei radicali al governo nazionale, con Sonnino primo ministro. Ma i contrasti in seno alla maggioranza non gli rendevano la vita facile e
tra l’altro non gli consentivano di varare la riforma degli organici, sulla quale la discussione si trascinava da circa sei mesi. L’opposizione gli proveniva soprattutto dal gruppo che aveva fatto
capo a Bonanno, sempre guidato dall’irrequieto assessore alla
Pubblica Istruzione Restivo, che con le sue dimissioni nel giugno
1907 diede praticamente il via alla crisi comunale. Una crisi che
veniva, comunque, da lontano: le lunghe polemiche sulla costruzione di via Roma, sull’adozione del calmiere sulle farine – che
poi il Consiglio di Stato ritenne illegale – e sull’impianto dei panifici e del grande mulino municipale avevano logorato la maggioranza. Si era scoperto, nell’ultimo periodo della gestione Di
Martino, che la via Roma, progettata come rettilineo nel 1886,
VI. L’età giolittiana
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era diventata, nel progetto Giarrusso del 1889 e nelle modifiche
successive dello stesso Giarrusso, una linea spezzata, senza che il
Consiglio comunale ne avesse mai preso coscienza e senza soprattutto che se ne trovassero agli atti le motivazioni. La variante, oltre a rovinare la nuova arteria, aveva provocato notevoli danni finanziari al Comune, ma un ritorno al progetto del 1886
avrebbe comportato la demolizione del palazzo del marchese
Arezzo e di due altri edifici latistanti di recentissima costruzione
(Teatro Biondo e Palazzo Biondo). Con la scusa di non volere
bloccare i lavori, ma in realtà per mettere a tacere la questione,
che coinvolgeva anche le concessioni del terreno di risulta, la
maggioranza che sosteneva Tasca Lanza rigettò perciò una mozione di Giuseppe Scalea sull’istituzione di una commissione di
inchiesta per l’accertamento delle responsabilità. Un anno dopo
dovette però arrendersi alle insistenze dell’opinione pubblica e
approvare la nomina di una commissione governativa, che a fine
1907 accertò poi come la deviazione della strada fosse il risultato di un vero e proprio atto di arbitrio e di favoritismi.
Altri dissidi all’interno della maggioranza aveva provocato la
decisione dell’amministrazione di comportarsi, per mantenere
inalterato il prezzo del pane municipale in una fase di aumento
del prezzo del grano, come l’antico Senato palermitano dell’età
spagnola, e cioè di alterare, secondo i casi, o il peso o la qualità
del pane. Ma la battaglia più vivace si era condotta attorno al problema della costruzione del mulino municipale, che solo pochi
(Camporeale, Scalea, Dagnino, Sangiorgi, Cervello) avevano il
coraggio di dire chiaramente di non volere, ma che nei fatti nessuno voleva, forse neppure gli stessi socialisti che si erano accordati con Pecoraino e tuttavia, assieme ai radicali, strepitavano
contro il partito democratico, accusandolo di insincerità politica
e scarsa correttezza. Era vero infatti che in privato molti democratici ammettevano come la costruzione del grande mulino, a
parte l’elevato costo, non fosse più necessaria, perché – dopo che
nel febbraio 1906 il grande impianto di Pecoraino era stato distrutto da un incendio doloso, con danni pesantissimi – le condizioni del mercato erano cambiate e il monopolio poteva considerarsi abbattuto dai numerosi depositi di farinacei aperti in città
dai più importanti mulini dell’isola e anche della penisola.
A rendere più caotica la situazione era intervenuto anche un
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Palermo
accordo tra Florio e Pecoraino, che si impegnava ad appoggiare
elettoralmente quei socialisti che in passato lo avevano chiamato
affamatore del popolo e che ora, grazie alla nuova alleanza, vedevano la possibilità di impadronirsi in tempi brevi del potere
municipale. I democratici vedevano così la conferma dei loro
dubbi: per essi, gli autori dell’incendio del mulino – che il proprietario stava affrettandosi a ricostruire – e delle bombe che avevano devastato il Palazzo Pecoraino in via Libertà erano i socialisti, proprio allo scopo di mettere l’industriale ancor più contro
i democratici e costringerlo a buttarsi tra le loro braccia. I socialisti rispondevano denunciando la matrice agrario-mafiosa degli
attentati: si era voluto punire Pecoraino per gli acquisti di grani
esteri che danneggiavano gli agrari produttori di grano. Qualche
anno dopo, un deputato socialista denunciò sulla stampa il gioco di Pecoraino: l’importazione di grano dall’estero si risolveva
in un grossissimo contrabbando a danno del fisco, perché egli
non pagava dazi sul grano che si sarebbe riesportato in farina; solo che invece di farina esportava crusca mescolata con sostanze
chimiche che ingannavano le guardie di finanza. In realtà, il contrabbando era alla base della sua fortuna, già da quando aveva
impiantato il suo primo mulino alla Rocca, poco oltre la barriera daziaria. E tuttavia all’analfabeta Pecoraino bisogna anche riconoscere intelligenza non comune, tenacia eccezionale, grande
attaccamento al lavoro e grandissima competenza, doti che contribuirono certamente a farne il titolare di uno dei più importanti
complessi molitori d’Italia e più tardi anche il proprietario di due
quotidiani, «L’Ora» e «Il Mondo» – l’organo dell’Unione Nazionale delle Forze Liberali e Democratiche di Giovanni Amendola –, il cui impegno antifascista ebbe non poco peso nel crollo finanziario che lo travolse attorno alla metà degli anni Trenta.
Prima che a Pecoraino, i socialisti – come si è visto – si erano avvicinati a Florio (da allora furono spregiativamente chiamati
socialisti marca Florio), il quale, in rotta con Giolitti – che aveva negato le commesse militari al Cantiere Navale e messo in discussione il regime delle convenzioni marittime – cercava nuove
alleanze, dopo avere puntato tutto sul perdente Sonnino: era sua
intenzione adoperare la massa controllata dai socialisti contro il
governo, nel momento in cui si fossero ridiscusse le convenzioni
marittime.
VI. L’età giolittiana
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Dopo le dimissioni di Tasca Lanza, la minoranza consiliare capeggiata dal conte Trigona e da Scalea cercò in tutti i modi di impedire l’elezione del successore, che poté essere eletto solo alla
terza votazione con appena 39 voti. Alla scelta come sindaco del
commendatore Francesco Paolo Tesauro (Ficarazzi 1852-Palermo 1922) del gruppo Tasca Lanza, noto sostenitore della costruzione del nuovo mulino municipale, i democratici vollero dare il
significato di una sfida a Pecoraino. Per «L’Ora», con Tesauro –
eletto dopo la rinuncia di Di Martino e del duca dell’Arenella –
«il contado, con il suo sfondo e il suo profumo di bassa corte,
[era] elevato alla prima magistratura della città», con chiaro riferimento al luogo di nascita del nuovo sindaco: Ficarazzi. Tesauro non aveva grande cultura e come assessore alla Finanza era
stato parecchio criticato, anche dagli stessi democratici che in
passato lo avevano chiamato «finanziere infausto per il Comune
di Palermo»; era per di più testardo e non godeva di grande simpatia, ma non c’è dubbio che fosse una persona estremamente
seria e un gran lavoratore, come dimostrava il suo impegno nella gestione del mulino municipale. La giunta comprendeva buona parte degli assessori di Tasca Lanza, con due importanti novità: la presenza di un socialista, l’avvocato Cappellani, tra gli assessori e il rafforzamento della partecipazione radicale, perché
assieme a Somma entrava anche l’avvocato Barba. Si trattava di
partecipazione a titolo personale, perché l’Unione radicale palermitana si dissociò, mentre gli altri consiglieri socialisti si erano addirittura dimessi dal Consiglio e Alessandro Tasca cercava
di accordarsi con i ‘veri liberali’ per un blocco di tutte le forze
oneste che facesse argine all’avanzata clericale, considerata pericolosa, e assicurasse il retto funzionamento del Comune.
5. Tra popolarismo e nasismo
La risicatissima maggioranza che sorreggeva l’amministrazione Tesauro venne meno subito dopo le amministrative parziali
del luglio 1908, completamente sfavorevoli ai democratici, che
per la terza volta impostarono la campagna elettorale sull’immancabile costruzione del grande mulino, alla quale nessuno ormai più credeva. Contro il gruppo di potere municipale si rea-
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Palermo
lizzò allora anche a Palermo l’alleanza – già tentata in precedenza – tra partiti di ispirazione proletaria e gruppi di opposizione
aristocratici e borghesi, che prese il nome di popolarismo. Di
fronte a una lista di opposizione, della quale facevano parte moderati, radicali e socialisti, sostenuta finanziariamente da Florio
e da Pecoraino, per i democratici non c’erano possibilità di successo. Si aggiunga che a essi venne meno anche il tradizionale appoggio del governo, perché il prefetto De Seta ritenne più opportuno intervenire a favore della lista popolare, con l’intento di
controllarne meglio i componenti, che promettevano agli elettori di battersi contro l’applicazione di nuove imposte, ritenute invece indispensabili dall’amministrazione per far fronte agli accresciuti oneri derivanti dai nuovi servizi, dagli aumenti di stipendio agli impiegati e dalla necessità di portare a termine i numerosi lavori pubblici avviati senza la necessaria copertura finanziaria.
L’accordo con i due maggiori industriali della città non fu
però indolore per i socialisti: l’avvocato D’Accardi, leader degli
intransigenti, accusò di opportunismo e di affarismo Drago, uno
dei più accaniti patrocinatori dell’intesa con le altre forze di opposizione all’amministrazione. La Camera del lavoro a sua volta
protestava perché considerava la lista popolare come diretta a distruggere la municipalizzazione del pane e perciò deliberava l’astensione dal voto, anche perché non se la sentiva neppure di appoggiare un’amministrazione comunale che da cinque anni continuava a gestire in esperimento la municipalizzazione del pane
e aveva ridotto a una turlupinatura la posa della prima pietra del
grande mulino a opera del re. Le critiche durarono a lungo, se
ancora dopo qualche anno il deputato socialista Trapanese denunciava «che alcuni degli antichi nostri avversari sono venuti
verso la democrazia per ragioni d’interessi privati e per difendere le pericolanti industrie» e rinfacciava duramente ai colleghi palermitani di aver commesso «la leggerezza di allearsi a potenti industriali e capitalisti che non potranno mai essere per il contenuto economico del nostro programma i nostri sinceri alleati».
I democratici di Tesauro si difesero come poterono e non disdegnarono accordi con i capi borgata (leggi: capi mafia delle
borgate), tra cui il ben noto Salvatore Conti di Brancaccio, cui
fu promessa la nomina a vicesindaco della borgata. Ma il peso
VI. L’età giolittiana
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elettorale delle borgate era allora assai modesto rispetto alla città,
anche se il controllo della mafia era più facile e vi determinava
una maggiore affluenza alle urne: proprio nel 1908, su 19.332
iscritti nelle liste elettorali, solo 1.652 (8,5 per cento) appartenevano alle borgate, dove però votò il 79 per cento degli elettori contro il 53 per cento della città. Ciò non significa tuttavia che la mafia cittadina fosse meno potente: solo che nell’ambiente più ristretto delle borgate, dove i pochi elettori erano noti a tutti, il
controllo sull’affluenza alle urne era più agevole. La potenza della mafia della città è dimostrata dall’assassinio a piazza Marina
nel marzo successivo del detective italo-americano Joseph Petrosino, venuto a Palermo per scoprire i collegamenti tra la mafia siciliana e la mano nera americana: il principale indiziato del delitto, Vito Cascio Ferro di Bisacquino, che sembra fosse a capo
del racket del ‘pizzo’, sfuggì alla condanna grazie all’alibi fornitogli da un parlamentare della provincia di Agrigento, il barone
Domenico De Michele, che probabilmente risiedeva a Palermo,
ma del quale comunque non c’è traccia nella vita pubblica cittadina, come non c’è alcuna traccia del processo – e ciò stupisce
non poco – sulla stampa locale.
Tra borgate e città vinse perciò la città, dove Florio e Pecoraino profusero più denaro degli avversari. La lista dell’Associazione Democratica ebbe appena 5 dei 29 seggi da coprire, e ciò
costrinse Tesauro alle dimissioni. Mentre in casa socialista riprendevano le polemiche per la mancata elezione a consigliere
dell’operaio Bracciante, sostenitore delle municipalizzazioni, e gli
altri socialisti, per solidarietà nei suoi confronti, rassegnavano il
mandato nelle mani del partito, che li invitò a rimanere al loro
posto, l’ex maggioranza tentava di salvare il Consiglio dallo scioglimento eleggendo sindaco il capo dell’opposizione Scalea, che
però non stette al gioco, e a fine agosto giungevano inevitabili lo
scioglimento, al quale in fondo mirava l’opposizione, e il regio
commissario Gennaro Bladier (Napoli 1859-1924).
Bladier trovò una situazione finanziaria sempre grave, perché
le amministrazioni comunali non avevano mai voluto attenersi alle indicazioni e ai consigli dell’inchiesta e avevano continuato a
compilare bilanci di previsione artificiosi, col risultato di peggiorare annualmente la situazione finanziaria complessiva. Anche
Bladier consigliava perciò l’applicazione dell’imposta di famiglia,
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Palermo
ritenendo insufficiente l’imposta sul valore locativo. Secondo il
commissario, a Palermo il carico fiscale pro capite era alquanto
più basso che in tutte le altre grandi città italiane, ma nulla ci dice circa la sua incidenza sui redditi dei palermitani, e cioè sulla
capacità contributiva dei palermitani rispetto agli abitanti di altre città.
Il terremoto di Messina (dicembre 1908), che provocò un notevole afflusso in città di profughi dalle zone orientali dell’isola
(due mesi dopo se ne contavano oltre diecimila), e la volontà di
evitare la coincidenza con le politiche fecero slittare ad aprile le
elezioni amministrative. Nel marzo 1909 si votò per la Camera.
Di Stefano non ebbe avversari nel suo collegio, anche se Palizzolo, che non era candidato, ebbe un centinaio di voti di vecchi
simpatizzanti. Trabia ebbe facilmente ragione del massone Nunzio Nasi, l’ex ministro trapanese condannato l’anno precedente
per appropriazione indebita a quasi un anno di reclusione e alla
interdizione dai pubblici uffici per un quadriennio. L’arresto di
Nasi aveva provocato violenti tumulti: a Palermo fu suonata la
Marsigliese, fu bruciata una bandiera italiana e ci scappò anche
il morto. Nella condanna dell’ex ministro, peraltro condivisa dalla maggioranza dei parlamentari siciliani, si vide un nuovo affronto alla Sicilia, per la cui difesa si costituì il Partito siciliano
sotto la presidenza del vecchio garibaldino onorevole Perroni Paladini, che chiese l’amnistia per Nasi e lo elesse a capo dell’agitazione autonomistica. A Palermo, comunque, il Partito siciliano
fece pochi proseliti, tra cui il letterato Pipitone Federico, e già al
momento delle elezioni politiche poteva considerarsi tramontato, a differenza del nasismo che durò ancora parecchi anni. Negli altri due collegi la lotta fu accanita. Nel quarto, l’uscente duca dell’Arenella ebbe ragione, per 49 voti, di Alessandro Tasca,
deputato del collegio di Sciacca, mentre nel secondo Marinuzzi
fu soccombente nei confronti del cattolico Antonino Pecoraro
Lombardo, un avvocato di Carini, che dopo un cinquantennio
consentiva ai cattolici palermitani di ritornare ad avere un loro
rappresentante nel Parlamento italiano.
Marinuzzi aveva interpretato la candidatura Pecoraro come
una vendetta contro di lui che si era battuto per l’approvazione
della legge a favore dell’Ospedale Civico, che colpiva le confraternite religiose. Forse era vero, ma è indubbio che la candida-
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tura Pecoraro si inseriva in un contesto politico nuovo, caratterizzato dall’avvicinamento di Giolitti ai cattolici e da una diversa strategia politica della Chiesa, che avrebbe portato alla sospensione del non expedit e che a Palermo coincise con la venuta dell’arcivescovo Alessandro Lualdi alla fine del 1904. Amico
di Toniolo e di Grosoli, Lualdi era riuscito a ricucire le fratture
provocate tra i cattolici palermitani dallo scioglimento dell’Opera dei Congressi ed era stato largo di incoraggiamenti verso le iniziative dei democratici cristiani e di Sturzo, convinto dell’opportunità che i «buoni» si tenessero pronti «ad ogni evenienza per
depositare nell’urna nomi di onesti e avveduti cittadini da elevare alle pubbliche cariche». Tutto ciò aveva portato a una ripresa
del movimento cattolico, il cui segno più evidente era la costituzione anche a Palermo dell’Unione Elettorale Cattolica, che –
grazie alla sospensione del non expedit in alcuni collegi elettorali italiani – promosse la candidatura dello sconosciuto Pecoraro
e ne determinò l’elezione. Una elezione che non fu gradita in
città, cosicché da più parti si criticò il prefetto De Seta, il quale
– andando oltre le disposizioni di Giolitti – l’aveva favorita proprio a danno di un ministeriale quale Marinuzzi, che continuava
a godere di notevole prestigio.
Anche per le amministrative di aprile (1909) i cattolici avevano già pronta una lista di 16 nomi, con la quale avrebbero sicuramente conquistato i seggi riservati alla minoranza, dato che i
socialisti avevano rotto i rapporti con Florio e Pecoraino e avevano deciso di astenersi. Il primo infatti, sperando nell’appoggio
del governo per delle trattative in corso con la Banca d’Italia, aveva preferito mantenersi piuttosto in disparte. E Pecoraino, dopo
alcuni contatti infruttuosi con i socialisti, si era accordato con il
professore Restivo, che aveva raccolto le file del partito democratico (la vecchia falange coscaiola, scriveva «L’Ora») e allestito una lista, alla quale il prefetto De Seta aveva promesso il suo
appoggio.
Florio però ebbe un ripensamento e riprese i contatti con i
socialisti. Pressioni sul ministro Orlando e sul prefetto – sembra
debitore di Florio – portarono a uno slittamento delle votazioni,
proprio alla vigilia. Ciò consentì al gruppo Florio-Tasca-Drago di
presentare alle elezioni, che si tennero in maggio, una lista che
fu fatta immediatamente propria dai due maggiori quotidiani del-
246
Palermo
la città e che – sull’esempio di quella che nel 1907 aveva ottenuto a Roma la maggioranza – fu detta «Blocco popolare». Comprendeva socialisti, radicali, rappresentanti di lavoratori che regolarmente non venivano eletti, nonché conservatori come il conte Trigona, cognato di Alessandro Tasca, latifondisti come il marchese Bellaroto, democratici come Marinuzzi, industriali come
Vittorio Ducrot, la cui fabbrica di mobili produceva arredi per
le navi di Florio, e Vittorio Zaban, impiegati di Florio come il
marchese di Ganzaria: uno strano miscuglio cioè di aristocratici,
industriali e professionisti (quanti avvocati!) in rappresentanza
dei ceti subalterni. A dire degli avversari, il denaro per la campagna elettorale fu fornito al Blocco dalle roulette del Cercle des
Étrangers di Villa Igiea, lo splendido albergo di Florio inaugurato nel 1900.
Assai più omogenea era invece la lista del Fascio democratico di Restivo, che comprendeva alcuni elementi della passata amministrazione e numerosi nomi nuovi, che però Pecoraino – dopo il rinvio delle elezioni, che poteva far pensare a una preferenza
del governo per l’altra lista – si affrettò ad abbandonare al loro
destino.
Come al solito, il giorno delle elezioni non mancarono corruzione e brogli, tanto che la magistratura sequestrò schede e verbali di alcune sezioni e alla fine modificò i risultati proclamati
dall’assemblea dei presidenti di sezione. I cattolici ottennero solo quattro seggi, uno dei quali spettò all’avvocato Giuseppe Jannelli – un democratico cristiano nativo di Caccamo, infaticabile
fondatore di casse rurali e direttore della Banca Cattolica di Palermo –, mentre non veniva eletto il neodeputato Pecoraro e Palizzolo non era più rieletto. La vittoria arrise al Blocco popolare,
che portava in Consiglio 45 eletti, tra cui i principali esponenti
dei partiti socialista e radicale, oltre a parecchi amici di Florio. Il
Fascio ebbe 31 seggi, ricoperti quasi interamente da vecchi consiglieri. La gran parte dei 36 consiglieri di prima nomina apparteneva invece al Blocco popolare, nella cui lista venivano eletti
anche il professore Rocco Jemma e lo scultore Antonio Ugo. Dei
sei titolati eletti, quattro appartenevano al Blocco, uno al Fascio
e uno alla lista clericale. Le polemiche, come spesso era accaduto, continuarono ancora nelle settimane successive e sfociarono
anche in un duello tra Restivo e l’avvocato Giuseppe Paterno-
VI. L’età giolittiana
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stro, figlio del defunto Alessandro, per articoli su «L’Ora» ritenuti lesivi dell’onorabilità degli aderenti al Fascio.
Sindaco venne eletto con 39 voti favorevoli Romualdo Trigona (1870-1929), gentiluomo di corte della regina e legatissimo a
Florio, alle cui pressioni per l’inserimento nella lista del Blocco
non aveva potuto opporre resistenza (giugno 1909). Era sposato
con la sorella di Alessandro Tasca, Giulia, dama di corte della regina, che due anni dopo sarà sgozzata in un modesto albergo romano dall’amante, il barone Vincenzo Paternò del Cugno. Assessore delegato fu eletto un radicale, il direttore della clinica medica professore Liborio Giuffrè, originario di Caltavuturo, che
nel 1904 si era invano candidato alla Camera nel collegio di Cefalù. Della giunta facevano parte anche i marchesi di Ganzaria e
Bellaroto, monarchici, i socialisti Barbera, Bosco e Strazzeri, i radicali Armò e Pincitore. Punti deboli dell’amministrazione, oltre
all’esigua minoranza su cui si reggeva, erano la mancanza di esperienza amministrativa e la notevole diversità di opinione tra i consiglieri che l’appoggiavano sulla soluzione dei più importanti problemi cittadini. Se ne rendeva conto il capogruppo socialista Drago, che da un lato tendeva a minimizzare la presenza dei socialisti in giunta, i quali altra intenzione, a suo dire, non avevano che
quella di aiutare i loro amici radicali e monarchici nell’amministrazione della città; e dall’altro, al momento di eleggere sindaco
e giunta, faceva leva sull’affinità che in passato c’era stata con
molti dell’opposizione, nel tentativo di convincerne qualcuno ad
appoggiare la nuova amministrazione.
Seppure preoccupata per la presenza in giunta, con l’incarico
di assessore alla Finanza, di Bellaroto, che come amministratore
dell’Ospedale Civico aveva dato pessima prova, la minoranza, un
po’ per simpatia personale nei confronti del sindaco Trigona, un
po’ perché in fondo «bloccardi» e «fascisti» – come ammettevano anche in sede ufficiale – non avevano programmi diversi, spesso diede il suo appoggio all’amministrazione, come quando furono approvati i bilanci o fu deciso di seppellire definitivamente la faccenda del mulino municipale. Ma le contraddizioni erano all’interno della stessa maggioranza e presto scoppiarono: nel
gennaio 1910, Barbera si dimise di fatto da assessore per il mancato impegno dell’amministrazione nell’attuazione della nuova
cinta daziaria e nel riordinamento degli uffici. Pochi mesi dopo,
248
Palermo
sei consiglieri, tra cui alcuni assessori, abbandonarono la maggioranza, perché mal sopportavano l’assillante controllo cui Aurelio Drago – il ‘papa rosso’, come lo chiamava Renzo Barbera –
sottoponeva i membri della giunta, presenziando a tutte le riunioni, pur non facendone parte, e influenzando assieme a Tasca
tutti gli atti dell’amministrazione, il cui cammino procedeva tra
tentennamenti e incertezze e senza segnare alcun miglioramento
sotto il profilo morale. Perché è bene rilevare che i socialisti, entrati finalmente nella stanza dei bottoni, non furono da meno dei
vituperati democratici in materia di favoritismi e uso clientelare
del potere.
Peraltro, l’amministrazione era agli ordini di Florio, che aveva sponsorizzato la lista del Blocco per servirsi del Comune come strumento di pressione sul governo centrale: lo stesso Tasca,
in una intervista, ammetteva che l’attività del Comune era stata
per 3/4 impiegata nella difesa degli interessi marittimi della città,
ossia di Florio come poi apparve chiaro. E infatti, il progetto
Schanzer sulle convenzioni marittime, fieramente combattuto
dall’amministrazione Trigona e dai palermitani, che attuarono
uno sciopero generale di protesta, tutelava il posto di lavoro dei
marittimi assai meglio – lo ammetteranno anche gli stessi dirigenti della Camera del lavoro – di quanto non abbia poi fatto il
progetto del governo Luzzatti, contro cui il Municipio non disse parola e che invece accontentava di più i fratelli Florio.
In conclusione, si può dire che la gestione «bloccarda» si rivelò disastrosa per la città. La situazione finanziaria del Comune
si aggravò a tal punto che alla fine non poterono pagarsi né stipendi agli impiegati né fornitori. Gli appaltatori della manutenzione stradale, non pagati, non vollero più occuparsene e le strade si ridussero in condizioni penosissime. L’abolizione della refezione scolastica, che era apparsa qualche anno prima una grande conquista sociale, allontanò dalla scuola gli alunni più poveri, mentre altri abbandonavano per mancanza di locali e per l’assenteismo dei maestri, invano sostituiti da un esercito di
supplenti. La città, infine, era in uno stato di abbandono come
raramente è accaduto nella sua storia.
Le inevitabili dimissioni di Trigona provocarono un accesissimo dibattito, che vide i «fascisti» farsi difensori del sindaco e i
«bloccardi» della giunta. I primi intendevano respingere soltan-
VI. L’età giolittiana
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to le dimissioni del sindaco, per rompere il fronte dei «bloccardi»; i secondi erano decisi ad accettare le dimissioni di sindaco e
giunta per lanciare – d’accordo con Florio – la candidatura di
Alessandro Tasca, il cui nome proprio il giorno precedente era
ancora una volta comparso sul bollettino dei protesti. La discussione trascese a tal punto che il professore Giuffrè, che presiedeva la seduta, fu costretto a richiedere l’intervento in aula dei
carabinieri. La preoccupazione di un nuovo scioglimento del
Consiglio portò però a un accordo nel corso della stessa seduta:
Tasca ritirò la candidatura e il Consiglio respinse le dimissioni
del sindaco con 65 voti e quelle della giunta con 37. Ma l’escamotage non valse a risolvere la situazione e, otto giorni dopo,
giunse puntuale il sesto scioglimento del Consiglio in quattordici anni (luglio 1910).
6. La lunga sindacatura Di Martino
Le elezioni generali del gennaio 1911 vedevano il ritorno in
massa sulla scena politica dei vecchi liberali, che era sembrato si
fossero definitivamente messi da parte dopo le elezioni del 1909
e che adesso invece si ripresentavano nella lista dell’Unione liberale. L’iniziativa era stata del senatore Paternò, il quale, sebbene da oltre un decennio risiedesse a Roma, continuava a seguire con attenzione le vicende palermitane. Si era pensato a una
lista con tutti i big dell’area liberale, e cioè lo stesso Paternò, Tasca Lanza, Di Martino e Camporeale. In un incontro con Paternò, Florio chiese l’inclusione di alcuni ex consiglieri socialisti,
altrimenti avrebbe sostenuto una lista di socialisti e popolari. Ma
i liberali risposero negativamente, preoccupando alquanto il prefetto Rovanseda, per il quale una lista socialista appoggiata da
Florio – che malgrado i suoi problemi finanziari continuava a
esercitare in città notevole influenza – sarebbe risultata alla fine
vittoriosa, perché i liberali non avevano disciplina di partito, né
programmi, e per di più avevano l’appoggio di elementi moralmente discutibili.
Florio non si diede per vinto e, forte dell’appoggio dei due
maggiori quotidiani locali, cominciò a lavorare a una riedizione
del Blocco popolare, del quale avrebbero fatto parte socialisti,
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Palermo
monarchici e democratici. Tramite Alessandro Ardizzone, direttore del «Giornale di Sicilia», mise inoltre a disposizione del Circolo socialista e della Camera del lavoro 60.000 lire. Non tutti i
socialisti però erano d’accordo e alla Camera del lavoro ricordavano le precedenti elezioni quando, malgrado la vittoria «bloccarda», nessuno degli operai in lista era risultato eletto. Prevalse
così la tesi dell’astensione, nella convinzione – poi risultata errata – che la nuova amministrazione avrebbe avuto vita breve e si
sarebbe arrivati presto a un nuovo scioglimento del Consiglio.
Neppure la lista dell’Unione liberale ebbe una facile gestazione. Prima Camporeale, poi Paternò se ne disinteressarono e
così ne diventò nume tutelare Pecoraino, che si era messo nuovamente dalla parte del governo, per paura della guardia di finanza che aveva scoperto le grossissime evasioni fiscali sulle importazioni di grano di cui si è parlato. Pecoraino impose l’esclusione del municipalizzatore Tesauro e l’inclusione del figlio, cavaliere Salvatore. La lista, che aveva ben 40 nomi in comune con
quella dell’Unione Elettorale Cattolica, risultò un miscuglio di
massoni e clericali. Massoni erano presenti anche nella lista clericale, i cui dirigenti giustificavano la scelta di uomini politici di
altra fede con la necessità di chiamare «a raccolta gli elementi sani del paese nel terreno della pura amministrazione, non per l’avvantaggiarsi di un partito, ma per il progresso esclusivo della
città». Peraltro, nessuno degli interessati era stato preliminarmente interpellato, perché i dirigenti dell’Unione Cattolica erano convinti che le cariche pubbliche rappresentassero un onere
doveroso. Ciò determinò la rinuncia di parecchi candidati, tra cui
il massone Tesauro, che non poteva accettare l’inclusione nella lista cattolica, dopo essere stato escluso da quella liberale. Per protesta contro i massoni inclusi nella lista clericale, tra cui un autorevole 33 che non sono riuscito a individuare, la Massoneria si
schierava anch’essa per l’astensione dal voto.
La lista dell’Unione liberale ebbe 58 seggi, 22 dei quali conquistati anche con i voti, non determinanti, dei cattolici, perché
gli eletti facevano parte anche della lista clericale, che per suo
conto ottenne altri 16 seggi. Ai radicali spettarono appena 5 seggi. L’ottantesimo consigliere era il commendatore Tesauro, che
con l’appoggio della stampa cittadina, indignata per l’esclusione
dalla lista liberale, risultò addirittura ottavo. Dei vecchi consi-
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glieri solo pochissimi ritornarono a Sala delle lapidi: ma in compenso si verificò il ritorno in massa di altri che non avevano fatto parte del disciolto Consiglio, ma avevano avuto, talora, ruoli
determinanti nelle amministrazioni precedenti (gli ex sindaci Di
Martino e Tesauro, Peppino Scalea, ecc.). Tra i clericali ritornava l’onorevole Palizzolo, il ‘rieccolo’ della vita politica e amministrativa palermitana del quarantennio tra i due secoli. Anche
Salvatore Conti riusciva a ritornare, piazzandosi al dodicesimo
posto, grazie ai voti liberali e clericali. Gli eletti di prima nomina erano pochi e pochissimi (appena quattro) i rappresentanti
dell’aristocrazia, la quale ormai aveva lasciato campo libero alla
borghesia delle professioni o a qualche nobiluccio di secondo ordine. Il vecchio notabilato di estrazione aristocratica era stato
soppiantato da una nuova dirigenza politica, espressione della
media borghesia.
Sindaco fu eletto il commendatore Girolamo Di Martino, una
scelta rivelatasi felice, perché la sua sindacatura – contrariamente alle aspettative degli avversari – risulta una delle più durature
della storia amministrativa della città: dal febbraio 1911 all’agosto 1914. Solo Peranni, in precedenza, era riuscito a mantenersi
più a lungo ai vertici dell’amministrazione. Malgrado il timore
del prefetto, che riteneva il sindaco «incapace, per il suo carattere soverchiamente fiacco e remissivo, di tenere uniti e saldi i
vari e poco omogenei elementi di cui si compone l’amministrazione comunale», Di Martino riuscì a superare i contrasti, spesso ricorrendo all’appoggio determinante della minoranza clericale. Momenti di difficoltà non ne mancarono: il gruppo radicale con Restivo e Giuffrè conduceva una lotta accanitissima contro l’amministrazione, che ebbe i suoi momenti più aspri all’inizio del 1912, quando si discussero i provvedimenti dell’assessore professore Lazzaro per fronteggiare le due epidemie di colera
e di vaiolo dell’anno precedente e soprattutto dopo l’approvazione della nuova legge elettorale, che estendeva il diritto di voto a tutti i ventunenni maschi in possesso dei requisiti richiesti
dalla precedente legge, o che avessero già prestato servizio militare, o – se analfabeti – fossero di età superiore ai trent’anni (giugno 1912): i radicali volevano arrivare allo scioglimento del Consiglio, ritenendo che, con il suffragio universale, le elezioni anticipate avrebbero dato loro la maggioranza.
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Palermo
Il 1912 fu un anno difficile per l’amministrazione. La situazione finanziaria del Comune si era fatta sempre più pesante e
provocava – secondo il prefetto – «serio malcontento, recriminazioni vivaci e lagnanze incessanti per impegni insoddisfatti e
ritardati pagamenti». Era vero, perché altre fonti documentano
come, sui tredici comuni italiani con popolazione superiore ai
100.000 abitanti, Palermo fosse al dodicesimo posto per entrate
e per spese per abitante: un fatto che provocava difficoltà all’amministrazione e impossibilità di affrontare spese essenziali
per lo sviluppo della città. A ciò si aggiunga – continuava il prefetto – «lo imbaldanzire di consiglieri comunali notoriamente appartenenti alla mafia e facenti parte della maggioranza, i quali
[...] tentano di imporsi alla maggioranza stessa». Di Martino pensava perciò di dimettersi «per liberarsi di quei consiglieri che [...]
appartengono alla maggioranza e che tentano di prevalere con le
imposizioni e le prepotenze».
Egli in effetti si dimise, provocando una lunga crisi che si risolse solo a novembre con la sua rielezione, grazie all’appoggio
esterno del gruppo clericale, che da allora – pur non entrando in
giunta – fece parte della maggioranza. Un nuovo rimpasto subìto dopo le politiche del 1913 evitò un altro scioglimento del Consiglio e consentì a Di Martino di tirare ancora avanti sino alle amministrative generali del luglio 1914, tra polemiche per alcune
scelte discutibili e difficoltà per la necessità di dover fronteggiare gli effetti della crisi mondiale del 1913. E ciò per di più con
una finanza comunale la cui situazione si era ulteriormente aggravata, a causa delle spese per le due epidemie del 1911, che
avevano provocato un’uscita non prevista di oltre un milione e
mezzo e una minorazione di entrate di circa 700.000 lire, che si
aggiungevano al deficit complessivo delle gestioni precedenti.
Particolare attenzione l’amministrazione Di Martino dedicò
alla pavimentazione stradale, ridotta ormai in condizioni gravissime soprattutto nelle zone dell’espansione ottocentesca dove le
strade erano a inghiaiata, costituite cioè da una massicciata di pietrisco e detriti terrosi che si trasformava in laghi di fango d’inverno e in nuvole di polvere d’estate. Mentre corso Calatafimi,
via Crispi, piazza Ucciardone e alcune traverse di via Ruggero
Settimo venivano basolate e la corsia centrale di via Libertà asfaltata, per le altre strade si adottò il sistema a catrame, in uso da
VI. L’età giolittiana
253
qualche tempo con buoni risultati in alcune città del continente.
Si appaltarono inoltre i lavori di costruzione del tratto di via Roma dalla stazione centrale a corso Vittorio Emanuele, con l’obbligo per l’impresa di costruire nelle adiacenze e nei rioni esterni anche 300 case per gli sfrattati delle abitazioni da demolire.
Altro appalto riguardò la costruzione dell’edificio scolastico Giuseppina Turrisi Colonna (oggi sede del Liceo Classico Vittorio
Emanuele).
L’allacciamento tranviario delle borgate provocò vivaci discussioni in Consiglio e portò alle dimissioni del vicesindaco Scalea, il quale – d’accordo con i tecnici del suo ufficio – riteneva
che potesse effettuarsi con oneri molto più bassi rispetto a quelli previsti dal progetto approvato, e soprattutto senza l’attraversamento della via Maqueda e di corso Vittorio Emanuele. Ma ormai le amministrative erano alle porte.
7. I contrastanti effetti del suffragio universale maschile
Già le elezioni politiche dell’ottobre 1913 non erano state favorevoli all’amministrazione Di Martino, anche se non erano riuscite a determinarne la caduta. La campagna elettorale era stata
vivacissima come non mai. L’adozione per la prima volta del suffragio universale maschile, che interessava 68.712 elettori (i votanti però furono solo 25.827, ossia il 37,6 per cento), rivoluzionava i sistemi del passato: non più riunioni al chiuso per pochi
intimi e negli ultimissimi giorni, ma un impegno di parecchie settimane, con comizi all’aperto nelle piazze più importanti dei
quattro collegi. Alle autorità di governo riusciva assai più difficile il controllo dell’elettorato e perciò, malgrado fosse operante il
patto Gentiloni, che prevedeva l’appoggio dei cattolici a taluni
candidati liberali, la rappresentanza parlamentare palermitana ne
uscì completamente rinnovata per l’avanzata della Sinistra radicale e socialista.
Nel primo collegio, il giolittiano Di Stefano, pur potendo contare sull’appoggio del prefetto, del sindaco Di Martino, dei messi dell’Esattoria – che, gestita dai suoi parenti, costituiva anche
allora un notevole serbatoio di voti – e delle «forze della campagna», ossia della mafia delle borgate che faceva parte del colle-
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Palermo
gio Palazzo Reale, soccombette malamente di fronte a Nunzio
Nasi, che rientrava trionfalmente sulla scena politica con un programma autonomistico e di alternativa istituzionale. Nasi aveva
ereditato l’elettorato di Palizzolo e si era avvalso dell’appoggio
della grande stampa locale, dei socialisti di Tasca e dei castagnari di Ballarò, «accolta di maffiosi, di persone equivoche e di pessima fama, veri arbitri della situazione nel rione urbano di quel
popolarissimo collegio», capeggiati da Ciccio Lupo, noto capopopolo e gestore di una rivendita di acqua ghiacciata ai Quattro
Canti, che si diceva fosse figlio naturale di Crispi, al quale somigliava alquanto.
Nel secondo collegio, il radicale Restivo – che più volte in passato aveva aspirato invano alla carica di sindaco – ebbe la meglio
per 150 voti sull’uscente Pecoraro, il quale, per il suo temperamento freddo e distaccato, era poco adatto a conquistarsi i favori di un elettorato assai più vasto che in passato e le cui pretese
egli non era molto disposto a soddisfare. La sua sconfitta, malgrado l’appoggio dell’Arcivescovado e della Prefettura, si dovette anche al mancato intervento a suo favore dei cattolici intransigenti di Giglio Tramonte, i quali non avevano gradito la strategia politica del «Corriere di Sicilia», un quotidiano cattolico fortemente voluto da Pecoraro nel 1910, che aveva dato ampio spazio ai primi nazionalisti e che proprio il mese precedente aveva
sospeso le pubblicazioni, dopo essere stato sconfessato dalla Santa Sede ed essere passato sotto il controllo degli intransigenti.
Nel terzo collegio, assente il principe di Trabia perché nominato senatore, si contesero la vittoria due ricchi commercianti che
contavano numerose aderenze personali, il cavaliere Renzo Barbera e il commendatore Nicolò Zito. Per 50 voti, il successo arrise a Barbera, antigiolittiano e socialista, che negli ultimi anni
era passato ai radicali e che poté avvantaggiarsi del momento favorevole, «in cui – rilevava il prefetto – per un fenomeno di suggestione collettiva le masse del Molo [che sin allora avevano votato Trabia, anche per ordine di Florio] facevano il nome di lui
come quello di un lottatore capace di rintuzzare ogni abuso e sopruso del capitalismo, capacissimo d’imporre al governo la sua
volontà tutta diretta a spianare la via alle rivendicazioni operaie».
Lo sconfitto Zito aveva bruciato nella campagna elettorale parecchie migliaia di lire e aveva goduto dell’appoggio di Pecorai-
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no, di Tagliavia, dei clericali, della Camera di Commercio e della «maffia delle campagne». Ancora una volta, era la città che determinava i risultati elettorali.
Nel quarto collegio, ritiratosi il duca dell’Arenella, che aspirava alla nomina a senatore, Alessandro Tasca ebbe finalmente
ragione dei suoi avversari, uno dei quali era il dottor Francesco
Clemente, consigliere comunale quasi ininterrottamente dal
1897, quando era entrato a Sala delle lapidi in rappresentanza
della borgata Brancaccio, e fiero avversario dei socialisti, che considerava nemici della patria e delle istituzioni. Candidato dei cattolici, Clemente godeva anche dell’appoggio del governo, del cavaliere Salvatore Conti e ovviamente delle borgate. Era però pressoché sconosciuto in città, a differenza di Tasca, l’uomo politico
più noto per la sua ormai ventennale attività. Dopo l’espulsione
di Bissolati dal Psi nel 1912, Tasca con Drago, Garibaldi Bosco
e la maggioranza dei socialisti palermitani aveva aderito al socialriformismo bissolatiano e costituito una Federazione regionale socialista riformista aderente al Prsi, con un programma sicilianista. Nel Psi ufficiale erano rimasti in pochi, tra cui Nicola
Barbato, Giovanni Orcel, un tipografo sindacalista, qualche intellettuale (Loncao) e un piccolo gruppo di operai tipografi e metalmeccanici, attestati su posizioni di assoluta intransigenza, internazionalisti e antimilitaristi, a differenza dei socialriformisti
che – come documentano vari articoli di Drago e Tasca sul «Giornale di Sicilia» – avevano guardato con interesse alla conquista
della Libia, considerata una valvola di sfogo per la manodopera
meridionale. Per Tasca, la cui vittoria fu schiacciante, votarono i
radicali e numerosi professionisti e commercianti, oltre quasi tutti i socialisti del collegio.
Senza farsi troppo scrupolo della verità storica, così il «Giornale di Sicilia» commentò i risultati elettorali:
Il popolo non si è venduto, il popolo ha dato la vittoria ai suoi
candidati, a quelli che significavano il rinnovamento civile e morale
della vita pubblica nostra, che significavano un’alta e fiera protesta
contro il giogo di Giovanni Giolitti [...]. Per lungo periodo d’anni la
Sicilia non aveva mandato al Parlamento che deputati d’opposizione;
dalla dittatura depretina in poi, spezzata la bella tradizione, aveva
mandato pretoriani [...] servi di tutti i ministeri. Ora riprende la tra-
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Palermo
dizione, con nuova lena, con nuovi ideali, con profondo e cosciente
spirito democratico.
Le elezioni ebbero però un’appendice non prevista dal quotidiano. Nunzio Nasi optò per il collegio di Trapani e tentò di
imporre il figlio Virgilio come suo successore nel primo collegio.
I palermitani non stettero al gioco e nelle suppletive del luglio
1914 si schierarono, senza distinzione di parte, per l’onorevole
Di Stefano: Orlando, Camporeale, Tasca Lanza, i nazionalisti, la
Camera del lavoro, l’Unione dei partiti popolari (che comprendeva i radicali di Restivo e Giuffrè e i riformisti di Tasca e Drago) e lo stesso «Giornale di Sicilia», che commentò duramente
la sconfitta del figlio di Nasi, con un articolo dal titolo molto significativo: Il trionfo della dignità di Palermo. Nasi, secondo il
giornale, non aveva capito il significato particolare dei voti a lui
attribuiti dai palermitani nel ’13: di fronte alla sua pretesa di voler creare un avvenire politico al figlio, che nessun merito aveva
verso la città, Palermo diceva «basta!» a lui e a quanti gli stavano dietro.
In realtà, Nasi continuava ad avere un grosso seguito in città,
come dimostrarono pochi giorni dopo i risultati delle amministrative generali, favorevoli al gruppo dei trapanesi Nasi-Barbera (luglio 1914) e contestati dagli avversari, che ottennero il sequestro degli atti da parte della magistratura. La loro lista (Lega
popolare), che era stata un po’ snobbata dagli avversari, intenti
a farsi la guerra tra loro, ottenne infatti la maggioranza assoluta
con 41 seggi, mentre gli altri 39 andarono all’Unione dei partiti
costituzionali, che comprendeva liberali, clericali e nazionalisti,
cioè i «partiti d’ordine», e nessuno all’Unione dei partiti popolari.
La lista dei partiti costituzionali, fortemente sostenuta da
«L’Ora», la cui proprietà proprio nel marzo dello stesso anno era
passata interamente nelle mani di Pecoraino, già azionista di minoranza, era invece altrettanto fortemente avversata dal «Giornale di Sicilia», che appoggiava i partiti popolari. Era preceduta
da un appello a firma dei senatori Camporeale e Tasca Lanza, ritornati amici, contro i sovversivi nemici delle istituzioni, e comprendeva buona parte dei consiglieri uscenti e degli assessori delle giunte Di Martino. I clericali lanciarono un’altra lista, che ave-
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va ben 62 nomi in comune con quella dei partiti costituzionali:
gli altri due posti erano occupati da Palizzolo (incluso anche nella lista della Lega popolare) e dal commendatore Pietro Diliberto, un farmacista in odore di mafia. Le due liste finivano così con
l’avere in comune noti massoni e noti clericali.
La lista dell’Unione dei partiti popolari conteneva nomi prestigiosi (Tasca, Restivo, Drago – che l’anno precedente era stato
eletto deputato nel collegio di Cefalù – e Di Stefano, che da giolittiano di ferro era passato nel campo avverso), parecchi noti docenti universitari (Giuffrè, Arnaldo Trambusti, ordinario di patologia generale, Emanuele Carnevale, che aveva collaborato alla compilazione del codice di procedura penale, Gaetano Lodato, direttore della clinica oculistica) e ancora il repubblicano Luigi Natoli (Maurus per i lettori del «Giornale di Sicilia» e William
Galt come autore dei famosi romanzi d’appendice), Oreste Lo
Valvo, ecc. Ma nessuno di essi – come si è detto – mise piede a
Sala delle lapidi, neppure i quattro parlamentari: contrariamente a quanto era avvenuto per le politiche, nelle elezioni comunali il suffragio universale finiva col rivelarsi assolutamente improduttivo per i partiti popolari, addirittura privati dopo un decennio dei loro rappresentanti in Consiglio.
Ritornò invece trionfalmente Barbera, eletto al primo posto,
malgrado l’Unione radicale ne avesse dichiarato la condotta politica incompatibile con la sua posizione di radicale. Ciò è la dimostrazione che a Palermo le ideologie politiche avevano ancora scarso diritto di cittadinanza e che valevano soprattutto i rapporti interpersonali, tanto che l’intramontabile Palizzolo poteva
ottenere il terzo posto e il sesto l’onorevole Nasi, che entrava anch’egli a far parte del Consiglio comunale. Il successo della Lega popolare dimostrava inoltre che la città era stanca sia dei vecchi amministratori dell’Unione dei partiti costituzionali, sia dell’opposizione dei partiti popolari, che quando erano stati alla guida dell’amministrazione non avevano saputo fare di meglio. E
perciò, a parte pochi nomi, gli eletti della Lega erano nella stragrande maggioranza degli sconosciuti e al loro primo ingresso a
Sala delle lapidi, e questo contribuiva al larghissimo rinnovamento del Consiglio.
Il movimento nazionalista, le cui prime manifestazioni palermitane risalivano al 1911 e che si era sempre più affermato, so-
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Palermo
prattutto tra i giovani intellettuali, riusciva a far eleggere in Consiglio almeno tre suoi rappresentanti, due nella lista dei partiti
costituzionali e il terzo nella Lega, il che fa pensare all’esistenza
di diversi filoni in disaccordo tra loro. Si trattava di Giovanni
Borgese, un giovanissimo avvocato originario di Polizzi e membro del Comitato centrale dell’Associazione Nazionalista Italiana, del marchese della Cerda, nipote ex filia del duca della Verdura, e dell’avvocato Carlo Di Blasi, direttore del mensile nazionalista «Tripoli italiana».
I nasiani comprendevano che da soli non erano in condizione di formare una giunta duratura e perciò iniziarono trattative
con l’altro gruppo, che si risolsero positivamente con l’elezione
a sindaco del barone Vincenzo Di Salvo (1869-?), già sindaco di
Baucina per 18 anni, che, sebbene eletto nella lista Nasi-Barbera, non era sgradito all’opposizione, per avere fatto parte di una
delle giunte Di Martino, come assessore alla Finanza. La pretesa
dell’onorevole Barbera di farsi eleggere a tutti i costi assessore
anziano indispose però sia clericali che liberali e nazionalisti, che
– dopo aver concesso il sindaco agli avversari – pretendevano
l’incarico per uno di loro. I sei assessori della minoranza perciò
si dimisero immediatamente, surrogati dai nasiani.
La crisi giunse puntuale qualche mese dopo, quando in giunta si discussero i rimedi da approntare per far fronte alla situazione finanziaria, che – come si è detto – negli ultimi anni della
gestione Di Martino si era ulteriormente aggravata, tanto che il
deficit complessivo, secondo il prefetto, si aggirava sugli otto milioni. Il sindaco era per l’allargamento della cinta daziaria, ma la
maggioranza degli assessori non si trovava d’accordo, perché il
provvedimento avrebbe colpito le borgate senza fornire loro alcuna contropartita di miglioramento dei servizi pubblici, alquanto carenti, e ne avrebbe inoltre danneggiato le attività manifatturiere e agricole, soprattutto la fiorente olivicoltura. A Di
Salvo, che peraltro mal tollerava la tutela di Barbera sull’amministrazione, non rimasero che le dimissioni irrevocabili (ottobre
1914).
Pur di dare una soluzione rapida alla crisi, Barbera rinunziò
all’incarico di assessore e consentì che il sindaco e alcuni assessori venissero scelti tra i consiglieri della lista liberal-nazionalista.
Barbera e Nasi avevano compreso che una situazione di crisi du-
VI. L’età giolittiana
259
ratura nell’amministrazione della città avrebbe inevitabilmente finito col compromettere le loro posizioni elettorali in vista delle
successive politiche. La posizione di Barbera al terzo collegio non
era infatti così solida da resistere ai contraccolpi derivanti dall’insuccesso nell’amministrazione del Comune: i socialisti, peraltro, erano riusciti a sottrarre al suo controllo i commercianti. Da
parte sua, Nasi voleva riconquistare il primo collegio strappatogli da Di Stefano e perciò aveva interesse a migliorare il rapporto con i consiglieri dell’opposizione, che nella recente campagna
elettorale si erano ritrovati il Di Stefano tra gli avversari, candidato nella lista radicalriformista. I cattolici anelavano anch’essi a
riprendersi il secondo collegio per lo sconfitto Pecoraro e al duca dell’Arenella non sarebbe dispiaciuto fare uno sgambetto all’antico avversario Alessandro Tasca, con il contrapporgli al quarto collegio, che era stato suo, la candidatura dell’onorevole Rossi, eletto in precedenza nel collegio di Petralia Sottana. Un accordo generale avrebbe consentito di seppellire definitivamente
gli sconfitti delle recenti amministrative, tra cui – non dimentichiamolo – erano ben tre dei quattro parlamentari della città:
Di Stefano, Restivo e Tasca. L’amministrazione comunale amica
avrebbe inoltre consentito di rivedere a proprio uso le liste elettorali dei quattro collegi, con un gioco di inclusioni e di esclusioni, e porre così le premesse per il successo nelle politiche.
L’accordo, auspice Palizzolo, si raggiunse rapidamente e pochi giorni dopo, a larghissima maggioranza, fu eletto sindaco il
commendatore Salvatore Tagliavia (1869-1965), un imprenditore che gestiva con i fratelli Angelo e Filippo un’agenzia di trasporti marittimi, che rappresentava anche alcune società estere
di assicurazione. Della giunta (otto membri scelti tra i consiglieri della Lega e sei dell’Unione) faceva parte anche il nazionalista
Di Blasi.
8. La prima guerra mondiale
A causa della prima guerra mondiale, che sospese per quasi
sei anni le consultazioni elettorali, e del clima di mobilitazione
nazionale instauratosi, che ammorbidì l’opposizione consiliare e
diede coesione alla maggioranza, la sindacatura Tagliavia fu – do-
260
Palermo
po quella attuale di Leoluca Orlando – la più lunga della storia
cittadina, dall’ottobre 1914 al marzo 1920. Il passaggio dalla fase di neutralismo all’interventismo era stato a Palermo piuttosto
lento. Ancora nei primi mesi del 1915, la città era in grande maggioranza neutralista. Come i due maggiori quotidiani cittadini e
la stampa cattolica, su posizioni neutraliste erano la classe politica, dal senatore Tasca Lanza all’onorevole Di Stefano; la borghesia degli affari, da Florio, amico personale del Kaiser, a Pecoraino; l’aristocrazia latifondista capeggiata da Camporeale, che
a Roma si teneva in stretto collegamento con Giolitti e con il cognato von Bulow, ambasciatore tedesco in Italia ed ex cancelliere del Reich. Se la borghesia commerciale temeva la rottura dei
rapporti con la Germania per le conseguenze sull’esportazione di
alcuni prodotti siciliani, l’aristocrazia si sentiva maggiormente garantita dall’alleanza con paesi conservatori come Austria e Germania che non con Inghilterra e Francia più democratiche. I fondatori del Consorzio Agrario del 1899 risuscitarono l’idea del
Partito agrario siciliano e nel marzo 1915 costituirono un Comitato agrario siciliano con a capo Florio, il vecchio principe di Scalea e il socialriformista Lo Vetere, che organizzò un convegno,
indisse conferenze e promosse addirittura un referendum sulla
guerra tra gli agricoltori siciliani. Nel discorso di apertura del
convegno, l’avvocato Lo Vetere condannò la «campagna guerrafondaia che pochi inconsulti e non amanti del benessere economico della Nazione vanno sterilmente predicando».
L’agricoltura – continuò – ha bisogno di tranquillità, di raccoglimento, di pace: se la Nazione è distratta da imprese belliche, che rappresentano pericolose incognite e gravissime spese, che andranno
sempre poi a ripercuotersi sulle produzioni, non potrà certamente
preoccuparsi dei problemi economici. Con ciò intendiamo essere concordi col sacro egoismo di patria: mentre gli altri Stati si sfibrano in
lotte cruente [...] l’Italia deve risparmiare ai suoi figli sangue e uomini e preparare, nella sua rigida neutralità, la futura ricchezza della nazione.
Parlando di campagna guerrafondaia, probabilmente Lo Vetere pensava al comizio nazionalista che Federzoni, contestato
dagli operai socialisti, aveva tenuto qualche giorno prima al Po-
VI. L’età giolittiana
261
liteama. I nazionalisti si agitavano da tempo a favore dell’intervento a fianco dell’Intesa, ma con scarso risultato. Attivi anche
radicali e repubblicani: il duca di Cesarò nell’ottobre 1914 parlò
a favore dell’intervento italiano contro l’Austria; in dicembre per
i repubblicani venne a Palermo Cesare Battisti. Nell’aprile 1915,
la situazione era cambiata a favore degli interventisti. Secondo il
prefetto, l’opinione pubblica della provincia, che all’inizio del
conflitto aveva accettato la neutralità, «è andata grado a grado
modificandosi»: «la grande maggioranza dei cittadini e tutta la
parte più intelligente, oggi non vedrebbero sfavorevolmente la
partecipazione dell’Italia alla guerra, non già per correre in aiuto dell’uno o dell’altro gruppo belligerante, ma al solo scopo di
affermare – in questo momento propizio – i suoi diritti e di raggiungere gli ideali ai quali essa da tempo aspira».
Verso la fine del mese, le manifestazioni interventiste cominciarono a intensificarsi e assunsero maggiore ampiezza il giorno
successivo alle dimissioni del governo Salandra, causate dal convincimento che la scelta interventista del ministero non avrebbe
avuto l’approvazione della Camera filogiolittiana. A Palermo, da
sempre antigiolittiana, le «radiose giornate di maggio» assunsero
anche un carattere di sostegno nei confronti del ministero Salandra. A causa dell’infiltrazione tra i dimostranti di pregiudicati, le manifestazioni – come già era accaduto nel giugno 1914, durante lo sciopero generale nei giorni della «settimana rossa» – degenerarono in atti di violenza e di teppismo, malgrado il re avesse intanto respinto le dimissioni del governo Salandra. Nei tafferugli con la polizia, un giovane rimase colpito a morte; l’episodio esasperò gli animi e portò addirittura a un attacco vero e
proprio contro la Questura da parte di un paio di centinaia di dimostranti. Per protesta contro l’uccisione del giovane, fu proclamato uno sciopero generale e ai funerali dell’ucciso partecipò una
folla di circa 20.000 persone, tra cui le autorità cittadine, rappresentanti di varie organizzazioni e gli studenti in massa.
Pochi giorni dopo si ebbe la dichiarazione di guerra, che mise quasi del tutto a tacere ogni dissenso. Del resto, anche il «Giornale di Sicilia», il Circolo socialriformista di Tasca e Drago, la Camera del lavoro e buona parte degli aderenti al Circolo giovanile socialista si erano apertamente schierati per l’intervento. Persino «L’Ora», dopo le «radiose giornate di maggio», abbandonò
262
Palermo
la politica neutralista. A sventolare la bandiera dell’antimilitarismo rimasero soltanto pochi isolati socialisti, tra cui il sindacalista Orcel. Tasca, che un tempo era stato accanito antimilitarista,
partì addirittura volontario. E – a ulteriore dimostrazione del ribaltamento delle posizioni – poté finalmente partire anche l’avvocato Purpura, che alcuni anni prima era stato processato per
propaganda antimilitarista.
Se la partenza di Tasca per il fronte era forse il frutto di un
puro calcolo, per tanti altri giovani palermitani la partecipazione
volontaria fu un atto assai sentito e doveroso. Parecchi di essi vi
perdettero la vita, come il consigliere comunale Borgese, che aveva insistentemente sollecitato il suo richiamo alle armi; o come
Manfredi Trabia, figlio del principe Pietro, decorato di medaglia
d’argento, che guarito da una grave ferita al polmone chiese di
ritornare al fronte, per morire presso Treviso durante un bombardamento. Sorte analoga era toccata al fratello Ignazio – tre
medaglie d’argento al valore, ucciso presso Udine dopo un atterraggio di fortuna con l’aereo in avaria –, al nazionalista Ottavio Tasca, figlio del senatore Giuseppe, e al principe di Furnari.
Le granate austriache non facevano distinzione di classe!
Con l’eccezione dello sparutissimo drappello di socialisti ufficiali, fermi sulla linea del «né aderire né sabotare», e di un gruppuscolo di aristocratici capeggiati dai Mazzarino, che auspicavano la vittoria della Germania, la città si mobilitò interamente al
servizio della guerra. Mentre al fronte i giovani palermitani, dagli aristocratici ai più umili, si battevano eroicamente contro il
nemico, in città un Comitato di difesa civile si occupava della raccolta di fondi da distribuire in sussidi ai bisognosi; l’Alleanza
femminile distribuiva pane e pasta alle famiglie dei richiamati;
l’Associazione delle cucine economiche istituiva il servizio anche
nelle borgate; Annetta Chiaramonte Bordonaro, moglie del senatore Tasca Lanza, che aveva i figli al fronte, tra cui Ottavio,
apriva un ospedale di 250 posti letto per i soldati feriti, accudendo personalmente all’organizzazione; Villa Igiea era trasformata in ospedale per gli ufficiali britannici; la Chiesa era costantemente presente alle manifestazioni patriottiche, con una partecipazione così sentita quale mai si era verificata in passato, neppure al tempo della spedizione garibaldina, che aveva lasciato
piuttosto fredda, se non ostile, l’alta gerarchia; in particolare, il
VI. L’età giolittiana
263
cardinale Lualdi mostrava una fede incrollabile nella vittoria italiana e si impegnava in un’azione di assistenza civile e di sostegno morale ai militari in guerra e alle famiglie in patria, che dimostrano come ormai il 1870 fosse definitivamente superato nella coscienza della Chiesa palermitana; le scarse industrie della
città, infine, erano adibite alla fabbricazione di materiale bellico
(munizioni soprattutto) e la Ducrot tralasciava il reparto mobili
per dedicarsi alla costruzione di idrovolanti militari, con una forza lavoro di 1.500 addetti. Ma il grosso delle commesse militari
finiva inevitabilmente alla ben più attrezzata industria del NordOvest d’Italia, contribuendo al rafforzamento di alcuni gruppi
(Ilva, Ansaldo, Fiat, ecc.) e all’accrescimento del divario con il
resto del paese.
All’interno del Consiglio comunale, attenuatasi notevolmente
la litigiosità, l’opposizione all’amministrazione si ridusse a quella di gruppetti isolati che non sembravano collegati tra loro: Giuseppe Scalea, consigliere di opposizione, intervenendo sul bilancio di previsione del 1917, rilevava opportunamente come «il periodo che si attraversa impone di limitare le discussioni e le opposizioni». Le critiche riguardavano spesso l’impegno a favore
della popolazione in genere e delle famiglie dei combattenti in
particolare. Così Borgese, prima di ripartire ancora per il fronte,
sollecitò più volte il sindaco Tagliavia a intervenire più energicamente contro il rialzo dei prezzi dei generi alimentari e per la moralizzazione di alcuni settori della stessa amministrazione. E il barone Di Salvo criticava la politica di opere pubbliche (nel settembre 1915 si diede inizio alla costruzione del secondo tronco
di via Roma), convinto che tutte le energie dell’amministrazione
si dovessero concentrare «in un solo pensiero, nel sollevare le famiglie dei militari che in atto combattono per la grandezza della
Patria. Per tutto il resto l’amministrazione avrebbe dovuto fare
una assoluta politica di raccoglimento».
L’impegno di Tagliavia a favore della popolazione era comunque fuori discussione. Per tutto il periodo della guerra egli
esercitò il suo mandato con lo stesso spirito con cui lo avevano
inteso i suoi predecessori moderati e anche qualcuno dei democratici, cioè come servizio a favore della città e dei suoi abitanti,
a costo di rimetterci del proprio, anche se poi «Il Babbìo», un
periodico satirico, lo accusò del contrario. E perciò meritata-
264
Palermo
mente, nel 1918, il re gli conferì il titolo di conte. Allo scopo di
agevolare gli approvvigionamenti e per non far mancare il pane
alla popolazione, Tagliavia non esitò a sottoscrivere in proprio
cambiali per cifre consistenti. Palermo, così, a differenza di altre
città italiane, non subì tesseramenti per pane e pasta. Prima ancora che il governo istituisse gli «Enti pei Consumi», il Comune
aveva provveduto a istituire un suo servizio che si occupò, senza
alcun aggravio per la finanza municipale, anche dell’approvvigionamento di zucchero e di vari generi alimentari. Tagliavia assunse anche la presidenza, che non fu soltanto nominale, del Comitato cittadino di soccorso per le famiglie dei richiamati, tra i
quali erano anche parecchi consiglieri.
La guerra aggravò la situazione finanziaria della cassa comunale, già pesante per suo conto, come dimostra il fatto che nel
corso del 1914 – come già ai tempi di Trigona – l’amministrazione, secondo quanto riferiva l’assessore al ramo, si era trovata
nella impossibilità di «tacitare non solo gli impiegati, gli appaltatori dei pubblici servizi, i pensionati, i cessionari ed altri ancora per crediti di molto arretrati, ma anche i creditori di piccole
somme; i quali facevano ressa all’Ufficio di Finanza e che erano
ridotti a chiedere non più il pagamento del loro avere, ma la sola prenotazione per un possibile turno di mandati». E tutto ciò
senza considerare il debito verso la gestione del risanamento per
quasi 4 milioni, che al 31 dicembre 1916 faceva ammontare il deficit complessivo del Comune a quasi 11 milioni di lire, oltre un
consolidato di 28 milioni. La proroga di alcuni mutui e alcune
opportune anticipazioni consentirono di tirare avanti in attesa
della cessione allo Stato della riscossione dei dazi comunali.
Il Comune non aveva mai voluto cedere in appalto la gestione del dazio, perché essa offriva agli amministratori di turno la
possibilità di venire meglio incontro a certe richieste di impiego
e di transazione da parte dei propri elettori. La cessione allo Stato – per la quale Tagliavia ebbe il plauso incondizionato dell’opposizione e persino le lodi del barone Di Salvo, capo di un minuscolo gruppo di opposizione – era sicuramente un atto di coraggio, che rompeva legami consolidati tra pubblici poteri e delinquenza mafiosa e affrancava il Consiglio da pressioni e intimidazioni cui era difficile resistere a lungo. Per quanto interessato
a buttar fango sul sistema elettorale, non esagerava certo, alcuni
VI. L’età giolittiana
265
anni dopo, al tempo della prefettura Mori, un ammiratore del
sindaco Tagliavia, che così ne parlava:
I più grossi mafiosi – che oggi respirano le salutari aure del confino – vivevano di contrabbando e avevano per ciò interesse a mantenere e perpetuare il loro dominio, formidabile quanto indiretto, sulla cosa pubblica. Il grosso contrabbando veniva esercitato impunemente, che se qualche volta un agente onesto o malcontento si permetteva di fermare un rilevante carico, di cui era tentata l’immissione in franchigia entro la cinta daziaria, spuntava pronto il consigliere A o B della maggioranza che imponeva venisse lacerato il relativo
verbale. Onde il ricavato dei dazi, messo in rapporto alle tariffe, fu
sempre meno della metà della somma che si sarebbe dovuto riscuotere [...]. Ma, d’altra parte, come affrontare la mafia, se la mafia disponeva pienamente delle urne elettorali? Un’amministrazione che
avesse voluto mettersi contro la mafia era destinata a non più rivedere la luce del [...] sole elettorale. Per questo la gestione daziaria, sotto tutti i Sindaci, rimaneva affetta dal suo male, che era ritenuto male cronico e quindi non suscettibile di guarigione.
Dalla sindacatura Peranni [...] alla sindacatura Di Martino ed a
traverso le gestioni commissariali [...] s’era discusso e battagliato in
merito: or allungando, or restringendo la cinta daziaria, or nominando commissioni speciali, tal’altra deliberando inchieste, ma mentre
veniva più o meno velatamente rilevato che la piaga da sanare – con
energiche cauterizzazioni – era il contrabbando, nessuno – nemmeno
fra i più austeri in fatto di moralità – aveva il coraggio di proporre un
rimedio, atto ad estirpare la mala pianta della frode, sin dalle sue intime e profonde radici.
La cessione della riscossione dei dazi allo Stato dal 1º maggio
1917 forniva al Comune un minimo garantito di 10 milioni di lire l’anno, oltre i 9/10 sull’eventuale maggiore gettito, contro un
introito precedente di circa 8 milioni annui. Ciò consentiva di impostare su basi più sicure i bilanci immediatamente successivi e
di eliminare finalmente il pesante deficit, grazie alla contrazione
di nuovi mutui a tassi agevolati, che però portarono a 43 milioni il debito consolidato.
VII
PALERMO ‘FELICISSIMA’
1. Le contraddizioni della città
Gli anni dalla fine dell’Ottocento sino alla prima guerra mondiale sono rimasti nel ricordo nostalgico dei palermitani come i
più belli della città. Se Palermo meritò mai l’appellativo di felicissima – chi scrive ne dubita fortemente – per essa non ci sarebbe mai stata età più felice di quella degli ultimi Florio. In verità, la stragrande maggioranza dei palermitani fu appena sfiorata, e non sempre, dal profumo della belle époque, il cui fulgore
ha finito però col nascondere agli occhi dei posteri, come degli
stessi contemporanei, la realtà di una crescita lenta e insoddisfacente. Proprio in quegli anni, che furono di notevole sviluppo
economico per l’intero paese, la città accumulò nuovi grandi ritardi, che si aggiungevano ai precedenti e allargavano il divario
con le altre città italiane, rendendolo incolmabile. La favorevole
congiuntura internazionale, infatti, non riuscì a innescare che
scarsi meccanismi autopropulsivi e Palermo continuò a rimanere priva di infrastrutture essenziali: un nuovo grande ospedale,
per il quale non si andò oltre la posa della prima pietra, un porto più funzionale, migliori strade di collegamento con l’interno
dell’isola, una rete fognante e un macello adeguati, un quartiere
industriale, edifici scolastici, ecc.
Durante il primo trentennio di vita unitaria, malgrado l’incapacità dello Stato di rendersi subito conto delle sue difficoltà e
dei suoi bisogni, malgrado scelte infelici dell’amministrazione comunale, come la costruzione dei nuovi mercati o di un secondo
teatro tra i più grandi d’Italia, che per decenni assorbì capitali
268
Palermo
che non fu possibile destinare ad altri scopi, la città – come si è
già avuto modo di osservare – era notevolmente cresciuta ed era
riuscita a superare le difficoltà provocate dall’unificazione. Le testimonianze in tal senso sono concordi. Ma i limiti della crescita
non sfuggivano ai contemporanei. Edmondo De Amicis, ritornato a Palermo a distanza di quarant’anni, ritrovava nel 1906 una
città per tanti aspetti molto migliorata, ma non perciò libera da
antichi malanni e da profonde contraddizioni:
Palermo è la città di Sicilia – egli annotava – che fece una più meravigliosa cresciuta dopo il 1860. I Siciliani hanno ragione d’andarne
alteri. È una grande città [...] i nuovi quartieri eleganti, le nuove vaste piazze alberate, i nuovi magnifici passeggi pubblici, veri luoghi di
delizie, degni di Parigi e di Londra [...]. Ma è tutta uno spettacolo di
violenti contrasti questa stupenda e strana Città dei Vespri e di santa Rosalia [...]. Dal grande viale marino del Foro italico, un vero passeggio da Sovrani, dove corrono centinaia di carrozze aristocratiche,
si riesce in pochi passi lungo la vecchia Cala, dove una selva di brigantini, di paranze, di barcacce d’ogni più antica forma, siciliane, napolitane, pugliesi, greche, vi rappresentano tutte le miserie e le calamità della più avventurosa e dura vita marinaresca dei passati secoli.
Uscite da quell’enorme labirinto di viuzze oscure e sudicie, che si
chiama l’Albergheria, dove brulica una popolazione poverissima in
migliaia di fetidi covi, che sono ancora quei medesimi in cui si pigiavano gli Arabi di nove secoli or sono, e vi trovate dinanzi a un «Teatro Massimo» il più grande e il più splendido teatro d’Italia [...] e di
cui fu decretata la costruzione quando Palermo non aveva un ospedale che rispondesse ai suoi più stretti bisogni.
Le contraddizioni della città erano per Oreste Lo Valvo – un
nostalgico laudator temporis acti, che avrebbe voluto fermare il
tempo agli anni attorno al 1860 – addirittura conseguenza dell’unificazione:
Riattivatasi [...] con l’unità nazionale la sopita parentela tra le città
sorelle, e rese più facili dal crescente progresso le comunicazioni, Palermo fu colpita da quella cosidetta firnicia in cui ugualmente caddero le famiglie che, avendo contratto rapporti con persone più civili o
agiate, si avvidero tosto della deficienza e del vecchiume delle loro case e non seppero come fare per nascondere momentaneamente la
trionfante miseria [...]. E tenne, in vero, il medesimo sistema di quel-
VII. Palermo ‘felicissima’
269
le persone [...] che sentirono la necessità di rinnovare i loro appartamenti e che ciò praticarono, mettendo su con tutto il lusso possibile
le stanze di rappresentanza, mentre lasciarono in abbandono completo quell’altra parte della casa dove si svolge ordinariamente la vita della famiglia. Epperò, dopo il suo preteso ed incompleto rinnovamento, Palermo presenta tali cose pregevoli e tali vergogne imperdonabili, che non si vedrebbero nel più umile paese di provincia. Furon perciò spesi in breve corso di tempo per opere pubbliche e private considerevoli tesori, che misero la città in ottima evidenza, che
giovarono senza dubbio al suo ampliamento, ma che non corrisposero agli effetti di quel progresso civile cui si è dimostrata ostinatamente
refrattaria la pubblica coscienza.
Ma l’unificazione non ha niente a che vedere con le contraddizioni della città, che erano soprattutto effetto della sua storia
passata. Il confronto con una realtà diversa semmai ebbe il merito di renderle palesi agli stessi palermitani e agli increduli continentali, convinti a torto che Palermo fosse una città ricca e felice. In ogni caso, per quanti errori si siano potuti commettere,
per quanti limiti potesse avere la crescita del primo cinquantennio dopo il 1860, un confronto con il precedente periodo borbonico non regge: l’inserimento nel più vasto contesto italiano
consentì alla città, grazie anche allo sviluppo dei collegamenti via
mare con la terraferma (nel 1875 erano ormai giornalieri, «inopportunamente giornalieri», rilevava con dispiacere il Mortillaro),
di partecipare più attivamente e con maggiore consapevolezza alla vita moderna. Lo stesso Lo Valvo ammetteva a denti stretti che
«in molte cose ci si è guadagnato, che abbiamo i nuovi rioni, la
luce elettrica, l’acqua di Scillato, gli automobili e il pane municipale; non si nega che esteticamente tutta la vita ha miglior nutrimento, che l’istruzione è progredita». Anche se poi, per il resto,
egli rimpiangeva tutto: i tempi quando il palermitano non si era
«truccato da gran signore», «quando quella che si chiamava città
restava dentro le mura»,
i tempi beati in cui non vi erano omnibus, biciclette, tranvie elettriche, automobili, carrozzelle a due posti [...], i fonografi, i grammofoni, i cinematografi, i cinquantamila negozi di nastri, piume e trine;
non esistevano le botteghe di fiori, le corone per i morti, i mazzi di
matrimonio [...], non erano di moda l’influenza, l’appendicite, la ne-
270
Palermo
vrastenia e la facchinaggine e mancavano le Case di salute per il commercio degli infermi [...]. Era sconosciuto l’uso del thè sia di giorno
che di notte; non si erano inventati i servizi a domicilio [...], lo
smooking non si era ancora inventato [...]. Gli abiti si tramandavano
di padre in figlio ed erano soggetti alla metempsicosi.
Il fastidio del Lo Valvo per le novità portate dal progresso dei
tempi, che disintegravano sempre più le posizioni di privilegio
tenute da nobili e ‘civili’, è la dimostrazione più convincente che
la città era comunque cresciuta. Se però sino al Novanta i ritmi
di crescita non appaiono diversi rispetto ad altre città, la situazione cambia completamente negli anni della ripresa dell’economia mondiale, che a Palermo coincidono con quelli della belle
époque e sono caratterizzati da uno squilibrio costante tra bisogni crescenti della popolazione e possibilità di soddisfarli, a causa di uno sviluppo ineguale rispetto alla parte più avanzata del
paese e persino ad altre città siciliane come Catania e Trapani.
2. Sviluppo demografico ed espansione urbanistica
La popolazione palermitana era passata dai 194.463 residenti del 1861 ai 221.754 del 1871, 241.618 del 1881, 305.716 del
1901, 336.148 del 1911, con un incremento del 73 per cento (Sicilia +59 per cento), che era sicuramente notevole, soprattutto se
confrontato con il basso incremento del trentennio precedente,
e faceva di Palermo la quarta città d’Italia sino al 1871 e successivamente la quinta, dopo Napoli, Milano, Roma e Torino; e tuttavia lontano da quello verificatosi contemporaneamente in città
come Catania (+206 per cento), Milano, Bari, Taranto, Roma, Firenze, Siracusa, Trapani, ecc., interessate da flussi migratori più
consistenti, per effetto di un migliore sviluppo economico. L’incremento demografico era dovuto per oltre i 4/5 al movimento
naturale ed era effetto del rapido abbassamento del quoziente di
mortalità che compensava abbondantemente il lento abbassamento del quoziente di natalità, che comunque si manteneva elevato. L’apporto dell’immigrazione da altri centri dell’isola era
modesto, limitato, soprattutto dopo che era cominciata l’emigrazione transoceanica, quasi esclusivamente alla nobiltà minore,
VII. Palermo ‘felicissima’
271
che si trasferiva dalla provincia, e agli studenti universitari, che
a conclusione degli studi talora non ritornavano più ai paesi d’origine. Dalle zone industrializzate del Nord (e spesso anche dall’estero) venivano operai specializzati e tecnici. Negli ultimi anni
dell’Ottocento, comunque, il saldo del movimento migratorio diventò addirittura passivo. Rispetto alla popolazione dell’isola e
della provincia, i residenti a Palermo, che nel 1861 costituivano
rispettivamente l’8,1 e il 33 per cento, rappresentavano nel 1911
l’8,2 e il 41 per cento, a dimostrazione che nel cinquantennio il
ruolo di Palermo non era cambiato rispetto alla Sicilia, ma cominciava invece a modificarsi sostanzialmente rispetto alla sua
provincia, la quale sentiva molto di più del capoluogo gli effetti
dell’emigrazione oltreoceanica.
L’incremento della popolazione cittadina comportava una serie di nuovi problemi di difficile soluzione, primo tra tutti quello dell’alloggio. Se i dati dei censimenti ottocenteschi sono corretti (il dubbio è più che legittimo), le 15.217 abitazioni del 1861
servivano a 38.301 famiglie, con un rapporto di 0,4 abitazioni per
famiglia, sceso addirittura a 0,24 nel 1881. Nel 1901, grazie alla
costruzione di nuovi rioni e forse anche a una maggiore cura nel
rilevamento dei dati, la situazione appare notevolmente migliorata: 56.019 abitazioni per 56.985 famiglie, con un rapporto pari a 0,98, che in realtà era però più basso perché i proprietari preferivano tenere disabitate oltre un decimo delle abitazioni. Non
tutte le famiglie quindi avevano un proprio tetto e alcune centinaia vivevano addirittura in 426 abitazioni sotterranee. Quasi la
metà delle abitazioni (26.470) era poi costituita da pianterreni, i
famosi catodi, e gli ammezzati erano 995. Che cosa fossero i catodi disseminati nei vicoli e cortili della vecchia Palermo, ce lo
spiega il Giarrusso, il progettista del piano di risanamento e ampliamento del 1885:
Quivi una sdrucita porta dà ingresso ad un tugurio, sovente senza altro vano che dia luce ed aria, il pavimento di rossi mattoni porosissimi, talvolta ad un livello al di sotto del suolo stradale, ovvero
costituito dal solo terriccio calcato, senza massicciata né malta idraulica a garanzia dell’umidità, ed ove le cloache sono poste immediatamente al disotto del pavimento, le pareti che grondano acqua ed umidità in tutte le stagioni, e coverto da solaio; in un angolo trovasi il mi-
272
Palermo
sero focolare, e sottostante un catino bucato che serve da cesso, da
smaltitore delle acque luride ed altri usi, fomite perenne di tutte le
infezioni. Se si aggiunge l’angustia dei vicoli e dei cortili, così che manca per nove mesi dell’anno la luce e il sole, si avrà un’idea di quanto
di putrido esiste nella città nostra.
La situazione più critica era – come si è detto – nel rione dell’Albergheria, che il giovane poeta Onufrio, non a torto, considerava nel 1882 «il serbatoio delle nostre miserie e delle nostre
sozzure, laddove si agglomera una plebe, cui tutto fa difetto: l’aria, il vitto, l’educazione, le vesti, il giaciglio»; un rione «rattristante con quelle sue catapecchie nere, sudicie, basse, dove intere famiglie si agglomerano e dormono sullo sporco pavimento,
unico letto; con quei bambini magri e cenciosi, consumati dalla
fame e dalla scrofola; con quelle donne vecchie a trent’anni, e che
furono belle per sì poco tempo; con quegli uomini senza lavoro
e senza forze, coi piedi ignudi e la pupilla spenta». A quelle scene agghiaccianti il poeta aveva assistito personalmente:
Io le ho salite quelle ripide scalette di legno; io li ho visti quegli
antri oscuri, ingrommati di muffa, dove stanno ammucchiate intere
famiglie, senza pane, senza letto, senza speranza. Per loro l’avvicendarsi delle stagioni non è che un mutar di sofferenze. Per loro non ha
dolcezze la primavera, né tiepori l’inverno. Gli uccelli non cantano
sugli aggetti dei loro tuguri. Il sole che sorride nell’azzurro profondo, penetra in quella fangaia pallido e stanco, come dentro la cella
d’un prigioniero. Se cotesta è retorica, lapidatemi pure: io non cesserò mai di farne. E ogni volta che vo gironzolando qua e là per l’Albergheria, io sogno di possedere una martellina incantata, per tracciare in quel quartiere nuove strade e nuove piazze, per dare un po’
di luce, un po’ d’aria, un po’ di sole a quella povera gente.
Proprio l’Albergheria era il quartiere dove più diffusa era la
prostituzione e forse anche la criminalità (gli ammoniti del mandamento erano 126 sui 224 dell’intera città), per la quale la provincia di Palermo, stando alle statistiche giudiziarie del 19021906, era ai primissimi posti nel Regno, con i suoi 29 omicidi volontari l’anno per ogni 100.000 abitanti (Sicilia 22, Regno 9), 522
furti (Sicilia 433, Regno 416), 33,6 rapine (Sicilia 31,4, Regno 12),
94 truffe (Sicilia 86, Regno 67), 52 delitti contro la fede pubbli-
VII. Palermo ‘felicissima’
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ca (Sicilia 38, Regno 40). Le abitazioni delle borgate erano migliori solo nel senso che erano meno umide e più aerate e consentivano una migliore pulizia, ma per il resto la situazione di
promiscuità non era diversa: «Nell’unica stanza – annotava Primo Levi, all’inizio del nuovo secolo – abita la famiglia, spesso numerosissima, e vi compie le sue naturali funzioni – nessuna esclusa – senza pregiudizio di quelle del porco, del ciuccio, della vacca, delle galline, che, o l’uno o l’altra, o magari tutti insieme, completano la famiglia stessa, e la nutrono».
La città, se si eccettua a sud-est il rione della stazione centrale negli Orti Trippodo, nel primo trentennio dopo l’unificazione
si era sviluppata soprattutto a nord-ovest, favorita dalla dislocazione dei due teatri – il Massimo a Porta Maqueda e il Politeama più a nord –, che se da un lato si inseriva nella direttrice di
espansione urbana verso la Favorita, dall’altro contribuiva a fissarla definitivamente. Le nuove costruzioni avevano interessato
così gli Orti Carella, tra le attuali vie Stabile ed E. Amari; la zona tra corso Scinà e piazza Ucciardone (detta allora Borgo Nuovo); la contrada Madonna dell’Orto tra piazza Guarnaschelli (oggi piazza G. Amendola), corso Olivuzza (corso Finocchiaro Aprile) e via Lolli (via Dante); la proprietà Boscogrande (attuale via
Marconi e strade adiacenti); i terreni del principe di Radalì, a valle della via Libertà, tra il Politeama, piazza Croci e il Borgo Nuovo; la proprietà Montalbo al Molo. Ma ancora sino all’Esposizione Nazionale del 1891-1892, i nuovi rioni presentavano larghissimi spazi vuoti e si può dire che – tranne nei rioni Carella e
Borgo Nuovo – le costruzioni fiancheggiassero soltanto le strade
principali. Lo stesso rione Carella non si era interamente saldato con il Borgo Vecchio e neppure il rione Radalì – urbanizzato
soltanto nella parte latistante la via Libertà – con il Borgo Nuovo; il firriato delle rose, cioè la zona tra via Villafranca e via Libertà, fu spianato soltanto per costruirvi i padiglioni dell’Esposizione; la via Lolli era fabbricata soltanto in prossimità della stazione ferroviaria e su un solo lato; il rione Madonna dell’Orto si
riduceva alle abitazioni latistanti la parte bassa di corso Olivuzza e l’inizio di via Malaspina (attuale via B. Latini). A sud-est, se
la zona tra corso dei Mille e via Oreto era urbanizzata per la presenza della nuova stazione centrale, in via Oreto le costruzioni
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Palermo
coprivano solo il tratto più vicino al vecchio centro, corso Tuköry
aveva spazi vuoti e il rione Perez o Feliciuzza non esisteva.
D’altra parte, ancora sino all’Esposizione, i palermitani continuavano a preferire i vicoli sovraffollati dei vecchi mandamenti: gli affitti delle abitazioni dei nuovi rioni erano troppo elevati
per la gran massa degli abitanti e, paradossalmente, alquanto modici per il ceto dei professionisti e degli impiegati, e perciò tali
da suscitare il sospetto che il trasferimento fosse dovuto a ristrettezze finanziarie, in un’età in cui la gerarchia sociale era stabilita anche in base all’entità della pigione pagata. E così, almeno sino al 1891, la popolazione dei mandamenti interni continuò
anch’essa a incrementarsi, trovando sistemazione nelle nuove soprelevazioni che rendevano ancor più strette e buie le strade del
vecchio centro. Non tutto l’incremento demografico cittadino veniva infatti assorbito dai nuovi rioni, ma solo la metà, un quarto
dalle borgate e un quarto ancora dalla vecchia cinta urbana, che
continuava a essere la residenza preferita dei professionisti e la
sede esclusiva degli uffici pubblici e delle attività commerciali. E
quei pochi che avevano scelto i nuovi rioni rarissimamente abitavano oltre la via Lincoln da un lato e piazza Castelnuovo dall’altro.
Gli uffici pubblici erano ancora tutti ubicati nel centro storico. La proposta nel 1885 dell’ingegnere Giarrusso di acquistare
il palazzo e il giardino ai Quattro Canti di campagna dei duchi
di Villarosa, per farne il nuovo Palazzo del Comune, era rimasta
senza seguito e gli uffici comunali continuavano a funzionare nell’antico Palazzo delle Aquile di piazza Pretoria e negli ex conventi di S. Anna, di S. Nicolò da Tolentino e della Mercé al Capo. Nel 1890, la Provincia aveva abbandonato i locali del Palazzo dei Ministeri di piazza Vittoria, che divideva con la Prefettura e il Provveditorato agli Studi, ma il trasferimento avvenne sempre nell’ambito della vecchia città, perché era meno oneroso affittare un palazzo come quello in via Maqueda del principe di
Comitini, che costruirne uno nuovo. Nella stessa via Maqueda
era ubicata dal 1805, nella ex Casa dei Padri Teatini, l’Università
(attuale facoltà di giurisprudenza), mentre la Scuola di applicazione per gli Ingegneri istituita nel 1867 era stata sistemata nel
palazzo di fronte, l’ex monastero di S. Simone detto La Martorana. In piazza Vittoria, oltre alla Prefettura, c’erano le sedi del-
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la Questura nell’ex monastero di S. Elisabetta e del Comando
Militare, che occupava il Palazzo Reale, come allora si chiamava
Palazzo dei Normanni. L’ex collegio Massimo dei Gesuiti di corso Vittorio Emanuele, che sino al 1860 aveva ospitato una parte
dell’Università, era diviso tra la Biblioteca Nazionale (oggi Biblioteca Centrale della Regione Siciliana), il Liceo-ginnasio Vittorio Emanuele, il Ginnasio Meli e la Scuola tecnica serale degli
operai. Le altre scuole di secondo grado, istituite numerose dopo l’unificazione, erano quasi tutte ubicate nelle vicinanze: il Ginnasio Garibaldi nell’ex convento dei Benfratelli; il Ginnasio Umberto nell’ex convento di S. Anna in piazza Sant’Anna; l’Istituto
industriale e professionale (attuale Parlatore), la Scuola Normale Maschile (poi Magistrale De Cosmi) e la Scuola di commercio
e lingue straniere nell’ex convento di S. Biagio in via Montevergini; la Scuola Normale Femminile R. Margherita (poi Magistrale) e la Scuola tecnica D’Acquisto nell’ex convento del SS. Salvatore; l’Istituto delle Belle Arti al Papireto; la Scuola tecnica
Piazzi nell’ex convento di S. Nicolò da Tolentino in via Maqueda; le scuole di canto e per i ciechi in via P. Novelli; l’Educatorio Maria Adelaide all’inizio di corso Calatafimi. Più decentrate,
ma sempre nella vecchia città, erano le scuole tecniche Gagini
(nell’ex convento di S. Basilio in via San Basilio) e Scinà (via
Schiavuzzo), e l’Istituto dei sordomuti (via Cavour). L’Istituto
Nautico era da sempre distante dal centro, in via Molo.
Gli uffici finanziari, bancari e giudiziari erano concentrati a
piazza Marina e nelle adiacenze: Intendenza di Finanza nell’antico Palazzo della Zecca; Tesoreria provinciale, Uffici delle Imposte, Conservatoria delle Ipoteche e Avvocatura erariale nel Palazzo delle Finanze (l’antica Vicaria), il cui secondo piano era occupato da Banco di Sicilia, Banca Nazionale e, dal 1873 al 1891,
anche dalla Cassa di Risparmio V.E., che ormai si era trasferita
nell’ex convento dei Padri Mercedari in via dei Cartari, dove a
piano terra si era sistemata la Camera di Commercio. Il Credito
Mobiliare Siculo e la Banca Siciliana di Anticipi e Sconti degli
Amato Pojero erano anch’essi in piazza Marina; la Cassa dei piccoli depositi e prestiti per gli operai in via piccola Santa Cecilia;
la Banca Popolare in via Isnello; la Banca Segestana, la Banca
Cooperativa La Sicilia e forse anche la Banca Unione in via Porto Salvo. Corte di Cassazione, Corte d’Appello, Tribunale e Pro-
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Palermo
cura occupavano l’antico Palazzo Steri; la Dogana gli edifici retrostanti; la Corte d’Assise era sistemata in via del Parlamento, la
Procura Generale in corso Garibaldi e le preture in piazza SS.
Quaranta Martiri. L’ufficio postale era a piazza Bologni, nella
chiesa di S. Nicolò dei Padri Carmelitani. L’Ospedale Civico era
disseminato in vari plessi: S. Francesco Saverio nell’omonimo ex
convento gesuitico in via Albergheria, Concezione nell’omonimo
ex monastero a Porta Carini, dei tisici in via Guglielmo il Buono, dei deformi in contrada Noce, di Baida nell’omonima contrada, dei bambini nell’ex monastero dell’Annunziata a Porta
Montalto; l’Ospedale dei sacerdoti era in via M. Bonello, dei militari nell’ex convento dei Domenicani (attuale caserma Cangialosi della GG. FF.), il Sifilicomio in piazza dello Spasimo, il Manicomio in corso Pisani con succursale dal 1873 nella ex villa gesuitica La Vignicella di via Pindemonte, dove nell’ultimo decennio dell’Ottocento si cominciò a costruire il nuovo Ospedale Psichiatrico, completato all’inizio del secolo. L’Ospizio Marino, sorto nel 1865 per volontà di Enrico Albanese e destinato al ricovero
dei fanciulli infermi, fu ubicato in un antico «casino reale» dei
Borboni in contrada Acquasanta.
Per le nuove infrastrutture (alberghi, per esempio), cominciavano a preferirsi però le zone di più recente urbanizzazione.
Nel 1873, la nuova città era ancora completamente priva di alberghi, se si eccettuano il S. Oliva nell’omonima piazza e alcune
antiche locande in corso dei Mille e in via Lincoln. Gli alberghi
di moda erano ancora l’Hôtel de France e l’Albergo Trinacria,
dove alloggiavano gli stranieri e l’alta aristocrazia in visita alla
città, gli artisti del Teatro Bellini e poi del Politeama, i ministri e
i grandi uomini politici in occasione delle campagne elettorali o
di importanti manifestazioni. In corso Vittorio Emanuele, l’antico Palazzo Tarallo (poi Arcuri) era stato trasformato nell’Albergo Centrale e in piazza Marina, angolo via Quattro Aprile, l’Albergo d’Italia aveva sostituito l’antico Albion Hôtel, sino a quando nel 1887 il palazzo fu acquistato dal commerciante genovese
Nicolò Dagnino, che ne fece la sua residenza. Nel 1892 la situazione appare completamente diversa. Il cavaliere Enrico Ragusa,
che era succeduto al padre nella gestione del Trinacria, avendo
intuito che la città si spostava verso nord, attorno alla metà degli anni Settanta aveva preso in affitto e poi acquistato la casa de-
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gli eredi Ingham, per trasformarla nell’Hôtel des Palmes, che da
allora diventò il più elegante e prestigioso albergo del centro e
cominciò a mettere in crisi sia il France che il Trinacria. Il Palmes fu presto affiancato da altri nuovi alberghi: Internazionale in
via Stabile, Hôtel de la Paix (poi Excelsior Palace) e Hôtel Royal
des Étrangers in via Libertà, Hôtel Milano in via E. Amari, Hôtel dell’Esposizione in via Q. Sella, Hôtel Viola in via Abela: Palermo era pronta ad accogliere i visitatori dell’Esposizione.
Subito dopo l’Esposizione Nazionale, il ruolo dei nuovi rioni
cominciò rapidamente a modificarsi: l’area compresa tra la via
Libertà e la via Villafranca si urbanizzò e la via Libertà si ricoprì
di villini stile liberty, che costituirono un polo urbano con caratteristiche completamente diverse rispetto al centro storico, ma
non ancora autonomo. Si avverava ciò che Pipitone Federico aveva temuto proprio nei giorni dell’Esposizione:
Alcuni anni addietro – scriveva – la moda di fabbricare in questo
sito ridente [= via Libertà] – ch’è la passeggiata invernale de’ Palermitani – non era invalsa ancora e dalle ville e dai giardini, distendentisi a perdita di vista, gli effluvi della zagara inebriavano – verde, verde e fiori d’arancio, qua e là degli ulivi saraceni o delle capre brucanti; e in fondo il mare, il bel mare siciliano – degno sfondo di un
panorama incantevole. Ora la libidine di fabbricare, non sempre giustificata da’ crescenti bisogni della popolazione, e la tendenza del secolo borghese a trar guadagno da tutto, van facendo guerra mortale
a codeste naturali bellezze e non è audace prevedere che da qui a un
decennio, di tanta lieta verdezza, di tanta delizia di paesaggio non resterà altro che il solo Giardino Inglese.
Pipitone Federico fu facile profeta: solo che se ieri egli piangeva sulle bellezze naturali distrutte, oggi noi invece piangiamo
quella città perduta che la committenza aristocratica e borghese
dei decenni a cavallo tra i due secoli aveva saputo creare, affidandosi ai più bravi architetti locali. Strano destino, quello dei
posteri, di avere sempre qualcosa su cui lacrimare, tranne poi a
fare assai ben poco per non costringere i propri posteri a versare altre lacrime!
Diversamente dalla zona in prossimità della stazione centrale
(inaugurata nel 1886), interessata da attrezzature commerciali e
da un’edilizia più economica, le zone di espansione a nord-ovest
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Palermo
si caratterizzavano per un’edilizia residenziale di pregio, la cui
espressione più raffinata era appunto il villino stile liberty, ma anche gli edifici a più piani con appartamenti condominiali che, oltre ai nuovi comfort quali ascensori, bagni e talora anche riscaldamenti a termosifone, avevano spesso una dignità artistica che
mancava a quelli ubicati in altre zone e considerati più economici. L’interprete più geniale del nuovo stile fu Ernesto Basile,
figlio di Giovan Battista Filippo, a cui successe nel 1891 nella cattedra di architettura. A lui si debbono – oltre ai padiglioni dell’Esposizione Nazionale e al completamento della Villa Favaloro
in piazza Virgilio iniziata dal padre, con cui si apre l’art nouveau
siciliana – la Villa Chiaramonte Bordonaro alle Croci, la facciata
del Palazzo Francavilla (ex Sperlinga, oggi Pecoraro, all’angolo
tra piazza Verdi e via R. Settimo) nel 1893, i chioschi Vicari e Ribaudo in piazza Verdi (1894-1897), il Palazzo Paternò al Borgo
(distrutto dai bombardamenti dell’ultima guerra), Villa Igiea all’Acquasanta e il villino Florio all’Olivuzza nel 1899, il villino del
barone torinese Fassini in piazza A. Gentili (1903), il villino Basile in via Siracusa (1903), Villa Deliella alle Croci (1905), la sede della Cassa di Risparmio in piazza Borsa (1909-1912), il Palazzo delle Assicurazioni Generali Venezia in via Roma (1913), il
kursaal Biondo, poi Teatro Nazionale, tra le vie E. Amari e principe di Belmonte (1914), il chiosco Ribaudo in piazza Castelnuovo (1916), ecc. Fuori Palermo, Basile progettò alcuni edifici
pubblici in Brasile, palazzi privati ed edifici pubblici in altri centri dell’isola, e ancora l’ampliamento di Montecitorio e la nuova
aula della Camera, su cui la critica si è espressa piuttosto negativamente.
Ma se Basile fu il più grande, e come tale meritatamente famoso a livello internazionale, a lui si affiancarono parecchi altri
architetti, qualcuno dei quali suo allievo, che ne ripresero i motivi aprendosi anche ad altre influenze e contribuendo con le loro opere nell’area compresa tra la vie Stabile e Notarbartolo a fare di Palermo, durante il primo ventennio del nuovo secolo, una
delle capitali dell’art nouveau. E perciò ricordiamo Vincenzo Alagna per il Palazzo Dato (1903), per il quale si è parlato quasi di
una rottura nel panorama del liberty palermitano e di influenza
del liberty francese; Ernesto Armò per Palazzo Cirincione in via
Villareale (1908) e Palazzo e cinema Utveggio in piazza Verdi
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(1914); Filippo La Porta per Villa Caruso in via Dante (1908);
F.P. Rivas per Palazzo Ammirata in via Roma (1908-1911); Salvatore Caronia per il cinema Excelsior, poi Modernissimo, in via
Stabile (1914), G.B. Santangelo per Palazzo e cinema Massimo
in piazza Verdi (1921).
Nel periodo tra l’Esposizione Nazionale e la prima guerra
mondiale l’urbanizzazione dei nuovi rioni poteva dirsi quasi completata e l’espansione della città interessava già nuove zone: i terreni del principe di Formosa, tra il prolungamento di via Libertà,
via Sampolo, Villa Amato Pojero e Villa Ranchibile; i terreni Notarbartolo di Sciara a valle di via Sampolo; la proprietà Giachery
all’Ucciardone; la vigna del Gallo in via Lincoln (rione Archirafi); la zona tra corso Calatafimi e corso Pisani in prossimità di
piazza Indipendenza; il rione Perez alla Stazione; le traverse della parte alta di corso Tuköry.
L’aspetto negativo del processo di urbanizzazione del cinquantennio è costituito dal fatto che spesso non si tenne conto
né del piano regolatore generale, quando fu approntato, né dei
regolamenti edilizi, perché i proprietari preferivano non richiedere neppure la licenza di costruzione e pagare piuttosto la modica contravvenzione, che valeva a sanare tutte le opere irregolarmente eseguite. E perciò nei nuovi rioni spesso si costruì in
modo indiscriminato e senza che i costruttori si facessero carico
degli oneri per l’apertura di strade e l’impianto di servizi, che venivano pesantemente a gravare sulle finanze comunali, mentre i
proprietari dei suoli dalla cessione in enfiteusi delle aree edificabili ai costruttori percepivano annualmente utili consistenti. Le
aree appartenevano soprattutto a esponenti dell’aristocrazia vecchia e nuova, ma anche a borghesi. Proprietario degli Orti Carella era forse inizialmente il conte delle Mandre, originario di
Leonforte, che tra il ’51 e il ’54 risulta socio del Casino di Dame
e Cavalieri. Nel 1856 ne era comunque proprietario il principe
di Radalì, da cui Ingham acquistò il terreno per costruire il suo
palazzo. In prossimità degli Orti Carella esisteva un «girato» Lo
Verde, famiglia chiaramente borghese, come i Guarnaschelli e i
Cavarretta, proprietari di terreni in contrada Madonna dell’Orto. Il principe di Radalì era il tedesco George Wilding, che aveva sposato la principessa di Butera, da cui probabilmente – assieme alla villa all’Olivuzza, poi acquistata da Florio – aveva ere-
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Palermo
ditato i terreni tra via Libertà e il Borgo. Alla sua morte nel 1842,
terreni e titolo passarono al fratello Ernest e successivamente al
figlio di costui Ernesto Giorgio, ai cui eredi durante la prima
guerra mondiale lo Stato italiano sembra abbia confiscato tutto.
Del «firriato delle rose» era proprietario il principe di Villafranca e forse lo stesso Radalì, mentre a monte, oltre al notaio Girolamo Guarnaschelli Ganci e ai Cavarretta, possedevano terreni il
conte di Gallitano (suocero di Ignazio Florio), gli Scordia, il barone Boscogrande e, ancora più a monte, la marchesa Flavia Marino Airoldi e il cavaliere Beneventano di Lentini. Il Beneventano era proprietario del piano di Malfitano, venduto nel 1885 a
Joseph Whitaker jr., il quale vi costruì una sontuosa villa con parco, su progetto dell’architetto Ignazio Greco. Oltre piazza Croci, a parte i terreni dei Giachery, le zone di espansione erano proprietà della nobiltà: principe di Formosa, Notarbartolo di Sciara, duchessa di Montalbo. A sud, la vigna del Gallo apparteneva
ai duchi Vanni d’Archirafi, mentre non mi è stato possibile accertare a chi appartenessero gli Orti Trippodo e i terreni tra via
Oreto e corso Tuköry e tra corso Pisani e corso Calatafimi.
Altrettanto consistenti erano gli utili dei costruttori, il più noto dei quali era Giovanni Rutelli, un ex capomastro che aveva
avuto in appalto i lavori di costruzione del Teatro Massimo sino
al 1889 e che abitava in un grande palazzo di via Libertà, dove
il figlio Mario, scultore, aveva impiantato la sua fonderia. Secondo il console austriaco a Palermo, nel 1914, il prezzo di costruzione a metro cubo non superava le 15 lire, un costo considerato modesto, perché nelle vicinanze della città si trovava ottimo
materiale: la «pietra dell’Aspra», con cui si costruivano i muri
principali fuori terra, e la pietra calcarea delle montagne circostanti per le fondazioni. Anche allora, come in passato, l’attività
edilizia finiva perciò con l’essere l’industria più importante della
città. Con affitti medi di 200 lire per ambiente utile, i nuovi appartamenti fornivano una rendita annua del 5-6 per cento, che
veniva considerata abbastanza elevata e che ovviamente incentivava ancor più la vocazione all’edilizia, e quindi alla rendita fondiaria, dei possessori di capitali, perpetuando un’antica e radicata mentalità. E infatti la nobiltà vecchia e nuova continuava a impiegarvi la rendita fondiaria dei latifondi dell’interno e i nuovi
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ricchi i capitali accumulati con gli appalti, i commerci, le libere
professioni.
I nuovi rioni a nord-est tra Ottocento e Novecento vennero
così presi d’assalto da esponenti della nobiltà più recente, dal titolo talora incerto, quando non chiaramente abusivo, che non
avevano avuto il tempo di radicarsi nel centro storico; dai nuovi
ricchi e dalla borghesia benestante degli affari e delle professioni, ma anche da alcuni della vecchia nobiltà, che avevano preferito abbandonare i palazzi aviti per dimore più confortevoli; da
impiegati e piccoli commercianti, i quali continuavano a conservare il centro dei loro affari nei vecchi quartieri, che raggiungevano giornalmente grazie allo sviluppo dei collegamenti tranviari. Il trasferimento a fine Ottocento del Circolo Unione (già Nobile Conversazione) da piazza Bologni in via R. Settimo, seguito
nel 1905 dal Circolo Bellini (come dopo il 1860 si chiamò il Casino di Dame e Cavalieri), che dopo un secolo lasciava l’antico
Palazzo dei marchesi di Santa Lucia per il Palazzo dei duchi di
Villarosa ai Quattro Canti di campagna, e ancora la chiusura, nel
1911, dell’Albergo Trinacria di via Butera sono il segno inequivocabile che ormai il cuore della città si era definitivamente spostato nella zona tra il Massimo e il Politeama, che aveva a nord i
nuovi eleganti quartieri residenziali e a sud i vecchi mandamenti, ancora sede degli uffici pubblici e delle attività commerciali,
ma da cui ormai coloro che ne avevano la possibilità tendevano
ad allontanarsi, soprattutto le nuove generazioni meno legate all’ambiente e ai ricordi della vecchia città.
Era come se Palermo si spaccasse in due: da un lato i vecchi
mandamenti, dove erano concentrate quasi tutte le attività terziarie, si esercitavano i mestieri più tradizionali, abitavano i ceti
più umili; dall’altro lato le zone residenziali, al cui interno, ma
più spesso ai margini, sorgevano anche insediamenti industriali.
Persino gli uffici pubblici di nuova istituzione venivano sistemati nei vecchi mandamenti, dove ancora c’erano edifici ex religiosi e di opere pie da utilizzare oppure antichi palazzi nobiliari, i
cui proprietari si erano trasferiti nei nuovi rioni. Solo per i nuovi edifici delle scuole elementari si scelsero aree ai margini del
centro storico, in modo che potessero servire sia la vecchia città
che i nuovi rioni.
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Palermo
3. La ‘belle époque’
Già all’inizio del Novecento, una metà dell’aristocrazia cittadina abitava nella città nuova. Si trattava complessivamente di 80
dei 163 titolati veri e abusivi di cui è stato possibile individuare
il domicilio. Gli altri – quasi sempre della nobiltà più antica, legata ai palazzi aviti, ma anche ai quartieri e alla gente che vi viveva – abitavano ancora nel centro storico, nei pressi di piazza
Marina, in via Alloro, via Maqueda, corso V. Emanuele, ecc. Negli anni successivi, alcuni chiuderanno le antiche costose dimore, ricche di stanze semivuote e ritratti di antenati alle pareti, ed
emigreranno anch’essi nei nuovi rioni.
All’interno della grande aristocrazia palermitana erano avvenuti profondi sconvolgimenti. Alcuni prestigiosi titoli nobiliari
avevano abbandonato la città, altri erano addirittura scomparsi,
altri ancora erano decaduti e passati ormai a famiglie senza storia e conseguentemente senza prestigio, emerse dalla piccola nobiltà di provincia e talora dalla borghesia cittadina. Proprio la
piccola nobiltà di provincia fece incetta di grossi titoli, grazie a
ben combinati matrimoni con le ultime rappresentanti di illustri
casate. Non mancavano tuttavia i rampolli dell’aristocrazia che si
orientavano verso le figlie dei ricchi commercianti stranieri in
città. Verso la fine del secolo si assiste poi alla prodigiosa moltiplicazione del numero dei titolati, non tanto per il trasferimento
in città di provinciali, che sembra assai più contenuto rispetto al
periodo borbonico (d’altra parte, di nobili in provincia ne erano
rimasti ben pochi!), quanto perché quasi tutti i cadetti – soprattutto dopo l’istituzione nel 1889 delle commissioni araldiche regionali volute dal governo Crispi, che forse intendeva favorire la
nobilitazione di elementi borghesi – avevano ritenuto di doversi
attribuire un titolo, che, anche se non sempre fu poi riconosciuto ufficialmente, continuò tuttavia a fregiare sino alla morte il detentore («titolo di cortesia»).
I cadetti delle famiglie nobili – osservava il Lo Valvo – non si contentano più del cavaliere, ma dal titolo di principe a quello di barone scelgono liberamente, combinandosi il feudo che loro meglio aggrada. Fatta la scelta, tra la carta da visita che reca lo stemma, il ca-
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meriere, il guardaporta, il cocchiere che gridan marchese, il marchese è fatto. Dal falso marchese poi ne viene la falsa marchesa.
La moltiplicazione dei titoli nobiliari ebbe ripercussioni notevoli nella vita della città. La competitività ne risultò incredibilmente aumentata, perché i vecchi aristocratici non intendevano
rinunziare all’antico prestigio, che vedevano sempre più appannato dall’aggressività delle nuove famiglie e dall’avanzata della
borghesia, i cui elementi di spicco – malgrado le modifiche al
funzionamento della consulta araldica sotto il governo Crispi –
era assai più difficile che nei secoli precedenti cooptare tra le proprie file. E ciò non tanto perché il ceto borghese avesse creato
valori propri cui non intendeva rinunziare (tranne i Florio, che
non vollero mai accettare un titolo nobiliare, i borghesi palermitani erano felicissimi quando potevano entrare nei ranghi della
nobiltà), quanto perché, dopo l’abolizione della feudalità nel
1812, era venuta meno la possibilità di accesso automatico alla
nobiltà attraverso l’acquisto di un feudo, e anche perché ormai
il ceto borghese si era notevolmente allargato per l’ascesa sociale di nuovi strati. A loro volta, le nuove famiglie – tra cui quelle
dei cadetti neotitolati – intendevano dare lustro al loro recente
blasone e non badavano a spese per ben figurare, trascinandosi
appresso la vecchia aristocrazia, la cui disponibilità finanziaria si
era spesso notevolmente ridotta per effetto delle divisioni ereditarie che avevano interessato nel corso del secolo i patrimoni nobiliari. Non tutti gli aristocratici peraltro avevano come Pietro
Trabia la fortuna di sposare la figlia di Ignazio Florio senior, la
cui ricchissima dote fu impiegata nel recupero da rami collaterali di consistenti fette del patrimonio avito.
Gli effetti più immediati dell’accresciuta competitività all’interno del mondo nobiliare erano il maggiore impegno degli aristocratici nelle vicende amministrative della città, che abbiamo
indicato come «il ritorno dei Gattopardi», e più ancora il clima
particolare assunto a Palermo dalla belle époque, quando l’aristocrazia locale bruciò una parte consistente dei patrimoni che si
erano salvati dai colpi della legislazione borbonica della prima
metà dell’Ottocento e visse la sua ultima stagione di ceto sociale
dominante. Tempo di favola, unico e irripetibile, quello della belle époque, di gioia di vivere e di spendere, di eleganza e di spen-
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Palermo
sieratezza, espressione di una società evoluta e raffinata, ma a volte anche frivola e viziosa, cui appena giungeva l’eco dei disagi e
delle tensioni cittadine. Quel clima era indubbiamente alimentato anche dalla presenza continua, non appena si spensero gli echi
degli avvenimenti dei Fasci siciliani, di rappresentanti dell’alta
società internazionale e di famiglie regnanti e spesso degli stessi
regnanti, che nei mesi invernali lasciavano le fredde regioni europee e amavano soggiornare nel mite clima mediterraneo di Palermo, una città ai primi posti per le malattie dei poveri, ma agli
ultimi per le malattie dei ricchi, come ad esempio la tubercolosi.
Si trattava di ospiti con cui l’aristocrazia palermitana si ritrovava
poi nei suoi lunghi soggiorni all’estero, nelle più importanti stazioni climatiche d’Europa (le spiagge di Biarritz e della Costa Azzurra, le nevi di Chamonix e di St. Moritz, ecc.) e nei grandi ricevimenti internazionali. Il ruolo internazionale dell’alta società
palermitana è dimostrato dalla partecipazione dei Florio, dei
Whitaker, dei Trabia, dei Mazzarino, partiti appositamente da
Palermo, ai funerali della regina Vittoria d’Inghilterra nel 1901.
I Florio, nei loro viaggi a Vienna, St. Moritz, Chamonix, Pietroburgo, Londra, Madrid, Berlino, Budapest, Varsavia, Parigi, utilizzavano un vagone ferroviario di proprietà, arredato come un
appartamento, ed erano sempre accompagnati da gruppi di amici, domestici, bambinaie, istitutrici e montagne di bauli. Anche i
Trabia, gli Scalea, i Tasca avevano vetture ferroviarie di proprietà.
Non c’era anno che la principessa di Niscemi (l’Angelica del Gattopardo), che parlava correntemente il francese e il tedesco e un
po’ anche l’inglese, non trascorresse, con seguito di figlia, nipoti e domestici, almeno un paio di mesi (da metà agosto a ottobre)
in giro per l’Europa: Austria, Svizzera, Belgio, Germania, Ungheria e soprattutto Parigi, per una sosta di due-tre settimane,
prima di raggiungere il Grand Hôtel di Roma, ultima tappa sulla via del ritorno a Palermo in tempo per il giorno dei morti. E
la principessa di Niscemi non costituiva un caso isolato.
E così i ricevimenti sfarzosi, i balli eleganti, i tableaux vivants,
i cotillons, i «corsi dei fiori», le «primavere siciliane», le corse alla Favorita, le passeggiate al Foro Italico o in via Libertà a bordo di eleganti carrozze, le toilettes ricercatissime, gli inchini, i baciamano, le feste mondane di Palermo altro non erano che la continuazione a livello locale della grande saison europea, favorita
VII. Palermo ‘felicissima’
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dal lungo periodo di pace tra gli Stati d’Europa dopo il 1870.
Perciò il soggiorno in città di qualsiasi ospite di riguardo era occasione per un’esplosione di mondanità. E negli anni a cavallo
tra i due secoli, ospiti di riguardo (re, principi, nobili grandi e
piccoli, finanzieri, statisti, musicisti, poeti, romanzieri, pittori,
scultori) ne giunsero parecchi a Palermo, tanto che sarebbe troppo lungo elencarli tutti.
Opportune perciò giungevano le inaugurazioni nel 1897 del
Teatro Massimo, con il Falstaff di Verdi, e nel 1900, alla presenza
dei corrispondenti di numerosi giornali italiani e stranieri, del
Grand Hôtel Villa Igiea. Il Massimo sarà da allora luogo di incontro tra l’alta società palermitana, che occupava la seconda fila di
palchi, di cui quello di proscenio e i tre successivi riservati ai soci
del Circolo Bellini; l’alta borghesia dei grandi avvocati, degli industriali e dei grossi commercianti, che non trovavano posto in seconda e si accontentavano della terza; il ceto medio dei militari e
dei funzionari statali e municipali, cui era riservata la prima fila. In
quinta fila si collocavano le famiglie aristocratiche a lutto e i nobili decaduti e squattrinati, che preferivano quella destinazione meno costosa, piuttosto che le disprezzate prima, terza e quarta fila,
quest’ultima la più aborrita, quasi alla pari del loggione (sesta fila)
e della platea, perché ospitava tutti coloro che non erano riusciti a
trovar posto nelle altre file. E ciò è la dimostrazione di quanto
profonde fossero ancora nella città le distinzioni di classe. Ma ecco il rovescio della medaglia: «Nessuno – annotava Oreste Lo Valvo – potrebbe credere che molte di quelle distintissime dame che
imperlano con la ricchezza delle loro toilettes la magnifica sala del
Massimo, rappresentino il trionfo del credito eterno e che nelle case moderne, ricche di confortables, di tappeti, di mobili artistici, di
quadri e di ninnoli, l’ombra dell’usciere esecutore vi aleggi come
l’ombra di Banco». «Non son poche, infatti, le case dove, in omaggio ai titoli [nobiliari], per mantenere carrozze e cavalli si arriva a
provare la fame o s’imbandisce la mensa per farvi un desinare degno di una famiglia operaia. Sono molte le famiglie che [...] frequentano i grandi balli e i costosi teatri in omaggio a continui tappi [= debiti non pagati] consumati a danno delle sarte, delle modiste e di tanti sventurati fornitori».
Villa Igiea, alle falde del Monte Pellegrino, sul mare dell’Acquasanta, diventò l’albergo preferito della haute internazionale a
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Palermo
Palermo. Florio l’aveva acquistata dagli eredi dell’inglese sir James Domville, presente a Palermo già anteriormente al 1860, per
farne – in società con altri – un grande sanatorio per ricchi – donde il nome Igiea, dea della salute –, ma quando le teorie del professore Vincenzo Cervello sull’utilità dell’aria di mare nel trattamento della tubercolosi si rivelarono non corrette, il nuovo edificio – costruito su progetto di Ernesto Basile, che ne curò anche
l’arredamento, disegnando le tappezzerie e i mobili per la Ducrot, e che si avvalse dell’opera del più grande pittore meridionale del tempo, Ettore De Maria Bergler, cui si deve la splendida decorazione floreale del salone da pranzo (attuale sala Basile)
– fu trasformato in albergo di lusso, i cui saloni da gioco e da ballo ne fecero presto una meta insostituibile del turismo internazionale e il simbolo della belle époque palermitana. Ma già alla
vigilia della guerra mondiale la belle époque aveva abbandonato
Palermo: da qualche anno non arrivavano più grandi personaggi e la haute locale cominciò a trascorrere lontano da Palermo
anche i mesi invernali.
Dell’alta società palermitana, oltre naturalmente agli aristocratici con in testa i vari rami della famiglia Lanza di Trabia, suddivisa in almeno una dozzina di nuove casate, facevano parte i
Florio e alcuni degli eredi dei mercanti stranieri, soprattutto i
Whitaker, pronipoti di Ingham, i quali potevano permettersi un
tenore di vita che non pochi aristocratici dovevano invidiare. I
Whitaker erano figli di Joseph, che lo zio Ingham aveva fatto venire a Palermo attorno al 1820, perché lo aiutasse nella gestione
delle sue aziende. Joshua (Joss) abitava in un enorme palazzo in
stile veneziano (attuale sede della Prefettura) fatto costruire dopo l’84 in via Cavour, su progetto di Henry Christian. Robert
(Bob) viveva a Villa Sofia, così chiamata dal nome della madre,
Sophia Sanderson; Joseph (Pip), che aveva sposato Tina Scalia,
nata a Londra durante l’esilio del padre generale Alfonso, era il
più noto a livello internazionale: si può dire che non ci fosse regnante in visita a Palermo che non facesse una capatina a Villa
Malfitano, come all’Olivuzza dai Florio o a Palazzo Butera dal
principe di Trabia. Archeologo, ornitologo, botanico, sportivo,
condusse scavi nell’isoletta di Motya, da lui acquistata; raccolse
una ricca e preziosa collezione di uccelli imbalsamati, che cercava personalmente sino in Tunisia e in Scozia e di cui, nei nostri
VII. Palermo ‘felicissima’
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anni Sessanta, per l’insipienza delle autorità cittadine, Palermo
fu privata a vantaggio del Museo di Belfast; impiantò nella villa
un parco con piante rare acquistate dappertutto. Buona parte dei
suoi beni, tra cui Motya e Malfitano, appartengono oggi alla Fondazione Giuseppe Whitaker, voluta dalla figlia Delia poco prima
di morire nel 1971.
Anche se l’aristocrazia cominciava – come si è detto – ad
aprirsi al sistema capitalistico, raramente agli appuntamenti mondani della haute palermitana partecipavano esponenti di altri ceti, a meno che non si trattasse di ricevimenti ufficiali offerti dai
vari prefetti. Allora c’era posto anche per il cavaliere Guido Jung,
futuro ministro fascista, figlio di Mario, uno dei tre fratelli Jung,
ebrei, venuti da Milano attorno alla metà dell’Ottocento, i quali
avevano costituito in via Alloro una grossissima impresa di esportazione di frutta secca (mandorle e nocciole, soprattutto), essenze, agrumi e sommacco, che fungeva anche da banco privato; per
il cavaliere Enrico Ragusa, il proprietario dell’Hôtel des Palmes,
che aveva sposato una nobildonna, tra il malcontento dell’aristocrazia; per Salvatore Tagliavia, che aveva sposato la duchessa
di Reitano; per Peter Weinen, il proprietario tedesco dell’Hôtel
de France, che proprio all’inizio del secolo era stato interamente ristrutturato e dotato di ascensore, illuminazione elettrica in
ogni camera e splendido jardin d’hiver; per il commendatore Alberto Ahrens, un ebreo tedesco venuto attorno al 1880, che aveva impiantato a Palermo uno stabilimento enologico e uno per la
fabbricazione di mobili e di tappezzerie; per il commendatore Alberto Lecerf, rappresentante e negoziante di tessuti attorno al
1880, poi anche esportatore di essenze e di agrumi e infine amministratore della Goldenberg, una fabbrica di acido citrico a capitale quasi interamente tedesco; per uomini politici e di cultura
di estrazione borghese.
L’esclusivismo aristocratico talora appare addirittura ancora
più accentuato che in passato. Il Circolo Bellini, ad esempio, che
pure negli ultimi anni del regime borbonico aveva mostrato di
aprirsi agli esponenti più qualificati del mondo borghese, nel corso della seconda metà dell’Ottocento si chiuse sempre più, tanto che è veramente difficile individuare qualche borghese tra i
175 soci del 1908, a parte i Florio e i Whitaker. Se per un professionista anche affermato poteva rappresentare talora un pro-
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Palermo
blema la quota annuale di lire 180, oltre al pagamento di un diritto fisso di entrata di lire 300 per i soci fondatori e di lire 100
per i soci permanenti, per un imprenditore l’ostacolo maggiore
era costituito dalla selettività delle ammissioni: diventava socio
colui che avesse riportato oltre i 4/5 dei consensi dei partecipanti
alla votazione. Poiché questa era valida con un minimo di 44 partecipanti, bastavano 9 soci contrari per bocciare qualsiasi nuova
ammissione.
4. I Florio: apogeo e tramonto di una grande famiglia borghese
È anche vero però che a Palermo, a parte i Florio, continuavano a mancare i grossi imprenditori. L’ascesa dei Florio si era
purtroppo rivelata un caso unico e irrepetibile e già la loro stessa parabola era ormai alla fine. L’unificazione nazionale era stata per Vincenzo Florio – che ben poco aveva fatto per la sua realizzazione, tanto che i borbonici all’estero lo consideravano un
loro potenziale fautore – una grande occasione di ulteriore rafforzamento. Il nuovo Stato aveva bisogno di grossi capitalisti come
lui per la creazione di una grande marina mercantile italiana e
Florio, assieme all’armatore ligure Rubattino, era quello che poteva offrire le maggiori garanzie. Come sappiamo, gli fu perciò riconfermato l’appalto dei servizi postali tenuto sotto i Borboni, che
con la convenzione del 1862, valida sino al 1877, fu allargato a
nuove linee, cosicché Palermo venne a essere collegata trisettimanalmente con Napoli; settimanalmente con Genova, Malta, Siracusa, Girgenti; quindicinalmente con Tunisi e Ustica. Per gestire
i servizi, che comprendevano anche altre linee sovvenzionate tra
la Sicilia orientale e Napoli, Vincenzo Florio preferì sostituire la
vecchia impresa di navigazione sorta nel 1847 con una nuova società in accomandita, la Vapori Postali di Ignazio e Vincenzo Florio e Compagni, di cui fu il principale azionista, mentre soci di
minoranza ne erano, tra gli altri, il genero Luigi De Pace, figlio di
Salvatore, Vincenzo e Carlo Giachery, il mercante francese Étienne Donaudy, Michele Raffo, Salvatore Buonocore, ecc.
Insoddisfatto dei risultati economici realizzati e forse anche
per la necessità di concentrare tutti gli sforzi sull’attività armatoriale, Florio nel 1859 lasciò la gestione in affitto delle tonnare di
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Favignana e Formica e nel 1861 – di fronte alla difficoltà di approvvigionamento della materia prima, a causa della guerra di secessione americana – chiuse anche la filanda di Marsala, che dava lavoro a 150 operai. Più successo ebbe con l’industria enologica, il cui stabilimento, notevolmente potenziato, forniva una
produzione che incontrava sempre maggiori riconoscimenti. Il
settore del sommacco era entrato anch’esso in crisi, per la disonestà di commercianti che vi mescolavano altre foglie, svalutando il prodotto: Florio, invece, dal suo mulino dell’Arenella estraeva una polvere di sommacco purissima e ciò valse a riaccreditare il prodotto sul mercato. La Fonderia Oretea continuava la sua
graduale espansione sotto la direzione di ingegneri inglesi e svizzeri e cominciava ad assumere il carattere di impresa industriale,
grazie soprattutto al lavoro che comportavano le frequenti riparazioni ai motori della flotta.
Alla sua morte, nel 1868, Vincenzo Florio era indubbiamente uno dei più prestigiosi imprenditori italiani e tale si confermò
anche il figlio Ignazio (1838-1891), anche se a differenza del padre, nato borghese e rimasto borghese, aveva ricevuto ben altra
educazione, che gli aveva già aperto le porte della migliore aristocrazia locale, alla quale apparteneva Giovanna D’Ondes Trigona, figlia del conte di Gallitano, da lui sposata nel 1866. Questo matrimonio era l’ultimo tocco dell’ascesa sociale della famiglia. Ignazio ereditava un vasto impero economico, di cui ormai
l’attività armatoriale sovvenzionata dallo Stato costituiva il settore più importante. La mancanza di un’equilibrata ripartizione dei
rischi tra i vari settori in cui era impegnato poteva costituire un
elemento di debolezza, alla stregua della dipendenza dalle sovvenzioni statali per l’attività armatoriale, che se da un lato consentivano utili cospicui e un sempre maggiore sviluppo della Società, soprattutto quando essa operò in una posizione di quasi
monopolio, dall’altro rendevano Florio, che ne era il gerente e il
principale azionista, dipendente dalla volontà politica.
Ignazio non ebbe comunque problemi e quando essi comparvero all’orizzonte riuscì nel complesso a superarli felicemente, trovando quasi sempre comprensione presso le autorità politiche, sia perché – grazie a un rapporto privilegiato con Crispi,
legale della Società – controllava un grosso gruppo di parlamentari, sia perché il governo era interessato all’esistenza di una gran-
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Palermo
de flotta che potesse – come in effetti avvenne nel 1887 e nel
1895, in occasione delle spedizioni africane – effettuare anche il
trasporto di truppe militari. Il volume dei traffici in aumento accresceva annualmente gli utili di Florio, che peraltro, in coincidenza con il rinnovo della convenzione con lo Stato nel 1877, riuscì a mettere a segno un bel colpo, acquistando a prezzi di liquidazione 13 piroscafi di recentissima costruzione della Società di
Navigazione La Trinacria dell’armatore palermitano Pietro Tagliavia. Costituita nel 1869 con un modesto capitale sociale, La
Trinacria ebbe continuamente necessità di ricorrere al credito pagando interessi elevati. Gli errori degli amministratori fecero il
resto (si accettavano, ad esempio, per le linee con il Levante sovvenzioni governative che poi a Florio furono raddoppiate) e alla
fine il Banco di Sicilia, verso cui la Società era più esposta, ne
chiese il fallimento.
In base alla nuova convenzione valida sino al 1891, la Società
di Florio, che già disponeva di 41 piroscafi, assumeva i servizi tra
la Sicilia e il continente, con le diramazioni per Malta e per Tunisi, e fra l’Italia e il Levante, linea quest’ultima già gestita dalla
Trinacria: la sua quota di partecipazione alle sovvenzioni statali
passava dal 22 per cento del 1876 al 44,4 per cento del 1877. Nel
1879, la Germania per il suo commercio con il Levante, piuttosto
che del Lloyd austriaco o della Sudbahn, preferiva servirsi della
Florio, che tra l’altro praticava noli più bassi e aveva istituito una
seconda linea libera oltre quella sovvenzionata. Nello stesso anno, la società istituì un’altra linea non sovvenzionata per New
York, destinandovi nel 1880 il nuovissimo Vincenzo Florio, una
delle due navi ammiraglie e tra le più funzionali del tempo. Erano gli anni iniziali dell’emigrazione dalla Sicilia verso gli Usa e i
paesi transoceanici e Florio non intendeva rinunciare alla possibilità di inserirsi nel lucroso affare. Per meglio controbattere la
concorrenza delle marine straniere, che si erano notevolmente potenziate, l’armatore ritenne giunto il momento di attuare la fusione con la società Rubattino, in difficoltà, per dare vita a un’unica
grande flotta, che da un lato avrebbe avuto la totalità delle sovvenzioni statali e dall’altro avrebbe potuto meglio espandere i servizi liberi, soprattutto verso le Americhe. Nacque così nel 1881 la
Navigazione Generale Italiana (Ngi), con sede sociale a Roma e
due sedi compartimentali a Genova e a Palermo: una società for-
VII. Palermo ‘felicissima’
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te di 83 piroscafi, che ne facevano la più potente compagnia del
Mediterraneo dopo le Messagéries Maritimes di Marsiglia.
L’impegno di Ignazio Florio, che nel 1883 fu nominato senatore, non era dedicato alla sola attività armatoriale e ai settori a
essa connessi come la fonderia e lo Scalo di alaggio, costruito nel
1871. Attorno al 1873, impiantò una nuova fabbrica di tessuti alle falde del Monte Pellegrino, in località Pegno, dove nel 1840
era stata impiantato lo stabilimento chimico diretto dal Porry, da
tempo disattivato. La Tessoria I. Florio e C., diretta dal socio Antonino Morvillo, era dotata di telai meccanici e dava lavoro a 180
operai, soprattutto donne, che avevano a disposizione all’interno
dello stabilimento un asilo nido, scuole serali gratuite, una cucina economica e un forno, servizi certamente avveniristici per la
Palermo del tempo, che però ebbero risultati fallimentari. La Società mise a disposizione anche alloggi economici di due stanze,
per canoni non diversi da quelli correnti, e istituì una cassa di
mutuo soccorso, la Provvidente, che concedeva prestiti al 6 per
cento grazie a un fondo costituito da una trattenuta del 5 per cento sui salari operai. Ma le difficoltà del settore determinarono nel
1878 la chiusura della tessoria. Rispondevano assai meglio le altre aziende. Lo stabilimento enologico di Marsala continuò a svilupparsi a ritmo crescente, affidato spesso alla direzione tecnica
di stranieri, che avviarono anche la produzione del primo cognac
siciliano. Il settore degli zolfi, anche se il prezzo del prodotto dopo il 1874 cominciò a regredire, era in espansione per il largo impiego che essi trovavano; e perciò non è difficile ipotizzare per
Florio cospicui guadagni sia dal commercio che dalla gestione di
alcune miniere. Particolarmente felice si era rivelato l’acquisto
nel 1874 delle isole Egadi, le cui tonnare tra il 1878 e il 1888 fornirono utili considerevoli, che oscillavano tra il 4,6 e il 20,33 per
cento del capitale investito. Nel 1884, impiantò in via Fossi una
fabbrica di porcellane: la Ceramica Florio.
Alla sua morte nel 1891, Ignazio lasciava ai due figli maschi
un patrimonio che era valutato attorno ai cento milioni (quasi
600 miliardi del 1997): 2/3 a Ignazio (1868-1957), tra cui l’intero
complesso dell’Olivuzza; 1/3 a Vincenzo (1883-1959), tra cui lo
stabilimento di Marsala, le isole Egadi con le tonnare, la zolfara
Bosco, i beni all’Arenella e la casa di commercio sotto la ragione
sociale I. e V. Florio. Era suo desiderio che l’intero patrimonio
292
Palermo
rimanesse comunque indiviso tra i due figli. La figlia Giulia era
già stata dotata di 4 milioni in occasione del suo matrimonio con
il principe di Trabia nel 1885. Per la minore età di Vincenzo, che
anche da maggiorenne si disinteresserà sempre della gestione del
patrimonio, l’amministrazione passò nelle mani del giovanissimo
Ignazio jr., che ben poco mostrerà di somigliare ai suoi predecessori. Come spesso era accaduto nelle famiglie patrizie di nuova formazione, quando al costruttore delle fortune familiari era
succeduto, se non alla successiva, alla terza o alla quarta generazione, il distruttore, così accadde alla famiglia Florio che, dopo i
costruttori Ignazio, Vincenzo e ancora Ignazio, si ritrovò il terzo
Ignazio che la condusse alla rovina, quasi a voler dimostrare la
validità di un vecchio aforisma francese: è più facile arricchire
che rimanere ricchi. Per chi scrive, infatti, il crollo della famiglia
Florio non è imputabile a nessuna congiura nordista contro la famiglia più prestigiosa dell’isola, come spesso si è sentito dire e
come talvolta capita anche di leggere, ma esclusivamente all’incapacità di Ignazio jr. di controllare le sue incredibili spese, come
se attingesse a un pozzo senza fondo, imitato alla perfezione dalla bella moglie Franca, nata baronessa Jacona di San Giuliano, la
quale sino alla fine non volle mai prendere coscienza delle gravissime difficoltà finanziarie del marito.
È vero Ignazio jr., rispetto ai suoi predecessori, si trovò a operare in una realtà nazionale ben diversa: la crescita del capitalismo italiano e il decollo dell’industrializzazione determinavano
inevitabilmente la concentrazione in poche grandi imprese e in
spazi selezionati delle più importanti attività industriali, anche
per la necessità di sostenersi reciprocamente, e l’ulteriore emarginazione di regioni come la Sicilia, area geograficamente periferica dell’Europa più avanzata, con scarsi requisiti culturali, priva delle necessarie infrastrutture (strade, porti, sistemi di trasporto, sistema creditizio adeguato, scuole per l’istruzione tecnica e generale, ecc.) e bloccata da rapporti socio-economici per
tanti versi ancora semifeudali. Lo stesso Florio, troppo spesso,
più che l’erede di una dinastia borghese, ci appare il rappresentante di una antica famiglia feudale. C’è scarsa traccia, infatti, in
lui delle antiche connotazioni borghesi che avevano fatto la fortuna della famiglia: pur rifiutando il titolo nobiliare, egli assunse
i codici comportamentali dell’aristocrazia siciliana e visse pie-
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namente more nobilium, sino ad apparirne uno dei rappresentanti più degni.
Ignazio jr. fu, se si vuole, anche sfortunato per la morte prematura del padre (aveva appena 53 anni), che lo pose senza grande esperienza a capo di attività così vaste e complesse, che richiedevano cura costante e non potevano trattarsi soltanto tra un
lungo weekend e l’altro. Eppure, lo scoglio più difficile, il rinnovo delle convenzioni, fu superato grazie ad alcune proroghe e
poi a un nuovo contratto, che – se pur non accoglieva interamente le pretese della Ngi e comportava un arretramento di posizioni rispetto al passato – confermava sino al 1908 il suo monopolio nelle linee sovvenzionate. Nel 1893, una Commissione
governativa di inchiesta sulla Ngi accertava lo stato soddisfacente della società armatoriale, che aveva ancora un debito residuo
di 5 milioni nei confronti di Casa Florio. Ma già nel 1894, Florio aveva bisogno di un’apertura di credito per 2 milioni da parte della Banca Commerciale. Era la conseguenza del fallimento
del Credito Mobiliare, del cui Consiglio d’amministrazione egli
faceva parte, che gli costò parecchio, così come alla Ngi che ci
rimise 5 milioni e vide ribassare il valore delle sue azioni del 15
per cento. Proprio all’inizio del 1893, la banca fallita aveva aperto una sede nei locali del Banco Florio, cosicché egli, per il buon
nome della sua Casa, si sentì moralmente impegnato a rimborsare integralmente i depositanti. Tutto ciò però non ebbe alcuna ripercussione negativa sul suo tenore di vita, che continuò a essere brillantissimo, a fianco della giovane moglie, ovunque ammirata e corteggiata come una delle più belle d’Europa. Un tenore
di vita che nessun Florio prima di lui aveva tenuto e che aveva
costi altissimi, sia a Palermo, sia quando andavano in giro per
l’Europa, soggiornando a lungo, con largo seguito, negli alberghi
più eleganti ed esclusivi.
Di contro, le varie iniziative, talora da lui stesso promosse o
nelle quali egli si inseriva allo scopo di reperire nuove fonti di
guadagno, non sempre davano i risultati sperati e generalmente
non producevano grossi introiti, quando addirittura non creavano passività come l’accordo con il Credito Mobiliare. I maggiori utili forniti, ad esempio, dall’Anglo Sicilian Sulphur Company
– una società costituita a Londra nel 1896 per la commercializzazione dello zolfo siciliano, che contribuì a sollevare il settore
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Palermo
dalla crisi in cui stava precipitando – spettarono ai capitalisti inglesi e francesi che detenevano la stragrande maggioranza delle
azioni. Florio era entrato nell’iniziativa per il prestigio di cui godeva, che gli consentì di raccogliere tra i proprietari di miniere il
66 per cento delle adesioni, ma la sua partecipazione alla società
appare modesta. Nel 1897, come altri capitalisti italiani, egli pensò di sfruttare la recentissima legge che concedeva premi ai costruttori di navi e, avvalendosi di una sovvenzione di tre milioni
a fondo perduto concessa dal Comune e da altri enti, progettò la
costruzione all’Acquasanta di un bacino di carenaggio e di un
cantiere navale, che avrebbero dovuto rivitalizzare il porto di Palermo, tagliato fuori dal grande commercio internazionale, anche
per effetto della crisi delle più importanti produzioni siciliane.
Nacque così la Società dei Cantieri Navali, Bacini e Stabilimenti Meccanici Siciliani, con un capitale sociale di 5 milioni,
suddiviso tra Florio per 2/3, la Banca Commerciale per il 20 per
cento e alcuni imprenditori siciliani e anche stranieri. I lavori procedettero per le lunghe e quando furono completati non c’erano
più commesse, cosicché il Cantiere poté aprire soltanto nel 1903.
Due consecutivi decreti governativi avevano infatti ridotto nel
1900 i premi per le costruzioni di navi mercantili e per di più,
poiché il cantiere palermitano non era ancora ultimato quando il
governo aveva stanziato 80 milioni per la costruzione di navi da
guerra, a Palermo non era spettata alcuna commessa. Ciò – come sappiamo – provocò disordini in città (febbraio-marzo 1901)
e violenti attacchi alla politica governativa da parte della stampa
palermitana, compresa quella clericale, con in testa ovviamente
«L’Ora», appena fondato da Florio, accusato a sua volta da Giolitti di essere l’organizzatore della protesta dei suoi operai. Florio, comunque, nel 1905 cedette la sua quota azionaria all’industriale genovese Attilio Odero e c’è da chiedersi se la cessione
fosse determinata dalle indubbie difficoltà dell’azienda o non
piuttosto da difficoltà finanziarie dello stesso Florio, che aveva
necessità di rientrare da alcune pesanti esposizioni.
Con il nuovo secolo, la sua situazione finanziaria appare infatti meno felice, anche se ciò, ripeto, non determinò alcun cambiamento nel suo tenore di vita. Alcuni settori in cui egli era impegnato erano pressoché fermi o fornivano utili meno consistenti che in passato. La Società Meridionale dei Trasporti Marittimi,
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fondata nel 1899 a Napoli, di cui era amministratore delegato,
ebbe vita breve e i vapori passarono alla Ngi; della raffineria di
zucchero da barbabietola costruita a Balestrate lo stesso anno
non si hanno più notizie; il mercato del vino era in crisi e nel
1904 i Florio costituivano la Savi (Società Anonima Vinicola Italiana), per camuffare la cessione dell’azienda alle banche; la Ceramica, secondo il console austriaco, lavorava in perdita; l’AngloSicula nel 1906 non fu più rinnovata; la Ngi, infine, nel 1905 dovette quasi raddoppiare il suo capitale, in un momento in cui i
Florio si trovavano in una difficile situazione finanziaria, anche
se a Palermo nessuno quasi se ne rendeva ancora conto.
La Ngi riusciva tuttavia a produrre utili e – seppure sottoposta a frequenti attacchi contro il suo monopolio – continuava ad
assorbire compagnie concorrenti: essa ormai non era più soltanto una impresa marittima, ma una vera e propria società finanziaria, con larghe disponibilità presso banche e un ricco portafoglio titoli. Di contro, le azioni dei fratelli Florio erano sempre più impegnate in operazioni di riporto con la Banca Commerciale, a dimostrazione delle crescenti difficoltà finanziarie
della famiglia. Le 3.500 azioni per poco più di un milione di lire
impegnate a riporto con la Comit nel 1898, nel 1902 erano diventate 16.000 per 5,5 milioni e nel 1906 ben 23.425 per quasi
10 milioni. La cessione nel 1905 delle azioni del Cantiere Navale era servita a ben poco e nel 1908 l’intero pacchetto azionario
della Ngi di proprietà Florio (32.000 azioni per un valore di lire
12.800.000) si trovava nella mani della Banca Commerciale, che
lo cedette a La Veloce e all’Italia, due compagnie satelliti della
Ngi. Dopo cinquant’anni, i Florio erano definitivamente fuori
dalla società di navigazione fondata dal nonno Vincenzo! È chiaro, quindi, che a determinare la loro rovina non fu – come pretende certa storiografia – l’antimeridionalismo di Giolitti, il quale nel 1910 avrebbe tolto le sovvenzioni statali alla Ngi, perché i
Florio avevano perso le loro azioni già nel 1908, e in ogni caso,
la Ngi, negli anni successivi, seppure privata delle sovvenzioni,
distribuì ai suoi azionisti dividendi piuttosto elevati, sino al 12
per cento.
Insisto nel rilevare che le traversie finanziarie non modificarono minimamente il ruolo sociale della famiglia Florio, che continuò nel suo mecenatismo. Nel 1906, ad esempio, Vincenzo as-
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Palermo
sunse il patrocinio di un vasto programma di manifestazioni turistiche, tra cui la «I Targa Florio» sul circuito delle Madonie,
vinta da Alessandro Cagno su Itala, e la «Perla del Mediterraneo», gara di circumnavigazione dell’isola in canotto. Ignazio non
gli fu da meno e assunse la gestione del Teatro Massimo, che tenne sino al 1919 e poi ancora negli anni 1923-1926, con notevoli
perdite finanziarie, perché all’elevato livello degli spettacoli non
corrispondeva un’adeguata partecipazione di pubblico che consentisse di recuperare tutti i costi. Anche dopo il 1908, e cioè dopo la perdita delle azioni della Ngi, i Florio continuarono a essere al centro della vita mondana della città e non rinunziarono mai
alle loro costose vacanze sulla Costa Azzurra, a Parigi, in Svizzera, a Ostenda, a Vienna, a Roma, dove continuarono ad alloggiare al Grand Hôtel, ecc. Ancora qualche anno e i Florio saranno
costretti a lasciare il loro regno dell’Olivuzza, messo in vendita
per tacitare i creditori. L’età dei Florio si era conclusa: il seguito
non interessa più, se non marginalmente, la storia della città.
5. Lo sviluppo industriale: avanti adagio, quasi indietro
A parte i Florio, dicevo, a Palermo non esistevano grossi imprenditori che potessero essere facilmente cooptati nell’alta società palermitana. La situazione industriale della città si era certamente modificata rispetto al periodo borbonico, non tanto perché Palermo avesse mostrato una particolare vocazione in proposito, quanto per il naturale processo di industrializzazione in
corso nell’intero paese. Lo sviluppo non era però dovuto all’apporto di capitali esterni, e quindi alla trasformazione in industriali di grossi commercianti o di esponenti dell’aristocrazia,
quanto al lento potenziamento da parte di artigiani e minuscoli
imprenditori di precedenti attività, svolte spesso a livello familiare per più generazioni. E il lentissimo sviluppo dell’industria
cittadina non era tale da consentire la formazione di grosse fortune e conseguentemente un decisivo cambiamento di stato sociale, come era avvenuto nella prima metà del secolo per i Florio, i Riso, i Chiaramonte Bordonaro, ecc.
In passato, ad esempio, l’attività armatoriale aveva consentito l’accumulazione di cospicui capitali, ma dopo l’unificazione,
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lo sviluppo della marina mercantile a vapore, riducendo considerevolmente il numero dei natanti, spazzava via gli armatori dei
legni a vela e determinava la concentrazione in pochissime società, che si ridussero ancor più dopo il fallimento della Trinacria. E perciò, se ancora nel 1873 c’erano 14 società armatoriali
di legni a vela, tra cui la Ingham e Whitaker, negli anni successivi quasi tutte sospesero l’attività, qualcuna assorbita anche dalla
Florio: non erano riuscite a fare il salto di qualità dalla vela al vapore e quando, per lo sviluppo delle ferrovie, venne meno anche
il piccolo cabotaggio, la fine fu inevitabile. All’inizio del nuovo
secolo resistevano ancora soltanto i Trifiletti e i fratelli Corvaja, i
quali ultimi avevano cominciato nel 1862 con pochi bastimenti a
vela, per passare poi a quelli a vapore sulle rotte del Mediterraneo e delle Americhe e fallire nel 1912. Nel 1913, dopo che Florio aveva lasciato da alcuni anni la Ngi, un gruppo di commercianti ed esportatori (Pecoraino, Salvatore Tagliavia, i fratelli
Guido e Ugo Jung, Michele Lauria ed Emanuele Graziano), per
tentare di inserirsi meglio nel circuito degli scambi internazionali, costituirono – in società con il Banco di Roma per 1/3 e il gruppo Piaggio per 1/6 – una nuova compagnia armatoriale, la Sicilia, di cui negli anni successivi si perdono le tracce.
La Fonderia Oretea continuava a essere di gran lunga il più
importante complesso industriale della città e tale rimase sino all’apertura del Cantiere Navale nel 1903. La sua produzione era
alquanto diversificata e, oltre a soddisfare le esigenze dell’industria armatoriale (caldaie, macchine, gru, ancore, ecc.), serviva i
privati (idrovore, macchine agricole, impianti minerari, mulini,
presse idrauliche) e la committenza pubblica (lampioni, fontane,
inferriate, tettoie, ecc.). I bassi salari corrisposti – malgrado le richieste di aumento, che provocarono gravi incidenti nel 1877 –
le consentivano di produrre con costi inferiori rispetto ad analoghe industrie del continente e di fare a meno di recepire nel tempo costose innovazioni tecnologiche, con il risultato di perdere
sul lungo periodo competitività, a vantaggio delle più moderne
industrie lombarde ed emiliane. Negli anni Settanta l’Oretea impiegava 700-800 operai e, seppur non mancassero attorno al 1890
momenti di crisi, legati alle vicende della Ngi e alla preoccupazione che il compartimento marittimo di Palermo venisse soppresso a beneficio di Napoli, l’occupazione non diminuì, se nei
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Palermo
primi anni Novanta gli operai erano ancora 800, oltre i 590 impiegati nello Scalo di alaggio. La situazione peggiorò notevolmente negli anni successivi e, forse anche in dipendenza della
apertura del Cantiere Navale che ne assorbì parte del lavoro e
della manodopera, il numero degli operai della Fonderia si ritrova ridotto a 557 nel 1905 e a 365 nel 1911, quando la Ngi la
cedette ai Cantieri Navali Riuniti di Genova, che essendo già proprietari del Cantiere Navale ne decisero la smobilitazione.
Nella prima metà degli anni Settanta – quando lo sviluppo industriale italiano, che si era appena avviato, subì una brusca battuta d’arresto, per effetto di una nuova crisi economica mondiale – le industrie più importanti della città erano, dopo l’Oretea,
le pochissime impiantate dopo l’unificazione: lo Scalo di alaggio
(costruito nel 1871), la Tessoria del Pegno e l’officina del gas dell’impresa Favier, che assorbiva un centinaio di addetti. Per il resto, non si erano compiuti molti passi avanti, ove si eccettui la
parziale meccanizzazione di alcuni settori: irrigazione, ad esempio, per l’uso di pompe idrauliche, e molitura, per la sostituzione di buona parte dei mulini ad acqua o a trazione animale con
mulini a vapore, soprattutto nella macinazione dei sommacchi.
Poche unità lavorative, reperite soprattutto nell’ambito familiare
dei titolari, occupavano le altre minuscole fonderie della città. E
lo stesso può dirsi per un’officina pomposamente classificata come «cantiere navale», dove trovavano lavoro appena 9 operai,
che però erano sufficienti a costruire un bastimento in legno di
800 tonnellate. Pochi lavoratori impegnavano anche le 4 fabbriche di bilance, 3 di birra e gassose, 3 di burro, 1 di calze e berretti, 3 di carte da gioco, 8 di carri e 5 di carrozze, 7 di casse, 4
di cera, 4 di colla forte, 1 di drappi, 2 di tessuti di seta (Natale
Aliotta e Antonino Morvillo), 1 di fiammiferi, 1 di fiori, 1 di maglie di lana, 3 di pianoforti, 2 di amido, 6 di agro di limone, 1 di
profumi, 3 di polvere da sparo, 1 di sego, 1 di ghiaccio, 1 di fanali, 4 concerie, 154 falegnamerie, ecc. Notevole sviluppo, come
si è detto, avevano assunto le fabbriche di letti di rame, il cui numero era salito a 15, ma si trattava pur sempre di piccoli opifici.
Si stava affermando anche la fabbrichetta di fanali per carrozze
impiantata nel 1852 dallo stagnino Giuseppe Savettiere, che occupava una ventina di operai. Ma che si trattasse complessivamente di pochissimo rispetto alle città del Centro-Nord, lo di-
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mostra tra l’altro l’esiguo numero di società per azioni palermitane, appena 6 nel 1873 contro le 104 di Genova, 53 di Torino,
58 di Milano, 21 di Venezia, 15 di Bologna, 32 di Roma, 31 di
Napoli.
Maggiori progressi si fecero invece nel secondo quindicennio
dopo l’unificazione, soprattutto nella prima metà degli anni Ottanta, in coincidenza con il miglioramento della congiuntura internazionale e l’abolizione nel 1883 del corso forzoso, anche se
alla vigilia della rottura commerciale con la Francia si riteneva
che l’unica vera industria cittadina fosse quella agraria, grazie ai
grossi capitali impiegati nell’agro per l’impianto di agrumeti e la
produzione di ortaggi. Parecchi tentativi non erano stati coronati da successo, ma i risultati di un’indagine sulle condizioni industriali della provincia e altre fonti sussidiarie mostrano che, attorno al Novanta, il panorama industriale della città era alquanto migliorato. Il numero delle officine meccaniche era aumentato a 14, anche se nessuna di esse riusciva a reggere il confronto
con la Fonderia Oretea, che allora impiegava 800 operai: l’officina meccanica delle ferrovie ne occupava appena 205, la fonderia Panzera 180 e quella dell’ingegnere Pietro Corsi 51, mentre
delle altre fonderie la più importante era l’officina di Vincenzo
Di Maggio con 20 operai. Si era anche sviluppata l’industria chimica e si erano aperte nuove fabbriche di polvere pirica, di saponi, di profumi, di prodotti farmaceutici, di ghiaccio, di agro di
limone. Lo Stato inoltre aveva aperto all’Acquasanta uno stabilimento per la manifattura di tabacchi, che dava lavoro a 825 addetti, donne nella stragrande maggioranza. Ma i settori in fase di
maggiore espansione erano quello edilizio, per via dello sviluppo urbanistico della città, e quello delle industrie alimentari.
Nel settore dell’industria alimentare, c’è da segnalare la completa meccanizzazione dei mulini; la costruzione di nuovi impianti che talora comprendevano anche il pastificio; l’apertura di
nuovi pastifici; la meccanizzazione di alcuni forni, il più importante dei quali apparteneva a Dagnino ed era capace di produrre annualmente q 4.500 di pane; l’aumento delle fabbriche di gassose; l’utilizzazione di nuovi prodotti (carciofi, piselli, pomodori) nell’industria conserviera, oltre quelli tradizionali (tonno, sarde, acciughe); lo stabilimento enologico impiantato a San Lorenzo da Ahrens. Nell’industria tessile, la produzione era limita-
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Palermo
ta ormai ai tessuti di cotone in 5 minuscoli opifici, tra cui quello all’interno del Ricovero del Boccone del Povero (la benefica
istituzione di padre Giacomo Cusmano) e l’altro di proprietà di
Giuseppe Gulì, ex commesso del Morvillo, che si dedicava anche alla tessitura di qualche drappo di seta: complessivamente
non occupavano più di un centinaio di addetti. Alla maglieria di
cotone e di lana si dedicavano altre 5 fabbrichette, tra cui quella del Boccone del Povero. In espansione appare la fabbricazione di guanti, che però aveva il carattere di manifattura casalinga:
i negozianti acquistavano la pelle e poi, sagomata, la passavano a
operaie che lavoravano a domicilio. Lo stesso carattere sembra
abbia la fabbricazione di cravatte, mentre i cappelli e i berretti
venivano fabbricati in appositi opifici (4), con un impiego modesto di manodopera. La concia delle pelli e la tintura avvenivano ancora con criteri artigianali.
Per quanto riguarda altre industrie, dobbiamo ricordare la
macinazione del sommacco in fase di notevole espansione, a giudicare anche dai nuovi mulini impiantati dai più grossi commercianti del prodotto (fratelli Jung, Giovanni Terrasi, Vincenzo Puglisi, ecc.); la fabbricazione di mobili anche per l’esportazione,
non più nelle botteghe artigiane, ma in stabilimenti, il più grosso dei quali, quello della Solei Hebert, impiegava 47 operai; le
ormai affermate fabbriche di letti di rame: la Cavallaro, con 50
operai, esportava anche all’estero; le due fabbriche di fanali di
carrozze: quella di Savettiere si era ulteriormente ingrandita (54
operai) e aveva conquistato anche i mercati del continente per
l’eleganza e l’economicità della sua produzione, che riguardava
adesso anche la fabbricazione di scatolame; le 58 tipografie; l’Officina Elettrica Volta, impiantata nel 1884, che occupava però appena 18 operai, perché l’uso dell’energia elettrica era ancora scarsamente diffuso; l’officina telefonica con 11 operai; le fabbriche
di carrozze, ecc.
Il catalogo dell’Esposizione Nazionale dimostra l’esistenza di
altre attività industriali, come ad esempio la fabbricazione di liquori, di oggetti in maiolica, di cristallo, di confezioni per uomo
e per donna, di gioielli, ecc., ma complessivamente si deve condividere il giudizio di Francesco Maggiore Perni, per il quale, se
rispetto al 1876 si era verificato un sicuro progresso, le industrie
VII. Palermo ‘felicissima’
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palermitane «non possono reggere al paragone delle altre grandi
città del continente».
Negli anni successivi, dopo la crisi dei Fasci, le industrie meccaniche furono potenziate e sappiamo già della costruzione del
Cantiere Navale, dello sviluppo della fonderia Panzera sino a occupare 300 operai all’inizio del secolo, dell’impianto dell’officina del senatore Oliveri, che costruiva l’automobile Apis (una decina di esemplari), mentre l’officina di Vincenzo Pellerito in via
Malfitano, anch’essa di nuovo impianto, costruiva l’Audax,
un’automobile di cui nei primi anni del secolo si fabbricarono 45 esemplari, e Savettiere fabbricava una rudimentale monocilindrica. Ma l’industria automobilistica a Palermo non poteva avere possibilità di successo, per la mancanza di un mercato che ne
assorbisse la produzione, se nel 1904 in città circolavano appena
20 automobili e 2 motociclette.
Altri settori appaiono anch’essi in espansione. Si è accennato
al nuovo grande mulino di Pecoraino. Qualche anno dopo, Domenico Carella impiantò a San Lorenzo un grande pastificio a
vapore, che esportava la sua produzione anche all’estero ed era
famoso per la pastina glutinata, ritenuta migliore della Buitoni.
Lo svizzero Federico Helg aprì una fabbrichetta di tessuti di seta in via Santa Cecilia e all’Arenella nel 1894 sorse la Tele-olone
e canapacci. A Vittorio Ducrot – figlio postumo di un ingegnere
ferroviario francese deceduto a Palermo durante il colera del
1866, nel viaggio di ritorno a Parigi dall’Egitto – si deve l’affermazione a livello internazionale dell’industria mobiliera palermitana. La madre, costretta a fermarsi in città, dove egli nacque nel
’67, aveva sposato successivamente Carlo Golia, originario di Nola, che dirigeva la succursale della Solei Hebert, una grande ditta torinese che importava mobili dalla Francia. Rilevato l’esercizio, Golia cominciò a costruire i mobili a Palermo, utilizzando i
modelli francesi. Nel 1898 il mobilificio passò al figliastro Vittorio Ducrot, il quale, grazie anche alla collaborazione di Ernesto
Basile, che disegnava mobili e arredi, ne fece una grande prestigiosa fabbrica, che aveva tra i suoi clienti Florio, per il quale arredò Villa Igiea e le navi della Ngi, e numerosi esponenti della
aristocrazia e della borghesia palermitana e siciliana. All’inizio
del nuovo secolo, la fabbrica contava 200 operai e la sua produ-
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Palermo
zione si affermava anche nel continente (Milano, Roma, Napoli)
e sul mercato estero (Tunisia).
La ditta Meregaglia e Giacobino aveva aperto a San Lorenzo
un grande stabilimento per la fabbricazione di ombrelli, dove impiegava un centinaio di operai, e un laboratorio di pellicceria,
unico in Sicilia. Tra le industrie farmaceutiche si affermava il laboratorio del professore Giovanni Dato, che aveva cominciato
nel 1874 in via Celso e che ormai forniva i suoi prodotti anche
fuori dell’isola. In espansione era l’industria delle confezioni. Il
grande magazzino di abbigliamento dei Savona in corso Vittorio
Emanuele aveva, al primo piano, un ampio laboratorio dotato di
macchine elettriche (l’elettricità era ancora scarsamente diffusa
in città), che produceva anche per Malta e la Tunisia. Nel 1896,
a pianterreno e al primo piano del Palazzo Varvaro nello stesso
corso, si era aperto un magazzino dell’Unione industriale Landi
e Casiraghi, con un laboratorio di confezioni che occupava circa
250 addetti. Sorgevano nuove fabbriche di conserve alimentari,
che venivano esportate anche in Oriente e in Sud America; qualche calzaturificio, che produceva anche per l’esportazione; fabbriche di agro di limone; due fabbriche di concimi chimici, una
delle quali impiantata nel 1902 da Nicolò Dagnino. Dopo il terremoto del 1908, l’industriale Agostino Gioia trasferì da Messina la sua ferriera, che prese il nome di Ercta. Non mancarono altri tentativi di introdurre nuove industrie, ma in buona parte fallirono e il console d’Austria Varvaro Pojero ne individuava la causa nella scarsa capacità imprenditoriale, nel difetto di mezzi (l’accesso al credito non era in verità agevole a Palermo!) e soprattutto nel difetto di tenacia che caratterizzava i palermitani.
I dati della statistica industriale del 1911 ci mostrano una industria meccanica palermitana già in crisi, una crisi che in città
aveva preceduto quella economica mondiale del 1907-1908, che
mise in ginocchio la stessa Fiat, la quale perdette gli 8/9 del suo
capitale e si riprese negli anni successivi solo grazie a nuovi apporti. La crisi mondiale diede il colpo di grazia a un settore già
agonizzante e, mentre altrove essa determinava una notevole concentrazione di impianti e di società, a Palermo, dove lo spirito di
associazione è stato sempre fievole, dopo l’officina del senatore
Oliveri, già chiusa nel 1905, vennero smantellate la Pellerito e
l’Oretea, mentre grossissimi rischi corse la fonderia Panzera, co-
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stretta a ridurre il personale a sole 19 unità, riduzione che colpiva le stesse officine delle FF.SS., la cui forza lavoro era stata portata a 130 addetti, contro i 205 degli anni attorno al 1890. Resistettero meglio le piccole officine a conduzione quasi familiare.
Altre industrie chiusero definitivamente o subirono grossi ridimensionamenti.
Rispetto al 1890, il panorama industriale della città nel 1911
appare comunque molto più vario e migliorato. L’azienda industriale più importante era il Cantiere Navale con 1.423 addetti,
cui seguivano la R. Manifattura Tabacchi con 788 addetti, la Società Anonima Ducrot con 445, la Società Anonima Tele-olone e
canapacci di via Arenella con 314, la Ferriera Ercta con 306, l’Azienda Municipale del Gas con 257, la fabbrica di mattoni e oggetti artistici dell’ingegnere Ghilardi e C. con 226, la Ceramica
Florio con 223, il Mulino Municipale con 154, la fabbrica di corredi, abiti e cappelli di Vittorio Zaban (che ritirava articoli anche
da Parigi e nel 1902 aveva aperto una filiale a Catania) con 130,
le officine delle FF.SS. con 130, il berrettificio Matta Cugini e C.
con 110 addetti, la Società Sicula Imprese Elettriche con 105, il
mobilificio Ahrens con 99, il cementificio Ghilardi e Conigliaro
con 90, il saponificio Augusto Hugony con 82, la fabbrica di tessuti di cotone di Giuseppe Gulì con 77, la tipografia Remo Sandron con 77, la Società Elettrica Palermitana con 63, la vetreria
Ignazio Caruso con 60, il mulino Pecoraino con 60, il pastificio
Carella con 53, ecc. Complessivamente furono censiti 1.667 opifici, ma quanto fossero minuscoli lo dimostra il numero complessivo degli addetti, appena 15.699, cioè 9,4 per azienda. Si
trattava soprattutto di imprese che, a parte le maggiori, di industriale avevano ben poco e che ancora non riuscivano a sollevarsi dalla sfera artigianale. Solo 134 aziende impiegavano più di 10
addetti, mentre le società per azioni erano appena 11, a dimostrazione della fragilità dell’apparato industriale cittadino alla vigilia della prima guerra mondiale.
Alle cause del mancato decollo industriale della città si è già
avuto modo talora di accennare: l’unificazione del mercato mondiale determinava inevitabilmente, già negli anni Ottanta, la concentrazione di nuovi investimenti là dove le iniziative industriali
erano più sviluppate, per la necessità di utilizzare infrastrutture
più progredite, industrie collaterali, manodopera già addestrata,
304
Palermo
un mercato più disponibile. Palermo e il Meridione in genere non
avevano tali requisiti, per ragioni che, se non si vuole fare sterile meridionalismo, vanno individuate nella storia passata del paese. La scarsa vocazione imprenditoriale del Meridione, la mancanza o deficienza di capacità, le maggiori difficoltà di accesso al
credito, più che cause collaterali, sembrano spesso effetto della
logica del dualismo che si era instaurata e della condizione di subalternità in cui il Meridione veniva a trovarsi. Una condizione
che non era più possibile invertire, neppure con leggi speciali,
perché in un mercato mondiale ormai unificato i rapporti di forza tendevano inevitabilmente a sbilanciarsi ancor di più. E perciò, malgrado gli innegabili progressi nell’età giolittiana, il divario tra le due parti del paese, invece di diminuire, si accentuò ulteriormente, perché, se il Meridione progredì, il Nord lo fece più
rapidamente. Nello stesso Meridione poi, lo sviluppo economico aveva ritmi diversi da luogo a luogo e quelli di Palermo non
erano davvero i più veloci, come dimostra l’entità degli sconti
presso il Banco di Sicilia, il maggiore istituto di credito locale,
nel 1904: neppure 13 milioni di lire, contro oltre 14 a Messina,
15 a Catania, addirittura 19,5 a Trapani; dati che concordano con
quelli della Banca d’Italia per lo stesso anno: 10 milioni e 3/4 a
Palermo, contro 13 e 3/4 a Messina, 17 a Trapani, 20,5 a Catania. Il ridotto dinamismo economico di Palermo rispetto ad altre città troverà più oltre una conferma nei dati del movimento
del porto e del commercio internazionale.
6. Servizi e capitale straniero
In assenza di grossi imprenditori locali, le più importanti infrastrutture cittadine si debbono a capitalisti stranieri, che ne assumevano poi la gestione: fenomeno comunque che non è solo
palermitano o meridionale e che è determinato sia dalle difficoltà
di reperire localmente i capitali necessari, sia soprattutto dal difetto di competenza tecnica in settori assolutamente nuovi per gli
italiani. Così, per l’impianto dell’illuminazione a gas, nel 1861 il
Comune dovette accettare l’offerta dell’imprenditore francese
Favier. Nessuna impresa locale risulta presente nella costruzione
VII. Palermo ‘felicissima’
305
delle linee ferrate che facevano capo alla città: il tratto PalermoBagheria fu costruito direttamente dallo Stato (1863), che avviò
anche i lavori del successivo tratto sino a Trabia, completato dalla Società dei banchieri Adami e Lemmi di Livorno (1864), cui
subentrò per il tratto Termini-Trabia la Società Vittorio Emanuele costituita da capitalisti francesi (1866). Francese era anche
la società Lexanne-Perdoux che costruì la Palermo-Marsala-Trapani (1883), avvalendosi di una Società Anonima della Ferrovia
Sicula Occidentale appositamente costituita, mentre la PalermoCorleone – una linea a scartamento ridotto, che faceva capo alla
stazione di Sant’Erasmo – fu costruita nel 1886 da una società
inglese, la Narrax Gouge Railways Company Sicily di Londra.
Anche l’impresa Brunet, che nel 1877 ebbe in appalto i lavori di
escavazione del porto, sembra inglese, mentre lo era sicuramente la George Furness, che le subentrò nel 1883.
Era straniera anche la prima impresa che pose il problema del
trasporto pubblico urbano, quella dell’italo-argentino Tortorici,
che nel 1874 ottenne la concessione per l’impianto e l’esercizio
di una rete tranviaria, passata nel 1877 a un gruppo di banchieri stranieri, quasi sicuramente tedeschi (il direttore dei lavori era
l’ingegnere tedesco Giorgio Seefelder), che aveva già costruito le
reti di parecchie città europee, tra cui Londra e Parigi, e che a
Palermo operava attraverso l’Impresa dei tramways. Il 23 marzo
1878 poté così inaugurarsi la prima linea di ferrovia a cavalli (ogni
vettura era solitamente trainata da due cavalli), che copriva il tratto piazza Marina-Acquasanta, cui seguì il mese successivo la seconda linea da piazza Marina alla Noce. In breve la rete tranviaria venne estesa all’intera città e dall’estate 1881 si istituirono servizi e tariffe speciali per le località balneari, Romagnolo e Acquasanta. Nel 1882, a cura della stessa società, furono fatti tentativi per un servizio di omnibus, cioè di vetture trainate da cavalli senza l’uso dei binari, che fu regolarmente attivato soltanto
nel 1887, con la linea Porta Sant’ Antonino-Giardino Inglese, cui
ne seguirono altre, cosicché nel 1891 esistevano 6 linee tranviarie e 14 di omnibus, per complessivi km 21, che impegnavano 60
tram e 66 omnibus. Alcune linee di omnibus venivano gestite anche da imprese palermitane (fratelli Di Stefano, Ferdinando Basile, Ingrassia, fratelli Indelicato), qualcuna delle quali aveva cominciato a far concorrenza alla società straniera già nel 1888.
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Palermo
La guerra doganale con la Francia del 1888 provocò il ritiro
dall’Italia di alcune imprese francesi, che furono sostituite da società tedesche, sollecitate a intervenire dal governo Crispi. A Palermo da tempo operavano parecchi commercianti tedeschi, a
uno dei quali, Julius Schumacher, che fungeva anche da console, si doveva nel 1887, in società con Florio, l’impianto della prima centrale elettrica, una piccola officina che fu poi assorbita dalla Favier. Nel 1896, erano tedesche tre delle quattro società che
si contesero l’appalto per l’illuminazione elettrica del Teatro Massimo, via Maqueda, via R. Settimo, primo tratto di via Libertà e
borgate: Aeg, Siemens di Berlino e Schuckert di Norimberga, oltre alla Favier.
A fine secolo, i tedeschi di Palermo erano così numerosi che
avevano un loro club e una scuola in via XX Settembre con insegnanti fatti venire appositamente dalla Germania. Anche i trasporti urbani erano finiti nelle loro mani. Alla Impresa dei
tramways, che in data imprecisabile era passata interamente nelle mani del napoletano Sabino, nel 1887 era infatti subentrata la
Società Sicula dei Tramways-Omnibus, a capitale interamente italiano, per quasi la metà del Banco di Roma e per il resto dello
stesso Sabino e di una cordata di imprenditori locali guidati da
Paternò e dal marchese Leopoldo Notarbartolo di San Giovanni, assessore comunale in carica. Ma la crisi bancaria degli anni
Novanta e forse anche le gravi perdite della gestione 1893 provocarono nel ’95 il disimpegno del Banco di Roma e la cessione
del pacchetto azionario di maggioranza ancora a un’altra impresa tedesca, la Continentale Gesellschaft, una finanziaria della
Schuckert, che nel ’98 ottenne di poter sostituire nelle linee tranviarie la trazione elettrica alla trazione animale. Nel 1901, la rete tranviaria era già interamente elettrificata, ma i tram elettrici
non comportarono l’immediata scomparsa degli omnibus, che
ancora per alcuni anni continuarono a circolare nelle zone escluse dai collegamenti tranviari. La Sicula, come veniva chiamata la
società dai palermitani, assorbì nel 1903 la Società Anonima di
Elettricità, già Schuckert, e si trasformò nella Società Sicula di
Imprese Elettriche, che oltre a esercitare le linee tranviarie, curava la distribuzione di energia elettrica prodotta dalla Società
Elettrotecnica Palermitana, un’impresa collegata, fondata nel
1904 sempre con capitali tedeschi e partecipazione palermitana.
VII. Palermo ‘felicissima’
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La Sicula e la ex Schuckert avevano già collaborato alla costruzione – dopo un fallito tentativo, qualche anno prima, di tale Riccobono, coadiuvato dall’ingegnere Alessandro Ferretti, costruttore di funicolari in Piemonte – di una tramvia-funicolare, entrata in funzione nel 1900, tra piazza Bologni e Monreale, che
adottava un sistema di trazione ideato dalla Continentale Gesellschaft. Attorno al 1907, la Sicula passò sotto il controllo della
Società Toscana per Imprese Elettriche, controllata anch’essa
dalla Continentale, e nel 1916, poco prima che l’Italia dichiarasse guerra anche alla Germania, alla Società Nazionale Imprese
Elettriche, a capitale interamente italiano.
Con il nuovo secolo affluirono a Palermo nuovi capitali stranieri. Nel 1909, la Goldenberg, la più grande fabbrica tedesca
del settore, impiantò all’Arenella una grande industria chimica
per la fabbricazione di acido citrico a ciclo produttivo verticalizzato (dal frutto fresco al citrato di calcio e infine all’acido citrico), che costrinse alla chiusura la fabbrica locale appena impiantata. Nello stesso 1909 fu fondata a Bruxelles la società Les
Tramways de Palerme, cui si deve la più grossa speculazione del
nostro secolo nella zona paludosa di Mondello, che a fine Ottocento era stata finalmente bonificata per colmata. La società belga, per un compenso di lire 578.300,42, ottenne nel 1911 dal demanio l’intera zona di Mondello e Valdesi e si impegnò, tramite
il finanziere Paul Mouton, che la rappresentava a Palermo, a costruire a sue spese alcune linee tranviarie a trazione elettrica per
collegare la città alla borgata, e ancora un grande hôtel, un kursaal, uno stabilimento balneare di prim’ordine, una chiesa, un
giardino pubblico, 300 villini in tre anni su lotti di almeno 450
metri quadrati di terreno ciascuno, strade e marciapiedi, il sistema fognante, la condotta idrica, l’impianto di illuminazione, l’alberatura delle strade.
Si trattava di un gruppo finanziario serio, che aveva già precedenti esperienze in altre parti d’Europa ed era quindi capace
di dare a Mondello una valorizzazione a livello internazionale: i
pochi villini costruiti dimostrano inequivocabilmente che la progettazione fu affidata ad architetti di valore. Ma l’alta società palermitana non mostrò alcun interesse per la località, abituata a
trascorrere all’estero il periodo estivo, mentre la guerra modificava completamente il ruolo internazionale della città, cosicché
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Palermo
il piano predisposto fu realizzato soltanto nelle parti che consentirono di ottenere un utile immediato e per il resto completamente disatteso, senza che le amministrazioni comunali prima e
i podestà dopo muovessero mai dito per mettere in mora la Belga (fusasi nel 1924 con la Società Generale Elettrica della Sicilia)
e acquisire tutto al Comune. Anzi, da parte di qualche podestà
(Spadafora, ad esempio) si farà di tutto per rafforzare le posizioni dell’impresa con nuove deroghe e rinunce definitive a punti
fondamentali dell’atto di cessione. Se le linee tranviarie furono,
infatti, costruite in fretta (nel novembre 1912 la rete era pressoché completata con l’apertura al pubblico della linea più lunga,
la Stazione Centrale-Pallavicino-Mondello), e così pure lo stabilimento e pochi villini, per il resto tutto fu rinviato a tempi migliori: la seconda linea tranviaria che attraversava le borgate dell’Arenella e di Vergine Maria non fu mai realizzata, l’albergo fu
costruito solo negli anni Cinquanta nel luogo destinato a giardino pubblico, a chiesa venne adattata una carbonaia, il kursaal non
è mai stato costruito, la rete fognante lo è solo in parte, e di contro la zona più bella della città fu fatta oggetto – è la storia del
nostro ultimo trentennio – di una urbanizzazione selvaggia i cui
risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Lo scoppio della guerra mondiale bloccò la costituzione di una
società, anch’essa a capitale prevalentemente tedesco, che intendeva costruire quartieri operai per affittarne gli appartamenti.
7. Il lento sviluppo commerciale
Come già nei secoli precedenti, anche dopo l’unificazione
continuò il trasferimento a Palermo di operatori commerciali dal
continente italiano e dall’estero, soprattutto dalla Germania. Diversamente dal passato, i nuovi venuti non erano però interessati soltanto al grande commercio internazionale e spesso si inserivano anche nella rete di distribuzione al minuto. La maggior parte di essi era venuta o per esercitare un mestiere particolare (orologiaio, fotografo, ottico, modista, ecc.), o per aprire nuovi esercizi commerciali di generi talora fabbricati localmente sotto la loro direzione, come mobili, tappezzerie, dolciumi, corredi,
confezioni, materiale elettrico, chincaglieria, porcellane e maioli-
VII. Palermo ‘felicissima’
309
che, stoviglie, vetrerie, che il mercato palermitano aveva cominciato a richiedere in maggiori quantitativi, anche per loro merito.
Continuavano a operare in città parecchi operatori forestieri
dell’età borbonica o i loro discendenti: Whitaker, Kaiser, Kressner,
Robert e poi Paul Wedekind, Beaumont Gardner, Donaudy, i fratelli Thomas, G.C. Hirzel, i fratelli Jung, Giuseppe Berlioz, Vincenzo e poi Augusto Hugony, Sénes, Sandron, ecc. Accanto a essi
troviamo però sempre più numerosi i palermitani, anche se l’assenza di studi sull’argomento non consente di individuarne i
processi di arricchimento, né l’esatto ruolo di ciascuno nell’ambito della sua attività. Ce li ritroviamo improvvisamente ricchi,
senza sapere, per il periodo precedente, nient’altro che il ramo
di commercio.
Le maggiori richieste estere di alcuni prodotti siciliani e l’aumento complessivo dei consumi come effetto dell’incremento demografico dell’intera provincia avevano favorito, dopo l’unificazione, lo sviluppo commerciale della città, che era stato assai più
rapido del contemporaneo sviluppo industriale. E ciò anche se il
collegamento ferroviario con l’interno e le altre città siciliane fu
completato con notevole ritardo, perché lo Stato non volle ricorrere a interventi straordinari, non tanto per una politica deliberatamente discriminatrice nei confronti della Sicilia, quanto
per non accollarsi eccessivi oneri finanziari nel settore. Così, se
la linea per Porto Empedocle era già completata nel 1876, il collegamento con Trapani avvenne soltanto nell’83, con Catania
nell’85, con Corleone nell’86, l’anno in cui fu finalmente inaugurata la nuova grande stazione tra via Lincoln e via Oreto, che
sostituiva la stazioncina di via del Secco (attuale via Silvio Boccone). Per il collegamento diretto con Messina, dovette trascorrere ancora quasi un altro decennio, quando fu interamente costruito il tratto Messina-Fiumetorto. Lo stesso collegamento con
Trapani avveniva attraverso un lungo giro che toccava Castelvetrano e Marsala: per la costruzione del tratto Alcamo-CalatafimiTrapani dovranno infatti trascorrere parecchi decenni.
Il prolungamento del molo nord, l’escavazione del basso fondale, il collegamento ferroviario con la stazione, non erano riusciti ancora a rendere il porto sufficiente alle esigenze del traffico marittimo e all’aumentata dimensione delle imbarcazioni. E
perciò, dagli ultimissimi anni del secolo sino alla prima guerra
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Palermo
mondiale, esso fu interessato da nuovi lavori di escavazione e dotato di due nuove banchine (Puntone e Quattroventi), di un bacino di carenaggio, di una stazione di disinfezione, di capannoni e tettoie, di un impianto di illuminazione elettrica. Non si può
dire però che il problema del porto fosse stato risolto, anzi gli
operatori commerciali continuavano a mostrarsi a ragione insoddisfatti per le sue numerose carenze, che solo radicali trasformazioni, come quelle che saranno poi decise dal governo nel primo dopoguerra avrebbero potuto eliminare. Si pensi, ad esempio, che sino agli anni Venti i piroscafi e lo stesso postale per
Napoli non attraccavano alla banchina, ma ancoravano al largo
e il trasbordo a terra di merci e passeggeri avveniva con piccole imbarcazioni; l’operazione comportava quanto meno un aumento dei costi di trasporto delle merci da e per la città e una
inutile perdita di tempo.
Al momento dell’unificazione, il porto di Palermo per movimento di navi e per tonnellaggio di stazza era il quinto d’Italia,
dopo Genova, Livorno, Messina e Napoli. Nel 1863, anno per il
quale disponiamo di valori confrontabili con i successivi, aveva
un movimento di 6.527 imbarcazioni, per un tonnellaggio di stazza pari a 774.199, e di merci importate per un valore di 21,5 milioni di lire ed esportate per 11,5 milioni. Negli anni successivi,
il numero delle imbarcazioni in entrata e in uscita dal porto aumentò sino a toccare quasi le 13.000 nel 1874, per ridiscendere
lentamente, per effetto della sempre maggiore sostituzione dei
velieri con navi a vapore assai più capaci. Le 7.023 imbarcazioni
del 1888 danno pur sempre un incremento del 7,5 per cento rispetto al 1863, contrariamente a quanto si verificava, se i dati sono corretti, negli altri grandi porti italiani, dove contemporaneamente il movimento navale subiva flessioni, che toccavano punte del 48 per cento a Livorno e del 41 per cento a Genova. Il tonnellaggio di stazza, che nel 1870 era già raddoppiato, nel 1888
era salito a 2.776.199, collocando così il porto di Palermo al terzo posto dopo Genova e Napoli, con un incremento rispetto al
’63 del 358 per cento, che è di gran lunga il più elevato tra quelli registrati dai grandi porti italiani e che è dovuto in massima
parte al fatto che la città era una delle due sedi della Ngi.
Per quanto riguarda il volume della merce importata ed esportata, nel periodo 1862-1871 si verificò una crescita percentuale
VII. Palermo ‘felicissima’
311
del 71 per cento e del 50 per cento nel decennio successivo, che
equivale al 165 per cento nell’intero ventennio 1862-1881 e che
è da considerare ancora una volta la più elevata (al secondo posto Napoli con un incremento del 126 per cento). Anche se non
mancarono cadute nel corso del trentennio 1861-1890, l’andamento commerciale deve considerarsi complessivamente positivo, grazie soprattutto alle richieste estere di sommacco e agrumi,
il cui mercato era in fase di espansione, da quando con la navigazione a vapore era diventato più facile raggiungere gli Stati
Uniti, sbocco principale del commercio agrumario palermitano.
Contemporaneamente, il valore del movimento commerciale passava – malgrado alcune fasi di depressione – dai 33 milioni del
1863 ai 57 del 1877, 75 del 1878, 66 del 1881. Diversamente inoltre da quanto accadeva nel periodo borbonico, nel primo decennio dopo l’unificazione il valore delle importazioni superava annualmente quello delle esportazioni, ma nella seconda metà degli anni Settanta la situazione si era nuovamente ribaltata e le
esportazioni ritornarono a superare in valore le importazioni.
Non sappiamo molto circa l’indirizzo dei traffici, che sembra
comunque ricalcare quello tradizionale, che escludeva per non
pochi prodotti – è importante sottolinearlo – il mercato nazionale, non ancora in condizione di assorbire le principali esportazioni siciliane. Ciò nel Novecento sarà pagato duramente dalla
Sicilia, perché gli esportatori continueranno a inseguire successi
sempre più difficili sui mercati esteri, trascurando il mercato nazionale, ormai maturo per accogliere i prodotti siciliani, e addirittura anche quello locale, che si aprirà così alla concorrenza nazionale. L’esempio più eclatante si avrà nel campo delle conserve di pomodoro, apprezzate in Inghilterra e in America, ma di
impossibile reperimento sui mercati locali, abbandonati completamente dai produttori palermitani alla concorrenza delle fabbriche della penisola.
Assieme al sommacco, gli agrumi della Conca d’Oro e dei centri vicini contribuivano – come si è detto – in misura determinante all’incremento delle esportazioni. Nel 1870-1872, se ne
esportavano mediamente oltre 30.235 tonnellate l’anno, con destinazione America (65 per cento), Inghilterra (22 per cento),
Olanda (7 per cento), Francia (1 per cento). Un decennio dopo,
nel 1881, grazie all’azione di varie leghe e società agrumarie, l’e-
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Palermo
sportazione di agrumi era quasi raddoppiata (t 58.657), mentre
il sommacco macinato, la cui esportazione all’inizio degli anni
Settanta si aggirava sulle 17-18.000 tonnellate, toccava quasi le
25.000, oltre 7.500 di non macinato (4.250 nel ’71). Il boom del
settore zolfifero non interessava Palermo: le poche centinaia di
tonnellate di zolfo che annualmente si esportavano dal suo porto erano ben poca cosa rispetto alle diverse decine di migliaia di
tonnellate che partivano contemporaneamente da Catania, Licata e Porto Empedocle. L’esportazione del vino in fusti, nel corso
degli anni Settanta, raddoppiò, ma si ridusse notevolmente quella del vino imbottigliato. In aumento era anche l’esportazione di
essenze, tartaro, scorze di agrumi, agro di limone, pelli, guanti di
pelle (da poche centinaia ad alcune migliaia di paia), mandorle,
legumi, ortaggi freschi, formaggi. Una fase di stasi si nota invece
nella richiesta estera di olio, manna, profumi, lana, granaglie, pasta, pistacchi, sarde e acciughe salate, grassi, colla forte, mentre
l’esportazione di prodotti chimici, medicinali, stracci, frutta secca era addirittura in fase di diminuzione.
Sino al 1888, le principali esportazioni di prodotti siciliani dal
porto di Palermo mostrano complessivamente una tendenza positiva. L’aumento delle esportazioni di agrumi (quasi 70.000 tonnellate), zolfo (t 4.800), pasta di grano duro, mandorle, formaggi e lana, e la richiesta estera di nuovi prodotti (sughero) compensavano la caduta delle esportazioni di tartaro, olio, pelli e soprattutto vino (hl 7.068), come effetto della guerra commerciale
con la Francia dopo l’approvazione della tariffa doganale dell’87, mentre stazionaria si manteneva l’esportazione di sommacco
(t 32.000). Ben poco sappiamo sulle voci di importazione e i relativi quantitativi, anche se non è difficile ipotizzare ai primi posti legname, ferro, prodotti finiti (macchine, tessuti, confezioni,
ecc.), generi alimentari (grano) e coloniali. Nel 1888 si importarono dall’estero oli minerali (t 32.200), caffè (t 248), zucchero
(t 1,680), tabacco in foglia (t 857), prodotti chimici medicinali e
resine (t 743), filati e tessuti di cotone (t 528), sete (t 13,5), legno
(t 9.737), minerali, metalli e macchine per t 6.778, pietre, vasellame e cristalli (t 116.500), ecc.
Dal 1888 la tendenza positiva si invertì, per la crisi commerciale che investì l’Italia a seguito della guerra doganale con la
Francia, che nel sud agricolo, già colpito dal crollo dei prezzi del
VII. Palermo ‘felicissima’
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grano e dalla crisi agraria degli anni Ottanta, fu maggiormente
sentita, perché determinò la caduta delle principali esportazioni,
il vino soprattutto; caduta che dal 1892-1893 interessò anche il
settore zolfifero, i cui prezzi nel ’95 toccarono il livello più basso, per la concorrenza delle piriti e per la depressione economica
che aveva colpito in quegli anni i principali paesi importatori:
Stati Uniti, Francia, Inghilterra. Come è noto, tutto ciò ebbe effetti dirompenti sulla società contadina, mentre in città anche case commerciali di solida tradizione entrarono in crisi: è il caso,
ad esempio, della ditta tedesca Kaiser und Kressner, una banca
privata che aveva rapporti con parecchie altre banche d’Italia,
Germania, Inghilterra, Francia, paesi dai quali importava tessuti
in cambio di sommacco, zolfo, agrumi, manna, ecc. Dopo la morte di Kressner era rimasta nelle mani di Schumacher, che nel 1893
si tolse la vita, non riuscendo a far fronte alle difficoltà.
Segnali di risveglio dell’attività commerciale cominciano a notarsi solo all’inizio dell’ultimo quinquennio del secolo, per effetto
della ripresa dell’economia mondiale. Si ebbero allora l’apertura
di nuovi esercizi e la nascita di nuove case commerciali. Grazie alle richieste di agrumi, conserve alimentari, pasta da parte degli
emigrati siciliani all’estero, ancora legati alle vecchie abitudini alimentari, il periodo sino alla guerra mondiale segnò complessivamente una fase positiva del movimento commerciale. Ma è proprio
in quegli anni di ripresa e di congiuntura favorevole per l’economia italiana – che a Palermo sono anche quelli della belle époque –
che si accentua pesantemente il divario con le altre città italiane. Il
porto cittadino nel 1904 si collocava nuovamente al quinto posto
per numero di imbarcazioni (3.577 in arrivo e 3.566 in partenza),
preceduto notevolmente da Napoli e Genova e superato anche da
Livorno e Messina, la cui ripresa era stata ovviamente più rapida
che a Palermo, come più rapida era stata a Venezia e a Catania, che
stavano per raggiungerlo e lo supereranno effettivamente nel quinquennio 1909-1913, anche se intanto il numero medio dei bastimenti saliva a 7.291. Se consideriamo il tonnellaggio di stazza, con
4,6 milioni Palermo nel 1904 rimaneva ancora al terzo posto, ma
ciò era determinato esclusivamente dalla presenza dei traghetti
che la collegavano giornalmente con Napoli.
Per quanto riguarda il movimento commerciale, che è quello
che più conta, Palermo rispetto agli anni Ottanta nel 1904 aveva
314
Palermo
recuperato un posto, a danno di Messina, e si trovava al sesto posto dopo Genova, Venezia, Napoli, Savona e Livorno, con 711.000
tonnellate di merci imbarcate e sbarcate (t 663.000 nel 1892).
Precedeva Catania – in notevole sviluppo economico –, Messina
e Ancona: ma già nel 1910, mentre Messina rimaneva molto attardata dal terremoto del 1908, Palermo veniva superata da Ancona e da Catania, principale porto di esportazione dello zolfo
(nel 1909: t 141.000 contro le appena 241 di Palermo) ed erede
di Messina nell’esportazione agrumaria. Se poi consideriamo i valori percentuali, giungiamo all’amara conclusione che, nel 1904,
il movimento commerciale del porto di Palermo, rispetto agli anni Ottanta, aveva avuto – dopo Messina, dove si verificava addirittura una caduta del 30 per cento – l’incremento più modesto:
neppure il 30 per cento, contro il 45 per cento di Savona, il 65
per cento di Catania e Livorno, l’80 per cento di Genova e Bari,
l’oltre 100 per cento di Napoli e Venezia. E la situazione peggiorò negli anni successivi: tra il 1904 e il 1909-1913, mentre altrove si avevano incrementi che oscillano dal 29 (Genova) al 99
per cento (Napoli), a Palermo non si andò oltre il 17,5 per cento (Catania = 37,5 per cento). Si ha così una ulteriore conferma
di quanto si è già detto a proposito dello sviluppo industriale, e
cioè che mentre Palermo camminava, le altre città correvano,
comprese alcune del Meridione.
Circa l’esportazione dei singoli prodotti, la provincia di Palermo (i dati che seguono si riferiscono al movimento commerciale dell’intera provincia, che però, tranne per lo zolfo che si
esportava soprattutto da Termini Imerese, era concentrato quasi
interamente nel capoluogo) si collocava al primo posto in Sicilia
per agrumi (limoni essenzialmente) e suoi derivati e sommacco.
L’esportazione di agrumi nel 1902 superò le 100.000 tonnellate,
si mantenne attorno alle 80.000 nei tre anni successivi e non scese più al di sotto delle 100.000 dopo il 1907, per toccare il massimo con quasi 160.000 nel 1914. Con gli agrumi si esportavano
anche essenze, scorze, succhi e citrato di calcio. Al secondo posto come valore venivano i capelli non lavorati, per alcune centinaia di quintali. Il sommacco, che nel 1906 aveva toccato le
38.000 tonnellate, scese attorno alle 20.000 e su tale livello si mantenne quasi sempre negli anni successivi. Al quarto posto si collocò di forza la conserva di pomodoro, di cui sino alla fine del se-
VII. Palermo ‘felicissima’
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colo si esportavano pochissime centinaia di tonnellate. Le richieste dei nostri emigrati nelle Americhe provocavano col nuovo secolo un vero e proprio boom: le esportazioni, che nel 1900 erano
pari a 408 tonnellate, salirono l’anno appresso a 949 e via via sino a superare le 5.000 nel 1906 e toccare quasi le 10.000 nel 1912.
Analogamente si affermava l’esportazione di carciofi conservati e
caponate (oltre 1.600 tonnellate nel 1907), paste alimentari (dalle 200-400 tonnellate di fine Ottocento alle 2.300 del 1909), ecc.
In espansione era anche l’esportazione di frutta secca e pesce conservato, mentre in gravissima crisi era caduta l’esportazione di vino, che pure a fine secolo era riuscita a trovare nuovi sbocchi nell’impero asburgico, in Germania e in America. Ma nel 1904, dopo la ricostituzione dei vigneti colpiti dalla fillossera, l’Austria
chiuse il mercato ai vini italiani, mentre la Francia, che aveva anch’essa ricostituito i suoi vigneti, e la Spagna ci contendevano i
mercati tedeschi e svizzeri. E così, l’esportazione di vino che nel
1899 aveva toccato i 284.000 ettolitri, di cui 281.000 nella sola
Austria-Ungheria, nel 1904 si ridusse a 7.000 e raramente sino alla guerra mondiale superò i 10.000 l’anno. Lo zolfo, come noto,
rappresentava una voce minore del commercio palermitano: nel
1904, quando dall’isola se ne esportarono 500.000 tonnellate, la
provincia di Palermo vi concorse con neppure 10.000. L’azione
dell’Anglo-Sicula ne aveva risollevato il mercato, ma proprio nel
1904 l’America, che aveva costituito il più importante sbocco
commerciale, cominciò a esportarne in Europa. Alla scadenza del
1906, l’Anglo-Sicula non venne più rinnovata, sostituita da un
Consorzio zolfifero, che valse per alcuni anni ad attenuare la crisi, ma non a risolvere il problema: le esportazioni palermitane raramente superarono negli anni successivi le 7.000 tonnellate.
Tra le importazioni, il primo posto era ormai occupato dai
grani russi. La Sicilia, che nell’età moderna esportava grano ai
paesi dell’Europa mediterranea, era costretta, dopo l’espansione
demografica della seconda metà dell’Ottocento, a ricorrere ai
mercati esteri per sfamare la sua popolazione. Palermo ne importava grossissimi quantitativi, che per il primo decennio possiamo valutare in una media di 35.000-40.000 tonnellate l’anno,
destinate ad aumentare nel quinquennio successivo, se nel solo
1913 si superarono le 82.000 tonnellate. Seguivano nell’ordine
carbon fossile, legname, tabacco in foglia, acido oleico, caffè e
316
Palermo
naturalmente prodotti finiti (tessuti, macchine da cucire, strumenti scientifici, apparecchi vari, utensili, ecc.).
Per quanto lenta fosse l’espansione commerciale e per quanto ridotti fossero i consumi dei palermitani, Palermo era pur sempre una città che all’inizio del secolo contava 300.000 abitanti e
possedeva un vasto retroterra che a essa faceva capo per l’acquisto di numerosi articoli. Al suo interno si svolgeva perciò una vasta attività commerciale, che consentiva anche rapidi arricchimenti, come nel caso del già citato Dagnino o del noto Filippo
Pecoraino. Tra gli esportatori si affermarono soprattutto i commercianti di agrumi e di sommacco, i due prodotti palermitani la
cui esportazione aveva avuto il maggiore incremento e contribuiva non poco alla crescita complessiva della società locale. E
ciò vale non tanto per il sommacco, la cui commercializzazione
era monopolio di poche ditte – alcune molto antiche (G.B. Casiglia, E. Graziano, Fratelli Jung, Michele Pojero jr., Giovanni
Sansone, Paul e Karl Wedekind), altre più recenti (Salvatore Falcone, Giovanni Terrasi, Giuseppe Vitrano), altre ancora appena
attivate (Giuseppe D’Alia, A. Gulì, Fratelli Savona, The Palermo
Shumac Manifacturing and Export Company di San Graziano,
D’Alia e Percy C. Woodrom) –, quanto per l’esportazione di
agrumi, che impegnava invece ben 195 commercianti, tra i quali ovviamente i più grossi operatori locali: i fratelli Jung, gli Zito,
i Tagliavia, i Graziano, S. Guttadauro, Follina, Alberto Lecerf,
V.F. Mercadante, O. Sternheim, ecc. Si trattava di palermitani o
di stranieri ormai naturalizzati, come nel caso dei Wedekind e di
Sternheim e degli Hamnett per il citrato di calcio. I banchieri
Wedekind erano inoltre, già attorno alla metà degli anni Novanta, i più grossi importatori siciliani di petrolio americano e avevano cospicue partecipazioni nella Società Italo Americana Petroli di Venezia e nella Società Anonima per gli Olii Minerali di
Genova. Nel 1916, i loro beni, in quanto proprietà nemica, saranno sequestrati dal governo italiano.
Almeno nel grande commercio, dunque, la borghesia cittadina all’inizio del nuovo secolo si era quasi del tutto affrancata dalla presenza forestiera e aveva acquisito una notevole professionalità. Il successo nel mondo commerciale costituiva ancora una
volta, come era stato nei secoli precedenti per gli operatori stranieri, il passaporto migliore per tentare l’integrazione nei ranghi
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dell’aristocrazia, spesso attraverso l’antica collaudata politica matrimoniale.
8. Università e cultura
Se il ceto commerciale era il più vicino al mondo aristocratico della città, i rapporti tra aristocrazia e borghesia delle professioni appaiono invece scarsi e limitati ai soli rapporti professionali. Nel corso del cinquantennio unitario, il ceto dei professionisti non era tanto cresciuto come numero, quanto come autonomia intellettuale e come coscienza professionale, e si era liberato quasi del tutto dalla soggezione all’antico ceto dominante,
al quale contendeva con sempre maggiore successo la gestione
della cosa pubblica e aveva definitivamente sottratto il monopolio della cultura, approfittando anche del fatto che l’aristocrazia
– ancora fermamente convinta che il nobile fosse tale in quanto
non aveva bisogno di lavorare né di esercitare una qualsiasi professione – tranne rarissime eccezioni snobbava l’università.
Subito dopo il 1860, le iscrizioni alle facoltà universitarie, che
nel 1858-1859 avevano toccato la punta massima di 1.024, crollarono di colpo e si mantennero su livelli molto bassi per circa
un ventennio. La caduta delle iscrizioni – che inizialmente non
valse a incrementare neppure l’istituzione nel 1867 del nuovo
corso di laurea in ingegneria e architettura, che per parecchi decenni rimase il solo in Sicilia e raccoglieva iscrizioni da tutta l’isola – era attribuita dal rettore Cannizzaro alla concorrenza dell’Università di Napoli, che diversamente da quella di Palermo
non aveva esami di ammissione e concedeva agli studenti altre
agevolazioni, tra cui tasse più leggere ed esami più facili. Anche
la leva obbligatoria contribuiva a ridurre il numero delle iscrizioni, perché colpiva gli studenti proprio negli anni della frequenza universitaria e perciò molti dopo il ginnasio o il liceo preferivano non continuare gli studi. In compenso, rispetto al passato, c’era maggiore serietà negli studi, soprattutto nelle facoltà
scientifiche, mentre lasciava a desiderare la facoltà di giurisprudenza, che pure non mancava di ottimi docenti.
L’inversione di tendenza si verificò in coincidenza con la conquista del potere da parte della Sinistra. Dopo il 1876, le iscri-
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Palermo
zioni, che si erano quasi sempre mantenute al di sotto delle 300,
cominciarono lentamente a salire e già prima del 1880 superarono le 400 e in pochi anni oltrepassarono quota 1.000, anche se i
più esigenti continuavano a preferire le università della penisola.
Dal 1886 non si scese più al di sotto dei 1.000 iscritti, ma l’ulteriore incremento fu assai lento e si può dire che sino ai primi anni del nuovo secolo la situazione si mantenesse piuttosto stazionaria, attorno ai 1.200 iscritti. Nel 1909 si superarono le 1.500
iscrizioni e in pochi anni, al tempo della guerra mondiale, si andò
oltre le 2.000 e nel 1918-1919 si superarono addirittura le 3.000.
Complessivamente, soltanto grazie al recupero in età giolittiana
si ebbe un miglioramento del rapporto studenti universitari/popolazione, che tuttavia ancora si manteneva ai livelli del periodo
borbonico: 4,7 studenti/1.000 palermitani nel 1906-1916 contro
4,6 nel 1836-1846; 0,91 studenti/1.000 abitanti della Sicilia occidentale nel 1906-1916 contro 0,83 nel 1826-1836. Ciò significa
che il ceto dei professionisti nel primo quarantennio dopo l’unificazione non riusciva neppure a tenere dietro all’incremento demografico e che solo all’inizio del nuovo secolo cominciò a recuperare. Le facoltà più popolate continuavano a essere, come in
passato, giurisprudenza (dal 36,6 per cento degli iscritti nel 18911896 al 51,2 per cento nel 1901-1905) e medicina (sino a oltre il
30 per cento in alcuni anni, per scendere però sotto il 20 per cento nel Novecento), ma le facoltà in ascesa erano farmacia e scienze, dove nel 1885 si istituì anche il corso di laurea in matematica, mentre il corso di ingegneria stentava a decollare, anzi dopo
una discreta partenza si era ridotto a raccogliere all’inizio del secolo appena il 2 per cento degli iscritti. A lettere c’erano poche
decine di iscritti (raramente superavano il 5 per cento degli universitari), tra cui nel 1884-1885 una donna, che non andò oltre
il primo anno. La presenza femminile diventò continua negli anni Novanta, ma sino al 1905 rimase limitata a neppure 10 iscritti nelle facoltà di lettere, scienze e poi anche farmacia e medicina, per aumentare rapidamente negli anni successivi. Il numero
degli studenti nati in città si manteneva percentualmente inalterato rispetto al periodo borbonico, tra il 25 e il 30 per cento degli iscritti, e così pure quello degli studenti della provincia di Caltanissetta, ma si era ridotta l’incidenza degli studenti della provincia di Palermo, la cui presenza spesso non superava il 20 per
VII. Palermo ‘felicissima’
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cento, e della provincia di Girgenti, a vantaggio degli studenti di
altre province siciliane (soprattutto Trapani e, dopo il terremoto, Messina) e di altre regioni. I palermitani frequentavano principalmente giurisprudenza, scienze e ingegneria, mentre i provinciali erano più presenti a medicina e a farmacia. Parecchi però
continuavano a preferire la facoltà di medicina di Napoli. Ingegneria era il corso di laurea (facoltà dal 1902) dove la presenza di
studenti della Sicilia orientale era percentualmente più consistente e ciò si spiega col fatto che esso era l’unico in tutta l’isola.
Il numero di studenti che perveniva alla laurea era piuttosto
esiguo, anche in rapporto al numero degli iscritti, e ciò contribuiva a bloccare la crescita numerica del ceto dei professionisti,
cosicché se, per numero di avvocati in rapporto alla popolazione, Palermo nel 1901 era ai primi posti dopo Napoli e Catania,
per numero di medici – diversamente da quanto accade oggi –
era agli ultimissimi posti. Non tutti gli universitari completavano
il regolare corso di studi: un centinaio l’anno negli ultimissimi
tempi del regime borbonico, con una punta massima di 135 laureati nel 1859, che diventarono 183 nel 1861, quando cominciarono a diminuire per toccare il minimo di 17 nel 1867. Solo dieci anni dopo si superarono i 50, i 100 nel 1884 e i 200 nel 1895,
quando finalmente la prima donna conseguì la laurea (in lettere).
L’anno appresso si ebbe la prima laureata in scienze, nel 1900 la
prima farmacista, tre anni dopo il primo medico di sesso femminile e finalmente, nel 1917, la prima donna avvocato. Sino al
1909, comunque, il numero dei laureati si mantenne quasi sempre al di sotto dei 200 l’anno. I migliori dei provinciali finivano
con il fermarsi in città anche dopo la laurea, per esercitare le varie professioni, per le quali i palermitani continuavano a non mostrare eccessiva vocazione, perché preferivano piuttosto trovare
una più facile sistemazione nell’amministrazione pubblica. Soprattutto nel campo medico, parecchi provinciali si affermarono
ad alto livello, raggiungendo anche l’insegnamento universitario.
Dalla professione alla politica il passo era breve e spesso i provinciali professionalmente più affermati si inserivano nel gruppo
dirigente della città, tra i consiglieri comunali e talora anche tra
gli assessori. Per quanto limitato fosse il numero annuale dei
laureati, nuovi strati sociali avevano avuto la possibilità di accedere alla laurea, un fatto che infastidiva enormemente il Lo Val-
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Palermo
vo, il quale non sopportava «la moderna abitudine di arrivare dalla zappa al bisturi, dalle forbici alle pandette, dalla cazzuola al
compasso».
Nell’avvocato – egli diceva – vorreste trovare il figlio di un avvocato o di un magistrato, ed invece trovate un cuoco, un portinaio od
un impiegato [...]. In un medico vi parrebbe di riscontrare, almeno,
il tradizionale odore della farmacia in famiglia, e nei di lui antenati
non rinvenite che modesti coltivatori della terra.
Il disprezzo del Lo Valvo per i nuovi professionisti era in fondo ampiamente condiviso dagli ambienti aristocratici: non dimentichiamo la ferma opposizione dei genitori di Francesca di
Spedalotto al suo matrimonio con Bonanno. E il figlio dell’avvocato Camillo Orlando, Vittorio Emanuele, precettore da giovane in casa Scalea, non riuscì a sposare la figlia del principe,
Eleonora, che andò invece sposa a don Federico Pignatelli. Ma
ormai l’avvenire era dei Bonanno e degli Orlando, la nuova classe dirigente del paese, che aveva trovato negli studi e nella professione un importante strumento di mobilitazione sociale. E perciò, Orlando, ormai grande giurista e da poco ministro di Grazia e Giustizia del governo Giolitti, poteva ricordare con soddisfazione gli anni difficili dell’università – quando era «così ricco
di speranze e povero di quattrini, col mio paletot ridotto dall’antico cappotto di guardia nazionale del papà, e proprio con
quel dannato colletto che ora mi strangolava, ora tendeva a coprire la mascella sino al mento» – e riconoscersi sorridendo nel
don Liddu o don Sucasimula, il prototipo del giovanissimo dongiovanni palermitano, perennemente squattrinato e tuttavia ostinato a voler fare l’elegantone, malgrado gli indumenti non riuscissero a nascondere l’usura del tempo e delle precedenti trasformazioni. Successo professionale significava anche agiatezza,
ma non ricchezza: dei diversi professionisti che all’inizio del secolo avevano già abbandonato il centro storico e si erano trasferiti nei nuovi rioni, solo qualcuno era proprietario dell’abitazione in cui si era trasferito.
I docenti dell’Università, già sin dalla sua fondazione, erano
stati sempre, tranne rarissime eccezioni, di estrazione borghese,
sia i laici che gli ecclesiastici. Dopo il 1860, con la completa lai-
VII. Palermo ‘felicissima’
321
cizzazione voluta dal prodittatore Mordini, il ritorno dall’esilio
di personaggi quali Stanislao Cannizzaro e Gregorio Ugdulena,
la chiamata di nuovi docenti dalla penisola, l’Università uscì dal
suo isolamento, acquistò prestigio e assunse la guida del processo di rinnovamento intellettuale della città e del suo entroterra.
Si svilupparono importanti scuole. Si è avuto già modo di accennare all’azione di Pantaleo e Gorgone nel campo della chirurgia, continuata da Enrico Albanese, medico di Garibaldi e
creatore dell’Ospizio Marino, ma anche chirurgo di notevole valore. Sino al 1870 insegnò clinica medica Carlo Maggiorani, un
romano che nel 1863 Pio IX aveva destituito per motivi politici
dall’insegnamento e al quale Amari, ministro della Pubblica
Istruzione, offrì la cattedra a Palermo. Ma il fondatore della clinica medica fu il suo successore, Cesare Federici, che ebbe allievi Giuffrè, Salomone Marino, Vincenzo Piazza Martini e Giuseppe Caruso Pecoraro, considerato il Cardarelli di Palermo.
L’architettura aveva una tradizione consolidata: dal Marvuglia,
che per primo tenne la cattedra, al Giachery, al quale successero
G.B.F. Basile e Damiani Almeyda, maestri di una larga schiera di
architetti cui si devono pregevoli realizzazioni negli anni del liberty. Stanislao Cannizzaro, il fondatore della chimica moderna,
quando nel 1870 lasciò Palermo per Roma era riuscito già a creare una Scuola di chimica con una sua rivista, la «Gazzetta chimica italiana», l’unica in Italia. A lui successe l’allievo Emanuele Paternò, anch’egli grande scienziato, che un ventennio dopo
lo raggiunse a Roma (1892), seguito più tardi dal suo discepolo
Alberto Peratoner, mentre, a dimostrazione della bontà della
scuola di Palermo, Pietro Spica Maccataio, veniva chiamato a Padova e Giuseppe Oddo a Cagliari, da dove ritornò a Palermo per
continuare l’opera dei predecessori. La scuola di matematica si
formò più tardi, negli anni in cui insegnarono il napoletano Ernesto Cesarò (algebra nel periodo 1886-1891) e soprattutto lo
spezzino Francesco Gerbaldi (geometria analitica), che rimase a
Palermo dal 1890 al 1908 e sotto la cui guida si formarono i grandi matematici Giuseppe Bagnera, Michele De Franchis e Michele Cipolla, che si avvalsero anche notevolmente dei contatti con
le esperienze europee attraverso l’attività del Circolo Matematico. Tra Otto e Novecento si formarono le due prestigiose scuole di diritto amministrativo e di diritto romano, rispettivamente
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Palermo
per merito di V.E. Orlando, alla cui scuola si formò Santi Romano, e di Salvatore Riccobono, il quale dopo la laurea aveva seguito per alcuni anni corsi di perfezionamento in Germania sotto la guida di Windscheid. Vita piuttosto breve ebbe invece la
scuola di fisica di Damiano Macaluso, che ebbe però il merito di
lanciare Orso Mario Corbino, il fondatore della fisica teorica e
della scuola di fisica di via Panisperna a Roma, da cui uscirono i
premi Nobel Fermi e Segrè. Senza seguito immediato rimase l’insegnamento e l’attività del grande geologo Gaetano Giorgio
Gemmellaro, fondatore tra l’altro del museo di geologia. Non si
formò neppure una scuola storica, anche se esistevano bravissimi paleografi come Isidoro Carini, chiamato più tardi alla Scuola Vaticana, e la ricerca non era trascurata; ma i risultati furono
complessivamente modesti, ove si eccettui la Storia dei Musulmani di Michele Amari.
Tra i numerosi docenti universitari venuti dalla penisola e talora anche dall’estero, oltre i già citati, meritano di essere ricordati il modenese Salvioli (storia del diritto italiano), i napoletani
Schiattarella (filosofia del diritto) e Manfredi (igiene), Holm, Beloch, Pais (storia antica), Colozza (pedagogia), Mestica (letteratura italiana). Di contro, i migliori dei locali, non appena potevano, lasciavano la città per sedi universitarie più prestigiose: assieme a Cannizzaro, Roma chiamò Gregorio Ugdulena alla cattedra di lingua e letteratura greca, mentre nei decenni successivi, oltre la partenza dei chimici di cui si è detto, registriamo i trasferimenti a Napoli del bagherese Francesco Scaduto, docente di
diritto ecclesiastico (1886); a Roma (1887), come revisore alla Camera dei deputati, e poi a Torino di Gaetano Mosca, che a Palermo insegnava diritto costituzionale; a Camerino (1899) e poi
a Modena, Pisa, Milano, Roma dell’amministrativista Santi Romano; a Roma di V.E. Orlando, chiamato a occupare la cattedra,
appena istituita, di diritto pubblico generale (1901); a Roma di
G.B. Impallomeni (1904), valoroso docente di diritto penale e difensore dei dirigenti dei Fasci nel processo di appello; a Messina
(1905) e poi a Roma (1908) del fisico Corbino; a Pavia dello zoologo Andrea Giardina (1906); a Pisa di Giovanni Gentile (1914);
a Roma del matematico Giuseppe Bagnera (1922). Per non parlare del giovanissimo medico Gabriele Buccola di Mezzojuso, trasferitosi nel 1879 a Reggio Emilia e poi a Torino, dove morì ap-
VII. Palermo ‘felicissima’
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pena trentenne, dopo avere fondato la psicologia sperimentale in
Italia e dato un indirizzo completamente nuovo agli studi di psichiatria. Si trattava di studiosi che costituiscono ancor oggi dei
punti di riferimento spesso insuperati e la cui partenza, se da un
lato dimostrava i progressi della ricerca scientifica palermitana,
dall’altro depauperava la città degli elementi più qualificati.
È opportuno ricordare anche alcune associazioni scientifiche
collegate con i maggiori centri culturali italiani e stranieri, che
aprirono la cultura palermitana a più moderne istanze e a nuovi
orientamenti: il Circolo Giuridico, il Circolo Matematico e la Biblioteca Filosofica. Il Circolo Giuridico, fondato nel 1868 da Luigi Sampolo, docente di diritto civile, che ne fu per anni instancabile animatore, fu un importante centro di formazione e diffusione degli studi di diritto, aperto com’era anche a studenti e professionisti e fornito di biblioteca e di una propria rivista, sulle cui
pagine venivano dibattuti i problemi giuridici del momento, talora anche con la partecipazione di eminenti studiosi stranieri,
soprattutto tedeschi. Il Circolo Matematico fu istituito nel 1884
da G.B. Guccia dei marchesi di Ganzaria, docente di geometria
superiore nella facoltà di scienze, che si era formato a Roma alla
scuola di Luigi Cremona, una delle migliori d’Europa, dove aveva avuto modo di allacciare anche solidi rapporti con studiosi
stranieri. Quasi interamente da lui finanziato, il Circolo – cui non
mancò talora l’avversione di certi ambienti accademici locali –
annoverò tra i suoi soci studiosi di tutto il mondo e nel suo direttivo i più grandi matematici del tempo, da Henri Poincaré a
David Hilbert, da Felix Klein a Federigo Enriques (la Romania,
non rappresentata nel direttivo, protestò). Dal 1893 dispose anche di una tipografia impiantata a spese del Guccia e attrezzata
con caratteri matematici per la stampa dei suoi «Rendiconti», che
per i nomi prestigiosissimi dei collaboratori avevano una larghissima diffusione internazionale, ma giungevano anche nei più
sperduti licei dell’isola, dove svolgevano una efficace opera di aggiornamento dei docenti. La Biblioteca Filosofica, fondata nel
1910 dal neoplatonico Giuseppe Amato Pojero (fratello di Michele), continuava a più alto livello l’attività del cenacolo filosofico costituito dallo stesso Amato vent’anni prima nella sua abitazione di via Libertà (Villa Amato) e che ebbe larga parte nel rinnovamento degli studi filosofici a Palermo. Per alcuni anni ne fu
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Palermo
guida Giovanni Gentile, il fondatore dell’idealismo attualistico,
che dal 1907 al 1913 insegnò storia della filosofia nell’Ateneo palermitano e formò una folta schiera di discepoli che rispondono
ai nomi di Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Vito Fazio Almayer, Giuseppe Saitta, Giuseppe Carlotti, Ferdinando Albeggiani, animatori assieme al maestro e all’Amato del dibattito filosofico, al quale partecipavano anche i pedagogisti Giuseppe Lombardo Radice (allora insegnante presso l’istituto magistrale De
Cosmi) e Gino Ferretti, i filosofi Cosmo Guastella e Francesco
Orestano, i matematici Gaetano Scorza e Corradino Mineo, lo
storico Gaetano Mario Columba, il letterato G.A. Cesareo, il romanista S. Riccobono, Guido Jung, esperto di problemi economici, e numerosi altri, tra cui i maggiori pensatori italiani e stranieri, chiamati dal cenacolo e dalla Biblioteca a presentare i risultati
delle loro ricerche, pubblicate successivamente sull’«Annuario».
La presenza contemporanea nell’Ateneo di tre pensatori come Giovanni Gentile, Cosmo Guastella, sostenitore dell’empiriofenomenismo, e Francesco Orestano, fondatore del realismo critico, faceva allora di Palermo uno dei centri più attivi della ricerca filosofica in Italia, come testimoniano anche le collane
«Grandi pensatori» e «L’indagine moderna» dell’editore Remo
Sandron, ricche di opere di studiosi italiani e stranieri di fama
mondiale. Al dibattito culturale partecipavano attivamente anche
i docenti degli istituti secondari, alcuni dei quali raggiunsero successivamente traguardi di notevole prestigio. Tra Otto e Novecento insegnavano nelle scuole palermitane personaggi del calibro di Ugo Antonio Amico (lettere italiane), Orso Mario Corbino
(fisica e chimica), Francesco Vivona (latino e greco), Pasquale
Calapso (matematica), Alfonso Sansone (italiano e storia), Francesco Guardione (italiano), Giuseppe Pipitone Federico (storia
e geografia), Antonio Aliotta (filosofia), il notissimo poeta dialettale Alessio Di Giovanni, il pittore Francesco Lo Jacono, lo
scultore Salvatore Valenti, Gaetano Fazzari (matematica), che dirigeva «Il Pitagora», una rivista di didattica della matematica da
lui fondata nel 1894, pubblicatasi sino al 1918 e molto apprezzata. A essi si aggiunsero successivamente Lombardo Radice, Ernesto Codignola (pedagogia) ed Eugenio Donadoni (italiano).
Sulla vivacità della vita culturale palermitana d’inizio Novecento un po’ tutti concordano: peraltro, si svolgeva anche una
VII. Palermo ‘felicissima’
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intensa attività teatrale con la partecipazione dei migliori artisti
dell’epoca, si affermava prepotentemente l’art nouveau, fiorivano scultori di valore (Valenti, Costantino, Ragusa, Rutelli, Ugo:
Trentacoste ed Ettore Ximenes si erano trasferiti a Firenze) e pittori di buon livello (Lo Jacono, De Maria Bergler, Marchesi, Lentini), la rivista «La Fronda» e il poeta Federico De Maria anticipavano il futurismo, si affermava il genio musicale di Gino Marinuzzi, si costruiva un nuovo teatro (Biondo), si creava finalmente una Civica Galleria d’Arte Moderna (1910), poi intitolata
a E. Restivo, in cui trovavano posto una sessantina di opere di
artisti siciliani e parecchie altre di pittori italiani e stranieri, acquistate soprattutto alle Biennali veneziane degli anni precedenti, su consiglio di Basile e di Ducrot.
Lo stesso giudizio non può estendersi del tutto al periodo precedente, e cioè all’età del positivismo, ma non è neppure accettabile la condanna in blocco della cultura siciliana di quell’epoca, e di quella palermitana in particolare, espressa da Giovanni
Gentile, che salvava quasi il solo Pitrè, forse perché – sebbene
fosse uno dei maggiori esponenti del ‘sicilianismo’ culturale –
non aveva avuto «le fisime del verismo e del positivismo». Certamente, Palermo non ebbe come Catania narratori del calibro
di un Verga, di un Capuana, di un De Roberto, né poeti come lo
stesso Rapisardi, ma non si può definire «tutta schiettamente siciliana», con tutto ciò che di negativo comporta, la cultura palermitana dell’età del positivismo. Basterebbero i collegamenti
del Circolo Matematico con studiosi italiani ed europei, di cui si
è parlato, a orientarci per un diverso giudizio. Lo stesso Pitrè –
indubbiamente l’intellettuale più prestigioso e amato del primo
cinquantennio di postunificazione e ricercatore infaticabile delle
tradizioni del popolo siciliano (canti popolari, fiabe, novelle, racconti, proverbi, spettacoli, feste, giochi, usi, costumi, credenze,
pregiudizi, ecc.) – mantenne intensi rapporti culturali con studiosi di ogni paese, ai quali aprì le pagine dell’«Archivio» da lui
diretto in collaborazione con Salomone Marino, altro insigne cultore di tradizioni popolari. Le raccolte del Pitrè, deve inoltre sottolinearsi, non furono mero affastellamento di dati e notizie, ma
scelta criticamente rigorosa, alla luce di studi lunghi e approfonditi, che fecero di lui il fondatore in Italia di una nuova scienza,
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Palermo
la demopsicologia, di cui nel 1910 a Palermo fu istituita la prima
cattedra italiana, alla quale egli fu chiamato.
L’attività scientifica dell’archeologo Salinas, fondatore del
Museo Nazionale, ebbe un respiro europeo. A temi e funzioni
elaborati dalla coeva cultura europea si rifacevano l’architettura
di G.B.F. Basile e la scultura di Civiletti, premiato con medaglia
d’oro all’Esposizione Universale di Parigi del 1878, e dello stesso De Lisi. E la produzione della figura letteraria più significativa del periodo, Enrico Onufrio, era in buona parte ispirata ai modelli francesi. Essa fu apprezzata all’estero e le novelle, soprattutto, tradotte in russo, spagnolo, inglese. Come in passato, a Palermo continuavano a tradursi gli autori stranieri, in particolar
modo francesi, ma anche inglesi, tedeschi e persino polacchi. Girolamo Ragusa Moleti, profondo conoscitore della letteratura
francese, ammiratore dello Zola e del naturalismo, tradusse per
primo in Italia brani del Les paradis artificiels di Baudelaire e un
romanzo di Murger, che in Francia uscirà in volume oltre quarant’anni dopo.
In campo filosofico il positivismo non espresse a Palermo pensatori di rilievo e perciò, più che nei filosofi, il positivismo palermitano deve ricercarsi nelle opere dei giuristi e degli economisti Salvioli, Schiattarella, Cusumano, Ricca Salerno, e persino
in un saggio giovanile di V.E. Orlando; opere che Gentile non ha
preso in considerazione, se non per il solo Schiattarella, e in cui
il collegamento con la cultura europea è costante (Cusumano e
Ricca Salerno si erano perfezionati entrambi a Berlino e si collocavano nel gruppo dei riformatori che si opponeva al liberismo
tradizionale rappresentato a Palermo dal comune maestro Bruno), così come il forte impegno dottrinale e la ricchezza di temi,
a dimostrazione di una attività intellettuale nient’affatto chiusa
nell’ambito regionalistico e che spesso era anche impegno politico militante.
9. Alfabetizzazione, condizione professionale, consumi
A fronte di una esigua minoranza che perveniva alla laurea e
al successo professionale, esisteva a Palermo una massa di giovani che, per scarsezza di mezzi finanziari, non riuscivano a com-
VII. Palermo ‘felicissima’
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pletare un qualsiasi corso di studi e perciò non potevano presentarsi ai concorsi nell’amministrazione dello Stato, né trovavano occupazione nelle scarse industrie locali, né intendevano adattarsi a un lavoro manuale. E così
moltissimi – rilevava nel 1904 il console austriaco, il palermitano
Francesco Varvaro Pojero, esponente di un ceto sociale che avrebbe
voluto risolvere i problemi del paese soltanto con l’emigrazione – restano disoccupati, o vagano senza frutto, tra un’occupazione e l’altra.
Tentano spesso il cammino per la via più facile, facendo i rappresentanti. Quanti rappresentanti di nessun valore! Farebbero meglio col
andare a cercare fortuna altrove. Sarebbe bene che la febbre dell’emigrazione invadesse anche questi tipi. Ma essa non ha l’energia, il
coraggio, l’abitudine al lavoro della classe agricola. I contadini vanno
via troppo facilmente, essi marciscono in patria.
Esisteva, in verità, un’altra via: l’impiego al municipio, che in
assenza di grandi industrie costituiva uno sbocco occupazionale
assai ambìto:
Per questa gente – scriveva contemporaneamente sul «Corriere
della Sera» Gaetano Mosca – l’impiego al Municipio rappresenta il
paradiso terrestre e, come mezzo e preparazione per entrarvi, ha servito negli ultimi decenni maravigliosamente il galoppinismo elettorale, l’accattare voti a favore del proprio candidato, importunando parenti amici e conoscenti. I meno indotti fra questi cercatori d’impiego si sono anche industriati a scribacchiare nei piccoli giornaletti d’occasione, nei quali i candidati sono, secondo i casi, spudoratamente
esaltati o calunniosamente vilipesi.
Nel 1901 i ruoli dell’amministrazione pubblica (uffici e scuole) assorbivano a Palermo il 5,1 per cento dei capifamiglia, cosicché, dopo Roma, vi era la più numerosa burocrazia d’Italia,
‘privilegio’ che in verità la città divideva con Firenze e Genova.
Non è neppure improbabile che la battaglia di taluni amministratori per la municipalizzazione dei principali servizi fosse dovuta anche alla necessità di trovare una soluzione, grazie all’espansione degli stessi servizi, al fenomeno della disoccupazione
di quella che potremmo chiamare piccola borghesia. Si trattava
di buona parte di coloro che avevano affollato gli istituti secon-
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Palermo
dari cittadini (l’aristocrazia e l’alta borghesia, ancora all’inizio del
Novecento, continuavano a servirsi di istitutori e di istituti privati), sorti in buon numero nei decenni dopo l’unificazione. Lo
sviluppo dell’istruzione secondaria era stato molto più rapido di
quello dell’istruzione universitaria, e ancor più rapido era stato
il processo di alfabetizzazione della popolazione cittadina, grazie
all’apertura di asili e di alcune centinaia di classi elementari, che
avevano portato la spesa comunale per l’istruzione dalle 11.679
lire del 1860 alle 634.761 lire del 1880. La percentuale di analfabetismo sulla popolazione di oltre sei anni, che nel 1871 era ancora del 58 per cento e nel 1881 del 60 per cento (media nazionale
62 per cento), era scesa al 31,7 per cento nel 1911, con un miglioramento notevole anche rispetto alla media nazionale ferma
al 38 per cento.
Se straordinari erano stati nel campo dell’istruzione i progressi rispetto al periodo borbonico, deve tuttavia osservarsi che
Palermo, tra le grandi città continuava ad avere uno dei più alti
tassi di analfabetismo, che era in fondo la conseguenza delle condizioni di miseria in cui continuava a vivere, ancora alla vigilia
della prima guerra mondiale, una larga fetta della sua popolazione. Le possibilità occupazionali erano sicuramente aumentate, e in misura anche superiore al contemporaneo incremento demografico. Non abbiamo molti dati, ma il fatto che Palermo fosse, ad esempio, una delle due sedi della Ngi privilegiava i palermitani, che trovavano lavoro, oltre che nei servizi a terra, anche
sulla flotta mercantile. Tra il 1863 e il 1880, la «gente di mare»
della circoscrizione di Palermo passò da 7.525 a 13.404 unità: in
particolare, il numero dei pescatori quasi triplicò e così pure
quello di macchinisti e fuochisti, la cui richiesta di prestazioni era
alquanto aumentata per effetto dell’espansione della navigazione
a vapore. Potrà sembrare incredibile, ma ancora nel 1901 quasi
l’11 per cento dei 65.898 capifamiglia era occupato nel settore
agricolo, grazie allo sviluppo assunto dall’agrumicoltura e dall’orticoltura nell’agro circostante. Si tratta di una percentuale elevatissima, che, tranne a Messina e a Catania, non si riscontra in nessun’altra grande città italiana. Nel settore «vendita di merci e derrate», Palermo alla stessa data si trovava al primo posto assoluto
(il confronto è sempre con le grandi città), con quasi il 13 per
cento dei capifamiglia, che è superiore di oltre 3 punti rispetto a
VII. Palermo ‘felicissima’
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Milano. Ciò significa che, in assenza di altro lavoro, molti si trasformavano in minuscoli rivenditori ambulanti dei generi più disparati, come sempre avviene nei periodi di maggiore crisi: un
modo per fare qualcosa e non definirsi disoccupati, un modo per
sopravvivere, che spessissimo dava guadagni così irrisori da non
consentire neppure, senza l’intervento della carità pubblica e privata, di risolvere il problema del pane quotidiano. Percentuali tra
le più elevate, e ciò costituisce però una nota molto positiva, si
trovano anche nei settori «industrie alimentari» (4,5 per cento) e
«lavorazione del legno» (4,3).
L’occupazione nei settori «fabbricazione di prodotti chimici»,
«industrie della carta e poligrafiche», «industrie tessili», «lavorazione delle pelli, peli ed ossa», «industrie di precisione e di lusso» si manteneva sui livelli più bassi. Lo stesso può dirsi anche
per l’«industria edilizia» (5,7 per cento dei capifamiglia), malgrado l’espansione urbanistica della città. Nel settore «industrie
metallurgiche» risultavano impegnati il 4 per cento dei capifamiglia, più che a Roma, Firenze e Messina, ma meno, anche se
di poco, rispetto alle altre grandi città, tra cui primeggiavano Torino (9 per cento), Milano (7 per cento), Venezia (6,7 per cento). La percentuale dei capifamiglia «capitalisti, benestanti e
pensionati» non era elevata (7,1 per cento), anzi si manteneva ai
livelli più bassi, trovando una certa corrispondenza nei settori
«persone di servizio e di fatica» e «amministrazione privata»,
che complessivamente occupavano l’8,8 per cento dei capifamiglia, una quota che, se non è tra le più basse, non può neppure
considerarsi elevata, se si pensa che a Milano toccava quasi il 16
per cento.
Dopo rivenditori e agricoltori, i domestici tuttavia continuavano a costituire una delle categorie più numerose, grazie alla
presenza in città di una aristocrazia certamente impoverita rispetto al passato, ma non meno esigente e soprattutto aumentata di numero: nel 1900, i datori di lavoro pagavano imposte per
6.000 domestici, ma si pensava che molti sfuggissero all’accertamento fiscale e che perciò il numero dei domestici fosse superiore, «considerato il numero delle famiglie in agiata condizione
che sono in Palermo, e considerato in ispecie che le famiglie più
ricche hanno ai propri servizi più di un domestico». In notevole
espansione era la categoria delle sartine e delle modiste, quasi
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Palermo
sempre di estrazione popolare, che trovavano buone possibilità
di lavoro da quando anche le mogli degli artigiani e degli operai
avevano imparato a curare l’abbigliamento e a seguire la mutevole moda. Di contro, c’erano categorie che vedevano ridursi il
lavoro di giorno in giorno. È il caso, ad esempio, dei cocchieri
che lo sviluppo dei servizi pubblici di trasporto metteva in crisi
e che più volte scesero minacciosamente in sciopero; o degli addetti ai panifici e pastifici, il cui numero nel 1911 si era ridotto a
poco più di un migliaio, per effetto della meccanizzazione del
processo produttivo.
Proprio per il 1911, la statistica industriale ci fornisce, per alcune categorie, dati più analitici. I 1.667 opifici della città impiegavano quasi 16.000 addetti, 13.091 uomini e 2.608 donne,
cui bisogna aggiungere i vari artigiani (calzolai, sarti, fabbri, falegnami, ecc.) che non avevano dipendenti e pertanto non sembrano inclusi nella statistica. Si tratta di una manodopera comunque esigua, se si tiene conto che la città contava allora quasi 350.000 abitanti. Cantiere Navale, fonderie e officine meccaniche davano lavoro a quasi 2.500 operai, i mobilifici a circa
1.750, mentre panifici e pastifici, come si è detto, impegnavano
oltre un migliaio di addetti. Seguivano l’industria dei tabacchi,
dove lavoravano 709 donne e 79 uomini, tipografie con 679 addetti, cantieri di manufatti in cemento con 522, fabbriche di scarpe con 504, fabbriche di biancheria, abiti, cappelli con 481, dolcerie con 422, chiavetterie e ferramenterie con 417, fabbriche di
carri e carrozze con 296, azienda del gas con 257, oreficerie con
235, aziende elettriche con 208, ecc. Non sempre, inoltre, si trattava di manodopera locale, che non godeva di molta reputazione: il direttore della Tessoria del Pegno lamentava l’infingardaggine degli operai palermitani, fannulloni e avidi di guadagno, che
costringeva l’azienda a farne venire da fuori. Le imprese, perciò,
quando potevano, ricorrevano a manodopera della provincia, più
docile e con minori pretese, e talora anche del continente, per lavori che richiedevano una particolare specializzazione. Numerosi erano anche i provinciali impegnati nell’edilizia.
Nel corso degli anni Ottanta, le antiche corporazioni si erano
trasformate in società operaie e di mutuo soccorso: nel 1890 se
ne contavano ben 131, le più antiche delle quali risalivano ai primi anni Sessanta. Si può dire che non ci fosse categoria di ope-
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rai e spesso anche di impiegati che non facesse capo a una e talora anche a più società di mutuo soccorso, secondo l’orientamento politico. Ciò naturalmente provocava spinte corporative
che neppure la fondazione della Camera del lavoro nel 1901 riusciva a controllare del tutto. La categoria più politicamente impegnata era quella dei metallurgici, in particolare gli operai della Fonderia Oretea e poi del Cantiere Navale, spesso attivi collaboratori dei vari periodici operai che videro la luce in quegli
anni. Operai dell’Oretea erano alcuni di coloro che all’inizio degli anni Settanta diedero vita al Movimento internazionale socialista. Ma la loro scarsa adesione al Fascio dei lavoratori e il fatto
che si lasciassero facilmente strumentalizzare da Florio, con notevole disappunto dei dirigenti socialisti, lascia molto perplessi
sull’effettiva maturità della maggioranza. Essi rappresentavano
comunque l’«aristocrazia operaia» e anche se avevano salari inferiori ai loro colleghi della penisola e lavoravano circa 10 ore al
giorno, in condizioni di sicurezza e di igiene spesso precarie, erano invidiati dagli altri lavoratori della città, che avevano salari più
bassi e soffrivano lunghi periodi d’inattività e la minaccia incombente della disoccupazione per l’assenza di lavoro, ciò che
talora li spingeva a manifestazioni e a scioperi, che si intensificarono notevolmente nei primi anni del Novecento, interessando
un po’ tutte le categorie, compresi gli stessi operai dell’Oretea,
dello Scalo di alaggio e del Cantiere, i quali – oltre a scioperare
contro il governo per le mancate commesse navali – chiedevano
alla direzione aziendale miglioramenti salariali e una migliore distribuzione del lavoro.
Per quanto disagiate fossero ancora le condizioni di operai e
artigiani, molto era cambiato anche per loro nel corso del cinquantennio dopo l’unificazione. È vero, continuavano a vivere
spesso ancora nei catodi, si nutrivano ancora quasi esclusivamente di vegetali, ma la mentalità e il comportamento non erano più quelli di un tempo: avevano cominciato a smettere l’uso
del voscenza e dell’eccellenza e, nei rapporti con il ceto dei civili, usavano sempre più frequentemente il lei; avevano ormai maggior cura del vestire, indossavano il paletot, ricorrevano sempre
meno ai rivenditori di abiti usati e soprattutto cominciavano a lasciare la coppola per mettersi anch’essi il cappello, da quando il
suo costo, per effetto dello sviluppo manifatturiero, era crollato a
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Palermo
meno di 2 lire dalle 10 degli anni dell’unificazione, cosicché – osservava Lo Valvo – esso «finì di essere il privilegio di una classe
sociale e divenne ugualmente il copricapo del muratore». Per farla breve, «guardando le strade di Palermo, specialmente nei giorni festivi, si direbbe che il nostro sia un popolo di signori».
Sotto le apparenze la situazione era ben diversa. Il reddito medio dei palermitani, stando ai pochi dati a disposizione, era tra i
più bassi d’Italia: nel 1868, il sindaco Balsano parlava di una rendita media annua proveniente da terreni, fabbricati e ricchezza
mobile pari a lire 1.142 pro capite, mentre contemporaneamente a Torino era di lire 1.762, a Firenze di lire 1.922, a Milano di
lire 2.181. Nei decenni successivi la situazione migliorò, ma il dislivello con le altre città non riuscì certamente a colmarsi, se nel
1904 i consumi annui pro capite a Palermo erano quasi sempre
più bassi che altrove: carne kg 28,5, contro 64 a Bologna, 50,5 a
Firenze, 70,8 a Genova, 70 a Milano, 27 a Napoli, 69 a Torino,
43 a Venezia; caffè kg 1,2 contro 2 a Bologna, 2,2 a Firenze, 2,7
a Genova, 1,6 a Napoli, 2,6 a Torino, 3,4 a Venezia; zucchero kg
5,2 contro 10 a Bologna, 8,8 a Firenze, 11,5 a Genova, 6,7 a Napoli, 14 a Torino, 9 a Venezia; vino litri 71 contro 54 a Bologna,
170 a Firenze, 80 a Genova, 141 a Milano, 85 a Napoli, 139 a Torino, 144 a Venezia. Solo per quanto riguarda il consumo pro capite di pesce (kg 3,5) e petrolio (litri 5,2), Palermo si collocava
ai primi posti: il che se è comprensibile per il pesce, non lo è affatto per il petrolio.
Rispetto al periodo borbonico, il consumo di vino e di pesce
si manteneva costante, mentre quello della carne era quasi raddoppiato, ma nelle altre grandi città, con l’esclusione di Napoli,
era notevolmente più elevato. Ora, ammesso pure che a Palermo, città mediterranea, non fosse necessario un grande consumo
di carne come nelle più fredde città del continente, il più modesto consumo pro capite di caffè e zucchero non lascia dubbi di
sorta: è l’indice di un livello medio di vita più basso che altrove.
Perché a Palermo, assieme ai molti aristocratici, ai tanti funzionari e impiegati delle varie amministrazioni, ai professionisti più
o meno affermati, agli operai e agli artigiani, continuava a vivere
una massa di emarginati, disoccupati e sottoccupati, che tiravano
avanti con privazioni inenarrabili e sopravvivevano grazie a mille
espedienti e soprattutto grazie alla carità pubblica e privata.
VII. Palermo ‘felicissima’
333
E già allora, all’inizio del nuovo secolo, la situazione era complessivamente alquanto migliorata rispetto al passato, quando si
moriva letteralmente di fame, e si erano fatte molto meno frequenti le denunce di straziante miseria che avevano caratterizzato i primi decenni postunitari e che avevano convinto il giovanissimo medico Giacomo Cusmano (1834-1888), recentemente
beatificato (1983), a consacrare la sua esistenza ai poveri, dopo
avere scelto il sacerdozio. Quella condizione di emarginazione sociale e di abbrutimento fisico e morale descritta da Onufrio e De
Amicis, nascosta dietro il paravento degli antichi palazzi nobiliari, era ben nota al «padre dei poveri», come lo chiamarono i palermitani, perché egli era nato e viveva proprio in quel quartiere, l’Albergheria, dove le piaghe della miseria erano più acute e
purulente. Animo sensibile, ricco di umana pietà e dotato di non
comune spirito di altruismo, Giacomo Cusmano non perse tempo a dedicarsi interamente ai sofferenti e ai bisognosi dell’intera
città. Ed ecco all’inizio del 1867, nei mesi che seguirono la rivolta
del «sette e mezzo» e il colera, l’istituzione dell’Associazione del
Boccone del Povero, della quale fecero parte laici e religiosi con
il compito di raccogliere quotidianamente alimenti, il «boccone
del povero» appunto, e denaro da distribuire ai poveri.
Ma il soccorso momentaneo, come d’altronde la beneficenza
elargita dal Comune, se alleviava in qualche modo la sofferenza,
non cambiava la condizione del povero. E perciò egli pensò a
un’azione di redenzione dalla povertà attraverso il lavoro, trovando un valido alleato nel sindaco Turrisi, che riuscì nel 1881 a
fargli ottenere dal demanio l’ex Quinta Casa gesuitica al Molo,
che padre Cusmano trasformò in una casa per anziani e orfani,
dove i ricoverati svolgevano un’attività e gli orfani imparavano
un mestiere (tipografo, rilegatore, tessitore, falegname, calzolaio,
sarto). Per le orfane nel 1882 acquistò, grazie a un prestito poi
condonato, la Villa Sommariva, in contrada Terre Rosse (attuale
via Giacomo Cusmano). Nella sua azione egli venne efficacemente coadiuvato dai Servi e dalle Serve dei poveri, due congregazioni da lui istituite, cui si deve il merito della redenzione di
non pochi emarginati e diseredati e che ancor oggi operano in
varie parti d’Italia, in America e in Africa.
VIII
DOPOGUERRA E FASCISMO
1. Il dopoguerra
Dopo la guerra mondiale, a Palermo molte cose non furono
più come prima. Invano, ad esempio, donna Franca Florio, incapace sino all’ultimo di rendersi conto delle difficoltà finanziarie del marito, tentò di ricreare il clima da belle époque, riaprendo i saloni di Villa Igiea e organizzando balli, cotillons, feste in
costume e ricevimenti. La guerra aveva inferto ferite mortali alle
case regnanti d’Europa che avevano animato la vita mondana palermitana dell’anteguerra. La stessa aristocrazia locale era stata
colpita negli affetti più cari, mentre le agitazioni nelle campagne
e l’intermediazione dei gabelloti mafiosi, accentuatasi nel dopoguerra, ne minacciavano le fonti di entrata e il potere d’acquisto,
già compromesso nel breve periodo dalla svalutazione monetaria
e dall’ascesa dei prezzi. Come nel resto del paese, gli anni della
guerra avevano inoltre notevolmente modificato i rapporti di forza all’interno della città, anche a causa della scomparsa di personaggi che ne avevano cadenzato la storia dei decenni precedenti: Guarneri, Amato Pojero, Di Martino, Pitrè, Palizzolo, Camillo Finocchiaro Aprile, Tasca Lanza e Camporeale deceduti;
Paternò ritiratosi dalla scena politica cittadina; Florio in grave
dissesto finanziario.
Erano sorte e continuavano a sorgere nuove aggregazioni, con
cui le forze liberali e democratico-radicali dovevano necessariamente fare i conti, mentre le vecchie organizzazioni si erano dissolte o entravano in crisi, tranne la Massoneria, alla quale appartenevano, oltre ad alcuni parlamentari (Tasca, Drago, Resti-
336
Palermo
vo, Di Stefano), i vertici delle Corti di Cassazione e d’Appello,
parecchi magistrati e docenti universitari. Scomparse ormai le
vecchie associazioni mutualistiche controllate da Florio, all’interno delle organizzazioni sindacali cresceva il ruolo della Fiom,
in mano ai socialisti ufficiali. Durante la guerra gli operai del Cantiere Navale, della Ducrot e di altre officine minori erano stati
posti sotto il controllo militare, perché le imprese in cui lavoravano producevano per la guerra ed erano state dichiarate «ausiliarie». Ciò da un lato aveva consentito loro di ottenere l’esonero dal servizio militare al fronte, ma ne aveva bloccato dall’altro
i salari in anni in cui il costo della vita era in costante aumento.
Poche settimane prima della fine della guerra, gli operai palermitani iniziarono una azione rivendicativa con richieste che furono accolte solo molto parzialmente alla Ducrot. Più successo
ebbero le azioni sindacali dell’immediato dopoguerra, che, anche
se non in tutte le industrie cittadine, portarono ad aumenti salariali talora consistenti, alla riduzione della giornata lavorativa a
otto ore, al riconoscimento delle commissioni interne con parere vincolante in caso di licenziamento o sospensione dei lavoratori. Contemporaneamente, però, i prezzi dei generi di prima necessità salivano alle stelle e le organizzazioni operaie cittadine, socialiste e cattoliche (anche i cattolici avevano costituito una organizzazione sindacale, l’Unione Cattolica), si trovavano d’accordo nell’attaccare duramente il governo Nitti, accusato di non
riuscire a porre un freno a speculatori e accaparratori.
Tra il giugno e il luglio 1919 si ebbero scioperi e manifestazioni che misero in crisi la dirigenza socialriformista della Camera
del lavoro e portarono alla ribalta cittadina i dirigenti della Fiom,
che disponevano anche di un proprio organo di stampa, «La Dittatura Proletaria». Gli scioperi ebbero inizio nelle piccole officine, ma presto coinvolsero gli operai della Ercta, della Ducrot e
del Cantiere. L’accoglimento parziale delle rivendicazioni salariali
non pose fine alle agitazioni, che continuarono con un diverso
obbiettivo, il caroviveri, e si concretizzarono nel saccheggio di alcuni magazzini e in scontri con la forza pubblica, che provocarono arresti e feriti.
La guerra aveva creato nuove categorie, che si erano affrettate a costituire proprie organizzazioni. All’inizio del 1919 si costituiva l’Anc (Associazione Nazionale dei Combattenti), da cui
VIII. Dopoguerra e fascismo
337
già in febbraio si staccavano i nasiani, per fondare l’Associazione Siciliana Combattenti, mentre nell’aprile successivo altri suoi
esponenti costituivano la sezione palermitana del Fascio di combattimento, che raccoglieva ex sindacalisti rivoluzionari e le forze combattentistiche di sinistra e che ebbe l’adesione di socialisti, di radicali e di esponenti di organizzazioni operaie, ma non
dei capi del gruppo nazionalista, che si era ricostituito il mese
precedente. Il programma del Fascio palermitano prevedeva, tra
l’altro, l’autonomia amministrativa per la Sicilia e l’espropriazione dei latifondi da lottizzare a favore dei contadini e soprattutto
dei combattenti. L’istanza regionalista, presente anche in altri
schieramenti, era l’effetto della crisi profonda che la guerra aveva creato nel rapporto centro-periferia e che alimentava la contestazione dei vecchi equilibri politici, a opera soprattutto di fasce della media borghesia di impiegati e professionisti.
Nuovi capi si affacciavano all’orizzonte, alcuni usciti presto di
scena, altri, come il venticinquenne oculista castelbuonese Alfredo Cucco, destinati a recitare a breve termine ruoli di primissimo piano. Pochi mesi prima delle elezioni politiche del 1919,
Cucco fondò il periodico nazionalista «La Fiamma Nazionale»,
che non esitava ad attaccare cricche e clientele dei notabili della
vecchia guardia, il potere ufficiale, nazionale e locale, l’anarchismo rosso e nero, e auspicava la concordia tra gli interessi della
borghesia e quelli del proletariato, esaltando addirittura l’occupazione delle terre allo scopo «di rompere una catena che avvinghiava i nostri contadini, meravigliosi lavoratori della terra»,
e ponendosi quindi in contrasto con quella che sarà poi la linea
elaborata a livello nazionale.
Il sistema di alleanze tradizionali fu messo definitivamente in
crisi dall’introduzione della proporzionale e dello scrutinio di lista in occasione delle elezioni politiche del novembre 1919. L’abolizione del sistema uninominale e l’allargamento del collegio
sino a comprendere tutti i comuni della provincia penalizzavano
i notabili della città, che, tranne eccezioni, sino ad allora non avevano avuto cure che per il proprio collegio e poco si erano preoccupati di ciò che accadeva al di là della Conca d’Oro, nei paesi
della provincia, dove adesso mancavano di precisi punti di riferimento. Di contro erano avvantaggiati i cattolici, che avevano
dato vita al Partito Popolare Italiano e che potevano contare in
338
Palermo
città su due organi di stampa, il quotidiano «La Vita» e il periodico «Piccolo Corriere», e in provincia sull’organizzazione delle
parrocchie e su una vasta rete di casse rurali e cooperative. Il
gruppo parlamentare della provincia uscì dalle elezioni alquanto
rinnovato, sia per il ritiro dalla competizione di Di Stefano, Mosca (Caccamo) e Aguglia (Termini Imerese), nominati senatori, e
la rinuncia di Barbera alla candidatura, sia per effetto della dissoluzione o della crisi d’identità di alcuni schieramenti del passato. I radicali, che avevano trovato collocazione in almeno treliste, a dimostrazione del disorientamento in cui erano caduti,
risultarono alla fine quasi tutti sconfitti. I riformisti avevano così annacquato il loro socialismo che il «Giornale di Sicilia» aveva potuto auspicare una lista che comprendesse i liberali di Orlando e il duo Tasca-Drago. I liberali, come spesso era accaduto
nella loro storia, erano spaccati in ministeriali e antiministeriali.
La spaccatura ripeteva antiche divisioni: con l’ex presidente del
Consiglio V.E. Orlando – che in passato aveva quasi sempre guardato con distacco alle vicende amministrative della città natia,
preferendo concentrare la sua attenzione sul collegio di Partinico – si schieravano gli antichi moderati che con Scalea e Di Salvo guidavano l’opposizione in Consiglio comunale, mentre l’ala
democratica del vecchio partito liberale aveva scoperto la sua vocazione ministeriale e con l’amministrazione comunale appoggiava Restivo e il Partito Democratico, che faceva capo al sottosegretario alla guerra Andrea Finocchiaro Aprile e godeva dei favori dell’apparato governativo e della Massoneria locale. L’appoggio della mafia appare invece diviso tra i due schieramenti, ma
anche il Partito Democratico del Lavoro di Rossi ne usufruiva,
soprattutto in provincia.
Nell’Unione Nazionale di Orlando risultarono eletti lo stesso
Orlando, il radicale Scialabba, il commendatore Zito, il principe
Giuseppe Lanza di Scordia (figlio del principe di Trabia e suo
segretario particolare durante le trattative di pace a Versailles) e
il barone Di Salvo. Nella lista del Partito Democratico furono
eletti Finocchiaro Aprile, il dottor Lo Monte, l’oculista professore Cirincione e Balsano. Due seggi (Pecoraro e Jannelli) ebbe
il Ppi, mentre il Partito Socialista Riformista riuscì a eleggere il
solo Drago. I nazionalisti non parteciparono alla competizione
elettorale.
VIII. Dopoguerra e fascismo
339
Due i grandi sconfitti: Alessandro Tasca ed Empedocle Restivo. Tasca, che si era ripresentato nella lista del Partito Socialista
Riformista con Drago, pagava la sua assenza dalla città, dalla quale mancava ormai da diversi anni, e la delusione del suo elettorato, contesogli peraltro dai socialisti ufficiali, la cui posizione si
era notevolmente rafforzata rispetto all’anteguerra. Per lui si
chiudeva mestamente un ciclo che lo aveva visto da decenni protagonista indiscusso della vita politica cittadina: da allora egli trascinò la sua esistenza nella miseria più nera, vissuta con una dignità che non ci saremmo aspettati e che gli fece rifiutare incarichi redditizi offertigli dal fascismo. Non ritornò a Montecitorio
neppure il radicale Restivo, malgrado si fosse notevolmente rafforzato all’interno del suo ex collegio e anche in città, dove godeva dell’appoggio del sindaco Tagliavia e del presidente del Consiglio provinciale Tesauro. Ma la riforma del sistema elettorale lo
trovava completamente privo di appoggi in provincia, e questo
ne determinò la caduta.
Il successo arrise invece a uomini nuovi, che abitavano a Palermo, ma avevano solidi agganci con i paesi della provincia, da
dove spesso provenivano e nei quali continuavano a conservare
il centro dei loro interessi economici: il massone Giuseppe Scialabba nella zona costiera tra Termini, di cui sarà sindaco nel ’23,
e Bagheria, dove poteva contare sull’appoggio determinante della mafia; il dottore Giovanni Lo Monte – indicato come «capo
politico della mafia» – a Mezzojuso, dove era stato sindaco, e nei
centri vicini, tra cui Corleone e Bisacquino, che in precedenza lo
avevano eletto al Consiglio provinciale; il professore Giuseppe
Cirincione, direttore della clinica oculistica dell’Ateneo romano
e pochi anni dopo definito «temuto e tremendo capo [...] della
mafia palermitana», a Bagheria, paese natale; il barone Di Salvo
a Baucina; Jannelli nella natia Caccamo. Degli altri eletti, almeno cinque godevano in provincia di larghe simpatie: V.E. Orlando, «Presidente della Vittoria», a Partinico, che dal 1897 lo aveva ininterrottamente eletto suo deputato; Andrea Finocchiaro
Aprile nella zona Lercara Friddi-Prizzi-Corleone, dove poteva
contare sull’appoggio dei parenti lercaresi della madre e sul vecchio elettorato paterno e suo personale; Rocco Balsano nel suo
ex collegio di Monreale, cittadina di cui era stato anche sindaco;
340
Palermo
Pecoraro nella natia Carini; Drago a Cefalù e nelle basse Madonie, di cui era deputato uscente.
I risultati elettorali segnavano quindi anche la fine temporanea della egemonia della città sulla sua provincia e sulla stessa
isola. Nell’Ottocento, mentre i collegi della città rimanevano quasi sempre appannaggio della borghesia professionale, gli eredi palermitani degli ex feudatari avevano trovato spazio e larghe possibilità di elezione in varie parti dell’isola, dove le loro famiglie
continuavano a godere di notevole prestigio, retaggio dell’antica
giurisdizione feudale esercitatavi per secoli. Ancora nelle politiche del 1913 la città aveva ricoperto con palermitani (di nascita
o di adozione) i suoi quattro collegi (Di Stefano, Restivo, Barbera, Tasca) e parecchi della provincia: Prizzi con Camillo Finocchiaro Aprile, Corleone con il figlio trentenne Andrea, Partinico
con Orlando, Caccamo con Mosca, Cefalù con Drago. Ai provinciali erano rimasti solo i tre collegi di Termini (Aguglia), Monreale (Balsano) e Petralia Sottana (Rossi). Con le politiche del
1919, invece, i palermitani da nove si riducevano a cinque su dodici eletti: Orlando, Finocchiaro Aprile, Zito, Scordia, Di Salvo.
Le elezioni politiche provocarono risentimenti che ebbero
conseguenze anche sulla vita dell’amministrazione comunale, ancora retta da Tagliavia. Gli schieramenti consiliari usciti dalle urne del 1914 erano saltati già al momento della formazione della
giunta, costituita – come sappiamo – da elementi delle due liste.
Ma nel dopoguerra la loro dissoluzione fu completa. L’opposizione alla giunta era ricomparsa già all’indomani della fine vittoriosa della guerra e aveva finito con il coinvolgere anche gruppi
che in passato l’avevano appoggiata. Era alimentata dallo stesso
comportamento del sindaco, il quale da un lato non riusciva a
svincolarsi dall’influenza dell’onorevole Barbera e del farmacista
Pietro Diliberto, considerato dal prefetto «disfattista, facinoroso,
maffioso», dall’altro continuava a gestire il Comune come se il
Consiglio non esistesse: ciò era possibile durante la guerra, quando ai consiglieri poteva far comodo scaricare su di lui tutti gli
oneri e le responsabilità, non però con il ritorno alla normalità.
Una normalità, tuttavia, che come abbiamo visto presentava
aspetti completamente nuovi e assai ben diversi rispetto all’anteguerra, non ultimi l’impressionante caroviveri e l’aumento delle
spese di amministrazione per l’adeguamento dei salari degli im-
VIII. Dopoguerra e fascismo
341
piegati comunali al costo della vita. Il sindaco ebbe il torto di non
rendersi conto che il suo comportamento accentratore e la dubbia moralità delle persone che gli stavano attorno offrivano facilmente il fianco alle critiche dell’opposizione e persino della
maggioranza che lo sosteneva. Non a caso le accuse più roventi
riguardavano la politica annonaria seguita e il disinteresse dell’amministrazione per la gestione delle aziende municipalizzate
(mulino e gas), piuttosto chiacchierata.
La situazione finanziaria del Comune si era fatta nuovamente preoccupante. Per il prefetto il Municipio di Palermo non aveva mai avuto il coraggio di affrontare seriamente la riforma dei
tributi locali, cosicché le imposte sul valore locativo e su esercizi e rivendite fornivano un gettito di gran lunga inferiore alla capacità dei contribuenti. Il pareggio effettivo del bilancio si era
conseguito solo grazie a un benevolo provvedimento del governo, che si era assunto – come sappiamo – la gestione daziaria.
Appianata la situazione finanziaria con i nuovi mutui, l’amministrazione non si era più preoccupata della riforma dei tributi locali e della riduzione del numerosissimo personale, provvedimenti che avrebbero avuto un costo in termini di popolarità, ma
avrebbero fornito i mezzi per migliorare i servizi pubblici, «che
versano da tempo nel più completo abbandono», e soprattutto
per far fronte ai miglioramenti economici e al pagamento del carovita a favore degli impiegati, senza ricorrere – come invece era
avvenuto – ad altri mutui per oltre tre milioni e mezzo di lire.
Le amministrazioni comunali non avevano mai voluto seriamente affrontare il problema del personale, neppure dopo la
pubblicazione dei risultati dell’inchiesta Schanzer d’inizio secolo. Con Tagliavia, prima della guerra, si era fatto finalmente uso
del concorso per il reclutamento dei computisti, ma poi durante
la guerra, per sostituire gli impiegati al fronte, erano stati assunti numerosi supplenti che non era più facile licenziare. Si aggiunga che non pochi percepivano lo stipendio pur svolgendo altri incarichi retribuiti presso altre amministrazioni. Nel 1923, ad
esempio, quando già l’amministrazione Scalea aveva ridotto alquanto il numero degli impiegati, il questore accertò ben 24 casi, tra cui alcuni relativi a impiegati che risiedevano addirittura a
Milano e a Messina. Casi del genere a decine dimostrano quale
caos regnasse allora negli organici municipali, e conseguente-
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Palermo
mente anche negli uffici, da dove gli impiegati potevano tranquillamente dileguarsi per anni senza che alcuno se ne scandalizzasse o se ne rendesse conto.
Nel 1919, l’aumento del carovita agli impiegati comunali provocò un nuovo buco di 4.200.000 lire, che la giunta – «inopportunamente e intempestivamente sostituitasi al Consiglio comunale» – deliberò di coprire con una nuova apertura di credito
presso la Banca d’Italia, persistendo «nel ricorrere alle deliberazioni d’urgenza e facendo ignorare al Consiglio ed alla cittadinanza la gravità della situazione e la necessità assoluta di ricorrere a nuovi e maggiori aggravi di tasse». Ormai, i salari degli impiegati assorbivano l’82 per cento delle entrate effettive del Comune (46 per cento nel 1914), che diventò il 131 per cento nel
1920. Per il prefetto non c’erano dubbi – e non si può dire avesse torto –: «l’Amministrazione Comunale di Palermo non intende, per evidenti ragioni elettorali, sottoporre al Consiglio comunale un preciso programma finanziario che, necessariamente, dovrebbe comprendere l’inasprimento dei tributi locali, tanto più
che essa non è sicura di mantenere ancora la maggioranza in seno al Consiglio». E continuava: «L’amministrazione si preoccupa soltanto di mantenere il potere e di conservarlo anche colla
ventura elezione e a tal fine sacrifica qualsiasi interesse collettivo
pur di non spostare interessi singoli». All’avvicinarsi delle consultazioni elettorali neppure i migliori amministratori riuscivano,
purtroppo, a rinunziare a gestire il potere a uso e consumo della propria parte: così era spesso accaduto nel passato, così avviene sistematicamente ai tempi nostri!
2. L’ultima amministrazione liberale
Dopo le politiche del novembre 1919 le critiche all’amministrazione comunale piovvero da tutte le parti: costituivano anche
la risposta all’atteggiamento di parte assunto nell’occasione dal
sindaco, che – come sappiamo – si era schierato con Restivo e la
lista ministeriale capeggiata da Andrea Finocchiaro Aprile. I cattolici, pur rimanendo nella maggioranza, ritirarono i loro tre assessori dalla giunta e alcuni mesi dopo (maggio 1920) Tagliavia
fu costretto a lasciare il posto al capo dell’opposizione, il cava-
VIII. Dopoguerra e fascismo
343
liere Giuseppe Lanza di Scalea (1870-1929), il quale, col tacito
consenso del sindaco uscente, costituì una giunta di coalizione.
Ciò servì a evitare, in attesa delle elezioni generali del 7 novembre successivo, il commissario governativo.
Un accordo per una lista unica di tutte le forze costituzionali in funzione antisocialista e anti Ppi non andò in porto, anche
se i deputati palermitani, riuniti a Roma in casa dell’onorevole
Orlando, lo ritenevano indispensabile per il bene della città. Accettato il nome di Tagliavia, che alcuni volevano escludere dalla
lista comune, l’accordo – malgrado l’impegno di Scordia, nominato nel frattempo sottosegretario alla Guerra nel nuovo governo Giolitti – naufragò lo stesso per l’opposizione, capeggiata dal
«Giornale di Sicilia», contro l’inclusione di personaggi dalla dubbia moralità dai quali, per la forza elettorale che costituivano, l’ex
sindaco non intendeva separarsi. Per un attimo il prefetto sperò
che la grande manifestazione, «ordinata ma impressionante», del
proletariato palermitano in occasione dell’assassinio di Orcel (ottobre 1920), al quale i socialisti attribuirono una matrice politica, convincesse le forze costituzionali a fare blocco contro l’avanzata socialista. Ma non fu così e si ebbero liste contrapposte.
La Lega Democratica del conte Tagliavia, dietro la quale si intravede l’ombra di Barbera, ripresentava 34 consiglieri uscenti,
tra cui Diliberto, e candidava anche alcuni combattenti e nazionalisti. Era appoggiata da «L’Ora» e dagli impiegati comunali,
che l’ex sindaco aveva beneficato, e trovava consensi nelle borgate e tra i commercianti. Il consenso dei commercianti, che si
stavano arricchendo con gli aumenti indiscriminati dei prezzi, lascia perplessi sulla validità della politica annonaria di Tagliavia
nell’immediato dopoguerra e ci fa ritenere non del tutto infondate le accuse degli avversari:
Attorno al nome di Tagliavia – scriveva «Il Diritto» – troviamo
raccolti buona parte degli uscenti, cioè dei peggiori, dei più bacati, di
coloro che han tenuto bordone alla camorra organizzata, alla maffia
dei mercati, ai pescecani d’ogni peso, di coloro che han fatto passare
i più grossi carrozzoni, che hanno intrufolato al Municipio gli amici,
i galoppini, i ruffiani, gli usurai, i mariti e fratelli delle ganze, ingrossando sempre più le innumere falange degli impiegati fannulloni che
il Comune paga e che ne costituiscono l’onere più pesante e la causa
344
Palermo
principale della sua corsa al fallimento [...]. Troviamo il Conte illustrissimo nella non invidiabile compagnia dei caporioni delle borgate,
naturali protettori della mafia campagnola, la quale sarà da essi – ove
per sventura riuscissero – rappresentata, sicché, auspice Tagliavia, la
delinquenza rurale, i grassatori da strada maestra, gli autori delle lettere di scrocco, gli abigeatari, i sicarii che assassinano da dietro un
muro, e tutt’altra specie di manigoldi saranno rappresentati in Consiglio Comunale, ed avranno meglio che mai assicurata la impunità.
Il povero prefetto, che era a Palermo da pochi mesi, non riusciva a capacitarsi delle accuse di mafiosità rivolte dagli avversari ad alcuni componenti della lista Tagliavia, che lui peraltro trovava insigniti «dei più alti gradi cavallereschi».
La lista dell’Unione Palermitana del principe di Trabia presentava appena 8 consiglieri uscenti, tra cui il sindaco uscente
Scalea. Ne facevano parte liberali, radicali, socialriformisti, nazionalisti, combattenti, industriali, e godeva dell’appoggio dei deputati Di Salvo, Scialabba e Zito. Smentendo i timori del prefetto, che prevedeva una minoranza cattolica (ma i popolari erano
riusciti appena a varare una lista di 20 nomi!) o socialista, le due
liste liberali si divisero gli 80 seggi: 54 all’Unione Palermitana e
26 alla Lega Democratica. Anche se ritornavano a Sala delle lapidi alcuni consiglieri che ne mancavano da tempo, il ricambio
era molto largo e interessava quasi i due terzi del Consiglio. Sindaco venne riconfermato Scalea che, pur non potendo contare
su una grossa esperienza come amministratore, frequentava Sala
delle lapidi ormai quasi ininterrottamente da un ventennio, segnalandosi per un’azione continua di stimolo alle varie amministrazioni che si erano succedute. Era sicuramente uno che conosceva i problemi della città e del Municipio, come dimostrò del
resto la sua azione amministrativa.
Assieme al problema finanziario, quello annonario era uno dei
problemi più scottanti sul tappeto e richiedeva cure attente da
parte dell’amministrazione. Nel corso del 1920, la situazione della città era peggiorata in tutti i sensi. L’aumento incontrollato dei
prezzi e la rarefazione delle merci sul mercato (dalla pasta alla
carta) avevano provocato un’ondata di nuovi scioperi organizzati dal movimento sindacale, che si batteva anche per il miglioramento delle condizioni di lavoro e per la parità salariale con gli
VIII. Dopoguerra e fascismo
345
operai del Nord, che gli imprenditori non volevano riconoscere,
sostenendo che senza un dislivello salariale di almeno il 20 per
cento la produzione del Sud non poteva essere concorrenziale
con quella del Nord, perché le imprese dell’isola avevano maggiori costi di trasporto e perché la produttività degli operai siciliani era inferiore. L’anno era stato caratterizzato da occupazioni
di fabbriche, scontri tra dimostranti e forze dell’ordine con spargimento di sangue su entrambi i fronti, azioni squadristiche dei
nazionalisti che alla Fiom ritenevano assoldati dal padronato, arresti di operai, serrate padronali, licenziamenti, mentre anche il
movimento fascista cominciava a dare qualche segno di vita e la
borghesia cittadina mostrava preoccupazione per l’avanzata delle forze proletarie. Di fronte all’atteggiamento dei dirigenti riformisti della Camera del lavoro, favorevoli all’accettazione dei miglioramenti offerti dalla controparte, Orcel e i dirigenti della
Fiom si attestarono su posizioni di maggiore intransigenza, che
portarono più volte allo scontro con gli imprenditori – associatisi intanto nell’Associazione Siciliana Industriali Metallurgici e Affini – e infine, in ottobre, all’assassinio dello stesso Orcel, che privava il movimento operaio del dirigente più abile e intelligente.
La situazione annonaria era aggravata dal controllo che l’intermediazione mafiosa esercitava da sempre sul mercato e che nei
periodi di crisi appare più pesante. L’amministrazione ne aveva
piena consapevolezza: «Si tratta di combattere – annunciava il
sindaco nelle sue dichiarazioni programmatiche – vecchie organizzazioni, che hanno radici profonde nel nostro mercato, ed in
quest’opera di liberazione morale ed economica, dobbiamo essere uniti e creare un solo fascio di forze ed attività». È chiaro il
riferimento alla organizzazione mafiosa, cui accennava anche il
consigliere dell’opposizione Di Martino, parlando della camorra
che imperava nel mercato. Più tardi, nel 1924, presentando il rendiconto della sua amministrazione, Scalea scriveva: «Altrove il
problema annonario è facilitato dal principio cooperativistico che
ha trovato largo campo di applicazione in fiorenti Istituti: da noi
invece hanno abbondato e abbondano non pochi elementi parassitari e perturbatori del mercato: vere coalizioni di grossisti e
rivenditori».
Quell’‘abbondano’ è molto significativo: Scalea non era riuscito a eliminare gli «elementi parassitari». Nell’ottobre 1920,
346
Palermo
con il ritorno in città degli studenti e delle famiglie che in estate
si erano ritirate in campagna, la situazione annonaria era ulteriormente peggiorata e la ressa ai forni e alle rivendite si trasformava spesso in tumultuoso assembramento. Con il gennaio successivo si stabilì il tesseramento, che in precedenza non si era mai
voluto adottare per non provocare ulteriori malcontenti, e furono completamente riordinati i servizi annonari. Il rafforzamento
dei controlli, l’apertura di locali concessi gratuitamente dal Comune ai produttori, per la vendita diretta ai consumatori, la possibilità di utilizzare il mulino e il forno municipali, ma soprattutto il buon raccolto granario del ’21, consentirono di superare
lentamente la fase più critica, sino a quando il mercato non si stabilizzò e sotto calmiere rimasero soltanto i prezzi di pane, pasta
e zucchero.
Alla gravità della situazione finanziaria si è già accennato.
L’amministrazione poteva contare su entrate di 20-22 milioni per
una spesa di competenza di 42 milioni, mentre i mutui ammontavano a circa 70 milioni, una somma che grazie all’inflazione poteva ormai considerarsi modesta. Il Comune pagava 4.100 impiegati (la cifra comprende anche 983 maestri, 351 giardinieri,
104 pompieri, 468 netturbini tra titolari e avventizi, 162 giardinieri). Una riduzione graduale del personale e delle indennità di
caroviveri consentì negli anni successivi una certa economia, cosicché nel 1923, grazie anche al contemporaneo aumento delle
entrate, il pagamento degli stipendi ritornò ad avere sul bilancio
quasi la stessa incidenza dell’anteguerra: 34 per cento sulle uscite, 48 per cento sulle entrate. Non fu facile ridurre il personale
avventizio e l’assessore Purpura pagò la mancata riassunzione di
una insegnante supplente con uno sfregio permanente al volto,
un segno di cui soffrivano anche altri rappresentanti della vita
pubblica cittadina (Restivo, l’ex assessore Lazzaro, il consigliere
comunale Alessi, l’avvocato Roberto Paternostro), a dimostrazione dei ricatti e delle intimidazioni cui era sottoposta a Palermo la classe politica quando la sua azione toccava precisi interessi di parte. Ieri lo sfregio al volto, oggi il tritolo, che nei nostri anni Ottanta ha devastato le ville dei sindaci Martellucci e
Pucci.
L’incremento delle entrate era stato ottenuto grazie al maggior gettito daziario, quasi triplicato tra il 1920 e il 1923, e al rior-
VIII. Dopoguerra e fascismo
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dinamento delle imposte locali (sul valore locativo, di esercizio e
rivendita, su bestiame, vetture, domestici, spazi pubblici), che sino al 1920 fornivano un gettito irrisorio, assorbito in buona parte dalle spese di riscossione. Per le imposte locali si maggiorarono le tariffe, ma soprattutto si diede la caccia ai numerosissimi
evasori. Nel ’23 si raggiunse così finalmente l’assestamento del
bilancio, rimesso però subito in discussione da un provvedimento legislativo che restituiva ai comuni di Roma, Napoli, Venezia
e Palermo la gestione daziaria, imponeva la riduzione di alcune
tariffe e ne sopprimeva altre. Risultato: nel 1924 si ebbe una diminuzione del gettito daziario di circa 7 milioni. I nuovi oneri
addossati dallo Stato ai comuni per mantenimento di scuole medie, locali giudiziari e altro, aggravavano ancor di più la situazione finanziaria, provocando difficoltà di cassa e la ricomparsa
a fine ’24 di un deficit di oltre 6 milioni. Per scongiurarlo, il sindaco aveva pensato all’opportunità di rivedere le tariffe daziarie,
ma incontrò vivaci opposizioni in città, «per la consuetudine dei
nostri contribuenti, che pur essendo i meno gravati, in rapporto
a quelli degli altri maggiori comuni d’Italia, reclamano e si agitano non volendo rendersi conto delle necessità della pubblica
amministrazione e del bilancio». Di contro, tra il 1912 e il 1923,
la spesa del Comune era cresciuta più velocemente che altrove
(+578 per cento, contro 356 di Roma, 318 di Milano, ecc.) e più
velocemente della svalutazione e delle entrate. Rispetto al 1912,
infatti, nel 1923 la pressione tributaria risultava diminuita, perché, a fronte di una svalutazione del 450 per cento, il gettito tributario aveva avuto un incremento del 373 per cento. E tuttavia,
anche le autorità governative si opposero alla revisione delle tariffe daziarie proposta da Scalea: il governo fascista preparava le
politiche dell’aprile 1924 e temeva fortemente le ripercussioni
elettorali, sino a costringere addirittura l’amministrazione a ridurre le tariffe di alcune voci e a impedire che si applicassero le
sanzioni di legge contro i contribuenti che rifiutavano gli accertamenti per l’imposizione del dazio sulla produzione interna
(dolci, gelati, mobili, materiali da costruzione, ecc.).
Negli anni dell’amministrazione Scalea si risolse, finalmente,
il problema del porto, che per numero di passeggeri era il terzo
d’Italia e il sesto per tonnellaggio, ma era privo di fondali adeguati, di banchine, della diga foranea e dei servizi a terra. Fu co-
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Palermo
stituito un Consorzio tra la Provincia, il Comune e la Camera di
Commercio, al quale lo Stato affidò i lavori per 214 milioni di lire, con facoltà di subconcessione, che avvenne a favore della Società Anonima Italiana Mac Arthur. La costruzione a Palermo del
più importante porto del Mediterraneo, con annessa zona industriale, mirava alla creazione di un grande emporio di smistamento e di trasformazione di prodotti capace di inserirsi in un
mercato mondiale triangolare in formazione tra l’America, centro di produzione, l’Italia, centro di trasformazione, e l’Oriente,
centro di consumo. L’inizio dei lavori nella primavera del 1922
fu inaugurato dai sovrani. L’avvento però del governo Mussolini, deciso a ridurre al massimo la spesa pubblica, mise in discussione la necessità dell’opera: alla fine lo stanziamento fu ridotto a 175 milioni; questo comportò la rinunzia a uno dei pontili e all’escavazione a 9 metri dei fondali in prossimità del Castello a mare, che con colpevole leggerezza venne demolito per
creare il pontile trapezoidale. A lavori ultimati, i palermitani si
accorsero di essere rimasti tagliati fuori dal loro mare. Ma bisogna dire che era stata la città a voltargli le spalle già molto prima
della ristrutturazione del porto, con l’espansione urbanistica lungo l’asse di via Libertà, anche se non c’è dubbio che l’assetto dato alla zona negli anni Venti ha pregiudicato la possibilità di un
ritorno verso il mare, che poi, dopo la seconda guerra mondiale,
l’interramento della zona antistante il Foro Italico con i detriti
dei bombardamenti ha precluso definitivamente.
Altri problemi furono affrontati e risolti positivamente dall’amministrazione Scalea. L’azienda municipale del mulino e panifici, perennemente in passivo, perché produceva con costi superiori a quelli dell’industria privata, fu liquidata con una decisione coraggiosa per la vasta rete di interessi e di inframmettenze politiche che ne veniva colpita. L’azienda municipale del gas,
che nel 1920 aveva chiuso il bilancio con un deficit di 4 milioni
e mezzo, poté invece essere risanata. Il corpo dei vigili urbani, lacerato da dissidi interni, corrotto, indisciplinato, fu risanato e i
suoi componenti destinati tutti al servizio d’istituto. Il servizio di
nettezza urbana e quello sanitario vennero migliorati. Furono avviati i lavori per il completamento della via Roma, che consentirono intanto di prolungare la linea tranviaria sino alla stazione
ferroviaria (1922), mentre per l’«imbocco monumentale» sulla
VIII. Dopoguerra e fascismo
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via Lincoln si bandì un concorso vinto dal progetto dell’ingegnere Capitò. Per la pavimentazione delle strade interne, l’amministrazione si orientò decisamente per l’asfalto e così in pochi
mesi furono ripavimentati corso Vittorio Emanuele, via Maqueda e altre vie principali, mentre in periferia la pavimentazione a
inghiaiata continuò a essere sostituita dal sistema a catrame, ma
molte strade rimanevano ancora in condizioni disastrose, perché
non si riusciva a risolvere il problema della manutenzione e della ricostruzione. Fu inoltre finalmente completata la rotabile per
Monte Pellegrino, inaugurata da Mussolini in occasione della sua
venuta a Palermo (maggio 1924).
Il capo del governo aveva appena lasciato la città da qualche
settimana che il gruppo fascista, che faceva parte dell’amministrazione, ritirò il suo appoggio a Scalea, che fu costretto a dimettersi, sostituito da un commissario governativo.
3. Verso il fascismo
L’affermazione del fascismo in città era stata alquanto lenta.
Il Fascio di combattimento costituitosi nell’aprile 1919 ebbe inizialmente vita grama e travagliata da defezioni e ripensamenti.
Prima della marcia su Roma, non risultano perciò iniziative di rilievo a opera dei fascisti palermitani, a parte le azioni squadristiche condotte spesso in collaborazione con nazionalisti ed ex combattenti. I rapporti iniziali tra nazionalisti e fascisti si erano via
via intensificati e quando, con il primo Convegno regionale nazionalista del gennaio 1921, fu eletto segretario regionale Alfredo Cucco, convinto sostenitore della linea federzoniana dell’avvicinamento a Mussolini, diventarono sempre più stretti in funzione ‘antibolscevica’ e Cucco finì presto con l’assumere anche
la leadership del fascismo palermitano, di cui diventò fiduciario.
È significativo tuttavia della scarsissima consistenza del nazionalfascismo palermitano, e siciliano in genere, che – diversamente da quanto accadeva nella penisola – esso non fosse presente con una sua lista alle elezioni politiche del maggio successivo, anticipate da Giolitti nel tentativo di rafforzare la rappresentanza liberal-democratica con l’inserimento dei fascisti nel sistema parlamentare. Anzi i due tronconi procedettero ognuno
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Palermo
per proprio conto: i nazionalisti si inserirono nella lista degli agrari, i fascisti appoggiarono gli esponenti più qualificati del combattentismo (Scordia, La Bella, Musotto) presenti nell’Unione
Nazionale di Orlando. L’alleanza con gli agrari era facilitata proprio dai risultati del Convegno regionale, che aveva segnato una
vera e propria svolta reazionaria del movimento nazionalista: alla simpatia per i contadini combattenti che lottavano per l’occupazione delle terre, si sostituiva l’affermazione dell’intangibilità
della proprietà terriera. Nell’accordo con gli agrari, Cucco cercava anche un suo personale spazio politico, che tra i liberali di
Orlando non avrebbe potuto trovare.
Gli agrari, vivamente preoccupati per le agitazioni contadine
e le occupazioni di terre che le autorità governative non avevano
saputo impedire, all’inizio del 1920 avevano dato vita al Partito
Agrario Siciliano, primo nucleo del Partito Agrario Nazionale
che nell’aprile successivo sarà costituito a iniziativa del deputato
principe Pietro Lanza di Scalea, massone e fratello del sindaco.
I promotori affidavano al nuovo partito il compito di organizzare tutte le forze della borghesia e di lottare «per migliorare le condizioni sociali dell’isola, tutelare gli interessi dei lavoratori della
terra, sviluppare ed intensificare l’agricoltura e la pastorizia, conservando ed integrando la funzione sociale della proprietà». Il
ruolo di primissimo piano tenuto nel nuovo partito dal cavaliere
Lucio Tasca, figlio del defunto sindaco Tasca Lanza, agricoltore
appassionato e all’avanguardia, già allora accanito separatista, fa
pensare che esso non escludesse la possibilità di una separazione, se non politica certamente amministrativa ed economica, dall’Italia. Proprio nel 1920 l’idea autonomista era stata rilanciata
da una riunione di parlamentari siciliani a Roma, a iniziativa dell’onorevole Giuseppe Cirincione, e da un ordine del giorno alla
Camera dell’onorevole Drago, con il quale si congratulava vivamente il Tasca, a sua volta autore di un manifesto clandestino dal
titolo molto significativo: La Sicilia ai Siciliani!, in cui si ricordavano i sessant’anni di sfruttamento economico del Nord a danno dell’isola, una vera e propria schiavitù che «non ha pari nella storia e potrebbe anche farci rimpiangere la dominazione musulmana». Sul tema dell’autonomia amministrativa ed economica della Sicilia, Tasca – per il quale i patrioti siciliani del 1860
erano «gli arrivisti dell’epoca» – insisteva contemporaneamente
VIII. Dopoguerra e fascismo
351
dalle colonne di «Sicilia Nuova», un periodico da lui fondato, e
dell’«Ora»; e sia pure in modo più sfumato vi ritornerà negli anni immediatamente successivi, sino a rimpiangere «i tempi beati
della buona e onesta amministrazione siciliana, che seppe dal ’49
al ’59 costruire ben 680 chilometri di nuove vie di comunicazione», cioè i tempi – per intenderci – del famigerato Maniscalco,
ai quali spesso egli nostalgicamente si richiamerà.
Alle politiche del maggio 1921, l’emergente Cucco riportò
però soltanto 5.000 voti, mentre il Partito Agrario conquistava
ben tre seggi con l’onorevole Lo Monte, il principe di Scalea e il
commendatore Pucci di Benisichi. La sconfitta di Cucco è indicativa della scarsa diffusione del nazionalfascismo nel palermitano a diciotto mesi dalla marcia su Roma, anche se la campagna
elettorale fu caratterizzata da assalti squadristici alle sedi del Partito Socialista, della Camera del lavoro e della Fiom, aggressioni
a operai del Cantiere Navale, tafferugli con i sostenitori di altri
schieramenti (il comizio di Sturzo e Pecoraro al Massimo fu disturbato da incidenti). Il successo del Partito Agrario avvenne a
danno esclusivo della lista democratica dei seguaci di Nitti, che
conseguirono un solo seggio con Finocchiaro Aprile, che aveva
condotto una campagna elettorale all’insegna del decentramento
amministrativo, un tema sul quale ritornerà dopo la seconda
guerra mondiale, quando assumerà la leadership del movimento
separatista siciliano. Si rafforzava invece l’Unione Nazionale di
Orlando, nella quale avevano trovato posto, oltre a Cirincione e
ai combattenti, anche socialriformisti (Drago, Tasca e Raja) e radicali (Armò e Germanà). Si era così realizzato l’antico desiderio
del «Giornale di Sicilia», che poteva vedere finalmente nelle varie manifestazioni «la bandiera dei combattenti accanto al labaro della Camera del lavoro, il vessillo del Comune accanto a quello di una società agricola o di una corporazione di arti e mestieri, la società e il circolo privato accanto all’associazione politica
e di carattere pubblico».
Rispetto al ’19, il gruppo Orlando guadagnava il seggio di
Drago, sostituiva Zito con Cirincione e confermava gli uscenti
Orlando, Scialabba, Scordia e Di Salvo. Malgrado fosse stato in
città tra i più votati, non riusciva più a ritornare a Montecitorio
Alessandro Tasca, perché ancora una volta la provincia aveva
avuto la prevalenza sull’elettorato cittadino, la cui affluenza alle
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Palermo
urne continuava a essere scarsa. Il Ppi, che nell’isola guadagnava un seggio, riconfermava il sottosegretario alle Colonie Pecoraro, ma non Jannelli, coinvolto nel fallimento della Banca Cattolica di Palermo e finito poi addirittura in carcere. Al suo posto, venne eletto il consigliere provinciale avvocato Francesco
Termini, che poteva contare su un largo seguito nel monrealese.
In conclusione, la rappresentanza della provincia di Palermo a
Montecitorio fu riconfermata per 3/4, mentre gli uscenti Zito,
Balsano e Jannelli vennero sostituiti da Scalea, che da più legislature era stato sempre eletto in provincia di Caltanissetta, Pucci e Termini. Nessun seggio conquistarono i socialisti ufficiali e
il Partito democratico del lavoro di Rossi, mentre i comunisti, che
dopo la scissione di Livorno dai socialisti (gennaio 1921) si erano impadroniti della Federazione giovanile, si erano orientati per
l’astensione e non avevano presentato una loro lista. E d’altra parte non dovevano contare un grosso seguito, se è vero che nel settembre 1922 gli iscritti al Pc d’Italia dell’intera provincia erano
soltanto 38.
Proprio la mancanza a Palermo, come in genere nel Meridione, di un effettivo pericolo bolscevico consentiva ai gruppi dirigenti locali di controllare ancora saldamente la situazione sociale e non faceva sentire come al Centro-Nord la necessità di una
reazione violenta, cosicché neppure il fascismo riusciva a decollare. Peraltro non era facile per un movimento di giovanissimi
senza credito e senza alcun aggancio con il potere sottrarre adepti ai vecchi partiti, che oltre ad avere leader prestigiosi, si avvantaggiavano di consolidati rapporti clientelari con l’elettorato.
Nell’agosto 1921, al Fascio aderivano appena 380 iscritti, che caratterizzavano Palermo come la provincia siciliana più refrattaria
al fascismo. All’interno delle squadre, i fascisti però, con Pippo
Ragusa, assumevano la leadership. Furono loro infatti a guidare
gli assalti che precedettero le elezioni e le azioni punitive del giugno successivo contro negozi e commercianti, considerati responsabili dell’ulteriore aumento dei prezzi, che si conclusero
con la devastazione della Birreria Italia di via Cavour, l’imposizione di calmieri, il sequestro di parecchie centinaia di ceste di
pomodori pronte per l’esportazione, manifestazioni e proteste
contro le autorità municipali. Particolarmente bersagliati erano
gli avventori, generalmente professionisti e studenti di sinistra,
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del famoso Caffè Lentini nella villetta del Massimo: le squadre
fasciste imponevano all’orchestrina di suonare i loro inni e malmenavano coloro che durante l’esecuzione non si alzassero in piedi e non salutassero col braccio teso.
La situazione cominciò a mutare subito dopo la marcia su Roma, che portò Mussolini alla presidenza del Consiglio. Non risulta che il 28 ottobre 1922 a Roma ci fossero anche fascisti palermitani e la stampa cittadina non diede molto peso all’avvenimento. Ma già, qualche giorno dopo, il periodico satirico «Il
Babbìo» registrava le prime avvisaglie del trasformismo dei gruppi dominanti: «Come avviene in tutta Italia,/ anche qui si nota a
vista/ trasformarsi ciascun essere/ in intrepido squadrista./ Ed
ovunque il guardo girasi/ sopra, sotto, innanzi, intorno,/ ahi, che
gioia, si ravvisano/ i campion del ... sesto giorno». Nei vecchi notabili cominciava a farsi strada il convincimento che fosse possibile – come denunciava Starace – continuare a «rimanere a galla attraverso il fascismo», mentre non pochi ambiziosi accorrevano tra le sue file, allettati dalla possibilità di trovarvi spazio sufficiente per emergere, e ciò creava malumori tra i militanti della
prima ora, che spesso finivano emarginati e talora addirittura
espulsi. La «Fiamma Nazionale», ad esempio, nel dicembre ’22,
proprio «mentre il fascismo in pieno accordo col nazionalismo si
accinge a muovere una fiera lotta alla mafia rurale», denunciava
l’improvviso filofascismo di Drago, i cui legami con le cosche mafiose del suo vecchio collegio di Cefalù il castelbuonese Cucco
conosceva molto bene. Il periodico nazionalista era inoltre preoccupato perché, assieme a elementi della media e piccola borghesia cittadina, tentavano di infiltrarsi all’interno delle organizzazioni fasciste anche gruppi di mafiosi al seguito dei deputati e dei
notabili.
La preoccupazione non era eccessiva, perché anche al capo
della polizia risultava che noti pregiudicati cominciavano ad aderire al fascismo. La mafia – comunicava il prefetto al ministro dell’Interno – fiutava il vento e si comportava di conseguenza, «sia
in odio alle organizzazioni socialiste che la mafia sempre avversò, sia anche per potere esercitare qualche influenza sulle direttive del movimento, in specie nei centri rurali, ed in ogni caso
per essere preventivamente e tempestivamente informati dei propositi del partito di governo in rapporto alla mafia». In fondo, la
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Palermo
mafia si schierava ancora una volta con il potere, e così pure si
comportavano un buon numero di parlamentari del collegio: il
principe di Scalea e il commendatore Pucci del Partito Agrario,
il principe di Scordia (le fonti lo indicano spesso come principe
di Trabia, titolo che apparteneva al padre ancora vivente, il senatore Pietro), Scialabba e Cirincione, eletti nella lista di Orlando, si affrettarono infatti a simpatizzare e taluni a prendere anche la tessera del Pnf.
Intanto, grazie alla fusione con i nazionalisti, il fascismo palermitano poteva contare su quadri più preparati. Al Comune si
costituì un gruppo di dieci consiglieri, al quale aderirono i tre nazionalisti e qualche combattente. Tre di essi (Arcuri, Sapio e Caronia) erano anche assessori, in seguito a un rimpasto del novembre ’22. Ma le masse popolari non mostravano lo stesso entusiasmo dei ceti medio-elevati e, ancora alla fine del 1923, malgrado lo sforzo organizzativo del gruppo dirigente, che aveva
portato alla costituzione di alcune organizzazioni collaterali e allo sviluppo della sindacalizzazione, Palermo con i suoi 48 fasci e
6.200 iscritti – in maggioranza studenti, professionisti, commercianti e impiegati – continuava a essere una delle province meno
fascistizzate dell’isola. Per di più, non mancava all’interno del
partito una forte dissidenza capeggiata da Giuseppe Maggiore Di
Chiara, un ex combattente che dirigeva «Il Babbìo», che protestava per il modo in cui avveniva l’allargamento della base del
partito. Espulso per indisciplina, Maggiore Di Chiara continuò
ad accusare Cucco di essersi alleato con i notabili liberali che i
fascisti antemarcia avevano duramente combattuto, anzi dichiarava che avrebbe continuato dall’esterno per epurare il fascismo
palermitano e prendeva contatti con Alessandro Tasca per costituire un partito di fascisti dissidenti (Fascismo della libertà).
In realtà però epurati finivano sempre più frequentemente gli
avversari di Cucco. La pubblicazione dello stesso «Il Babbìo» fu
sospesa dal prefetto e il suo direttore minacciato di arresto. Così, mentre le squadre continuavano nella loro azione contro i partiti proletari, i cui dirigenti venivano anche arrestati dalle forze
di polizia, non mancavano neppure scontri tra fascisti ufficiali e
dissidenti, il cui numero si fece più consistente dopo la decisione degli organi nazionali di espellere tutti gli iscritti che avessero rapporti con la mafia e fossero compromessi con la giustizia o
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screditati politicamente. Ciò portò allo scioglimento del Fascio
dell’Arenella e di alcuni della provincia, ma il fascismo a Palermo era ancora troppo debole per poter muovere con successo la
guerra alla mafia, sempre utile peraltro nelle competizioni elettorali.
Si giunse così alle elezioni del 6 aprile 1924, che il fascismo
palermitano affrontava forte dell’appoggio delle autorità, con
una propria organizzazione militare, la Milizia, appena costituita, e con nuove organizzazioni collaterali. La nuova legge elettorale, meglio nota come legge Acerbo, istituiva il premio di maggioranza e faceva della Sicilia un unico collegio, con 38 seggi alla lista di maggioranza e 19 alle minoranze. Il meccanismo costrinse, in Sicilia come altrove, numerosi notabili, che non volevano ancora ritirarsi dalla vita politica, ad accettare l’inclusione
nella Lista Nazionale (poi chiamata listone), col risultato di spaccare l’opposizione al fascismo e di contribuire in modo determinante al suo successo. Per la Sicilia, i fascisti pensarono anche all’ex presidente Orlando, che accettò la candidatura dopo aver
posto ben precise condizioni:
Voi intenderete pure – scriveva in una lettera, pubblicata anche
dalla stampa, indirizzata nella prima decade di febbraio al sindaco
Scalea e al presidente del Consiglio provinciale Raja, i quali facevano
pressioni su di lui perché accettasse – come io non possa far ciò con
alterazione o diminuzione della mia figura politica, perché in tal caso, per vivere, perderei le cause stesse della vita, e mi sarebbe impossibile di attendere a quell’opera cui mi invitate. Io quindi dichiaro fin d’ora che la mia eventuale partecipazione alla lista nazionale
abbia ad avere questo significato preciso: che ciò sia in ricognizione
non soltanto delle qualità dell’uomo quali potrebbe rappresentarsele
un giudizio grandemente benevolo, ma altresì delle idee liberali e democratiche che ho sempre professato ed alle quali intendo rimanere
fedele; e significhi inoltre che il partito di governo insieme al quale
mi presenterei al corpo elettorale, pur mantenendo i propri ideali e i
propri fini, sia già di accordo su questo punto: che quella Costituzione attraverso la quale si è formata l’unità d’Italia, pure essendo suscettibile di modificazioni progressive, come l’evento ha dimostrato,
sia da considerarsi sacra ed inalterabile nel suo spirito essenziale, e
che quindi non vi sia altra sovranità cui il cittadino abbia ad obbedire legittimamente, e dalla quale dipendano le garenzie della libertà ci-
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Palermo
vile e tutta l’organizzazione dello Stato, se non quella del Parlamento, di cui S.M. il Re è parte e Capo. E finalmente, poiché l’esperienza ha anche troppo dimostrato il nesso intimo e profondo che passa
fra la forma elettorale e l’autorità del Parlamento, io credo che nessuno pensi che il sistema vigente, superato l’attuale momento transitorio, possa ancora perdurare, né che sia possibile il ritorno a quel sistema precedente che, sopprimendo la nobile tradizione dei partiti
politici, vi aveva sostituito la frantumazione in gruppi di così nefasta
memoria.
La campagna elettorale fu caratterizzata da episodi incresciosi, che crearono uno stato di pericolosa tensione, e il giorno delle elezioni non mancarono i soliti brogli, con assenti e defunti dati per votanti. La mafia della provincia sembra abbia appoggiato
dappertutto la Lista Nazionale, con qualche eccezione come a
San Mauro Castelverde e nel corleonese, dove simpatizzava per
l’onorevole Lo Monte, candidato della lista di Democrazia Sociale, che il principe di Scalea non era riuscito a far inserire nel listone, pur avendo garantito che si trattava di un perfetto galantuomo, «malgrado la sua fama di esponente della maffia». Per la
città non abbiamo elementi di giudizio, anche se può ipotizzarsi
che si fosse divisa tra i tre schieramenti più importanti, che facevano capo a Orlando, Restivo e Balsano.
I risultati furono largamente favorevoli alla Lista Nazionale, i
cui candidati, grazie al premio di maggioranza, furono tutti eletti, alcuni addirittura con un numero di preferenze irrisorio. Dei
candidati palermitani per nascita o per domicilio risultarono eletti Orlando, Cucco, che nella provincia di Palermo riportò quasi
13.000 voti in più di Orlando, il professore Di Marzo, il commendatore Jung, l’avvocato La Bella (n. a Salaparuta), il principe di Scalea, il principe di Scordia, l’avvocato Musotto (n. a Pollina), delegato provinciale dell’Anc, l’archeologo professore Pace (n. a Comiso), che insegnava nell’Università, e il generale Di
Giorgio (n. a San Fratello), che nel 1922 aveva sposato Norina
Whitaker. Tra le liste di minoranza, il maggior successo lo riportò
Democrazia Sociale, della quale facevano parte parecchi parlamentari uscenti, tra cui Nunzio Nasi e Lo Monte. I palermitani
eletti furono Lo Monte e Restivo. Dall’ambigua coalizione demosociale si erano staccati Finocchiaro Aprile, che pure era sta-
VIII. Dopoguerra e fascismo
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to il fondatore di Democrazia Sociale, e altri democratici e socialriformisti, tra cui La Loggia, Giuffrida, Balsano, che preferirono presentarsi nella lista dell’Unione Siciliana, il cui programma aveva tra i suoi punti fondamentali lo sviluppo agricolo e
commerciale dell’isola. Ma né Finocchiaro Aprile né Balsano furono rieletti. Degli altri candidati palermitani risultò eletto il solo Termini nella lista del Ppi, mentre Pecoraro non ritornò più a
Montecitorio.
Il ricambio della rappresentanza parlamentare palermitana –
come si vede – fu assai largo. Tranne Orlando e Restivo, il vecchio mondo politico prefascista non era riuscito a sopravvivere
all’avvento del fascismo. Lo Monte e Termini non appartenevano al vecchio notabilato. I socialisti, che in passato avevano ottenuto risultati lusinghieri, non riuscirono a eleggere nessun rappresentante locale; e lo stesso i comunisti: l’unico comunista siciliano eletto, l’ex socialista Francesco Lo Sardo, era messinese.
Ma anche Orlando si sentiva sconfitto, perché gli bruciava terribilmente l’essere stato così malamente sorpassato da Cucco:
Che l’elezione di Palermo – scriveva poche settimane dopo al fedele Peppino Scalea – si presenti per me come uno scacco, non mi
sembra negabile, e tu stesso l’affermi, pur aggiungendo che «è troppo notorio che una parte dei risultati sia artificiale». Ma, ammesso
ciò, ti pare che la questione si esaurisca? Che un candidato sia vittima dell’artificio avversario, passi pure; ma quando l’artificio è stato
commesso in suo danno da coloro medesimi con i quali egli doveva
procedere d’accordo, allora il fatto serba una gravità politica che non
riesce facile ad essere cancellata. Si può parlare di rassegnazione, non
di indifferenza.
I risultati elettorali dimostrarono comunque che, nel 1924,
Palermo città era ben lungi dall’essersi fascistizzata. La Lista Nazionale, che in tutta l’isola aveva rastrellato il 68 per cento dei
voti, vi ebbe appena il 30 per cento (8.564 voti su 28.218 votanti), con il 24 per cento alla lista di Finocchiaro Aprile, il 18,5 ai
democratico-sociali, il 17,5 alle tre liste che il prefetto chiamava
sovversive e poco più del 6 al Ppi.
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Palermo
4. Sconfitta
Così il «Giornale di Sicilia» del 5-6 agosto 1925 titolava l’articolo di fondo, a conclusione di una battaglia elettorale che lo
aveva visto in prima linea a difesa degli ideali di libertà e di democrazia, con Orlando, Cesarò, Nasi, Peppino Scalea e gli ultimi democratico-liberali della città. Quel titolo è un’ammissione
di impotenza, è consapevolezza che la battaglia per la libertà era
perduta e che il fascismo aveva vinto anche a Palermo. Dall’aprile 1924 erano passati appena sedici mesi!
Subito dopo le elezioni politiche del ’24, l’apparato fascista
palermitano aveva ritenuto giunto il momento di far fuori anche
il vecchio gruppo dirigente del Comune, che pure si era schierato con il listone, sia perché, in seguito al rimpasto dell’anno precedente, tra gli assessori c’erano ben sette consiglieri fascisti, sia
perché il sindaco, oltre ad essere fratello del principe di Scalea,
era legatissimo a Orlando. Il direttorio fascista era anche preoccupato che l’impegno dei suoi assessori, alle prese con l’attuazione della riforma organica e daziaria, provocasse, come già avveniva, malumori che si ripercuotessero negativamente sui risultati delle successive elezioni amministrative, e preferiva che a risolvere i due problemi fosse piuttosto un commissario, tanto più
che la data delle amministrative era stata prorogata di un anno.
Dopo la visita di Mussolini all’inizio del maggio 1924, ordinò perciò agli assessori e ai consiglieri fascisti, che intanto erano diventati 17, di dimettersi dal Consiglio.
La decisione del direttorio fascista fu disapprovata a livello
nazionale da autorevoli membri del partito e accettata assai malvolentieri dagli assessori, che stimavano Scalea, ma non potevano sottrarsi alla rigida disciplina di partito. Si trattava, come rilevava la stampa, di una crisi strana e promossa con leggerezza.
Per il «Giornale di Sicilia», l’amministrazione, «oltre a talune lodevoli attuazioni, specie nella difficile e delicata gestione finanziaria, aveva complessivamente instaurato e praticato un criterio
d’onestà, che, coi tempi che corrono e con le velleità che circolano, è stato già beneficio di incalcolabile interesse». Lo stesso
prefetto dava merito a Scalea di «avere con rigida amministrazione restaurate le finanze comunali» e di avere resistito nell’attuazione della tariffa daziaria «alle domande di eccessivi abbuo-
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ni», affrontando con l’assessore alle finanze Sangiorgi «l’impopolarità con alto sentimento di dovere e di sacrificio nell’interesse
del Comune». Allo spirito di sacrificio, al senso del dovere, alla
correttezza del sindaco fecero costante riferimento gli assessori
fascisti, nel manifestare per iscritto a Scalea il loro rammarico per
la decisione assunta dal partito. L’ex rettore Riccobono, assessore all’annona, quando gli giunse a Londra, dove teneva un corso
di diritto romano, la notizia dello scioglimento del Consiglio, così ne scrisse a Scalea:
Sapevamo già tutti che forze contrarie operavano ogni giorno contro l’amministrazione, ma il successo delle medesime non era prevedibile. Contavamo ad ogni buon fine sul buon senso dei più; perché la
inutilità di un mutamento, nel momento attuale, per l’interesse della
città, era evidente a tutti. Ella peraltro può guardare con serenità tutti questi avvenimenti, perché Ella ha compiuto durante quattro anni
il suo dovere con uno zelo e una tale abnegazione da rimanere nei fasti del nostro Comune designato come un amministratore esemplare.
A provocare però formalmente la crisi furono i cinque consiglieri combattenti in rotta con i loro colleghi che avevano aderito al Pnf, i quali, conosciuta la volontà dei fascisti, batterono tutti sul tempo e si dimisero dal Consiglio, rendendo vano un estremo tentativo del prefetto che era riuscito inizialmente a fermare
le dimissioni dei consiglieri fascisti. Scalea, che qualche mese dopo fu nominato senatore, ci rimase molto male, parlò di assalto
alla diligenza municipale e se la prese col prefetto. Neppure a
Roma – come si è detto – ci rimasero bene, come dimostra la decisione del governo di nominare regio commissario proprio Scalea, bloccata in extremis dal prefetto, per il quale la nomina dell’ex sindaco sarebbe stata in contrasto con le ragioni della crisi,
«il di cui scopo [...] nel pensiero dei Fascisti e degli stessi liberali era di far sgombrare da una Amministrazione Straordinaria
il campo delle questioni spinose più urgenti per non logorare
quegli stessi uomini, tra cui lo stesso cav. Di Scalea, che avrebbero dovuto capitanare la formazione della nuova Amministrazione»; e inoltre avrebbe posto «il Fascismo locale in una difficile posizione di fronte alla cittadinanza, la quale la giudicherebbe una aperta sconfessione dell’azione dei dirigenti fascisti e del
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Palermo
Fascismo, il cui prestigio invece a seguito della visita di V.E. [cioè
di Mussolini] è assai salito, come si rileva dalle molte domande
di tesseramento presentate in questi ultimi tempi al Fascio locale. Ne potrebbe anche seguire una discordia tra fascisti e liberali, assai utile per gli avversari, ma assai deleteria per la causa comune».
Solo che Scalea non era affatto convinto che la decisione dei
fascisti fosse dovuta al desiderio di non bruciarlo per l’avvenire e
non esitava ad attribuirla al comportamento dell’amministrazione, la quale «aveva, contro tutti, e talvolta anche contro le autorità politiche, resistito a provvedimenti di favore o di carattere
partigiano, ferma nella sua politica di obbiettività e di rigidità, non
curante se tali direttive ostacolassero le bramosie di taluni, e senza cedere di fronte alle impazienze di elementi irresponsabili».
La richiesta del prefetto fu accolta e, sciolto il Consiglio comunale, fu nominato regio commissario un prefetto a disposizione, il commendatore Gennaro Di Donato (Calvizzano 18791970), sostituito nell’aprile 1925 dal commendatore Domenico
Delli Santi, in qualità di commissario prefettizio. La gestione
commissariale valse comunque a risolvere qualche importante
problema e ad avviarne altri a soluzione. Fu compilato un nuovo regolamento organico e i servizi furono riordinati in modo più
rispondente alla mutata realtà della città, consentendo così una
più razionale utilizzazione del personale. Il servizio daziario fu
appaltato alla ditta Trezza di Verona, che lo gestirà sino alla sua
soppressione all’inizio degli anni Settanta, e vennero aggiornati i
ruoli dei tributi locali e ritoccate le tariffe, con un notevole beneficio per la finanza comunale. La cessione alla Cassa di Risparmio del servizio di tesoreria, che la Banca d’Italia non volle
più continuare a svolgere, diede respiro alla cassa comunale che
poté contare da allora su una scopertura sino a 5 milioni per il
pagamento di stipendi e pensioni, che la liberava dalle ristrettezze del passato.
Il problema dell’acqua si era fatto nuovamente critico a causa dell’espansione della città dall’inizio del secolo. Soprattutto
d’estate, le borgate rimanevano a secco e l’acqua non arrivava ai
piani alti (l’altezza massima dei fabbricati si era stabilita in m 27
per la via Roma e m 22 per le altre strade): Delli Santi riuscì finalmente a ottenere dal demanio l’acqua del Gabriele, che con-
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sentiva di portare la disponibilità giornaliera a litri 500 per famiglia, grazie anche alla nuova sorgente scoperta a Scillato. Neppure la gestione commissariale riuscì però a risolvere il problema della manutenzione e ricostruzione stradale, che richiedeva
somme assai più elevate di quelle stanziate in bilancio. E lo stesso può dirsi per il servizio di nettezza urbana, che era gestito in
economia dal Comune con risultati negativi, perché la rimozione dei rifiuti dalle abitazioni non avveniva regolarmente e i palermitani li scaricavano sulle strade con il noto sistema del coppo, buttato dai balconi nottetempo e in certe strade anche di giorno, sistema durato sin quasi ai nostri anni e abolito solo dopo la
comparsa dei sacchetti di plastica. Delli Santi rilanciò anche la
questione del risanamento in alcuni quartieri cittadini:
All’interno del centro urbano che pure raccoglie il cervello della
vita cittadina, occorre sviscerare alcuni rioni e proiettare fasci di sole purificatore tra vicoli e cortili dove non mai vi penetrò [...]. Quartieri interi della Città, pur essendo a contatto con i rioni eleganti, ne
vivono appartati. La vecchia città seicentesca, non di palazzi ma di tuguri, sopravvive in un dedalo di cortili, di anditi e di viuzze che spesso non hanno vestigio di pavimentazione.
Il criterio guida del risanamento – come si vede – rimaneva
ancora quello degli sventramenti e del ‘piccone risanatore’, quando ormai l’urbanistica europea ne aveva denunciato gli errori.
Non era però possibile abbattere i tuguri senza avere a disposizione nuovi alloggi. L’Istituto Autonomo per le Case Popolari
(Iacp) finalmente aveva appaltato la costruzione di 258 appartamenti per complessive 967 stanze alle Falde, in piazza Magione,
corso dei Mille, via Cappuccini, via Volta; aveva pronto il progetto per un lotto in corso Alberto Amedeo e progettava «case
extra popolari» da una a tre stanze in via Vespri, alla Kalsa, al
Borgo e tra via Malaspina e via Giacomo Cusmano. Solo dopo la
loro costruzione si sarebbe potuto riparlare di piani parziali di
risanamento.
Intanto, era ripresa l’avanzata dei fascisti, che aveva subìto
una grave battuta d’arresto dopo l’assassinio nel giugno 1924 dell’onorevole Matteotti, il leader nazionale del Psu. I fascisti dell’ultima ora erano entrati in crisi e si erano defilati: Noto Sarde-
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Palermo
gna, che sarà poi podestà, agli amici del Circolo Artistico che provocatoriamente in quei giorni gli chiedevano perché non portasse il distintivo fascista all’occhiello, rispondeva ambiguamente
che gli era caduto nell’orinale. A Palermo si erano svolte allora
manifestazioni di protesta, con la partecipazione di operai e studenti universitari. A piazza Ballarò parlò un vecchio socialista,
l’avvocato Giuseppe D’Accardi, ma all’arrivo della polizia la manifestazione si sciolse e gli organizzatori trascorsero la notte in
camera di sicurezza. Protestò anche il Consiglio provinciale, presieduto dal socialriformista Raja, che inviò un telegramma di solidarietà alla vedova Matteotti, dando così ai fascisti il pretesto
per chiederne lo scioglimento.
Già il 5 luglio, però, i fascisti palermitani erano passati al contrattacco, organizzando – per ribadire la loro fedeltà a Mussolini – una grandiosa manifestazione, alla quale parteciparono circa centomila persone provenienti da ogni parte dell’isola, ma «i
marciapiedi di Palermo – è Cucco a notarlo –, i balconi e le finestre si fecero trovare deserti e serrati. L’adunata dimostrò che
eravamo ancora molti e resoluti, ma dimostrò altresì che avevamo perduto il favore popolare». In verità, il favore popolare a
Palermo i fascisti non lo avevano mai avuto. Presto, comunque,
ripresero fermamente in mano la situazione, aiutati dalle autorità
di polizia, ormai a servizio del regime.
La dissidenza all’interno dell’Anc fu repressa: l’onorevole
Musotto fu espulso dal partito e la sede di via Montevergini occupata e la sezione affidata a un commissario gradito al Pnf. Cucco fondò un quotidiano, «Sicilia Nuova», che diede una voce più
ampia alla propaganda fascista (gennaio 1925), mentre i due maggiori quotidiani locali subivano sequestri e censure, malgrado all’VIII Congresso della stampa italiana, tenuto proprio a Palermo,
non pochi giornalisti avessero protestato contro i decreti restrittivi della libertà di stampa. «La Libertà», organo del Ppi, colpito anch’esso da numerosi sequestri, sospese le pubblicazioni e «Il
Babbìo» venne addirittura soppresso. Il passaggio all’opposizione attiva del gruppo Orlando all’inizio del ’25 poté perciò essere assorbito tranquillamente, mentre priva di risultati concreti si
rivelava la riunione del 5 aprile di alcuni parlamentari antifascisti, tra cui Cesarò, Guarino Amella, Termini e altri, alla quale par-
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tecipò anche De Gasperi. Non per nulla in primavera Cucco si
sentiva pronto ad affrontare le amministrative anche a Palermo.
Un altro motivo spingeva i fascisti palermitani a sollecitare il
ricorso alle amministrative: volevano evitare la concomitanza con
le provinciali, perché sapevano di essere assai più forti in provincia che in città, e quindi per le provinciali intendevano stabilire con i fiancheggiatori condizioni ben diverse da quelle che erano disposti a subire per conquistare l’amministrazione cittadina.
L’accordo, patrocinato dal prefetto, fu raggiunto il 6 luglio alla
presenza di Ignazio Florio (il quale era passato al fascismo, ricevendone in cambio la concessione a trattativa privata delle linee
sovvenzionate del Basso Tirreno a una nuova società di navigazione da lui fondata): prevedeva una lista composta di 41 fascisti – che così, in caso di successo, si assicuravano la maggioranza assoluta in Consiglio – e 23 fiancheggiatori capeggiati dall’onorevole Restivo, dall’ex sindaco Tagliavia, che pure sino a qualche mese prima militava nell’Unione Nazionale di Amendola, e
da Zito. Il gruppo dirigente fascista, schierato su posizioni di intransigenza, vide malvolentieri l’accordo e, sotto certi aspetti,
non aveva torto, perché si ritrovava in lista o al suo fianco buona parte di coloro contro cui aveva duramente tuonato negli anni precedenti, quella classe dirigente cioè che considerava responsabile dei mali della città e compromessa con la mafia. E infatti, su 64 candidati, i nomi nuovi erano appena 29: ben 35 erano stati in passato consiglieri comunali, parecchi anche assessori, due addirittura sindaci (Tagliavia e Trigona). Neppure i fiancheggiatori esterni (Lo Monte, Balsano, Barbera, ecc.) erano
graditi. A elezioni vinte i fascisti non esiteranno a definirli servitori, ma senza quei nomi in lista e senza l’appoggio determinante del prefetto a Palermo essi non avrebbero mai vinto le elezioni! C’è piuttosto da chiedersi cosa sperassero di ottenere collaboratori e fiancheggiatori, i quali ancora nel ’24 erano schierati
all’opposizione. Non lo sappiamo, ma è indubbio che ormai, a
metà del 1925, la battaglia per la democrazia dovesse apparire ai
più definitivamente perduta e che perciò, nella gravissima crisi
dello schieramento antifascista, ognuno cercasse di salvare almeno se stesso, salendo ancora in tempo sul carro del vincitore. Anche a Palermo, sia pure con ritardo, si realizzava quell’operazione gattopardesca, già in atto nel resto del paese, per cui la vec-
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Palermo
chia classe politica si lasciava fascistizzare per continuare a mantenere le leve del potere. Ciò infatti consentirà, se non a tutti, a
parecchi rappresentanti del mondo politico prefascista di continuare a ricoprire ruoli di primo piano anche durante il regime,
malgrado allora il giornale di Cucco si preoccupasse di precisare quanto esigui fossero gli spazi assegnati ai fiancheggiatori: «Il
fascismo non conosce alleanze. Esso non conosce che gregari o
strumenti docili al suo dominio. Dinanzi al fascismo non c’è che
un dilemma: o ubbidire o servire, o ubbidire consapevolmente o
servire inconsapevolmente».
La lista fascista (Lista Nazionale) era capeggiata dal fratello
dell’ex sindaco, il principe di Scalea, ministro delle Colonie, e
comprendeva anche esponenti delle associazioni combattentistiche e sindacali fasciste, oltre a una rappresentanza delle borgate,
limitata al massimo, ma ritenuta indispensabile per il successo
elettorale, data l’elevata percentuale di votanti che vi si registrava a fronte della bassissima partecipazione nei quartieri cittadini. La partecipazione di Restivo, già presidente della Camera di
Commercio e in atto suo commissario, di Gestivo Puglia, presidente della Lega Commerciale, e ancora di Tagliavia e Zito, oltre all’appoggio esterno di Barbera e alla benedizione di Florio,
significava la piena adesione del mondo commerciale della città,
a dimostrazione che, diversamente da quanto si è scritto, esso non
faceva la fronda al fascismo. Altrettanto compatta era l’adesione
del mondo universitario, presente nella lista con parecchi docenti
(Cervello, Caronia, Calandra, De Francisci Gerbino, Noto Sardegna, Restivo e i due ex rettori Riccobono e Di Marzo), mentre
il senatore G.A. Cesareo presiedeva il Comitato elettorale fascista, con il senatore Cirincione vicepresidente. Il collegamento
con la mafia era assicurato dalla presenza di ben sette presunti
capimafia sotto processo d’appello per associazione a delinquere e dall’appoggio di Lo Monte, che gli avversari continuavano a
considerare «capo e padre spirituale» della mafia e che lo stesso
prefetto non gradiva, se chiamava «protezione incosciente» quella concessa dal principe di Scalea «all’on. Lo Monte noto capo
politico della mafia siciliana, suo [= di Scalea] grande elettore».
Il prefetto aveva tentato di convincere anche il neosenatore
Peppino Scalea ad accettare la candidatura nella Lista Nazionale, ma l’ex sindaco non ignorava che i fascisti intendevano porre
VIII. Dopoguerra e fascismo
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a capo della nuova amministrazione uno dei loro e preferì costituire una lista di opposizione, l’Unione palermitana per la libertà,
che raccolse i suffragi dell’antifascismo palermitano, tranne i pochi socialisti massimalisti che si astennero e i comunisti che presentarono una loro lista. Per l’opposizione si trattava di una battaglia difficilissima: già al momento della formazione della lista,
Scalea si trovò di fronte a rifiuti inimmaginabili, a voltafaccia
sconcertanti, a fughe precipitose verso i lidi avversari1. Secondo
il prefetto, la lista di opposizione godeva le simpatie di «elementi maffiosi e pregiudicati» che avrebbero dovuto assoldare «squadre di elementi dei bassifondi sociali, che dovevano avere il compito di intimidire o corrompere gli elettori, di aggredire i fascisti, di commettere brogli elettorali di ogni genere, di assalire, se
del caso, la forza pubblica, anche con ordigni esplosivi». Lo stesso prefetto però si smentisce, quando afferma che la libertà di
voto venne assicurata e dimostra che nessuna delle manifestazioni della Lista Nazionale ebbe incidenti, mentre invece al comizio
di Orlando i fascisti si scontrarono con elementi dell’opposizione e l’automobile dello statista fu danneggiata, e i comizi di Cesarò, Maggio, Bino Napoli, Alessi e Scordia furono interrotti e
sciolti dalla polizia, perché gli oratori erano critici verso il regime o – rilevava ancora il prefetto – eccitavano gli animi alla rivolta. Lo scioglimento del comizio di Scordia alla Kalsa provocò
la reazione popolare, che si manifestò con lanci di sassi, petardi
e bombe, che ferirono un capitano dell’Arma e due carabinieri.
Il comizio del comunista Lo Sardo agli operai del Cantiere Navale non poté tenersi, perché l’oratore fu fermato dalla polizia, e
quello di Labriola alla Kalsa fu sciolto prima che cominciasse.
Quando non interveniva la polizia, a disturbare le manifestazio1
Non è inopportuno ricordare, oltre quelli di Scalea, Orlando, Cesarò e
Nasi, i nomi di alcuni candidati e simpatizzanti della lista di opposizione: principi di Trabia, di Scordia, d’Aragona e professor Genuardi del Partito Liberale; Armò e Cracolici di Democrazia Sociale; Scialabba dell’Unione Nazionale
Democratica; Pecoraro, Termini e Cavarretta del Ppi; Alessandro Tasca, Rao
e D’Accardi, riformisti; Alessi di Controllo democratico; Nicotri, Rocco Gullo, Bino e Guido Napoli del Psu; Musotto, barone Carcaci, Maggiore e Purpura dell’Associazione Nazionale Combattenti Indipendenti; Riina e Troia del
Pri; Cipolla e Di Pietra – un marsalese che presiedeva il consiglio d’amministrazione del R. Istituto Commerciale – della Massoneria di Palazzo Giustiniani; Ardizzone, direttore del «Giornale di Sicilia»; S. Pecoraino.
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Palermo
ni dell’opposizione pensavano le squadre di militi fatte affluire
da ogni parte d’Italia, che scorazzavano per la città e devastavano le sedi avversarie, tra cui i locali della «Sicilia», organo di
stampa dell’Unione.
Le elezioni di Palermo superavano il significato strettamente
municipale per assumere un alto significato politico e rappresentare lo scontro ideologico in corso nel paese, che spaccava addirittura le famiglie e frantumava sodalizi e alleanze pluridecennali: si pensi ad esempio alla opposta collocazione dei fratelli Scalea e dei cognati Trabia-Florio. Orlando lanciò un appello ai palermitani, firmato anche da Cesarò e Orso Mario Corbino, ex ministri del governo Mussolini, Nasi, Scialabba, Pecoraro, Tasca,
Mosca e altri, in cui spiegava il senso della battaglia per la libertà
che le elezioni rappresentavano. Lo stesso tema riprese con accenti commossi nel comizio al cinema Diana, quando, tra l’altro,
ribaltò sui suoi avversari fascisti l’accusa di collusione con la mafia, precisando in che senso egli si sentisse un mafioso e perché
la mafia non potesse appoggiare la sua parte politica, che nulla
aveva da offrirle:
Ma sempre per parlare di alleanze, tocchiamo – scivolando elegantemente – un altro tema: quello della cosidetta mafia: ora io vi dico che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge
al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo! Che se per mafia si intende quella delinquenza comune che abbiamo noi e che hanno tutti i paesi d’Italia e del mondo, ebbene in tal caso io mi limiterò a dire questo: che se in quanto vi sono persone le quali per le loro necessità debbono subordinare ad un
permesso d’armi la loro fede politica ed il loro orto elettorale, è evidente che nessuna di queste persone – se ce ne sono – può seguir noi,
che, certamente, non abbiamo nulla da offrir loro.
Le parole di Orlando sono state interpretate quasi unanimemente, sulla scorta di Gramsci, come un elogio, sia pure indiretto, della mafia, o come un tentativo di blandirla per mantener-
VIII. Dopoguerra e fascismo
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sela amica. E non ci si è preoccupati di considerarle nel preciso
momento in cui furono pronunziate, al punto da fare del comizio del Diana un convegno di mafia. Premesso che la mafia non
è mai rimasta attaccata ai perdenti e che Orlando era un perdente
e sapeva che essa aveva già abbandonato i liberal-democratici, i
quali, privi del potere, non avevano contropartite da offrirle, le
sue parole vogliono essere soprattutto una difesa e una risposta
alle accuse degli avversari, in special modo di Farinacci – che nei
giorni precedenti lo aveva duramente attaccato in alcuni comizi,
identificando la mafia con le vecchie clientele liberali – e di «Sicilia Nuova», che in un fondo dal significativo titolo Maffia e contromaffia, qualche giorno prima aveva accennato ai passati metodi di lotta elettorale di Orlando in Sicilia, «dove egli ha goduto e in parte gode i favori di una clientela personale costruita con
scarsa preoccupazione dell’educazione civica dell’isola e in particolare del suo collegio [di Partinico]». Orlando perciò tirava in
ballo la mafia perché costrettovi dai suoi avversari e lo faceva da
avvocato, con una definizione di comodo, che gli consentiva di
sorvolare su certi suoi passati legami e di passare al contrattacco. Lo compresero molto bene i fascisti palermitani, che lo accusarono di aver parlato «d’un vecchio e logoro mito della maffia tipica dei paladini di Francia cari al nostro popolo» e, respingendo anche la definizione di mafia come delinquenza comune, precisarono su «Sicilia Nuova» cosa essa fosse per loro,
con evidente riferimento al collegio di Partinico:
Se si percorre, putacaso, la storia di tre o quattro anni della delinquenza comune di un collegio siciliano, poniamo, senza particolare preferenza, di uno dei quattro o cinque nomi pronunciati dall’on.
Farinacci, si vedrà, senza bisogno di commenti, attraverso gli archivi
di P.S., quali delicate connessioni leghino quella storia a quella delle
clientele politiche di quegli stessi collegi, e come certi contatti stabiliti in occasioni elettorali influissero gravemente sul corso delle indagini e dei successivi provvedimenti.
La giornata elettorale del 2 agosto fu caratterizzata da assalti
alle sedi avversarie da parte di un gruppo di 200 fascisti napoletani sbarcati in mattinata col traghetto, cui si unirono elementi
locali. E quindi atti di violenza, intervento delle forze dell’ordine
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Palermo
e scontri anche a fuoco con qualche ferito. Ad ammetterlo era lo
stesso prefetto, che però era lieto di comunicare al ministro dell’Interno come «i provvedimenti per stroncare i propositi delittuosi delle opposizioni ebbero esito favorevole». L’esito della lotta era scontato: 26.428 voti alla Lista Nazionale, 16.616 all’opposizione, 117 ai comunisti. La vittoria fascista si decise nei nuovi
quartieri borghesi e nelle borgate, dove l’esito fu assai più favorevole alla Lista Nazionale che nel centro storico, a conferma che
la mafia delle borgate era stata dalla parte dei fascisti e che la vecchia città ancora resisteva al processo di fascistizzazione.
La battaglia era quindi definitivamente perduta, ma l’opposizione fece un estremo tentativo destinato inevitabilmente all’insuccesso: richiese l’invalidazione del risultato, sulla base delle numerose violenze fasciste che avevano caratterizzato la giornata
elettorale. In un volantino dal titolo Come il governo ha vinto a
Palermo, diffuso in tutta Italia, denunciò i numerosi atti di intimidazione, di sopraffazione, di violenza, di corruzione (Cucco
ammetterà più tardi che Florio, tramite l’ex sindaco Trigona, mise a disposizione della sua lista una grossa somma di denaro), perpetrati nel corso della campagna elettorale, non solo dai fascisti
locali, ma anche dalle autorità (prefetto, polizia, commissario
straordinario), il cui ruolo, assieme a quello della mafia, ritenevano fosse stato determinante per la vittoria del fascismo. E Orlando, per rendere più efficace la protesta, si dimise da deputato,
consapevole che ormai «nell’attuale vita pubblica italiana non vi
è più posto per un uomo del mio passato e della mia fede».
Il fascismo aveva vinto anche a Palermo!
5. La dittatura
E venne Mori e con lui la dittatura. Il nuovo prefetto giunse
a Palermo a fine ottobre 1925, pochi giorni prima che a Roma
venisse scoperto un complotto per attentare alla vita di Mussolini, che segnò un’altra svolta nella vita politica italiana per il giro
di vite che ne seguì. Il Psu venne sciolto e il suo organo di stampa soppresso, mentre il Consiglio dei ministri approvava un disegno di legge che estendeva i poteri dei prefetti, altro tassello di
quella legislazione che stava trasformando la democrazia in dit-
VIII. Dopoguerra e fascismo
369
tatura. E fu proprio negli anni della prefettura Mori, durata sino
al giugno 1929, che a Palermo – come d’altra parte avveniva nel
resto del paese – furono cancellate tutte le vestigia della vita democratica (organizzazioni politiche e sindacali, libertà di stampa,
libertà individuali, legalità democratica, ecc.) e la cappa della dittatura scese sulla città.
Con l’uscita di scena di quegli uomini politici che non avevano voluto accettare il ruolo di fiancheggiatori, le ultime resistenze al fascismo si dissolsero rapidamente e le varie organizzazioni
politiche e sindacali si sfaldarono, abbandonate dagli iscritti prima ancora che venissero soppresse per legge e che le nuove norme sul collocamento del 1926 rendessero di fatto obbligatoria l’iscrizione ai sindacati fascisti. Dopo la vittoria alle amministrative, infatti, la corsa verso il fascismo degli agrari della città e della borghesia delle professioni si era fatta più rapida, coinvolgendo l’intero ceto impiegatizio, artigiani, piccoli commercianti, ecc.
Del fascismo piacevano non tanto la componente squadristica e
attivistica, che comunque a Palermo non aveva grandi tradizioni
ed era peraltro in fase di liquidazione in tutto il paese, quanto
piuttosto l’esaltazione di valori cari ai ceti dirigenti locali: l’ordine, la disciplina, l’autorità, il rispetto di classe, la riaffermazione
di valori tradizionali, ecc. Cucco, riconfermato segretario federale, in verità selezionava rigorosamente le iscrizioni al Pnf,
preoccupato che il partito subisse inquinamenti e anche che i
nuovi iscritti si trasformassero in pericolosi concorrenti. Ma
quando egli fu destituito all’inizio del 1927, ci fu spazio per tutti e, ad esempio, come suo possibile sostituto si pensava addirittura a Lucio Tasca, al quale egli in precedenza non aveva mai voluto concedere la tessera.
Dopo l’attentato di Bologna a Mussolini (ottobre 1926), che
fornì al fascismo l’occasione per varare immediati provvedimenti eccezionali «per la difesa dello Stato» – tra cui lo scioglimento dei partiti e delle organizzazioni contrarie al regime e la soppressione della stampa di opposizione – la stampa antifascista,
già boicottata in tutti i modi, fu costretta a sospendere definitivamente le pubblicazioni (a Roma chiudeva «Il Mondo», il noto
giornale antifascista di Amendola finanziato da Pecoraino, che ne
trasferì la testata in Francia); oppure ad adeguarsi al nuovo ordine, come accadde al «Giornale di Sicilia» e a «L’Ora», che i fa-
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Palermo
scisti avevano definito «organi di ignominia nazionale». Le sedi
dei due quotidiani furono devastate e le pubblicazioni sospese,
sino a quando nel gennaio successivo, con la sostituzione dei due
direttori, il «Giornale di Sicilia» diventò l’organo del Pnf in Sicilia e «L’Ora» fu sottoposto a rigido controllo. Poiché alla fine
del 1926 il nuovo Consiglio comunale era stato sciolto e il sindaco elettivo sostituito da un podestà di nomina governativa,
l’antifascismo palermitano veniva privato completamente di ogni
possibilità di espressione legale. Da allora, l’unica forma di opposizione possibile al regime diventava quella clandestina. Anche
in Parlamento il ruolo degli oppositori si era fatto ormai difficilissimo: gli onorevoli Musotto e Scordia furono tra i pochissimi
che ebbero il coraggio di votare contro i provvedimenti eccezionali, ma da allora Musotto non mise più piede alla Camera e Scordia morì poco dopo. Rimaneva soltanto Peppino Scalea, il quale
nel 1928 votò con la minoranza che si oppose in Senato all’approvazione della nuova legge elettorale, ritenuta liberticida e contraria ai princìpi dello Statuto albertino. Il popolare Termini, che
inizialmente aveva seguito i suoi colleghi di partito sull’Aventino,
fece l’autocritica e rientrò mestamente alla Camera, per schierarsi
sulle posizioni del governo, sino a votare per la decadenza dal
mandato parlamentare dei deputati aventiniani e comunisti.
Messa a tacere la stampa di opposizione o aggiogatala al suo
carro, il fascismo impose il bavaglio alla sua stessa stampa, allo
scopo di ridurne i margini di autonomia: vennero perciò soppressi i periodici «La Fiamma», «La Vittoria», «Il Piave», e il
quotidiano di Cucco, «Sicilia Nuova», sostituiti dal settimanale
«L’Avvento fascista».
La stessa lotta alla mafia, che Mori avviò subito dopo il suo
arrivo a Palermo e di cui non si vogliono affatto misconoscere gli
innegabili aspetti positivi, serviva anch’essa come strumento per
mettere fuori gioco oppositori del regime, fiancheggiatori, quando il loro apporto non fu più necessario (Lo Monte, Balsano), e
persino fascisti in disgrazia (Cucco, Di Giorgio, Cirincione). Come si è già visto, tra classe politica prefascista e addirittura tra lo
stesso fascismo palermitano e mafia erano esistiti rapporti di contiguità più o meno intensi, che Mori adesso riscopriva per dare
qualche esempio, o per distruggere politicamente personaggi che
cominciavano a diventare scomodi, o addirittura per farsene
VIII. Dopoguerra e fascismo
371
un’arma di ricatto. Anche se poi egli attribuirà tali sistemi all’età
prefascista.
In questa sede non interessa l’azione antimafia del prefetto
nell’interno dell’isola, in particolare a Gangi, Corleone, Piana dei
Greci, Casteldaccia, Bagheria. A Palermo l’attacco più forte fu
certamente quello contro la cosca della piana dei Colli, accusata
di 38 omicidi e 31 mancati omicidi. La lunga catena di delitti –
agli assassinii sono da aggiungere i numerosi abigeati, le rapine,
i furti, le violenze di ogni genere – era la conseguenza dell’aumento della criminalità nel difficile dopoguerra e in parte anche
la conseguenza della rottura degli equilibri mafiosi, per effetto
dei contrasti tra la vecchia mafia, che si era arricchita negli anni
di guerra, e la nuova, costituita da «picciotti» reduci dal fronte
che anelavano a mettersi in proprio. Per costringere a costituirsi
coloro che sfuggivano alle sue retate nella borgata di San Lorenzo Colli, Mori fece rinchiudere i familiari dei latitanti – ben 213
persone tra donne, vecchi, ragazzi e bambini – all’Istituto Palagonia di via Malaspina e all’Albergo dei Poveri di corso Calatafimi. Convinto inoltre che gli agrari fossero vittime involontarie
della mafia, che ne gestiva i terreni con contratti a lungo termine
e per canoni di gran lunga inferiori a quelli del libero mercato,
mosse guerra ai gabelloti mafiosi e in pochi mesi tra il ’27 e il ’28
riuscì ad annullare numerosi contratti d’affitto, affrancando i
proprietari dalla pesante tutela. Terreni ‘infetti’, cioè in mano ad
affittuari mafiosi, nell’agro palermitano ce n’erano parecchi: a
Partanna, Pallavicino, Petrazzi, San Lorenzo, Pagliarelli, Cruillas,
Ciaculli, Malaspina. I gabelloti finirono al confino o all’Ucciardone e parecchi aristocratici e ricchi proprietari rientrarono nel
pieno possesso dei loro beni, grati ovviamente a Mori e al fascismo. Di parere completamente opposto rispetto a Mori erano nel
’26 i fascisti dissidenti del Miil (Movimento Italiano Impero e Lavoro), tutti fieramente anticucchiani e parecchi sembra anche
pregiudicati, i quali, raccolti attorno a Roberto Paternostro e a
Sebastiano Purpura, ne avevano aspramente criticato l’azione, sino ad avventurarsi in una difesa nazionalpopulistica della mafia:
Tutti questi provvedimenti hanno servito – scrivevano – a liberare le classi padronali, protette dal Ministro degli Interni, da tutti quei
contadini che non sorretti per il passato da nessun sindacalismo e da
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Palermo
nessun Governo strappavano con la forza (che chiamavano mafia) ai
signorotti e feudatari locali i mezzi per vivere.
Per il Miil, l’operazione Mori era anche «strumento di qualche ras locale che esercita le sue rappresaglie», con chiaro riferimento a Cucco, il quale li aveva espulsi dal partito. Il federale –
il cui giornale aveva preannunciato che quello di Mori sarebbe
stato per la criminalità come «l’arrivo inaspettato di un gatto fra
una falange di topi intenti a sbafare pacificamente intorno ad una
bella fetta di pecorino» – fu costantemente al fianco del prefetto
nella sua lotta alla criminalità e lo accompagnò più volte nei suoi
giri in provincia. Ma era inevitabile che i due venissero prima o
poi alla rottura. Il «ducino» Cucco non intendeva rinunciare al
ruolo di capo carismatico, che si era conquistato giorno dopo giorno con una tenacia eccezionale, e di contro Mori aveva un alto
concetto di se stesso e del suo ufficio per rinunciare a qualcuna
delle sue prerogative di prefetto a favore del federale. Cucco aveva peraltro un carattere molto orgoglioso e non si può dire fosse
un campione di diplomazia: si rifiutava, ad esempio, di dare dell’eccellenza a Mori, come tutti facevano, e lo chiamava «signor
prefetto», provocandone il risentimento. L’atteggiamento del federale va considerato anche alla luce della situazione interna del
fascismo nazionale e del contrasto Farinacci-Mussolini, che era
poi il contrasto politico tra partito e Stato, ampiamente lumeggiato dalla storiografia. Ora, a parte il fatto che la linea di Farinacci, tendente a rafforzare le autorità locali del partito e a dar loro la preminenza sugli organi periferici di governo, finirà perdente, lo stesso Cucco a Palermo era meno forte di quanto forse egli
non credesse: la rapida ascesa politica, se ne faceva un leader amato e seguito, gli aveva creato attorno, e pur all’interno del suo stesso partito, numerosi nemici, i più generosi dei quali lo giudicavano antipatico, borioso, prepotente. Non lo amava sicuramente l’aristocrazia agraria, la quale, dovendo farsi perdonare il ritardo con
cui si convertiva al fascismo, fece subito ponti d’oro al prefetto e
lo accolse nei suoi salotti, per farsene al momento opportuno strumento anche contro il federale, di cui non gradiva certe prese di
posizione radicaleggianti e l’attivismo sindacalistico.
Cucco non lasciava passare occasione per spingere Mori a
considerare la lotta alla mafia non soltanto come fatto criminale,
VIII. Dopoguerra e fascismo
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ma anche politico. E vi insisteva con ossessione, esprimendo
preoccupazioni, speranze, certezze, che avevano lo scopo di condizionare l’azione futura del prefetto nel senso desiderato. Convinto che «lo stato maggiore della maffia ha le sue diramazioni
nei centri nervosi dei principali organismi economici, industriali, amministrativi e perfino statali del nostro paese», Cucco si
preoccupava che
finita la guerra, continui la guerriglia: che distrutti gli eserciti della
delinquenza i loro stati maggiori non vengano eliminati a fondo e possano con le loro sorde ed oblique manovre continuare ad infettare la
vita morale e materiale della Sicilia [...]. E noi speriamo che Mori terminata l’offensiva di grande stile che ora sta svolgendo nei bassi strati dell’organizzazione maffiosa rivolga finalmente la sua attenzione ai
generali che ne tengono in pugno le file.
E alcuni giorni dopo, ribadiva la strada da seguire:
Gli arrestati di Mori e coloro che saranno arrestati costituiscono la
totalità delle clientele elettoralistiche che sono stati gli eterni avversari del Fascismo, anche se qualche volta o sempre li abbiamo incontrati in veste di amici pronti ad offrire tutti i servizi chiesti e non
richiesti.
Intransigente nei confronti del vecchio mondo politico prefascista, Cucco mostrava indulgenza verso il passato dei proprietari terrieri, costretti a transigere con la criminalità per averne tranquillità, e più volte – pressato dai parenti dei latitanti – insistette con il prefetto sull’opportunità di limitare le indagini retrospettive, per concentrarsi meglio sulle manifestazioni criminali
del presente. Sconsigliava poi le retate, che finivano con il colpire anche gli innocenti e cominciavano già a innescare reazioni da
parte di garantisti e sicilianisti, e poi anche della stessa magistratura, che nel 1927 invierà al ministro della Giustizia un telegramma di protesta contro il discorso d’inaugurazione dell’anno
giudiziario del procuratore generale Giampietro, sostenitore e difensore dei metodi del prefetto. Mori non gradiva i consigli e talvolta montava su tutte le furie. Né l’uno né l’altro comunque si
scoprivano, anzi i loro rapporti sembravano assai cordiali, anche
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Palermo
quando il federale già orchestrava in segreto una campagna di
critica ad alcuni aspetti della lotta antimafia; e di contro il prefetto, vecchio poliziotto, ne spiava le mosse per batterlo sul tempo. Quando però Mori si rese conto che Mussolini era ormai deciso a privilegiare lo Stato sul partito e a liquidare, tramite i prefetti, tutte le posizioni ‘provinciali’ e ‘personalistiche’ – e questo
porterà in tutta Italia alla epurazione di numerosi ex squadristi e
intransigenti –, per Cucco fu la fine. Venne in fretta confezionato un dossier contro di lui, in cui si riesumavano anche le accuse, che Mori in precedenza aveva ritenuto volgari calunnie, contenute in un memoriale dell’avvocato Paternostro, alla cui stesura sembra avesse contribuito anche l’onorevole Lo Monte. Cucco fu sommerso da una valanga di accuse, che andavano dalle attività illecite ai legami con la mafia, e immediatamente espulso
dal Pnf, mentre il direttivo della federazione veniva sciolto (gennaio 1927).
Che neppure il federale avesse disdegnato nel ’24 i voti della
mafia è credibile, così come è vero che nella raccolta di fondi per
finanziare il suo giornale non sempre ne aveva controllato accuratamente la provenienza, ma è altrettanto indubitabile che egli
apparteneva a quella esigua schiera di politici – ormai pressoché
estinta – che con l’esercizio del potere, piuttosto che arricchirsi,
ci rimettevano del proprio, e che le accuse contro di lui furono
artatamente gonfiate. Alla fine, dopo cinque anni, la congiura ai
suoi danni apparve chiara e la sua innocenza fu riconosciuta dalla magistratura palermitana, con una serie di assoluzioni che le
fanno certamente onore, perché dimostrano come essa riuscisse
ancora a conservare la sua indipendenza dal potere politico: non
si dimentichi che siamo ormai nel 1931 e che Cucco per il partito era colpevole, tanto che dovette aspettare sino al 1936, altri
cinque anni cioè, per riottenere la tessera del Pnf.
Intanto, però, l’azione giudiziaria voluta da Mori lo toglieva
di scena e con lui finivano emarginati o epurati gli elementi più
intransigenti del fascismo locale. La loro epurazione in fondo serviva al regime per accreditarsi come garante del ritorno all’ordine e alla legalità agli occhi della aristocrazia e del moderatismo
locale. Di contro, come aveva temuto Cucco, non pochi agrari e
politici talora gravemente compromessi con la mafia riuscirono,
grazie a rapide conversioni, a mantenere posizioni di potere. Ce
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lo conferma l’ambasciatore inglese a Roma, che nel 1928 così coglieva i limiti e le grosse contraddizioni della lotta alla mafia:
Per dirla brevemente, potrebbe sembrare che il signor Mori abbia sconfitto la Mafia venendo a patti con i grossi calibri dell’organizzazione e perseguitando insieme con i piccoli delinquenti un gran
numero di persone, il cui unico legame con la Mafia consisteva nel
fatto che essi erano stati costretti ad obbedire agli ordini dei suoi capi, nell’epoca in cui questi ultimi erano potenti [...]. Il signor Mori ha
certamente restaurato l’ordine. Egli ha eliminato numerosi mafiosi e
ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese
prove fabbricate dalla polizia e processi di massa. Ma molti dei «capintesta» si pavoneggiano nella sua scia.
Tra i «capintesta» vicini al prefetto l’ambasciatore citava in
particolare un barone, noto manutengolo di banditi, che aveva
fatto anche da intermediario per la loro costituzione. E due anni dopo, mentre i comunisti all’estero parlavano di grossa mafia
in camicia nera, Tina Whitaker annotava nel suo diario:
Innocenti sono stati lasciati a marcire per uno, anche due anni, in
fetide carceri, data l’insufficienza di giudici [...] i metodi impiegati sono stati purtroppo drastici e spietati. Le classi superiori sono state risparmiate, ciò che ha prodotto un vasto malcontento, e pezzi grossi
della mafia sono stati lasciati in libertà, alcuni addirittura a posti di comando, mentre pesci piccoli, assai meno colpevoli, hanno ricevuto pesanti condanne a lunghi anni di carcere. Sicché la mafia non è ancora
distrutta. Sotto le ceneri continua a covare il fuoco dei risentimenti.
Il governo fascista, pensionando Mori nel giugno 1929, aveva voluto invece affermare in faccia al mondo che il problema
della mafia in Sicilia era stato felicemente risolto. In verità, se la
grossa mafia era stata appena sfiorata dalla bufera, è altrettanto
indubbio che fu messa nel complesso nella condizione di piegare il capo in attesa di tempi migliori. E anche se – come accennava nel 1934 il prefetto Marziali – non mancavano nella vita
pubblica «inframmettenze dovute a interessi privati di alcuni settori non ancora spogliatisi della vecchia mentalità»; o se – come
rilevava qualche anno dopo un confidente del ministero delle
Corporazioni – «ciò che una volta veniva chiamato ‘maffia’ oggi
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Palermo
si perpetua in molti ambienti con la scusante dei doveri verso l’amicizia e tutto ciò sovverte l’ordine morale delle cose e costituisce un vero intralcio alla penetrazione del sentimento fascista tra
le masse», le testimonianze orali sono concordi nell’affermare
che, da allora sino alla fine della seconda guerra mondiale, quando il fenomeno mafioso riesploderà nuovamente, la città godette un periodo di tranquillità. I tentativi di ripresa più eclatanti
vennero stroncati duramente, come nel caso dei cinque grossisti
di pesce che nel 1934 furono assegnati al confino, perché ritenuti
«partecipi di associazione a carattere criminoso e responsabili
dell’anormale situazione del locale mercato del pesce e di illecito
arricchimento». Anche la morsa della delinquenza comune si allentò alquanto, senza tuttavia esaurirsi del tutto. Anzi, dopo la
partenza di Mori, riprese vigore e a qualcuno apparve addirittura come una ripresa del fenomeno mafioso:
Con la partenza di Mori – scriveva al duce un tale Vincenzo Oddo, dietro cui si celava un anonimo – queste radici [della mafia] sono risorte più rigogliose, ed ora sono ricominciate le lettere minatorie, i furti, gli omicidi come prima. La maffia è risorta rinsanguata dall’elemento giovane, figli, parenti e seguaci dei vecchi maffiosi, alcuni
dei quali usciti di prigione fingono vita pacifica, mentre dirigono le
giovani braccia. Le famiglie dei vecchi mafiosi sono ritornate agli agi
antichi senza averne i mezzi. Come vivono costoro? Sappiate che in
Palermo pochi giorni or sono è stato ucciso certo Cutrano a scopo di
furto.
Anche se la stampa aveva l’ordine di non parlarne, dando così ai contemporanei la convinzione che anche la criminalità comune fosse stata sconfitta, la sua recrudescenza all’inizio degli
anni Trenta, come conseguenza della grave situazione di crisi economica attraversata dal paese, è ampiamente documentata: erano ripresi gli omicidi a scopo di rapina, le estorsioni, i furti, sino
addirittura all’asportazione nottetempo delle inferriate dei pubblici giardini e dei monumenti. E gli stradali erano diventati nuovamente insicuri, soprattutto di notte, a causa di gruppi di malviventi che bloccavano gli automobilisti e i viaggiatori delle corriere per derubarli, talvolta con esiti anche mortali. Ciò malgrado l’attiva vigilanza esercitata da un apparato poliziesco notevol-
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mente potenziato e modernizzato, che spesso riusciva ad assicurare i colpevoli alla giustizia. Il controllo della vita cittadina da
parte della polizia era infatti molto attento e diventò rigorosissimo con l’istituzione dell’Ovra, una polizia segreta cui venne affidato il controllo dei possibili avversari del regime e anche degli stessi fascisti caduti in disgrazia, che svolse in modo odiosissimo, avvalendosi di una vasta rete di spie e informatori al suo
soldo che non risparmiava neppure il domicilio privato.
6. La classe dirigente fascista e l’amministrazione civica
Dopo il 1925, la città di Palermo, che pure in passato era stata capace di iniziative politiche di respiro nazionale e che, bene
o male, era riuscita a mantenere un suo ruolo internazionale ancora dopo la guerra mondiale, si chiuse sempre più in una dimensione provinciale, dalla quale non è mai più uscita completamente. La sua classe dirigente non fu più capace di esprimere
né proposte politiche né grandi leader, sia sotto il fascismo che
in regime democratico: il palermitano La Malfa si formò altrove,
avendo abbandonato la città già sin dagli anni dell’Università. E
neppure l’opposizione è riuscita da allora a esprimere figure di
primo piano, se si eccettua il periodo del separatismo nel secondo dopoguerra. Sotto il regime fascista pochissimi furono i palermitani che entrarono a far parte del governo nazionale: il principe di Scalea, ministro delle Colonie, non durò a lungo, costretto
a cedere il posto a Federzoni (1925); Di Giorgio verrà a Palermo
soltanto da ex ministro e, in ogni caso, la sua permanenza al dicastero della Guerra fu ancora più breve di quella di Scalea alle
Colonie. Né era palermitano Ercole, rettore dell’Università dal
1924 al 1932, che peraltro nel ’32, nominato ministro dell’Educazione Nazionale, si trasferì definitivamente a Roma. Il solo palermitano che al governo svolse un ruolo di rilievo, anche se per
pochi anni, non fu un politico ma un tecnico, Guido Jung, ministro delle Finanze dal 1932 al 1935, ritenuto da Mussolini il più
adatto a fronteggiare la crisi economica del paese. Ebbe il merito di essere riuscito a mantenere il disavanzo del bilancio dello
Stato entro limiti ragionevoli, ricorrendo, è vero, a inasprimenti
fiscali, ma più ancora a una serie di economie persino sulle spe-
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Palermo
se militari, che passarono dal 32 al 25 per cento della spesa complessiva, mentre la spesa per opere pubbliche aumentò dal 14 al
24,5 per cento e contribuì a frenare la disoccupazione negli anni della «grande crisi». Con Jung al ministero delle Finanze si ebbe anche la costituzione dell’Iri, ritenuta giustamente l’iniziativa
di politica economica più importante del periodo. Eppure egli a
Palermo non godeva di larghe simpatie e perciò nel 1929 il prefetto, pur riconoscendogli capacità e conoscenza approfondita
dei problemi della città, preferiva che la carica di podestà venisse affidata – come poi avvenne – al principe di Spadafora.
Le elezioni politiche, il «plebiscito», del marzo 1929 falcidiarono e rinnovarono quasi completamente la rappresentanza parlamentare della provincia, per effetto sia della riduzione a 400 dei
membri della Camera, sia della distribuzione tra i vari collegi, che
penalizzava notevolmente il Meridione. Tra i vari nomi segnalati
dalle confederazioni, enti e associazioni, che a norma della nuova legge elettorale avevano diritto a proporre le candidature, il
Gran Consiglio del Fascismo scelse per Palermo i nomi di Jung
e Di Marzo, deputati uscenti, e di Ercole, Ducrot, Messina, duca di Belsito e barone Pottino, i quali furono inseriti nella lista
proposta poi all’elettorato per l’approvazione. Alcuni erano sicuramente nomi di prestigio, ma il ruolo ormai marginale svolto
dal Parlamento non offriva loro grosse possibilità di farsi valere.
Per di più, dato il modo come il fascismo si era affermato a Palermo, mancavano di grosse benemerenze fascistiche che potessero avvantaggiarli in campo nazionale. Il più titolato, sotto tale
profilo, era Ercole, onesto ma unanimemente considerato un
trombone, che né da ministro né da uomo di scienza ci ha lasciato importanti realizzazioni. Seguiva Ugo Parodi Giusino, duca di Belsito, un ex ufficiale decorato di guerra, che aveva aderito al Pnf durante la crisi Matteotti e sostituito Cucco nella carica di segretario federale, curando la riorganizzazione del partito
dopo lo scioglimento del direttorio e di numerose sezioni della
provincia. È probabile però che l’elezione a deputato fosse un
espediente per sostituirlo come segretario federale: perfetto gentiluomo, egli non era dotato di grande energia, né di attitudine a
certe cariche, tanto che come vicepodestà di Di Marzo non aveva dato buona prova. Jung, che rappresentava il mondo finanziario, era stato nazionalista nel 1914 e volontario di guerra, ma
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non aveva mai svolto attività di partito. Lo stesso può dirsi per
l’ex rettore Di Marzo, orlandiano quasi sino al 1924 e poi pro
sindaco e podestà. Né erano uomini di partito il noto industriale Ducrot e il professore Giuseppe Messina, nativo di Naro, docente a giurisprudenza, civilista di valore e fama internazionale,
che aveva ottenuto la tessera del Pnf solo da pochi mesi, per disposizione del segretario nazionale Turati. La candidatura di
Messina era un premio alla sua collaborazione come esperto ai
progetti di legge del guardasigilli Rocco, di cui era molto amico,
e alla «Carta del lavoro» di Bottai. La candidatura dell’ex popolare barone Ettore Pottino di Capuano, presidente della Federazione Provinciale Sindacati Fascisti Agricoltori, più che l’aristocrazia, rappresentava il ceto degli agrari e in qualche modo anche la provincia. Nativo di Petralia Soprana, egli era un tipico
esponente di quella aristocrazia di provincia, di nobiltà piuttosto
recente, che si era ormai quasi interamente riversata nelle città,
pur continuando a mantenere solidissimi legami con i paesi d’origine, da cui ritraeva i mezzi per vivere di rendita. E infatti, anche se la sua famiglia viveva ormai a Palermo dalla fine dell’Ottocento, egli continuava a rivestire alcune cariche anche a Petralia Soprana, dove trascorreva lunghi periodi dell’anno.
Nelle elezioni del 1934 (68.917 iscritti, 67.251 votanti, voti
contrari in tutta la provincia 5), la rappresentanza palermitana
venne ulteriormente ridotta di numero: furono presentati ed eletti Ercole e Jung, ministri in carica, Parodi, Pottino e il principe
di Paternò, Ugo Moncada. Erede della più antica e prestigiosa
dinastia feudale dell’isola, che però da oltre un secolo non aveva
più partecipato attivamente alla vita politica, Paternò costituiva
l’unico nome nuovo della lista. La sua elezione a deputato si inseriva nella linea politica del regime, tendente in Sicilia a coinvolgere in maniera massiccia l’aristocrazia nella gestione del potere. Paternò, peraltro, avendo sposato una delle due figlie del
defunto principe di Trabia e di Giulia Florio ed essendo nipote
ex filia del principe di Niscemi, consentiva al fascismo di recuperare i consensi di quella parte dell’aristocrazia che si era schierata all’opposizione. Con il suo ingresso alla Camera, l’aristocrazia agraria veniva ad avere nella rappresentanza parlamentare palermitana una preponderanza nettissima, quale non aveva mai
avuto in precedenza. Non furono ricandidati Ducrot, Messina e
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Palermo
Di Marzo. L’assenza di Ducrot, il cui stabilimento era in gravissime difficoltà, privava gli industriali locali di un loro rappresentante alla Camera e dimostrava lo scarsissimo peso che ormai
essi avevano, dopo la crisi che li aveva colpiti e costretti a smantellare alcune aziende. La fortuna di Messina era legata a quella
di Rocco, ormai in declino, ma a suo sfavore giocò anche l’accusa di scarsa partecipazione alla vita del Pnf locale. Di Marzo, che
era stato per qualche tempo sottosegretario all’Educazione Nazionale e che dal 1933 era ritornato a fare il rettore dell’Università, fu nominato senatore, assieme a tre altri palermitani: Santi
Romano, Ottavio Lanza, nuovo principe di Trabia, ed Emanuele Soler, un illustre scienziato ultrasettantenne che dirigeva l’Istituto Italiano di Geodesia. Nessuno di essi però da anni viveva
più a Palermo, tranne Di Marzo, che comunque poco dopo lasciò anch’egli definitivamente la città per l’Università di Roma.
Con l’uscita di Jung e di Ercole dal governo, Palermo – come
del resto l’intera isola – dal 1935 non fu più rappresentata nell’esecutivo e neppure nel Gran Consiglio del Fascismo. In verità,
la rappresentanza parlamentare espressa allora dalla città non era,
a parte Jung, molto qualificata per incarichi di governo. Ma neppure a livello locale Palermo riusciva a esprimere un suo ceto dirigente, se il potere cittadino era finito da tempo nelle mani di
continentali, come nell’estate del 1942 il riabilitato Cucco, a muso duro, rinfacciava al governo e al Pnf:
A Palermo, il Prefetto è piemontese; il Podestà calabrese; il Federale settentrionale; finanche il Direttore Generale dell’Ente Colonizzazione del latifondo siciliano è settentrionale; settentrionale è anche il Direttore del Banco di Sicilia; settentrionale è il Direttore della Cassa di Risparmio delle Province Siciliane; settentrionale il Direttore del nuovo Ente Acquedotti per la Sicilia, etc. Ciò concorre ad
inasprire gli animi ed a rafforzare la convinzione di un particolare
maltrattamento. Ciò che poi contrista di più i Siciliani è il vedere i
migliori uomini della Sicilia, per cultura, per ingegno, per capacità
creative, per fede, lasciati a terra e non valorizzati al giusto punto.
Il discorso di Cucco è chiaro: c’era una precisa volontà politica di emarginare i migliori elementi dell’isola, come c’era nel
paese un antisicilianismo che si esprimeva anche nell’assurda di-
VIII. Dopoguerra e fascismo
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sposizione governativa del 1941 sul trasferimento forzato al Nord
dei funzionari siciliani e persino durante le partite di calcio della squadra palermitana, quando a Cuneo e a Varese il pubblico
di casa incitava i propri colori al grido di «Forza Italia!», come
se Palermo fosse terra straniera, Africa. E perciò, la nomina nel
1943 di due sottosegretari siciliani e di Cucco a vicesegretario generale del Pnf – che lo coinvolgeva drammaticamente nel crollo
del regime – veniva sentita come una tardiva riparazione, addirittura come uno zuccherino ai siciliani imposto dalla opportunità politica. Tale stato d’animo non era soltanto dei fascisti locali, i quali potevano essere spinti da gelosie e risentimenti per
non essere tenuti in migliore considerazione dal regime, ma era
ampiamente condiviso dalla popolazione, come dimostrerà successivamente il fenomeno del separatismo, la cui esplosione altrimenti non sarebbe pienamente comprensibile.
Ma in che senso si può parlare di una mancata valorizzazione
degli elementi migliori? Il discorso è complesso. Nei confronti
dei siciliani, che già prima del suo avvento godevano di riconosciuto prestigio e che aderirono al fascismo, il regime non può
dirsi fosse stato ingeneroso: il grande giurista palermitano Santi
Romano fu dal 1928 al 1944 presidente del Consiglio di Stato; i
palermitani Orestano, Riccobono e Trentacoste furono chiamati
a far parte dell’Accademia d’Italia e si potrebbe continuare con
le esemplificazioni ricordando Gentile, Pirandello e altri. È altrettanto vero però che per le generazioni che si affacciarono all’attività nel corso del ventennio non ci fu molto spazio: esse
scontavano duramente il ritardo con cui la Sicilia aveva aderito
al fascismo. Non potendo contare su una sua classe dirigente locale e non volendo lasciare tutto il potere ai fiancheggiatori, il fascismo da un lato ricorse all’aristocrazia – la quale negli ultimi
decenni dell’età liberale era stata costretta a cedere sempre più il
campo alla borghesia degli affari e delle professioni – e dall’altro
cominciò a inviare nell’isola suoi proconsoli da Roma, come non
era avvenuto neppure nei primi anni dopo l’unificazione, quando la presenza dei ‘piemontesi’ era stata più invadente. Ritornavano così a svolgere ruoli di primo piano esponenti dell’alta aristocrazia, talora persino di quella clericale, che durante i governi liberali era stata tenuta in disparte e che adesso si schierava
con il fascismo per vendicarsi dello Stato liberale: un principe
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Palermo
(Scalea) diventò ministro delle Colonie (per trovare un altro aristocratico palermitano nell’esecutivo bisogna risalire a Rudinì,
l’unico peraltro); un altro principe (Spadafora), per la prima volta dopo la caduta dei Borboni, nel ’29 si insediò a Palazzo delle
Aquile come podestà; un altro ancora (Moncada) fu eletto deputato; un duca (Belsito) e un marchese di famiglia tradizionalmente clericale (Spedalotto) fecero parte del triumvirato cui nel
1927 fu affidata la riorganizzazione della federazione; un barone
(Boscogrande di Carcaci) fu nominato presidente dell’Iacp, sostituito poi dal duca di Belsito, che fu anche vicepodestà e deputato. Tra gli aristocratici, la preferenza era accordata ai grandi
agrari, che nella politica di ruralizzazione dell’Italia voluta da
Mussolini dovevano svolgere un ruolo fondamentale. L’adesione al fascismo dell’aristocrazia e della borghesia latifondista,
seppure spesso tardiva, fu massiccia e anche convinta sino alla
fine degli anni Trenta, quando parte dei consensi cominciarono
a venir meno per la volontà del regime di varare una legge di colonizzazione del latifondo. Intanto, però, gli agrari traevano vantaggio dalla politica agraria del regime, che rivalutava il ruolo
della coltura granaria del latifondo, e dalla stessa legislazione liberticida, che valeva a tenere a freno il mondo contadino senza
più la necessità per i proprietari di dover ricorrere all’intervento della mafia.
Come si è detto, spesso i locali venivano affiancati e talora addirittura sostituiti da funzionari fascisti inviati appositamente da
Roma. Così, ad esempio, se il podestà veniva scelto tra i locali,
quasi sempre il suo vice era un funzionario statale continentale e
negli ultimi anni anche il podestà, come il segretario federale, fu
inviato da Roma. Ciò finiva inevitabilmente col bloccare la formazione di una nuova classe dirigente locale. E allora il problema non è tanto la mancata valorizzazione dei ‘migliori’ da parte
del regime, quanto piuttosto l’altro ben più importante della mancata formazione dei ‘migliori’. C’è da dire purtroppo che, quando il governo si affidò a elementi locali, come ad esempio per l’amministrazione comunale, la gestione fu spesso infelice per incapacità, pressappochismo e talvolta anche scarsa correttezza amministrativa: di un podestà si diceva che pagasse con precedenza
quei creditori del Comune disposti a versare una tangente nelle
mani del genero, accusa che il prefetto non poté smentire.
VIII. Dopoguerra e fascismo
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Già all’indomani delle amministrative del 1925, il fascismo
aveva difficoltà a trovare un suo sindaco per la città. Le elezioni
le avevano vinte soprattutto i fiancheggiatori, come dimostra il
fatto che il capolista principe di Scalea, ministro in carica del governo fascista, fosse stato scavalcato per numero di preferenze da
Empedocle Restivo, risultato primo degli eletti. Ai primissimi posti si erano poi piazzati Zito, Conti, Clemente e Tagliavia, mentre a noti fascisti come Sapio e Arcuri erano toccati gli ultimissimi. Non volendo lasciare la carica ai fiancheggiatori e non avendo d’altra parte propri uomini di prestigio cui assegnarla, il fascismo palermitano fu costretto a ricorrere a un espediente: elezione a sindaco e poi ad assessore anziano del professore Salvatore Di Marzo (Palermo 1875-Roma 1954), il quale, non potendo
in quanto deputato accettare l’incarico di sindaco, pena la decadenza dal mandato parlamentare, rimaneva così pro sindaco, sino a quando, alla fine del 1926 non fu nominato podestà. Gli faceva da vice il duca di Belsito, il quale alcuni mesi dopo ebbe anche l’incarico di federale, a dimostrazione ulteriore della deficienza di quadri del fascismo palermitano. A metà 1928, Belsito
venne sostituito come vicepodestà da un funzionario statale, il viceprefetto Frattaroli, che ebbe la delega per Polizia Urbana, Annona, Igiene e Sanità. Cominciò allora l’utilizzazione nell’amministrazione cittadina di funzionari continentali in sostituzione di
elementi del luogo.
Di Marzo varò immediatamente un grandioso programma di
opere pubbliche, per la cui realizzazione nel 1926 il governo autorizzò il Comune a contrarre con il Consorzio di Credito per le
Opere Pubbliche, mediante obbligazioni «Città di Palermo» al 5
per cento (portate poi al 6, che equivaleva al 6,5 per cento reale), un mutuo di 270 milioni (= 288 miliardi del 1997) da utilizzare in dieci anni, i cui oneri sarebbero in parte gravati sul bilancio dello Stato. Oltre 1/3 doveva servire a completare il risanamento previsto dalla legge del 1894 e per la costruzione dell’ingresso di via Roma. Il resto sarebbe stato utilizzato per il rifacimento della vecchia rete fognante e la costruzione della nuova nei quartieri periferici e nelle borgate, per la costruzione di
edifici scolastici, costruzione e sistemazione di cliniche universitarie, costruzione di case ultrapopolari, di un nuovo macello, di
edifici comunali nelle borgate, di bagni pubblici e infine per la
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Palermo
sistemazione del lazzaretto. Il nuovo mutuo provocava un ulteriore aumento della spesa comunale effettiva, che nel 1928 risultava incrementata del 665 per cento rispetto al 1912 – solo a Brescia e a Padova tra le grandi città si realizzava un incremento maggiore –, non bilanciato da un analogo incremento delle entrate,
che invece risultavano contemporaneamente cresciute del 490
per cento, incremento che è tra i più bassi. Ancora nell’agosto
1931, l’amministrazione comunale non era però riuscita a utilizzare che la prima delle cinque tranches annuali di obbligazioni
già emesse, impiegata nella costruzione di alcuni edifici scolastici. Sulle somme inutilizzate percepiva interessi semestrali sempre
più bassi, per via della continua riduzione del tasso di sconto, e
di contro pagava da anni un mutuo di cui non riusciva a servirsi, contratto quando i tassi erano ben più elevati. Esempio incredibile di inefficienza amministrativa, d’incapacità, ormai storica, della classe dirigente palermitana di riuscire a spendere i
fondi a disposizione, anche quando era rappresentata da un podestà sciolto dal controllo e dalle remore che poteva a volte creare un Consiglio comunale elettivo. E ancora un anno dopo, «il
grandioso piano di risanamento della città», di cui tanto strombazzava la stampa, in parte non era neppure sulla carta, perché
mancavano i relativi progetti, spesso per l’inefficienza degli uffici tecnici comunali, malgrado nel 1927 fossero stati sostituiti una
decina di ingegneri e geometri con elementi fatti venire da Messina e Reggio Calabria. Purtroppo, come i sindaci dell’età liberale, anche i podestà dovettero fare i conti – come osservava il
prefetto – con «l’ostruzionismo del piccolo esercito dei tremila
impiegati comunali, i quali pur pesando con trenta milioni all’anno sul bilancio comunale, salvo poche eccezioni, sono privi
di volontà, di senso del dovere e di spirito di collaborazione verso il Capo dell’Amministrazione». Non pochi di essi continuavano inoltre ad avere il doppio impiego presso enti e opere pie.
Il problema della insufficienza di quadri dirigenti del fascismo cittadino si ripropose nuovamente quando, nel settembre
1929, si dovette sostituire nella carica di podestà Di Marzo, che
era stato intanto nominato sottosegretario. La scelta – lamentava
il prefetto – si presentava «quanto mai difficile», per la «nota deficienza di uomini dovuta alla scarsa attività del Partito Fascista e
la grande responsabilità della carica». Si fecero vari nomi, tra cui
VIII. Dopoguerra e fascismo
385
quelli di Drago, Belsito, Jung e Vincenzo Florio, che per ragioni
diverse furono scartati. Per il prefetto, il più indicato, anche perché nella città godeva di maggiori simpatie, era il principe Michele
Spadafora (1874-1958), esperto di finanza e di agricoltura, consigliere delegato della Banca d’Italia, proprietario di terreni, fabbricati e di una miniera di zolfo, probo, retto, energico, intransigente. Qualcuno non lo riteneva invece sufficientemente preparato per reggere importanti cariche amministrative; qualche altro
gli rimproverava il «temperamento altero» e la «aristocratica sostenutezza». La scelta cadde su di lui, con vicepodestà l’ex popolare marchese Giovanni Maurigi (altro aristocratico di estrazione
clericale!), che però non poté accettare perché in partenza per l’estero e fu sostituito dall’economista De Francisci Gerbino.
La gestione Spadafora coincise con la «grande crisi» del 1929
e degli anni successivi, che mise in ginocchio la città: le industrie
chiudevano i battenti, i lavori pubblici a carico del Comune stentavano a decollare, l’alluvione del ’31 (la seconda nel giro di pochi anni, dopo quella del ’25) danneggiava gravemente numerosi esercizi commerciali. La nuova riforma dei tributi locali provocò un grosso buco di 18 milioni nel bilancio comunale del
1930, che si tentò di coprire con nuovi dazi e l’inasprimento di
quelli esistenti; questo generò notevole malcontento, perché colpivano una città già in seria difficoltà. Particolarmente vivaci furono le proteste per le imposte sui balconi e sulle insegne, che i
commercianti per non pagare si affrettarono a cancellare o a coprire con strisce di carta, finendo denunciati all’autorità giudiziaria. Le lettere anonime al duce, al prefetto, alla stampa (che
non le pubblicava) si fecero più numerose, con l’accusa comune
al podestà di aver fatto aumentare il deficit con spese sbagliate
ed eccessive, che voleva adesso far pagare al popolo («lui sbaglia
e il popolo paga»): il principe di Spadafora era diventato uno degli amministratori più impopolari della storia cittadina, il parafulmine di tutte le critiche, che invece non sfioravano Mussolini
e il regime («Se il Duce sapesse...», si ripeteva spesso). Per un
commerciante, che scriveva «a nome di moltissimi [...] che come
me vedono agonizzare le loro aziende», «la pietra [...] non si può
spremere». Per un altro, «il popolo di Palermo non ne può più,
non può reclamare a voce alta e deve soccombere». Un altro ancora denunciava come «tutte le classi sono strette in un cerchio
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Palermo
di ferro. La corda è troppo tesa [...]. Tutto il popolo si lamenta,
certo che la fame può tenersi un giorno, due, ma poi bisogna
mangiare per vivere». Il prefetto giustificava il podestà: la pressione tributaria del Comune era inferiore a quella esistente in
molte altre città del Regno e non poteva essere alleggerita senza
creare gravi problemi al bilancio. Ma la spinta dei sindacati di categoria portò alla sospensione per alcuni anni della riscossione
delle imposte sui materiali da costruzione, dolciumi e profumi e
del contributo di miglioria, mentre l’imposta sui balconi veniva
sospesa dal governo in tutta Italia.
Le conseguenze sul bilancio comunale furono inevitabilmente disastrose, anche perché alla mancata attuazione del nuovo regime tributario si assommavano gli effetti della larga evasione fiscale, che più tardi venne valutata nel 53 per cento con punte del
75 per i redditi maggiori. Per pareggiare i bilanci si cominciò a
ricorrere a espedienti e a nuovi mutui: 24 milioni per il deficit
del 1931, 12 per i debiti scoperti del 1932. Nel 1933 vennero aumentati i prezzi dell’acqua e del gas e riveduti i tributi locali, in
particolare l’imposta sul valore locativo, ma non si riuscì a evitare un disavanzo di 15 milioni. La posizione di Spadafora si era
fatta insostenibile e anche il prefetto, alla fine del ’33, era convinto dell’opportunità di sostituirlo, non comunque con qualcuno del «gruppetto di nobili disoccupati, uno meno adatto dell’altro», che vi aspirava, bensì con «un funzionario di particolare competenza, di notevole prestigio e di grande energia». Come
accertò il prefetto Bernardo Borrelli (Avella 1878- ?), giunto due
settimane dopo come commissario straordinario, il Comune era
insolvente ormai da anni, non solo con i grossi appaltatori, ma
anche con i prestatori d’opera. Gli imprenditori non volevano
più trattare con l’amministrazione civica e quei pochi che lo facevano si rivalevano dei rischi e dei lunghi ritardi dei pagamenti
praticando prezzi da usura. Tutto ciò si ripercuoteva pesantemente sull’efficienza dei servizi pubblici, perché le imprese concessionarie ne approfittavano per venir meno ai loro doveri contrattuali. E perciò scarsissima cura nella spazzatura delle strade
e ritiro irregolare dei rifiuti dalle abitazioni, perché la Vaselli,
l’impresa romana che dal ’32 gestiva il servizio, già creditrice del
Comune per circa 4 milioni e mezzo, aveva ridotto il numero dei
lavoratori e minacciava di sospenderlo; servizio autotramviario
VIII. Dopoguerra e fascismo
387
assolutamente insufficiente; approvvigionamento idrico da tempo molto carente. Un tale, che si firmava Alfonso Maniscalco e
la cui pazienza, diceva, stava superando il limite oltre il quale
avrebbe fatto sapere al «Duce le porcherie che si fanno a Palermo», nel ’34 chiedeva al prefetto se
– mentre le strade sono coperte di sporcizie e di rifiuti organici umani ed animali, mentre i selciati, le asfaltature e le bitumature sono coperte di polvere che si solleva al vento per soffocare ed intossicare i
cittadini, mentre gli orinatori sporchi esalano puzzure sconcertanti,
mentre sui marciapiedi cresce rigogliosa l’erba, mentre l’innaffiamento stradale è divenuto un mito, mentre tutte le fogne sono otturate perché ripiene di immondizie, mentre si vedono scorazzare per
le strade carrettoni sudici e puzzolenti, e rimorchi tratti da mezzi che
dovrebbero disimpegnare altri servizi (innaffiatrici), che non disimpegnano in barba alle autorità preposte, mentre i funzionari e gli
agenti che sono addetti alla sorveglianza dei servizi fanno scomparire i reclami dei cittadini, che piovono giornalmente, e presentano alle autorità rapporti falsi, compiacenti e disinteressati, perché il loro
silenzio viene compensato –
la Vaselli fosse in regola con il contratto, peraltro assai gravoso
per il Comune. Maniscalco, che probabilmente era un anonimo,
si mostrava molto informato e denunciava le inadempienze con
ricchezza di particolari, indicando anche i sistemi per verificarle.
Il prefetto Marziali era costretto ad ammettere che il servizio
funzionava male, ma giustificava l’impresa, alla quale il Comune
da tempo non pagava regolarmente i dovuti canoni. A mantenere sporche le strade contribuivano inoltre i lavori in corso, che
erano stati finalmente intensificati, e la inveterata abitudine dei
palermitani di riversare sulla strada i loro rifiuti. Molte altre cose, comunque, non andavano bene e il prefetto, prima di prendere provvedimenti, chiedeva di potersi incontrare personalmente con Mussolini.
La depressione economica che si accentua sempre più, l’azione
forte contro la delinquenza per migliorare maggiormente le condizioni della sicurezza pubblica, la questione del latifondo, dell’urbanesimo, dei lavori pubblici, la revisione e l’avvicendamento graduale
del personale degli uffici statali e parastatali, la situazione finanziaria
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Palermo
del Comune Capoluogo, mi inducono a chiedere una speciale udienza all’E.V. per invocare gli ambiti ordini del Grande Capo per l’ulteriore azione che mi propongo di svolgere nell’interesse di queste popolazioni che anelano di essere governate con onestà e con giustizia
e che mal sopportano le inframmettenze dovute a interessi privati di
alcuni settori non ancora spogliatisi della vecchia mentalità.
Marziali, vecchio fascista e prefetto non di carriera, era stato
inviato a Palermo proprio col deliberato proposito di ‘moralizzare’ l’ambiente politico locale. Ma la sua azione – secondo una
fonte confidenziale del ministero delle Corporazioni – era «continuamente ostacolata dagli elementi locali restii ad ogni progresso e che antepongono i loro interessi privati a quelli della collettività»; e perciò egli, non adeguatamente sostenuto dal potere
centrale, che non assecondava le sue richieste, finì con l’adeguarsi
all’andazzo delle cose.
Il commissario Borrelli si preoccupò soprattutto del bilancio
e si illuse di aver raggiunto un pareggio «organico e permanente». In realtà, i bilanci del 1934 e del 1935 vennero pareggiati con
artifici contabili che poco convincevano il prefetto Marziali. Il
nuovo podestà, avvocato Giuseppe Noto Sardegna (Bivona 1877Palermo 1964), ereditava perciò una situazione che solo apparentemente sembrava risanata. Egli aveva ormai acquisito una notevole esperienza amministrativa, perché era stato più volte assessore e nell’ultimo quinquennio aveva presieduto la Provincia.
Ma il suo indiscutibile impegno non poteva da solo bastare a risolvere il problema fondamentale del disavanzo organico di 14
milioni l’anno, che non riuscì a ridurre neppure dopo il collocamento a riposo del Ragioniere generale del Comune, considerato uno dei maggiori responsabili. Il bilancio del 1935 impostato
da Borrelli non era stato approvato e perciò bisognava coprire i
disavanzi che ormai ammontavano a 44 milioni. Si vendettero titoli di Stato e si ricorse a nuovi mutui, all’inasprimento di alcune tariffe daziarie e alla tassazione di nuove voci (zucchero, caffè,
carta, ghiaccio, ecc.), che diedero però un gettito dimezzato a
causa delle esenzioni concesse per «ragioni politico-sociali» su
pressione di alcune organizzazioni di categoria. Ormai si era raschiato davvero il fondo del barile: le spese erano state ridotte all’indispensabile e per l’avvenire non era più possibile reperire
VIII. Dopoguerra e fascismo
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nuove fonti di entrata per coprire i nuovi disavanzi. Con un buon
terzo delle entrate effettive destinato all’ammortamento dei debiti, che assommavano a circa mezzo miliardo, il podestà nel 1938
non sapeva più a quale santo votarsi per far fronte alle spese correnti, tra cui gli stipendi degli impiegati.
Il blocco dell’attività amministrativa aveva pesanti contraccolpi sui servizi pubblici e sull’intera città, che – secondo il prefetto – assumeva «un aspetto di sempre crescente decadimento».
Alla Vaselli, che vantava un credito di 15 milioni, era subentrata
la ditta Greco e Maddalena, ma già i rapporti con il Comune erano al limite della lite giudiziaria. Il gas che l’azienda municipale
erogava era di cattiva qualità e non riscaldava. L’erogazione dell’acqua, sospesa nelle ore notturne, spesso per inconvenienti all’acquedotto e alla rete di distribuzione in alcune zone veniva addirittura meno anche di giorno o non raggiungeva i piani alti. E
come se non bastassero i problemi con la Società che gestiva l’acquedotto, l’impegno del podestà veniva vanificato dalla lentezza
burocratica del Genio Civile, che frapponeva obiezioni non sempre giustificate, che ritardavano i necessari lavori di rifacimento
dei condotti e della rete. Le strade erano intransitabili perché gli
scavi non venivano mai colmati interamente e da tempo non si
curava più la manutenzione ordinaria: la ditta Puricelli di Roma
che ne aveva l’appalto era creditrice di ben 20 milioni. L’inasprimento dei dazi di consumo aveva provocato la ripresa del contrabbando. I prezzi dei generi alimentari dal ’36 erano nuovamente in ascesa, la merce non sempre era di buona qualità (carne dura, pane crudo e non ben manipolato, pasta di scarsa qualità, ecc.) e per di più gli ambulanti frodavano nel peso.
Si riproponeva drammaticamente il problema della copertura del disavanzo delle gestioni precedenti, nel 1938 salito a oltre
50 milioni. In un incontro con Mussolini, il prefetto chiese addirittura l’apertura di un Casinò municipale, i cui proventi sarebbero serviti a coprire il disavanzo organico del Comune. Ottenne il preciso impegno che il risanamento del bilancio sarebbe
avvenuto con contributo a carico dello Stato. Ma era indispensabile che il Comune trovasse in avvenire nella stessa città le risorse per progredire, il che sarebbe stato possibile, secondo il
prefetto, «soltanto con l’elevare il livello di vita economica, oggi
assai depresso, dei cittadini. Donde la necessità di favorire il sor-
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Palermo
gere di nuove industrie, lo sviluppo di quelle esistenti, una migliore organizzazione dei commerci, una più intensa attività nel
settore agricolo». Insomma, è il caso di dire che, dopo quindici
anni di fascismo, a Palermo era tutto da fare.
Ma dovette passare ancora un anno prima che venisse preso
l’auspicato provvedimento. Intanto, a metà 1939, di fronte all’ulteriore aggravarsi della situazione finanziaria, che oltre ai servizi pubblici coinvolgeva adesso l’attività degli enti di assistenza
e di beneficenza sovvenzionati dal Comune, Noto Sardegna fu sostituito da un viceprefetto a riposo, il commendatore Francesco
Sofia (Radicena 1878-Pizzo Calabro 1944), ritenuto, in quanto
tecnico, più adatto di altri a gestire la difficilissima emergenza.
La legge 27 novembre 1939 sistemò finalmente la situazione
finanziaria: un mutuo di 52 milioni, con ammortamento differito di cinque anni e parte degli oneri a carico dello Stato, copriva i debiti e i disavanzi precedenti; il disavanzo organico veniva
ripianato con un contributo quinquennale di 25 milioni l’anno a
carico del bilancio dello Stato, che doveva anche servire a eliminare le deficienze di alcuni servizi, in particolare della manutenzione stradale, da anni trascurata con grave pregiudizio per le
condizioni della viabilità. Il Comune, da parte sua, si impegnava
a privatizzare l’azienda del gas, impiegandone il ricavato nel pagamento delle rate di mutuo.
La seconda guerra mondiale rimise tutto in discussione e già
nel 1941 ricomparve un nuovo disavanzo di quasi 9 milioni, a causa dell’aumento della spesa comunale che non era possibile bilanciare con nuove entrate, tanto più che ai comuni venne assolutamente proibito di inasprire la pressione tributaria. Le entrate subirono inoltre notevoli contrazioni: lo stato di guerra portava infatti alla riduzione dei consumi, soprattutto della carne e del
vino, e conseguentemente alla riduzione del gettito daziario, mentre le altre entrate venivano falcidiate da esenzioni tributarie a favore di famiglie numerose e dal divieto di atti coattivi a carico dei
contribuenti alle armi. Ma ormai il problema fondamentale era
diventato quello della sopravvivenza, perché, diversamente dalla
prima, la seconda guerra mondiale, combattuta nel Nord Africa
e nel Mediterraneo, coinvolgeva drammaticamente l’intera popolazione cittadina e non soltanto i familiari dei soldati al fronte. La
città era diventata prima linea e veniva martellata dai bombarda-
VIII. Dopoguerra e fascismo
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menti aerei, che sin dall’inizio delle ostilità mietevano vittime tra
la popolazione civile. Al primo bombardamento del 25 giugno
1940, che provocò 25 vittime e 135 feriti, altri infatti ne seguirono, sempre più intensi e sempre più disastrosi, sino a quello terribile del 9 maggio 1943, che – oltre a seminare rovine dappertutto, distruggendo palazzi e monumenti plurisecolari – uccise un
migliaio di civili, di parecchi dei quali non si rinvennero neppure i corpi. La città era assolutamente indifesa: l’unica protezione
contro le incursioni aeree nemiche era la fuga nei paesi dell’interno, che chi poteva raggiungeva con ogni mezzo:
I treni – denunciava un anonimo – offrono uno spettacolo veramente pietoso: i carri bestiame attrezzati e non attrezzati sostituiscono le vetture; grappoli umani sporgono persino dai finestrini delle vetture e dalle porte dei carri, mentre taluni si attaccano ai respingenti
dei carri con grave pericolo per la loro incolumità.
Lo stesso fenomeno si ripeteva sui pochi mezzi pubblici ancora in circolazione in una città desolata, dove la vita era una
scommessa giornaliera, dove non funzionava più nulla, dove
mancava tutto. Furono anni terribili, quali forse mai Palermo aveva attraversato nella sua lunga esistenza. In luglio, al momento
dello sbarco alleato in Sicilia, non erano stati ancora distribuiti
alla popolazione lo zucchero e i grassi di gennaio e la pasta di
maggio, che potevano acquistarsi solo al mercato nero. In tali
condizioni, un podestà forestiero non serviva più, anzi la sua presenza finiva con l’essere inopportuna, e perciò il prefetto aveva
già proposto che, alla scadenza del mandato, Sofia venisse sostituito con l’ex federale professore Michele Pavone, che godeva di
larghissima stima, oppure con il professore Eduardo Calandra,
direttore della clinica ortopedica, tre volte volontario di guerra.
Ma ormai gli alleati erano alle porte.
7. La città littoria
Anche se l’amministrazione comunale trovava notevoli difficoltà a utilizzare i fondi destinati al risanamento, negli anni del
fascismo la città fu nel complesso investita da un flusso di lavo-
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Palermo
ri pubblici come non era mai accaduto nei sessant’anni precedenti e che le cambiarono il volto, condizionandone lo sviluppo
futuro senza risolverne del tutto i problemi socio-economici, che
per tanti aspetti nel centro storico finirono con l’aggravarsi. A
parte le opere a carico del bilancio comunale, altre importanti infatti se ne effettuarono a carico del bilancio dello Stato e anche
della provincia. E almeno nel biennio 1926-1927, lo Stato in Sicilia – stando ai dati sull’occupazione giornaliera di maestranze
nelle opere per conto dello Stato (appalti e concessioni) – spese
in proporzione più che nel resto del paese: giornalmente risultavano infatti occupati oltre 300 operai/100.000 abitanti, contro
una media nazionale di poco superiore ai 200. Nel 1938, si calcolava che il regime fascista per opere pubbliche avesse speso a
Palermo 290 milioni ed erano già progettati lavori per altri 45 milioni. Mancò però una visione organica e globale degli interventi: la stessa espansione urbanistica lungo le vecchie direttrici radiali avvenne senza una regolamentazione complessiva, sulla base di piani parziali e di stralci ancora all’interno del vecchio e superato piano Giarrusso. Il concorso per il nuovo piano regolatore della città fu infatti bandito nel 1939 e la guerra impedì poi
all’amministrazione comunale di adottare un piano definitivo.
Mentre ancora continuavano i lavori di ristrutturazione del
porto e di completamento della via Roma, l’Iacp nel 1925 – come si è detto – avviò la costruzione di alcuni lotti di case popolari e nel 1927 del quartiere-giardino del Littorio (oggi Matteotti). Si trattava di case multipiani con appartamenti da 2 a 5 vani
(tipo popolare), di 4 e 6 vani (tipo economico) e di 2 e 4 vani (tipo ultrapopolare), progettate dai migliori professionisti della
città, ma con criteri alquanto superati dalle contemporanee esperienze europee. Disseminate parte nel centro storico, su aree rese libere dal risanamento, parte nella immediata periferia, erano
destinate soprattutto alla piccola borghesia impiegatizia, non agli
sfrattati dei catodi (nel 1927 erano ancora 7.092 per oltre 10.000
vani) in corso di demolizione nel centro storico (Conceria, Olivella, San Giuliano, Albergheria), costretti a loro volta a continuare a vivere nei vecchi quartieri sovraffollati e in continuo degrado, perché la minaccia di espropri sempre incombente sconsigliava i proprietari di immobili dall’effettuare costose ristrutturazioni e persino la stessa manutenzione ordinaria. Il quartiere
VIII. Dopoguerra e fascismo
393
Littorio, ai margini della via Libertà tra le attuali via Lazio e via
Principe di Paternò, nella zona d’espansione più prestigiosa della città, rispondeva al modello inglese della città-giardino, di cui
voleva essere il primo nucleo, ma rimase invece un episodio isolato. È costituito da un complesso di villette bifamiliari e, su via
Libertà, di edifici a tre elevazioni con appartamenti di tipo economico concessi a riscatto al ceto medio-abbiente. L’architettura
ha ben poco dello stile «littorio», che si ritrova soltanto nella monumentale esedra d’ingresso, e si ricollega invece a precedenti
esperienze locali. Altri immobili venivano costruiti da privati e
da cooperative, soprattutto nelle zone a sud-ovest della città (rioni Mendola, Perez, Olivuzza), ma anche a nord (rioni Cantieri e
Montalbo): si trattava di un’edilizia rivolta a soddisfare le esigenze della piccola borghesia e del ceto impiegatizio, diversamente dagli edifici multipiani con caratteristiche signorili sorti
contemporaneamente nelle zone più vicine al centro storico (vie
Stabile, Amari, Dante, Libertà e ovviamente via Roma) e dai villini che continuavano a costruirsi lungo la via Libertà e le strade
adiacenti, talora anche a cura di cooperative. L’edilizia più propriamente popolare si realizzava lungo le arterie di collegamento tra la periferia e le borgate. Queste ultime, che nelle zone interne mantenevano ancora caratteristiche rurali, lungo la costa
(Romagnolo, Acquasanta, Vergine Maria, Mondello, Sferracavallo) subivano consistenti alterazioni urbanistiche e anche architettoniche, come effetto sia di un incremento della popolazione
che di una trasformazione della originaria base sociale.
Negli anni Venti il ruolo delle grandi imprese (Sailem, Puricelli, Amoroso, Bonci e Rutelli, Utveggio, ecc.) nel settore immobiliare era modesto: preferivano dedicarsi alla costruzione di
strade (apertura di via Archirafi, completamento di via Roma,
prolungamento di parecchie altre), fognature, edifici pubblici, tra
i quali meritano di essere ricordati lo stadio del Littorio (oggi Comunale), parecchi plessi scolastici e palestre in città e nelle borgate, gli istituti universitari e il Consorzio Agrario di via Archirafi, i padiglioni delle cliniche universitarie alla Feliciuzza, l’Ospedale d’isolamento per malattie infettive alla Guadagna, il Sanatorio Ingrassia, alcuni padiglioni dell’Ospedale Psichiatrico, il Palazzo delle Ferrovie e il Palazzo delle Poste di via Roma (uno dei
pochi esempi a Palermo di architettura retorica, improntata alla
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Palermo
«romanità imperiale»), la sede della Banca d’Italia, la soprelevazione di Palazzo Comitini, sede della Provincia, edifici in parte
ultimati all’inizio degli anni Trenta. All’iniziativa privata si debbono nello stesso periodo il cinema Massimo di piazza Verdi, il Supercinema di via Cavour, il cinema-teatro Finocchiaro di via Roma e, nel 1934, il Castello Utveggio sul Monte Pellegrino, come
sede di un Casinò e di un grande albergo, mai entrati in funzione.
L’edilizia continuò a essere il settore portante dell’occupazione anche negli anni Trenta, quando, per alleviare la disoccupazione causata dalla crisi industriale e commerciale della città, il
governo incentivò al massimo la politica delle opere pubbliche,
dotando così finalmente Palermo di infrastrutture essenziali. Appartengono a quel periodo l’«imbocco monumentale» e la sede
del Banco di Sicilia di via Roma, il Palazzo del Provveditorato alle Opere pubbliche di piazza Verdi, la Casa del Mutilato di via
Donizetti, la Caserma dei Vigili del Fuoco, la Galleria delle Vittorie di via Maqueda, lo scalo merci Sampolo, alcuni edifici scolastici, i padiglioni del nuovo macello comunale a valle di corso
dei Mille, la sistemazione di varie piazze e strade, l’aeroporto militare di Boccadifalco (per usi civili si continuava a usare l’idroscalo di Santa Lucia, dove ammarravano gli idrovolanti che dal
1926 collegavano la città con Genova, attraverso Napoli e Ostia,
dapprima trisettimanalmente, poi giornalmente, e con Tunisi, settimanalmente), l’inizio dei lavori per la sistemazione della circonvallazione ferroviaria e per la costruzione del Palazzo di Giustizia e dell’Ospedale Civico, per la cui ubicazione si preferì la
zona a monte del Policlinico universitario, piuttosto che l’area tra
le vie Perpignano e Tasca Lanza donata in parte da Florio sin dal
1910, quando se ne stabilì la costruzione.
Al di là dell’indubbia utilità per i traffici e i collegamenti urbani, la costruzione della via Roma e di altre strade del centro
storico (via Mongitore all’Albergheria, ad esempio), come pure
la realizzazione dell’«imbocco monumentale» e di alcune altre
opere pubbliche costarono alla città la perdita di importanti monumenti che si sarebbero dovuti salvare; e perciò sono da condividere le critiche durissime di urbanisti e architetti contro il
«piccone risanatore» fascista. Ma nessun rimpianto merita la distruzione di tutta una serie di abituri assolutamente indegni di
un paese civile, come ad esempio quelli che si affacciavano sui
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cortili della via Stazzone (attuale via Torino), demoliti nel 1933
per realizzare l’«imbocco monumentale». Resta semmai il rammarico per il mancato abbattimento delle squallide abitazioni,
spesso al di sotto del livello stradale, che rimasero nascoste dalle cortine dei nuovi edifici, in un tessuto urbanistico incredibilmente degradato. Abitazioni che solo ragioni di opportunità consigliavano di non dichiarare inabitabili, perché gli sfrattati non
avrebbero trovato altro alloggio e perciò continuavano a vivervi
in una condizione che nel 1933 il prefetto definiva non a torto
«zingaresca» e di grave pregiudizio per la morale e per la salute.
Dall’avvento del fascismo sino al 1936 vennero demoliti circa
5.000 catodi per oltre 10.000 vani, che provocarono 35.000 sfrattati e diedero talora a Palermo il primato nelle demolizioni, giustificato dal maggiore degrado del suo patrimonio edilizio rispetto ad altre città. Di contro, l’Iacp, dall’inizio della sua attività, nel 1925, al 1938, riuscì a costruire appena 4.000 vani. Parte degli alloggi (spesso case ultrapopolari da 1 a 3 vani) costruiti
negli anni Trenta furono ubicati nei lotti provenienti dal risanamento del centro storico (rioni Magione, San Giuliano, Palazzo
Reale, Tavola Tonda, Mandrie), ma si costruì anche in periferia,
dove talora gli edifici furono ultimati durante la guerra, mentre
i lotti delle vie Di Cristina, Cadorna, Imperatore Federico, San
Lorenzo furono completati dopo la caduta del fascismo. Anche
se l’Incis costruì altre abitazioni in via Cirrincione, il notevole sviluppo dell’edilizia abitativa verificatosi in quegli anni si deve essenzialmente, come già quello del primo quindicennio del secolo, all’iniziativa privata, che innalzò numerosi edifici condominiali, talora anche nelle aree di risulta del risanamento, ma più
nei quartieri di recente formazione, le cui maglie vennero saturate. Non abbiamo i dati per l’intero periodo: nel quindicennio
1925-1939, tra costruzioni dichiarate abitabili e approvate si ebbero in complesso 13.506 appartamenti per 74.151 vani, ossia
quasi 5.000 vani l’anno.
Anche se a Palermo il rapporto tra incremento della popolazione e appartamenti e vani costruiti era più sfavorevole che nelle altre grandi città, con la sola eccezione di Napoli, una media
annuale di 5.000 nuovi vani copriva certamente sia i circa 750 vani che venivano contemporaneamente demoliti, sia l’incremento
demografico, che nel periodo fascista rimaneva tra i più bassi re-
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Palermo
gistrati nelle grandi città italiane, malgrado la massiccia immigrazione dalla provincia a cominciare dal 1920: la maggiore difficoltà di emigrazione all’estero riversava a Palermo, nonostante
provvedimenti restrittivi, flussi di provinciali di alcune migliaia
l’anno (con una punta massima di 10.624 immigrati nel 1930,
contro 2.334 emigrati), cifre mai toccate in precedenza, neppure
prima della grande emigrazione transoceanica dell’Ottocento. La
popolazione era passata dai 336.148 residenti del 1911 ai 343.592
del 1921, 379.905 del 1931, 411.879 del 1936, con un incremento medio annuo nel quindicennio 1921-1936 del 13,24 per mille
(incremento medio annuo del 1861-1911 = 14,57 per mille), senza dubbio modesto, a causa della caduta dell’indice di natalità, il
cui quoziente, che nell’anteguerra superava il 30 per mille abitanti, si era ridotto a 25,6 nel quinquennio 1926-1930, per scendere addirittura a 21 per mille nel 1936-1940.
Ma in fatto di edilizia, la città – dove ormai era concentrato
il 45 per cento della popolazione residente della provincia e il 10
per cento dell’isola – aveva da recuperare ritardi secolari e per di
più le nuove costruzioni avevano un carattere prevalentemente
signorile e borghese, come dimostra il numero medio dei vani
per appartamento (da 4,4 a 5,6) nelle costruzioni degli anni 19251930. I ceti popolari ben poco se ne avvantaggiarono, quando
non ne furono addirittura penalizzati, e perciò la densità media
dei vecchi quartieri, anche a causa della massiccia presenza di attrezzature nel centro storico, continuò a rimanere elevatissima,
cosicché la superficie coperta a disposizione di ogni abitante, che
nel 1881 era di 10 mq, nel 1931 era aumentata di pochissimo, essendo passata appena a mq 11,8. Sempre nel 1931, nell’intera
città furono censite 78.693 abitazioni (56.019 nel 1901) per
211.464 vani, con un indice medio di affollamento pari a 1,7 abitanti per vano, contro una media nazionale di 1,4 abitanti per vano, che a Roma scendeva a 1,36, a Milano a 1,22, a Torino a 1,14,
a Genova a 0,90. Peggio di tutti stavano gli operai, che occupavano quasi un terzo delle abitazioni, con un indice medio di affollamento di 2,4 abitanti per vano. Tali indici di affollamento, che
si elevavano ancor più nel centro storico, contribuivano, assieme
ai disservizi dell’impresa della nettezza urbana, a perpetuare condizioni igieniche gravissime, che si riflettevano sulle condizioni
di salute degli abitanti e sulla mortalità, che, se complessivamente
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era diminuita e si manteneva in quegli anni sulla media nazionale (attorno a 16 abitanti per mille), nei vecchi quartieri toccava
punte elevate (22 per mille a Palazzo Reale). Non a caso, tra le
grandi città, Palermo aveva il primato in fatto di mortalità per
febbre tifoidea e, dopo Taranto, anche per enterite.
Le nuove costruzioni nelle aree di risulta del risanamento, edifici con funzioni direzionali e commerciali o condomini multipiani, da un lato accentuavano il processo di terziarizzazione del
centro storico, sempre sede di tutte le istituzioni culturali e scolastiche; dall’altro creavano all’interno della vecchia città delle zone di pregio (vie Milano, Napoli, Bari, Donizetti, Scarlatti, ecc.),
in cui si insediò la media borghesia commerciale, che abbandonò
ai ceti popolari (artigiani, bottegai, venditori ambulanti, disoccupati e sottoccupati) i vecchi edifici, dove continuavano a esercitarsi gli antichi mestieri e le più disparate attività commerciali.
Nel ventennio fascista si accentuò così ulteriormente la divisione
della città per fasce sociali iniziata alla fine dell’Ottocento. Continuò, infatti, l’esodo dell’aristocrazia e della borghesia dal centro storico: le classi più agiate si fermarono lungo l’asse Ruggero
Settimo-Libertà e la media borghesia che non trovò spazio nei
nuovi edifici residenziali del centro storico occupò i nuovi rioni
di nord-ovest, riservando i quartieri di sud-ovest alla piccola borghesia e al proletariato inurbato, il quale si insediò anche nelle
abitazioni sorte spontaneamente all’estrema periferia a iniziativa
della popolazione rurale.
Se inizialmente alla base della politica di opere pubbliche del
regime ci furono soprattutto ragioni di prestigio e la volontà di
dimostrare alla popolazione che il fascismo era capace di risolvere problemi lasciati insoluti dai governi liberali (risanamento,
approvvigionamento idrico, rete fognante, infrastrutture scolastiche e sanitarie, ecc.), negli anni Trenta i lavori pubblici diventarono una necessità, l’unica valvola di sfogo della crescente disoccupazione per effetto della «grande crisi» mondiale che colpiva duramente le attività industriali e commerciali.
Dopo la fine della prima guerra mondiale, era parso che l’industria palermitana potesse riprendersi dalle difficoltà del periodo bellico. Nuove fabbriche erano state impiantate e alcuni settori potenziati, cosicché il panorama offertoci dal censimento industriale dell’ottobre 1927 – quando ancora l’economia italiana
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non risentiva tutti gli effetti della rivalutazione della lira di alcuni mesi prima e la «grande crisi» mondiale del 1929 era di là da
venire – appare alquanto migliorato rispetto all’anteguerra, anche se ormai il divario con le città settentrionali si era fatto incolmabile. Tralasciamo i dati relativi alle aziende che impiegavano sino a 10 addetti, perché, comprendendo anche le ditte artigiane (sarti, calzolai, vetturini, fabbri, falegnami, lattonieri, orologiai, orafi, gioiellieri, ecc.), non sono comparabili con quelli del
censimento del 1911. Se invece consideriamo le aziende con oltre 10 addetti, notiamo che le 134 del 1911 con 8.862 addetti erano intanto diventate 324 con 20.318 addetti. Ma quanto fosse ancora prevalente nell’intera provincia il ruolo dell’artigianato lo dimostrano lo scarso uso di forza motrice (utilizzata soltanto dal
10,4 per cento degli esercizi, contro una media nazionale del
17,6) e di motori elettrici (per appena 14.194 HP, pari allo 0,5
per cento della potenza complessiva dei motori elettrici del Regno) e il basso numero di addetti all’industria (appena 6 addetti
per ogni 100 abitanti, contro i 27 di Milano, 24 di Torino, 20 di
Genova), a conferma di quanto il divario con le province del
Nord si fosse ulteriormente allargato. Le stesse aziende industriali, anche quelle in mano a operatori non locali, utilizzavano
spesso impianti antiquati, preferendo puntare sui bassi salari dei
lavoratori, piuttosto che sul riammodernamento, per mantenere
ridotti i costi e fronteggiare la concorrenza delle industrie del
continente. Arretratezza tecnologica e mancanza di spirito associativo costituivano due gravi deficienze strutturali dell’industria
palermitana.
La diffusione dell’energia elettrica, di cui si lamentava a ragione il costo tra i più elevati d’Italia, aveva comunque favorito
lo sviluppo di parecchie attività industriali, tra cui la fabbricazione del ghiaccio per la conservazione dei generi alimentari, che
ormai utilizzava complessi frigoriferi di una certa importanza, come quello della Società Frigorifera Siciliana. La maggiore utilizzazione di concimi chimici nell’agricoltura giustificava nel 1920
l’impianto a Tommaso Natale da parte della Spicas (Società Prodotti Industriali Chimici Agrari Siciliani) di una grande fabbrica
di perfosfati, passata alla Montedison dopo il fallimento della
Banca Italiana di Sconto, che ne aveva finanziato l’attività. Il settore trainante dell’economia cittadina continuava a essere però
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l’edilizia e perciò il maggior potenziamento si era avuto nelle industrie da essa dipendenti: è del 1923, ad esempio, l’impianto da
parte della Sicilcalcite di una grande fabbrica di calce e cemento ad Altarello di Baida, assieme a una industria di silicati, sodici e potassici. Il cemento veniva ancora fabbricato con marna dalmatica: soltanto nel ’32 cominciò a fabbricarsi artificialmente.
Buono era anche lo sviluppo dell’industria dei sottoprodotti della distillazione del carbon fossile, da parte degli stabilimenti di
Hugony a Sampolo, che produceva anche saponi fini e alla glicerina, e di C. Pallme König. Nel settore dei profumi non aveva
avuto invece successo l’impianto a San Lorenzo di uno stabilimento per l’estrazione di essenze dai fiori.
Né mancavano altri settori in difficoltà. La Ferriera Ercta era
stata costretta, per effetto della crisi della siderurgia nazionale, a
sospendere più volte l’attività, sino a chiudere definitivamente all’inizio del 1928, perché i suoi impianti superati producevano a
costi più elevati degli altri stabilimenti del gruppo Ilva (dal 1921
in mano alla Banca Commerciale e al Credito Italiano), di cui anch’essa faceva ormai parte. L’industria molitoria del sommacco
non si era più ripresa nel dopoguerra, a causa della concorrenza
di altri paesi, dell’utilizzazione di prodotti sostitutivi e di altri sistemi di concia, e ancora delle sofisticazioni con il lentisco che
screditavano la produzione locale, cosicché l’esportazione all’estero di sommacco macinato e non macinato, che in passato aveva
raggiunto punte di quasi 40.000 tonnellate e che nel quinquennio
anteguerra era stata pari a t 26.000 l’anno, era scesa a quantitativi di poco superiori alle 10.000 l’anno; e quando nel 1927 si portò
sulle 15.000, i prezzi erano già crollati per effetto della concorrenza dei prodotti succedanei. L’industria armatoriale del Compartimento di Palermo, che aveva perduto le navi della Ngi e ormai lavorava esclusivamente per il cabotaggio all’interno del Mediterraneo, rispetto all’anteguerra aveva subìto, anche per effetto della crisi dei noli, un crollo del 70 per cento, passando da un
tonnellaggio lordo di 146.844 nel 1913 a 44.510 nel 1928, costituito per di più da naviglio di piccola portata e alquanto invecchiato. Le due più importanti società armatoriali erano la Florio,
con sede a Roma, che gestiva i servizi sovvenzionati del Basso Tirreno, tra cui la linea Palermo-Napoli, e La Meridionale, che gestiva i servizi per Ustica e tra Trapani e le isole Egadi e Pelagie.
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Fallimentare si era rivelato, malgrado l’espansione della produzione cantieristica italiana sino al 1931, il potenziamento dell’industria cantieristica locale. Negli anni di guerra, il Cantiere
Navale della Società Cantieri Navali Riuniti di Genova, risulta affiancato da altri piccoli cantieri: Laudicina, Elena, per costruzioni in legno, e Arceri, che costruiva barche e motoscafi e talvolta
lavorava anche per conto degli stessi Cantieri Riuniti, prima di
essere quasi interamente distrutto da un incendio nel ’29. Nel
1918, fu impiantato all’Addaura un nuovo cantiere, che non andò
oltre la costruzione di due velieri e pochi motoscafi, mentre il
Cantiere Roma, anch’esso impiantato all’Addaura da Alberto
Fassini nel dopoguerra, con una spesa ingente di 50 milioni su
un’area di 100.000 mq, non entrò mai in esercizio e fu messo in
liquidazione. Il complesso industriale dei Cantieri Riuniti, che
proprio in quegli anni veniva ulteriormente potenziato, continuava a essere di gran lunga il più importante della città, capace
di dare lavoro mediamente a 1.400 operai, che nei momenti di
maggiore attività potevano anche diventare 2.000. Si estendeva
ormai su un’area di 120.000 mq ed era in condizione di allestire
non solo lo scafo, ma tutte le altre parti della nave, tranne la zincatura, il cui impianto fu attivato nel 1932. Il lavoro però cominciava a scarseggiare: se nel periodo prebellico e ancora sino
al 1918 riusciva a costruire annualmente navi per quasi 6.000 tonnellate di stazza lorda, nel dopoguerra l’attività si era quasi dimezzata (t 3.200 l’anno). Si deve forse a ciò se esso si assicurò
annualmente la riparazione di un certo numero di locomotive
delle FF.SS., in concorrenza con le Officine meccanico-navali di
Antonino Laudicina, che nel 1930 fu costretto poi a sospendere
ogni attività.
Anche le altre officine meccaniche subivano la concorrenza
dei Cantieri Riuniti, che nei periodi di stasi dalle costruzioni navali assumevano i più importanti lavori di meccanica. L’industria
meccanica non riusciva proprio a decollare, perché da un lato le
scarse richieste del mercato locale non consentivano – tranne per
le macchine agricole più diffuse (frantoi, torchi, presse idrauliche, ecc.) e per i letti in ferro – la produzione in serie: i costi perciò rimanevano elevati e la concorrenza nazionale ed estera, che
poteva produrre a costi inferiori, aveva buon gioco nell’imporre
la sua merce anche a Palermo, dove aveva già costituito una va-
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sta rete di rappresentanti; dall’altro, in sede locale era costretta a
subire la concorrenza dei Cantieri Riuniti e, nel campo delle riparazioni, degli artigiani.
L’industria molitoria aveva raggiunto una capacità produttiva
addirittura superiore alla possibilità di sfruttamento degli impianti e già si intravedevano i primi segnali di crisi: la «battaglia
del grano» e la macinazione obbligatoria di una data percentuale di grani nazionali svantaggiavano i due grandi mulini cittadini, che in passato avevano lavorato molto con i grani esteri e prodotto per l’esportazione di sfarinati e che ora cominciavano a subire la concorrenza dei piccoli mulini dell’interno per il grano
duro e quella dei grandi mulini della costiera adriatica per il grano tenero. La Chimica Arenella, la cui produzione di acido citrico era stata molto richiesta durante il periodo bellico, perché
lo si usava come disinfettante negli ospedali militari, aveva investito notevoli capitali per migliorare gli impianti e continuava a
essere a livello mondiale la più importante industria del settore,
anche se nel frattempo erano sorti altri stabilimenti in continente. Nel 1928, un accordo tra le diverse fabbriche italiane concentrò la produzione di acido citrico nei due stabilimenti di Palermo e di Messina. Ma l’aumento dei prezzi determinato dalla
situazione di monopolio da un lato favorì la concorrenza dell’acido tartarico e dall’altro spinse lo sviluppo della produzione sintetica negli stabilimenti europei e statunitensi, cosicché nel 1930
cominciò la crisi delle esportazioni e dei prezzi e quindi dell’intero settore. L’industria conserviera era riuscita a riprendersi molto lentamente, per le difficoltà che il prodotto incontrava sui mercati nazionali ed esteri: solo verso la fine degli anni Venti si riuscirono a toccare gli antichi livelli di esportazione, grazie alle
maggiori richieste di pomodoro pelato, di cui nel frattempo si era
introdotta la lavorazione. Ma nel 1930, il crollo delle esportazioni riportò la crisi nel settore. Non trovavano da tempo sbocchi
commerciali gli ortaggi e i legumi conservati, poiché il mercato
americano utilizzava ormai la propria produzione, ed era fallito
un tentativo da parte di cooperative di produttori di introdurre
l’industria delle marmellate di frutta.
L’industria del legno continuava ad avere la sua azienda leader nella Ducrot, una delle più accreditate in Europa nella fabbricazione in serie di mobili in stile e nell’arredamento di tran-
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satlantici e alberghi di lusso: nel 1927 occupava 867 addetti, ma
in precedenza era arrivata sino a 1.200. Anche la manifattura dei
tabacchi era in espansione e impiegava quasi un migliaio di addetti (53 impiegati e 920 operai, di cui 763 donne).
Come per il passato, la produzione artigianale e industriale locale copriva soltanto una fetta del fabbisogno della città, costretta
a rifornirsi sul mercato nazionale ed estero. Ma i dati sul movimento commerciale del porto evidenziano come ormai la città
avesse ben poco da offrire in cambio dei prodotti importati. Nel
dopoguerra, non solo i valori del 1913 (t 890.000) non erano stati più toccati, ma le 798.000 tonnellate di merce imbarcata e sbarcata nel 1927, che rappresentano il valore più elevato dell’intero
periodo fascista, dimostrano come la posizione di Palermo fosse
nel frattempo ulteriormente peggiorata, tanto che il suo porto ormai si collocava addirittura al decimo posto tra i porti nazionali,
preceduto nell’ordine da Genova, Trieste, Venezia, Napoli, Livorno, Savona, Civitavecchia, La Spezia e Ancona. Consolazione
ben magra rappresentavano il sorpasso di Catania, in grave difficoltà per la crisi dello zolfo, sorpasso avvenuto in discesa, e l’incremento del numero delle imbarcazioni in arrivo e in partenza
dal porto (9.535), che gli consentiva di superare nuovamente Livorno, Messina, Venezia e Catania, ma lo lasciavano ancora al
quinto posto, dopo Trieste, Fiume, Napoli e Genova.
Tutto ciò era la conseguenza della stagnazione (per alcuni prodotti è il caso di parlare di crisi) delle esportazioni siciliane, che
durava dagli anni della guerra. Si è già detto del sommacco, che
ormai rappresentava una voce modesta del commercio di esportazione, delle conserve alimentari e dell’acido citrico. L’era dello
zolfo era tramontata per sempre; la pasta non era più riuscita a
riconquistare del tutto il mercato statunitense. L’esportazione di
agrumi, che continuava a collocarsi sempre al primo posto, aveva sofferto la perdita dei mercati russo e statunitense e solo da
qualche anno era in ripresa, in seguito alla stipulazione di nuovi
trattati di commercio che le riaprivano tra l’altro anche il mercato tedesco, ma ancora non erano stati raggiunti i livelli dell’anteguerra e i quantitativi esportati raramente superavano le
100.000 tonnellate l’anno, con destinazione soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna. Altre importanti voci che alimentavano il
commercio d’esportazione erano la frutta secca, le fave, l’olio di
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oliva, il formaggio, prodotti tuttavia la cui richiesta era già nel
1927 in fase calante. La voce più importante del commercio di
importazione continuava a essere ancora di gran lunga il grano
(duro e tenero), che veniva soprattutto dal Canada e dall’Argentina, in quantitativi sempre crescenti (47.000 tonnellate nel 1928),
seguito da legno, carbon fossile, caffè, ferro, carne, macchine e
prodotti finiti. Conseguentemente, rispetto al recente passato, veniva ridimensionato il ruolo dei grandi esportatori palermitani e
di contro risultava accresciuta la penetrazione dei grandi gruppi
nazionali nel mercato locale, attraverso concessionari, rappresentanti, agenti di commercio: le nuove professioni dell’epoca.
Allo stesso modo, era aumentata la presenza in città delle filiali
dei grandi istituti di credito, mentre la maggiore banca locale, il
Banco di Sicilia, era privata nel 1926 della funzione di emissione
e, seppure anch’essa in fase di espansione, non riusciva a superare la sua dimensione isolana.
Complessivamente, nel 1927 le 8.250 aziende artigiane e industriali della città davano lavoro a 37.004 addetti, mentre i 9.873
esercizi commerciali ne impegnavano altri 22.211. Non abbiamo
invece i dati degli occupati nell’edilizia e nell’agricoltura, né sappiamo quale fosse la disoccupazione in città. Nel 1925, la disoccupazione si era mantenuta al di sopra delle 4.000 unità nell’intera provincia, per scendere lentamente nell’anno successivo, sino a toccare la punta minima di 621 unità nel gennaio 1927. Per
tutto il 1928 raramente superò il migliaio e nel 1929 si mantenne mediamente attorno alle 1.500 unità. Le difficoltà cominciarono nel 1930, quando si attestò su una media di 5.500 unità, per
salire a 13.000 nel 1931 e a 17.584 a fine giugno 1932. L’economia palermitana, che era riuscita a limitare abbastanza bene le
conseguenze negative della rivalutazione della lira del 1927, che
colpiva soprattutto le sue esportazioni, subiva adesso pesantemente i contraccolpi della depressione mondiale del ’29, che privava del lavoro le sue industrie e faceva cadere le sue esportazioni sui mercati esteri. Mentre il movimento commerciale del
porto toccava nel 1932 la punta più bassa con tonnellate 537.000
di merce imbarcata e sbarcata, le industrie della città riducevano
notevolmente l’attività e alcune chiudevano addirittura i battenti, sia per mancanza di lavoro che per l’impossibilità di continuare
a pagare i costi, ormai gravosi, dei contributi per la cassa pen-
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sioni, disoccupazione, tassa intersindacale, assicurazione infortuni, assistenza sanitaria, ecc. Tra il 1929 e il 1932, il Cantiere Navale – che era stato escluso dal consorzio dei cantieri autorizzati
a ricevere commesse dalle marine straniere – ridusse il numero
degli operai da 1.600 a 500 (un’altra fonte indica in 1.300 gli operai ancora occupati nel ’32), il cementificio Ghilardi da 300 a 200,
il mulino Pecoraino (ormai prossimo al fallimento, al quale non
sarà estraneo l’impegno antifascista del proprietario) da 160 a 70,
l’officina meccanica Panzera da 100 a 35, la Randazzo da 80 a
35, l’azienda tipografica Ires dei fratelli Biondo da 60 a 42, mentre le Officine Laudicina (350 addetti) e la fabbrica di letti Diotti (130 addetti) erano già in fallimento (il numero dei fallimenti
nel ’32 era balzato a 347 dai 209 del ’29), e avevano chiuso la
Chimica Arenella (350 addetti), per mancanza di lavoro, e lo stabilimento tipografico dei fratelli Sandron (200 addetti), per gli
ingenti danni subiti nel nubifragio del febbraio ’31, quando le acque che sommersero i locali resero inservibili le macchine e distrussero le scorte e tutto il patrimonio librario di una delle più
importanti case editrici italiane. La chiusura della Sandron – costretta a trasferire la sede a Milano e la stampa a Bologna – accentuava ancor più la dimensione provinciale della città.
La Ducrot, che sino al 1931 aveva potuto evitare licenziamenti
grazie ai lavori di arredamento dei transatlantici Rex e Roma, nel
1932 aveva ridotto l’occupazione a 368 operai e pensava di porre in liquidazione l’azienda: unica speranza di salvezza appariva
l’assegnazione dell’arredamento del Palazzo delle Corporazioni a
Roma. Licenziamenti in buon numero si erano avuti anche nell’industria tranviaria, in parecchi settori commerciali, nell’industria agrumaria, ormai in grave crisi, e persino nell’edilizia, a causa di una certa contrazione anche nelle costruzioni private e del
fallimento di qualche costruttore. La disoccupazione – era il prefetto a rilevarlo nel 1933 – aveva «creato la miseria, la fame nera», malgrado nei rioni popolari fossero state istituite sin dalla fine del ’29 cucine economiche per i bisognosi. Gli operai che erano riusciti a mantenere il posto di lavoro avevano subìto riduzioni salariali – compensate però dalla contemporanea riduzione
del costo della vita – e spesso anche l’appesantimento dei turni
di lavoro. Al Cantiere e nelle cave, dovettero accettare di lavorare a cottimo, consentendo così alle aziende di evitare il costo dei
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contributi previdenziali. Nella politica di compressione dei diritti dei lavoratori, il Cantiere – forse perché il genovese Piaggio,
che ne era il titolare, poteva, come si lasciò sfuggire uno dei suoi
dirigenti, «riempire le tasche a molte persone» – trovava addirittura appoggio presso lo stesso ministero delle Corporazioni, che
nel 1935 intervenne in aiuto dell’azienda e contro le organizzazioni sindacali di categoria in una controversia per il riconoscimento delle qualifiche superiori. «Intervento inopportuno», che
– secondo un confidente dello stesso ministero – generava «tra i
lavoratori una pessima impressione e tutto ciò ha negative ripercussioni nel campo politico, perché i lavoratori vedono il ripetersi di vecchi sistemi che il Fascismo vuole stroncati». Nessuno
degli operai del Cantiere, pur avendone diritto, aveva la qualifica di specializzato e solo pochi appartenevano alla categoria dei
qualificati. Il mancato riconoscimento delle qualifiche superiori
da parte dell’azienda comportava per molti salari inferiori alle
mansioni effettivamente svolte. Abusi contro i lavoratori, che avevano provocato numerose vertenze col sindacato, si commettevano anche alla Vaselli, che oltre a gestire il servizio di nettezza
urbana, era interessata ai lavori di costruzione del porto.
Non è difficile ipotizzare per quegli anni una caduta dei consumi pro capite, i cui livelli già alla fine degli anni Venti appaiono più bassi rispetto a quelli del 1904. Ma tralasciamo il confronto con l’inizio del secolo, perché il fatto che anche i consumi delle altre città fossero più bassi fa pensare che nell’elaborazione dei dati si siano seguiti nei due periodi criteri diversi. A Palermo, dove durante il fascismo il costo della vita si mantenne sui
livelli più elevati, per il 1929 sono stati calcolati i seguenti consumi medi annui pro capite: vino litri 46, carne kg 25, formaggio
kg 4, pesce fresco kg 10, pesce salato kg 2, legumi kg 30, zucchero e miele kg 9 (Bologna 14, Catania 6, Firenze 13, Genova 18,
Napoli 9, Roma 11, Torino 20, Trieste 21, Venezia 12), marmellata kg 3, cioccolato kg 1, caffè kg 2, coloniali e droghe kg 48, oli
vegetali kg 10, burro kg 1, saponi kg 7, gas illuminante mc 23,69,
energia elettrica kw 204, oli minerali kg 13. Per alcuni prodotti,
il divario tra Palermo e le altre grandi città si era quasi colmato,
ma ancora complessivamente esistevano grossi squilibri, che risaltano meglio se si considerano le calorie sulla base dei consumi di vino, carne, pesce, uova, formaggio, zucchero, olio e bur-
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ro nello stesso anno: per Palermo, il numero medio giornaliero
di calorie per abitante era appena pari a 646 (+ altre 1.403 fornite da kg 0,360 di pane e kg 0,120 di pasta al giorno pro capite), mentre a Napoli era contemporaneamente di 724, a Bologna
e Venezia superava le 800, a Roma toccava il migliaio e a Firenze, Genova, Milano, Torino e Trieste lo superava. Si trattava di
appena 2.000 calorie al giorno pro capite, per di più coperte per
il 69 per cento dal pane e dalla pasta, cosicché i protidi di origine vegetale risultavano prevalenti sui lipidi e riducevano le facoltà difensive dell’organismo in caso di malattie infettive. Un apporto calorico già insufficiente quindi nel 1929, che le difficoltà
degli anni Trenta dovettero ridurre ulteriormente.
Il grande rilancio della politica delle opere pubbliche voluto
dal regime nel 1932 si inseriva in tale contesto e, diversamente
dagli anni precedenti, era motivato soprattutto dalla necessità di
creare in altri settori posti di lavoro che assorbissero la disoccupazione industriale e commerciale e rendessero meno difficili le
condizioni di vita della popolazione. I livelli di occupazione migliorarono, ma la situazione rimase pur sempre critica per tutti
gli anni Trenta. L’edilizia privata, che si era ripresa abbastanza
bene dalla flessione cui si è fatto cenno, dal 1936 cominciò a ridurre sensibilmente l’attività. Il Cantiere Navale per trovare qualche buona commessa era costretto a partecipare a una vera e propria guerra tra poveri. Malgrado le sue offerte fossero più convenienti per i committenti, la costruzione di due cacciatorpediniere della marina militare era stata affidata ai Cantieri napoletani e lo stesso stava accadendo nel 1933 per la costruzione del piroscafo Garibaldi della Tirrenia, su cui le autorità napoletane
facevano pressioni perché non privasse Napoli del lavoro, e di
due altri cacciatorpediniere, per i quali c’era la concorrenza dei
Cantieri Ansaldo di Fiume, città a cui favore giocavano evidenti
ragioni politiche. Peraltro, il Cantiere palermitano, in base a una
ripartizione dei ruoli che lo penalizzava, non poteva partecipare
agli appalti per la costruzione di altri tipi di navi da battaglia, né
di sommergibili. Quando poi riusciva a ottenere qualche commessa (nel ’34 fabbricava anche proiettili), doveva fare i conti con
il contingentamento delle importazioni di ghisa dall’estero e rischiare, come nel ’35, il blocco dei lavori, che proprio allora at-
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traversavano una fase di ripresa, tanto che l’occupazione era passata da 950 a 1.100 unità. La Ducrot – il cui titolare onorevole
Ducrot non aveva voluto rimodernare gli impianti – fu salvata nel
’35 dal fallimento grazie alla costituzione, favorita dal governo,
di una nuova società, la Caproni-Ducrot-Costruzioni Aeronautiche, che si dedicò alla costruzione di aerei, mentre il vecchio stabilimento continuava nella produzione di mobili. Anche la Chimica Arenella, il cui pacchetto di maggioranza era passato all’Iri, nel ’36 – dopo un accorato intervento dell’Unione Fascista dei
Lavoratori dell’Industria della città – fu salvata dalla liquidazione già deliberata dall’assemblea dei soci e nel 1940 ceduta al
gruppo zuccheriero Montesi.
Per un attimo, nel 1937, con la visita a Palermo di Mussolini
– che alla folla del Foro Italico promise per l’isola «un’epoca tra
le più felici che essa abbia mai avute nei suoi quattro millenni di
storia [...] perché la Sicilia rappresenta il centro geografico dell’Impero» – sembrò davvero che il peggio fosse passato per l’economia cittadina. Si pensò a nuove iniziative e si prepararono
nuovi programmi. Portavoce delle istanze delle organizzazioni
sindacali e delle autorità cittadine, convinte che non era facile
vincere la riluttanza dei capitalisti locali a impegnarsi nel settore
industriale, il prefetto a fine 1938 proponeva l’istituzione di un
Ente economico di propulsione con il concorso di Banco di Sicilia, Cassa di Risparmio e Banca Nazionale del Lavoro, analogo
a quello già costituito a Napoli da altre banche; la creazione di
una zona industriale franca, come era stato fatto per Bolzano;
energia elettrica a più basso costo e agevolazioni fiscali per i nuovi impianti. Provvedimenti che si pensava servissero ad attirare
operatori della penisola e ad agevolare lo sviluppo di nuovi settori basati su materie prime locali (cotonifici, cartiere, vetrerie,
raffinerie di olio e zolfo, stabilimenti per la lavorazione dei sottoprodotti dell’uva).
Le promesse del Duce continuavano però a rimanere sulla
carta e nel maggio 1939, malgrado i numerosi richiami alle armi,
i disoccupati superavano le 10.000 unità, preoccupando le organizzazioni sindacali non tanto per il loro numero, quanto per
l’«impressionante miseria» in cui erano cadute le maestranze, tra
le quali serpeggiava un vivo malcontento.
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Tolti i pochi elementi ricchi per censo – riferiva il questore della
città – la massa della popolazione è misera ed il ceto medio-professionista, impiegati e piccoli proprietari, tranne poche eccezioni, vive
assai modestamente, fra continue privazioni, per fare fronte alle più
indispensabili necessità della vita [...]. Lo stato d’animo della popolazione è sempre depresso, soprattutto per il grave disagio economico e perché si ha la sensazione che a tale disagio non corrisponda una
politica finanziaria rigida ed equa.
La situazione era precipitata perché, oltre alla rapida contrazione dell’edilizia privata, si era verificato il blocco di quella pubblica, cosicché c’erano capifamiglia senza lavoro ormai da quasi
un anno, mentre il costo della vita era aumentato di un quarto
rispetto al 1935 e superava già i livelli del 1928. E intanto nuovi
licenziamenti si profilavano all’orizzonte: già creditrice del Comune per un grossa somma, l’impresa Enrico Cassina di Cernobbio, che a fine 1938 era subentrata alla Puricelli nell’appalto
della manutenzione stradale, aveva licenziato 100 dei 350 operai
che impiegava e ne aveva sospeso altri 100 a tempo indeterminato. Le poche industrie superstiti andavano chiudendo, alcune
addirittura acquistate da imprenditori continentali del ramo col
deliberato proposito di sopprimerle per ridurre la concorrenza.
Si ripeteva cioè nel 1939-1940 ciò che era accaduto alla Ferriera
Ercta. Adesso toccava alla Società Anonima Ceramiche Siciliane,
l’antica Ceramica Florio, assorbita dalla Richard Ginori e chiusa
immediatamente, mentre la sua assegnazione di caolino e argilla
veniva trasferita ad altri stabilimenti del gruppo; e così pure al reparto colla e concimi della S. A. Officine Termotecniche Paratore, ceduto dopo una serie di contrasti alla Montedison, che sospese la produzione e chiuse il reparto. La gravità della situazione non sfuggiva al federale Li Gotti, che pressava per il risanamento finanziario del Comune, la ripresa dei lavori pubblici, la
creazione della zona industriale franca e persino la concessione ai
lavoratori edili disoccupati di permessi di emigrazione per Albania e Carbonia, dove erano in corso consistenti lavori pubblici.
La zona industriale venne finalmente istituita con legge 6 giugno 1940, ma ormai mancavano quattro giorni all’entrata in guerra dell’Italia e perciò tutto rimase alla fase iniziale. La guerra
bloccò per legge l’attività edilizia (soltanto dopo molte insisten-
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ze il prefetto riusciva a ottenere qualche deroga), ma aprì inizialmente spazi occupazionali nell’industria legata alle attività militari: alcune officine, dichiarate ausiliarie, ottennero commesse
statali, mentre il Cantiere Navale si assicurò la costruzione di
unità navali per conto della marina tedesca. Presto però vennero a mancare le materie prime e, già all’inizio del 1942, la Chimica Arenella ridusse l’attività lavorativa a soli tre giorni la settimana. Il resto lo fecero i bombardamenti, mettendo fuori uso
buona parte degli impianti ancora in funzione. Nel marzo ’43, il
Cantiere Navale, più volte danneggiato dai bombardamenti, non
era più in condizione di proseguire l’attività. Lo comunicava con
rassegnazione, ma «senza inutili e condannevoli eufemismi», la
direzione al ministero Produzioni Belliche: «in queste condizioni il grande, attivo Cantiere di Palermo è da considerarsi un organismo del tutto inutile alla produzione bellica». Palermo era in
ginocchio.
8. Cultura e antifascismo
La dimensione provinciale assunta dalla città durante il fascismo era il riflesso amplificato della posizione dell’intero paese nel
contesto internazionale e si coglie non solo nella vita politica ed
economica, ma anche nella cultura, soprattutto negli anni Trenta. Il critico barone Sgadari di Lo Monaco nel 1933 parlava dell’arte a Palermo come di una «grande esclusa» e ricordava la vivacità artistica degli anni precedenti, che poi erano gli anni Venti, con le esposizioni dei bozzetti degli architetti, che suscitavano
discussioni appassionate; le mostre collettive e personali anche di
pittori non siciliani; l’attività della Galleria d’Arte Moderna e della società Cultori ed Amatori d’Arte, che presieduta da Giovanni Rutelli organizzava concorsi e mostre; le conferenze della Società di Storia Patria, della Biblioteca Filosofica, del Circolo della Stampa; il ciclo di conferenze sul Regno normanno del 1930;
gli editori Sandron e Priulla; la prodigiosa attività dell’Associazione Palermitana Concerti Sinfonici, ecc. Che la crisi degli anni
Trenta abbia coinvolto anche la vita culturale della città non c’è
dubbio, ma neppure allora mancarono le occasioni per fare cultura: incontri, conferenze e soprattutto mostre erano frequentis-
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Palermo
simi, e in ogni caso assai più numerosi che in età liberale, anche
perché costituivano uno strumento attraverso cui il regime realizzava il consenso attorno a sé. Tra le grandi manifestazioni culturali debbono essere ricordati i Littoriali della Cultura e dell’Arte del 1938, che raccolsero a Palermo, per confrontarsi su temi politici e culturali, i giovani più intelligenti e preparati degli
Atenei italiani, tra cui parecchi su posizioni frondiste e talora addirittura antifasciste. L’anno successivo in una quarantina di conferenze che coinvolsero un po’ tutta l’isola si celebrarono i grandi siciliani del passato.
Ma, eccezioni a parte, il tono, lo spessore culturale delle varie manifestazioni dell’intero periodo fascista, checché potesse
pensarne Sgadari, non era nel complesso elevato, quando non si
trattava addirittura di un tipo di cultura già altrove superata. Un
esempio è costituito dal perdurare dell’esperienza futurista sino
al 1930, quando cioè nel resto del paese essa era già tramontata.
A Palermo invece negli anni Venti il futurismo viveva la sua stagione migliore, grazie all’impegno artistico dei tre giovani pittori Pippo Rizzo, Vittorio Corona e Giovanni Varvaro, cui si univano poeti e intellettuali (Castrenze Civello, Luca Pignato, Pietro Mignosi, ecc.). Anche il giovanissimo Guttuso, allievo di Rizzo, fu colpito per un certo periodo dalla febbre futurista. E quando negli anni Trenta si diffuse il Novecentismo, in Italia esso era
già sottoposto a dure contestazioni da parte di chi vi vedeva, a
ragione, il tentativo del regime di strumentalizzarlo per imporre
una pittura di Stato: polemiche che investivano Palermo molto
marginalmente.
Il Circolo Matematico, sotto la guida di De Franchis, succeduto al defunto Guccia, era riuscito a mantenere il suo ruolo internazionale, anche dopo la prima guerra mondiale che aveva incrinato i rapporti tra gli scienziati dei paesi contendenti. Ma il
nuovo statuto impostogli dal fascismo nel 1934, che sopprimeva
la sua autonomia e limitava la presenza degli stranieri, ne segnò
praticamente la fine, già prima che le bombe che colpirono Palazzo Guccia ne distruggessero la tipografia e parte della biblioteca. E si concludeva contemporaneamente, con la morte nel
1940 del suo fondatore, anche la parabola della Biblioteca Filosofica, che pure ancora negli anni Venti aveva svolto una proficua attività scientifica.
VIII. Dopoguerra e fascismo
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Gli intellettuali palermitani si erano ormai schierati in buona
parte con il fascismo e parecchi si erano inseriti nelle sue organizzazioni. Anche la cultura universitaria si era fascistizzata quasi per intero e con i suoi Riccobono, Di Marzo, Messina, Maggiore, Ambrosini, De Francisci Gerbino, Restivo, Ercole, Cesareo, Fazio Almayer, Caronia e parecchi altri – che spesso erano i
migliori sul piano scientifico e didattico – contribuiva a giustificare le nuove forme del potere e a legittimare l’azione politica del
regime. Si pensi, ad esempio, alla legittimazione da parte del giurista Giuseppe Maggiore e di altri della politica razziale antiebraica che espelleva dall’Ateneo ben cinque tra i migliori docenti (il clinico Maurizio Ascoli, il fisiologo Camillo Artom, l’ingegnere elettronico Alberto Dina, il futuro premio Nobel Emilio
Segrè, l’italianista Mario Fubini). O alla legittimazione della politica imperialista del fascismo, con riferimenti all’azione civilizzatrice di Roma imperiale, operata non solo dai romanisti Riccobono e Di Marzo, ma anche da Ambrosini, autore di opere dal
titolo molto significativo, L’Albania nella comunità imperiale di
Roma, oppure Le porte del Mediterraneo, un libro con cui si intendeva giustificare l’intervento in guerra dell’Italia. Anche Lauro Chiazzese – il migliore degli allievi di Riccobono e continuatore della scuola romanistica palermitana – durante la seconda
guerra mondiale svolse delle conferenze sull’imperialismo romano, che a liberazione avvenuta costituirono materia per intestargli una pratica di epurazione. E l’economista Frisella Vella – sostenitore di una «via siciliana allo sviluppo», basata sulla valorizzazione dei prodotti locali e sulla difesa delle esportazioni – nel
1936 mutava il titolo della rivista sicilianista «Problemi siciliani»
in «Problemi mediterranei».
Il dissenso dal fascismo riguardava soltanto una ristretta cerchia di intellettuali, qualche docente universitario e alcuni professori di liceo che non avevano mai chiesto l’iscrizione al Pnf e
perciò non indossavano la camicia nera o la divisa nelle varie manifestazioni pubbliche cui partecipavano. Mancò nella città un
antifascismo come quello, per intenderci, che si raccoglieva a Napoli attorno alla figura di Benedetto Croce o, per citare un’altra
città, a Torino attorno a Solari, Einaudi, Ruffini. Le discussioni
che si svolgevano a casa del romanista Giovanni Baviera, un ex
parlamentare molto amico di Nitti, che negli anni del suo inse-
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Palermo
gnamento presso la facoltà di giurisprudenza di Napoli era stato
anche vicino a Croce, non avevano alcuna incidenza all’esterno.
Ritornato a Palermo nel 1926, Baviera si astenne da qualsiasi iniziativa politica, per dedicarsi esclusivamente all’insegnamento
universitario e alla ricerca scientifica. Il suo sdegnoso isolamento veniva interrotto dalle visite di altri parlamentari o ex parlamentari di opposizione (Scialabba, Lo Monte, Sorge) e di amici
(il magistrato Di Piazza, l’avvocato Mattarella, futuro ministro
dc), che trasformarono la sua casa in un ritrovo di antifascisti,
dove tra uno scopone e l’altro si ascoltava Radio Londra e «si faceva la jettatura al regime». Nacque così il Circolo dello Scopone, che serviva da copertura contro possibili irruzioni della polizia e che via via si allargò ad altri intellettuali e professionisti (Aldisio, Lo Presti, Guarneri Citati, Chiazzese, Franco Restivo, Enrico La Loggia, ecc.), alcuni dei quali, con il ritorno della democrazia, entrarono a far parte del gruppo dirigente nazionale.
Né maggiore incidenza esterna aveva il dissenso cattolico, che
– specialmente dopo lo scontro del 1931 tra la Chiesa e il fascismo sul problema dell’Azione Cattolica – cominciò a manifestarsi
tra i redattori (Corsaro, Miccichè, Mattarella) della «Primavera
Siciliana» (nel ’39 costretta a mutare la testata in «Voce Cattolica»): la polizia sequestrava sistematicamente il periodico con gli
articoli incriminati e nel ’38 il governo lo denunciò addirittura al
Vaticano come «manifestazione di tendenziosità antifascista». La
stessa attività clandestina dei comunisti non andava oltre una ristrettissima cerchia di persone. È appena il caso di ricordare che
una opposizione aperta al fascismo a Palermo non esisteva più
dalla fine del 1926, quando si era avuto cioè lo scioglimento dei
partiti politici, cui era seguito il nuovo corso della stampa locale. Da allora, l’attività dei gruppi di opposizione costituitisi in
precedenza attorno al duca di Cesarò, ad Alessandro Tasca (i ‘taschettari’, che erano soliti incontrarsi al Caffè Romeres dei Quattro Canti di campagna) e ai fratelli Napoli (il gruppo si incontrava alla Birreria Italia), si era esaurita; e il dissenso, per non incorrere nei rigori della polizia e della legge, o rimase chiuso nell’ambito di una ristrettissima cerchia di amici, se non addirittura della sola famiglia, limitandosi a una pura affermazione di
princìpi, senza tradursi in azione concreta, come nel caso Baviera; o si rifugiò nella clandestinità, come fecero i comunisti. La
VIII. Dopoguerra e fascismo
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città non risulta interessata, se non molto marginalmente, dal fenomeno del fuoriuscitismo all’estero: la via dell’esilio fu percorsa quasi esclusivamente dai mafiosi e pregiudicati che, numerosi, raggiunsero clandestinamente il Nord Africa e le Americhe,
per sfuggire alle larghe retate della polizia. I comunisti – che a
Palermo si rifacevano al bordighismo, una delle correnti del partito – avevano cominciato a operare nella clandestinità sin dai mesi successivi alle amministrative e nel dicembre 1925 avevano tenuto nei giardini della Guadagna il Congresso interprovinciale in
preparazione del III Congresso nazionale, che si svolse poi nel
gennaio successivo a Lione. La delazione del segretario della Federazione consentì però alla polizia di sorprendere i congressisti,
che furono tratti in arresto e inviati al confino o ammoniti. Con
i successivi arresti della seconda metà del 1926 – che portarono
dinanzi al Tribunale speciale l’intero gruppo dirigente palermitano (Fardella, Luciano, Vetri, Travia, Davì, Chiappara, Puglisi,
ecc.), condannato poi a pene dai due ai sei anni di carcere – la
fragile organizzazione clandestina ebbe il colpo di grazia e non
riuscì a sopravvivere.
Il disagio provocato nella popolazione dalla grande crisi che
colpì l’economia mondiale dopo la caduta della borsa statunitense dell’autunno 1929 offrì all’antifascismo italiano l’opportunità di riprendere l’azione di propaganda, che a Palermo la polizia stroncò però agevolmente sul nascere. Al loro arrivo in città
dall’estero con «propositi criminosi», per usare l’espressione delle autorità, furono arrestati l’anarchico Paolo Schicchi di Collesano, uno dei maggiori esponenti del fuoriuscitismo siciliano, e
due suoi compagni, poi duramente condannati al carcere, mentre alcuni frequentatori del Caffè Romeres politicamente sospetti furono identificati e ammoniti. Né sorte migliore ebbe un tentativo comunista di ricostituire le file, affidato a un fuoruscito
giunto appositamente dalla Francia con materiale propagandistico: i partecipanti all’incontro clandestino sul Monte Pellegrino
(Di Gesù, Lampasona, Gianferrara, Spatoliatore, ecc.), traditi ancora una volta da compagni di fede, furono arrestati e inviati al
confino.
La ripresa dell’attività clandestina si ebbe all’inizio del 1934
con la costituzione del Fuai (Fronte Unico Antifascista Italiano),
del quale – diversamente dal passato, quando l’organizzazione
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Palermo
era rimasta quasi esclusivamente nelle mani di operai e artigiani
– facevano parte soprattutto universitari, tra cui alcuni frequentatori della Biblioteca Filosofica e parecchi originari dei paesi dell’interno. Si trattava di giovani di buona famiglia (Sellerio era figlio di un noto docente universitario, Grasso di un professore di
liceo), parecchi dei quali avevano in tasca la tessera del Guf o del
Pnf, talora con iscrizione recentissima, e questo fa pensare che
essa servisse ad allontanare eventuali sospetti della polizia. Il Fuai
intendeva raccogliere in un unico fronte tutte le forze antifasciste del paese, superando il settarismo comunista considerato responsabile degli insuccessi del passato. Si dotò presto di un suo
foglio, «L’Italia Antifascista», stampato a Santa Croce Camerina
e distribuito in numerosi centri dell’isola, grazie ai collegamenti
che in breve tempo era riuscito a stabilire. Non gli fu invece possibile collegarsi efficacemente con l’antifascismo della penisola
per averne direttive e materiale propagandistico, né ebbe il tempo di inviare, come progettava, qualcuno in Francia per prendere contatti con i fuorusciti comunisti, alla cui ideologia si ispiravano i militanti, con l’eccezione di Paolo Arena, nel quale erano
prevalenti le istanze separatiste. Convinto delle «condizioni di
soggezione nella quale la Sicilia è stata sempre tenuta», egli intendeva «promuovere un movimento che liberasse la Sicilia dal
giogo del Regno d’Italia» e non esitava a teorizzare l’opportunità
del ricorso ad azioni terroristiche. Alla stessa arma pensavano anche i due maggiori esponenti del Fuai: Gervasi, l’ideologo del
gruppo, l’unico già in possesso di laurea e in attesa della nomina a ufficiale di complemento, e Grasso, il quale era riuscito a
convincere Sellerio, che preparava l’esame di chimica, a occuparsi dell’esplosivo. Tra gli operai con i quali – tramite la mediazione di Fardella, ritornato dal carcere – si erano messi in contatto
c’era però un delatore e perciò, prima che potessero tentare una
qualche azione, furono arrestati e inviati al confino o sottoposti
all’ammonizione (febbraio 1935).
Per alcuni anni, a Palermo, venne meno qualsiasi attività clandestina: era il periodo della guerra d’Etiopia e il consenso attorno
al fascismo era ancora molto forte, tanto che il regime poteva permettersi, in occasione della fondazione dell’impero, provvedimenti di clemenza di cui approfittarono parecchi confinati per
chiedere la grazia e ottenere che la pena venisse tramutata in am-
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monizione. Via via però che i controlli della polizia si attenuavano, gli ex confinati riallacciavano nuovamente le fila e riprendevano l’opera di proselitismo, con una ben diversa esperienza, maturata proprio negli anni del confino, a contatto con i maggiori
esponenti nazionali dell’antifascismo. Alla vigilia della guerra
mondiale, la rete dei collegamenti all’interno dell’isola era già stata costituita quasi per intero e soprattutto si erano attivati solidi
canali con la penisola, che consentivano all’antifascismo comunista palermitano di uscire dall’isolamento degli anni precedenti.
Al Liceo Umberto, alla fine degli anni Trenta insegnava un
consistente gruppo di professori antifascisti: Giafaglione, Ghera,
Gallo, Lentini, Russo, Lugaro, Borrello, Colozza e qualche altro.
Il loro antifascismo era soprattutto un fatto culturale, che aveva
spesso i suoi punti di riferimento in Croce e Calogero, e consisteva nel costante richiamo ai valori della libertà o nella critica
dell’idealismo gentiliano, cui si dedicava in particolare Gino Ferretti, che insegnava pedagogia a Lettere. Ma i giovani erano capaci di trarne le conclusioni politiche, se quel gruppo antifascista costituitosi tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940, a iniziativa
di Mario Mineo, era formato in buona parte da ex allievi del Liceo Umberto. Si trattava di intellettuali e universitari orientati a
sinistra ma senza una precisa collocazione: Mineo, i fratelli Chiara e Cipolla, Andrea Maggio, Beppe Fazio, Nino Sorgi e altri. Entrarono in contatto con gli azionisti romani, con comunisti milanesi, che fornirono soldi per l’acquisto di un ciclostile, e con altri gruppi antifascisti siciliani e locali, tra cui la cellula comunista di Grasso, mentre senza seguito rimasero i primi incontri con
i separatisti dell’avvocato Sebastiano Purpura, capo di una strana organizzazione che adottava riti e simboli da Beati Paoli, a base di teschi, pistole, giuramenti, ecc. Al gruppo Mineo aderirono successivamente operai e popolani, tra cui un tale Imbrogiano che finì con l’attirare su di sé l’attenzione della polizia, già all’erta per le scritte inneggianti alla libertà e al socialismo comparse nell’ottobre 1941 sui muri di corso Scinà e delle strade adiacenti. Diversamente dal 1935, però, le autorità cittadine – che già
fiutavano il possibile crollo del regime – non andarono troppo a
fondo e perciò quasi tutti – tranne alcuni operai che finirono in
galera e Peppino Chiara al confino per un anno – riuscirono a
mettersi in salvo.
416
Palermo
Il gruppo si sciolse, ma l’attività antifascista in città non venne meno e nel corso del 1942 più volte comparvero sui muri cittadini scritte contro il fascismo e la guerra e inneggianti alla libertà e alla democrazia. La stanchezza per la guerra coinvolgeva
nuovi strati e non furono pochi i fascisti ai quali, tra il 1941 e il
giugno 1943, venne sospesa o ritirata la tessera «per avere dimostrato mancanza assoluta di sensibilità fascista», «nessun senso di
responsabilità e di comprensione del momento attuale», «incomprensione dei suoi doveri di fascista», «abituale assenteismo
e apatia nei riguardi del Pnf», «scarsa fede fascista, facendo apprezzamenti sull’attuale situazione». Mineo riuscì a ricostituire il
suo gruppo poco prima dello sbarco alleato, quando già da tempo i separatisti – sotto la spinta di Finocchiaro Aprile, che a Roma teneva i contatti con l’antifascismo nazionale – avevano costituito un nuovo gruppo antifascista, con a capo Di Piazza. Vincenzo Purpura, che era riuscito a organizzare gli azionisti, avrebbe voluto far precedere l’occupazione alleata della città da una
insurrezione popolare e in tal senso aveva già preso accordi con
gli altri gruppi. Ma Finocchiaro Aprile, che diffidava di qualsiasi coinvolgimento del popolo, si oppose considerandola una mossa avventata. E perciò Palermo – dalla quale federale e prefetto
erano già fuggiti e anche le truppe tedesche si erano allontanate,
dopo avere reso inservibile il porto – dovette arrendersi senza
condizioni al generale Keyes, le cui truppe nel pomeriggio del 22
luglio 1943 entrarono nella città, tra le manifestazioni di giubilo
della popolazione, che già da qualche ora si era data ai saccheggi. La lunga parentesi fascista si era chiusa.
IX
PALERMO CAPITALE
1. Una occasione mancata?
L’istituzione nel 1947 della Regione Siciliana a statuto speciale, con capitale Palermo, rappresenta, dopo l’unificazione italiana del 1860, l’avvenimento più importante della vita della città
negli ultimi centocinquant’anni. In verità, i palermitani non avevano mai rinunciato a considerare Palermo la capitale morale dell’isola. Ma se ciò valeva a gratificare il loro orgoglio, non modificava di tanto il ruolo della città, che non si differenziava granché da quello delle altre due maggiori città isolane. La concessione dell’autonomia alla Sicilia faceva invece di Palermo la sede
dell’assemblea e del governo di una regione a statuto speciale e,
modificandone completamente il ruolo all’interno della Sicilia e
nei rapporti con il resto del paese, aveva conseguenze rilevantissime sul suo sviluppo successivo. Palermo capitale della Regione
Siciliana ritornava a essere punto di riferimento delle forze politiche ed economiche dell’intera isola, che a essa facevano nuovamente capo, come non era più avvenuto da quando la città era
stata ridotta al rango di capoluogo di provincia e le altre città,
soprattutto quelle della parte orientale della Sicilia, avevano alquanto allentato i rapporti con essa, preferendo il collegamento
con il continente e con Roma. La scelta di Palermo come capitale, fieramente avversata da Catania, aveva certo valide ragioni
storiche, ma era anche la conseguenza logica di decisioni e processi maturati nel quinquennio precedente, a cominciare dalla
decisione alleata di trasferire il quartiere generale dell’Amgot (Al-
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Palermo
lied Military Government of Occupied Territory) da Siracusa a
Palermo (agosto 1943).
Oltre che degli uffici centrali dell’Amgot, Palermo diventò anche sede di organi e strutture amministrative di nuova istituzione, che avendo giurisdizione su tutta l’isola la collocavano in una
posizione di preminenza sulle altre città siciliane. E perciò apparve normale, nel marzo 1944, la scelta del governo italiano di
fissarvi la sede dell’Alto Commissariato per la Sicilia e della Giunta Consultiva, primo passo del processo di formazione dell’autonomia regionale. Le discussioni e le polemiche riguardarono semmai l’opportunità della loro istituzione, fortemente voluta dagli
alleati, osteggiata dai separatisti (perché l’ipotesi dell’autonomia
costituiva un colpo durissimo al sogno dell’indipendenza isolana), non gradita agli unitari che temevano potesse favorire un colpo di Stato separatista, subìta infine dal governo italiano.
A fine 1944, la Giunta fu sostituita da una Consulta regionale di 36 membri, con il preciso compito di «esamina[re] i problemi dell’isola, formula[re] proposte per l’ordinamento regionale ed assiste[re] l’Alto Commissario nell’esercizio delle sue funzioni, pronunciandosi sui provvedimenti che saranno sottoposti
al suo esame». La città fu investita allora da un clima politico così acceso e ricco di passioni, quale forse mai si era più avuto dai
mesi che nel 1860 avevano preceduto l’annessione al Piemonte.
La storia della Sicilia si faceva nuovamente a Palermo, in un’atmosfera di elevato impegno ideale, di polemiche roventi, di grandi speranze e di amare delusioni, che coinvolgevano la popolazione come mai era accaduto in passato. Grazie alla diffusione
della radio (molto ascoltata Radio Palermo), alla stampa che aveva ripreso le pubblicazioni e si era arricchita di numerosi nuovi
periodici, al più elevato livello d’istruzione raggiunto dai palermitani, la lotta politica, che già negli ultimi anni prefascisti aveva cessato di essere monopolio di pochi, era seguita ormai da larghissimi strati cittadini, con una partecipazione più consapevole
e sentita.
Al centro del dibattito politico c’era, ormai da mesi, il problema dell’autonomia regionale, che vedeva i vari partiti su sponde
contrapposte e con posizioni differenziate anche all’interno dei
due schieramenti, il separatista e l’unitario. Convinti che l’isola
fosse economicamente autosufficiente, i separatisti, tra le cui file
IX. Palermo capitale
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militavano non pochi esponenti dell’aristocrazia agraria e della
borghesia latifondista, noti mafiosi ed ex fascisti, ma anche larghi
strati popolari, erano fermi sulla pregiudiziale indipendentista.
Fieramente contrari a qualsiasi ipotesi autonomista, essi non andavano oltre una soluzione di cauto federalismo. E intanto si agitavano, minacciavano e non lasciavano nulla di intentato: a fine
marzo 1945 indirizzarono un memorandum ai rappresentanti dei
governi alleati alla conferenza di San Francisco, con il quale ribadivano la «bramosia della Sicilia di erigersi a Stato sovrano e indipendente», esortavano le Nazioni Unite «a volere contribuire a
risollevare l’oppressa nazione siciliana dall’intollerabile situazione
nella quale malauguratamente versa» e minacciavano, altrimenti,
il ricorso alle armi («tutto è pronto a questo scopo»). Non era un
bluff, perché già nella Sicilia orientale si erano formati i primi raggruppamenti militari e a Palermo l’ala estremista, che faceva capo a Lucio Tasca, sindaco della città sino all’agosto precedente,
al figlio Giuseppe, al barone La Motta e all’avvocato Cacopardo
aveva lanciato la campagna di arruolamento nell’Evis (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia) e progettava accordi, poi
realizzati, con il banditismo che allora infestava l’isola e che nella
Sicilia occidentale aveva in Salvatore Giuliano il capo indiscusso.
Più tardi fu istituito anche un corpo militare collaterale all’Evis,
il Gris (Gioventù rivoluzionaria per l’indipendenza della Sicilia),
del quale fecero parte soprattutto studenti, sotto il comando di
Giuseppe Tasca. Nella ricerca spasmodica di una soluzione loro
favorevole, gli indipendentisti non esitarono – dopo essere stati a
lungo in contatto con i repubblicani romani, che speravano in una
loro evoluzione verso il federalismo – ad accantonare la polemica antisabauda e ad allacciare accordi con la Corona per un Regno di Sicilia indipendente sotto Umberto II nel caso di una vittoria repubblicana nel referendum del 1946. Solo quando il sogno di una Sicilia indipendente svanì per sempre e l’autonomia
regionale diventò una concreta realtà, i separatisti si trasformarono nei più accaniti difensori dello Statuto regionale e più volte ne
reclamarono a gran voce la piena attuazione.
L’area socialista era profondamente divisa sul problema dell’autonomia regionale. A livello nazionale, i socialisti erano avversari dell’autonomismo: nell’istituzione delle Regioni essi vedevano un ostacolo alla pianificazione economica nazionale e allo svi-
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Palermo
luppo delle regioni più povere. In Sicilia, il gruppo degli antiautonomisti era piuttosto consistente e al Congresso di Catania del
luglio 1944 riuscì addirittura a far approvare un ordine del giorno in cui si chiedeva l’abolizione dell’Alto Commissariato. I rappresentanti della tendenza marxista-leninista (Mario Mineo, Nando Russo e il gruppo di giovani che a essi faceva capo), accettavano l’autonomia come strumento della politica di classe: finiranno
con l’identificare sempre più la loro posizione con quella dei comunisti, nelle cui file passeranno successivamente. Favorevole a
una larga autonomia era la destra riformista di Bino e Guido Napoli e di Rocco Gullo, il quale nel novembre ’44 aveva sostituito Lucio Tasca ai vertici dell’amministrazione cittadina. Il gruppo dissidente della Federazione Socialista Siciliana (l’ala socialdemocratica che dopo la scissione di Palazzo Barberini del 1947
confluirà nel Psli, assieme ai riformisti di Gullo e dei fratelli Napoli) era per un autonomismo – meglio sarebbe dire ‘semiseparatismo’ – caratterizzato in senso nettamente conservatore.
I comunisti, preoccupati che l’autonomia finisse col favorire
nell’isola le forze reazionarie, avevano messo in minoranza le tendenze federaliste di Grasso e tenevano un atteggiamento di diffidenza se non addirittura di ostilità. E anche se, a livello nazionale, il Pci si era espresso con Togliatti a favore di una sollecita
soluzione del problema siciliano, che rischiava altrimenti di complicarsi e di trasformarsi in problema internazionale, i comunisti
siciliani, come i socialisti del resto, preferivano che il discorso sull’autonomia venisse rimandato alla conclusione delle ostilità e risolto possibilmente in sede nazionale, dove i due partiti contavano un maggior peso che avrebbe potuto orientare il progetto
di autonomia in senso più democratico. Ciò anche quando – grazie a Girolamo Li Causi, dall’agosto 1944 alla guida dei comunisti siciliani – il Pc locale si era convertito all’autonomismo. Convinto interprete della linea togliattiana, Li Causi comprese infatti che l’autonomia poteva trasformarsi da strumento reazionario
in mezzo di redenzione del proletariato siciliano.
Il partito che con maggior convinzione si era schierato a favore dell’autonomia era la Dc, che aveva in tal senso una tradizione risalente al Ppi di don Sturzo e vedeva nell’autonomia l’antidoto migliore contro il separatismo. Già nel Congresso dc di
Caltanissetta (dicembre ’43) era stato approvato un ordine del
IX. Palermo capitale
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giorno Mattarella, in cui si «riafferma[va] la costante e decisa richiesta di largo decentramento amministrativo e [...] l’istituzione dell’Ente-Regione, con ampie autonomie nel campo economico ed amministrativo»; e l’anno successivo nel Congresso di
Acireale Franco Restivo aveva definito il concetto di Regione
(«forma di decentramento autarchico della funzione normativa
dello Stato»), giustificandone l’istituzione in Sicilia, mentre contemporaneamente il vicesegretario nazionale Mario Scelba da Radio Roma aveva auspicato l’immediata attuazione dell’autonomia, senza aspettare la Costituente, come invece chiedevano comunisti e socialisti. I liberali, che in sede nazionale erano in maggioranza antiregionalisti, convenivano sull’opportunità di accelerare i tempi per dotare l’isola di un moderato autonomismo, che
avrebbe tra l’altro posto un argine alle folate sovversive del «vento del Nord» che minacciava di soffiare anche sull’isola. Il Partito d’Azione era invece schierato su posizioni di autonomismo
avanzato e molto caratterizzato in senso sociale: solo così si sarebbe potuto controbattere con successo l’azione dei separatisti,
che gli azionisti accusavano di fare il gioco degli agrari e di collusione con la mafia. Anche i repubblicani, che disponevano di
un quotidiano dal titolo molto significativo, «La Regione Siciliana», erano per una soluzione dichiaratamente autonomista, ma
l’ala federalista del Pri, che riprendeva l’antica polemica nittiana
contro lo sfruttamento del Mezzogiorno, non disdegnava a Roma il colloquio con i repubblicani del Mis (Movimento indipendentista siciliano), proprio allo scopo di favorirne l’evoluzione in
senso federalista. Per l’autonomia più completa dell’isola nel contesto italiano, si batteva anche Democrazia del Lavoro, il partito
del presidente del Consiglio Bonomi rappresentato in Sicilia dagli ex deputati Virgilio Nasi, Guarino Amella, che aveva ormai
abbandonato le sponde separatiste, e all’inizio, prima del suo passaggio al Pli, anche da Enrico La Loggia, autore del noto saggio
Ricostruire (1943), in cui però il problema siciliano è considerato soprattutto sotto l’aspetto del decentramento economico, nella convinzione che il «regionale bisogno, più che di una irrilevante riforma amministrativa [... sia] di un indispensabile e vigoroso impulso ad un industrialismo isolano».
Non è il caso in questa sede di soffermarsi sulla varie tappe,
peraltro abbastanza conosciute, che portarono prima alla formu-
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Palermo
lazione dello Statuto siciliano da parte della Consulta Regionale
e poi alla promulgazione del decreto luogotenenziale 15 maggio
1946 e infine al coordinamento con la Costituzione italiana. Il 20
aprile 1947 si tennero le prime consultazioni per l’elezione, sulla base delle nove circoscrizioni provinciali, dei novanta membri
dell’Ars (Assemblea Regionale Siciliana). I venti rappresentanti
della circoscrizione di Palermo, tra i quali c’erano alcuni inurbati, abitavano – con l’eccezione dei termitani – tutti in città, e perciò non avevano particolari problemi di alloggio. Ben diversa era
la situazione degli eletti delle altre otto circoscrizioni dell’isola,
per i quali si poneva invece il problema del trasferimento settimanale a Palermo, sede dell’Assemblea e del governo regionale.
Alloggiavano solitamente all’Hôtel des Palmes, ma anche negli
alberghi di corso Vittorio Emanuele, il Centrale e il Sole, meno
costosi e più vicini alla sede dell’Assemblea, per la quale era stato scelto l’antico Palazzo Reale, da allora chiamato Palazzo dei
Normanni. Chi ne aveva la possibilità finanziaria (ma non erano
in molti allora!) cominciò a pensare alla opportunità di avere un
proprio pied à terre a Palermo, che diventava indispensabile per
i membri del governo regionale e per tutti coloro che, aspirando
a incarichi più prestigiosi, intendevano mantenere stretti contatti con i centri decisionali della capitale della Regione.
Presidente dell’Assemblea veniva eletto un nisseno di Villalba, l’ex senatore Ettore Cipolla dell’Uomo Qualunque, e da allora la carica non è mai stata affidata a parlamentari nativi della
città. Nisseno di San Cataldo era anche il primo presidente della Regione, il dc avvocato Alessi, e non palermitani erano nove
dei dodici assessori della prima giunta regionale. Per costoro la
permanenza a Palermo era quasi una necessità e alcuni vi si trasferirono definitivamente con le famiglie. Al loro seguito – come
poi al seguito dei successori – giunsero in città i galoppini più fidati, i parenti, gli amici, gli amici dei parenti, i parenti degli amici, sistemati via via nei ruoli dell’amministrazione regionale e dell’Assemblea, negli istituti di credito, negli enti di nuova istituzione, negli uffici di partito, nei sindacati, negli ospedali (tra il
1955 e il 1975, gli addetti ospedalieri passarono da neppure 1.500
a oltre 5.000), ecc. Non c’era membro del governo regionale che
rinunciasse alla opportunità di circondarsi di devoti, riempiendo
il suo ufficio di conterranei. L’assessore che cambiava ramo por-
IX. Palermo capitale
423
tava al suo seguito i più fidati, che venivano abbondantemente
sostituiti dai seguaci del nuovo titolare. Oggi non più, ma duetre decenni fa era ancora possibile stabilire, sulla base delle inflessioni dialettali dei vari impiegati, sotto quale assessore essi
erano stati assunti. Il numero di immigrati a Palermo da ogni parte dell’isola, per coprire i nuovi uffici e dar vita alla burocrazia
regionale, fu veramente notevole. Anche se non esiste una indagine in proposito, non c’è dubbio infatti che i posti di lavoro creati in quegli anni nella capitale dell’isola siano finiti nella stragrande maggioranza ai ‘regnicoli’: l’utilizzazione di elementi locali fu modesta e in ogni caso non proporzionata all’entità della
popolazione della città.
Per lo scarso credito che si concedeva allora alla Regione, gli
statali della città credettero più opportuno rimanere nei ruoli dello Stato, compreso spesso il personale degli uffici e dei servizi
che in base allo Statuto passavano all’amministrazione regionale,
che in buona parte preferì sistemarsi in altri uffici dell’amministrazione statale. E perciò la burocrazia regionale fu costituita essenzialmente dai nuovi assunti con criteri clientelari che tenevano scarso conto dei meriti, delle competenze e persino della fedina penale, come alcuni anni dopo era costretto a riconoscere
l’ex presidente Alessi, quando dichiarava alla Commissione antimafia che tra gli assunti alla Regione per «chiamata diretta» – e
ciò fu norma per molti anni – «parecchie persone risultavano pregiudicate od appartenenti a famiglie sospette di vincolo mafioso». Non a torto il mafioso dc Genco Russo poteva vantarsi di
avere ‘sistemato’ oltre cento picciotti figli di ‘amici’. Tale criterio
di reclutamento fu causa di corruzione della società siciliana, che
da allora utilizzò la politica come il mezzo più sicuro per accedere all’impiego, e inoltre dotò l’Ars e l’amministrazione regionale di una burocrazia inefficiente e fortemente asservita al potere politico, che ha svolto un’azione frenante nel processo di sviluppo dell’isola.
La responsabilità principale di tutto ciò ricade sugli esponenti
del partito che ha avuto il maggiore potere, la Dc, ma i rappresentanti degli altri partiti non ne sono esenti, perché ogni qual
volta ebbero un briciolo di potere non si comportarono diversamente dai dc: qualunquisti, monarchici, liberali, socialdemocratici, repubblicani negli anni dei governi di centro-destra; missini,
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Palermo
socialisti e comunisti all’epoca dei governi Milazzo. Le leggi regionali, che sin dal 1950 proibivano nuove assunzioni senza concorso, rimanevano inapplicate come le famose grida manzoniane. E così, i dipendenti che nel 1950 erano 829, nel ’53 – grazie
all’assunzione di fatturisti, diurnisti e cottimisti – costituivano un
organico di 1.367 posti, ai quali bisogna aggiungere i dipendenti dell’Ars, che hanno un proprio organico piuttosto ampio, sulla cui progressione numerica non si rinvengono dati; e ancora il
personale degli enti finanziati: il solo Eras, l’Ente per la Riforma
Agraria Siciliana, che fu sarcasticamente ribattezzato Ente Rifugio Anime Sperdute, nel 1955 aveva una consistenza di 1.192 addetti, assunti nel triennio precedente. Si trattava, come riferiva
Giuseppe Alessi alla Commissione parlamentare antimafia, di
una turba che ogni mattina faceva la fila dinanzi alla sede dell’ente,
solo per apporre la firma di presenza e quindi andare via, non avendo né funzioni, né tavolo di lavoro. Intere famiglie vi erano collocate, come per ricevere un’assistenza generica in denaro; uno stuolo di
studenti universitari riceveva dall’Eras, a titolo di stipendio o di indennità, quanto abbisognava per pagare la pensione e frequentare
l’Università; un nugolo di consulenti tecnici, di assistenti legali (circa
cento!), di maestri e così via completano il quadro.
I nuovi enti insistono nella scandalosa pratica lamentata. L’Ems
[Ente Minerario Siciliano] distribuisce stipendi vistosi ad impiegati
assunti con criteri politici [...]. Lo stesso deve dirsi della Sofis [Società Finanziaria Siciliana].
Negli anni successivi, nonostante i divieti, continuarono le assunzioni di cottimisti, fatturisti, listinisti, immessi poi in ruolo nel
1959, quando l’organico della sola amministrazione centrale venne portato a 3.567 posti: per i servizi periferici, nel 1957 si era
istituito un apposito ruolo, nel quale trovarono sistemazione altre 1.034 unità. Le difficoltà create dalla legge del ’59 furono superate dai governi Milazzo grazie alle scuole professionali regionali, i cui ruoli furono gonfiati in misura sproporzionata, quando già il loro fallimento era sotto gli occhi di tutti. Né fu bloccato il ricorso all’assunzione di nuovi cottimisti, che per le pressioni sindacali venivano poi inquadrati regolarmente nell’amministrazione, cosicché a fine 1976 la burocrazia regionale aveva
una consistenza di 6.149 unità (di cui solo 500-600 assunti per
IX. Palermo capitale
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concorso), senza contare i dipendenti dell’Ars e degli enti economici finanziati, che qualcuno fa ascendere a circa 7.000.
L’immigrazione a Palermo riguardò anche altre categorie: numerosi, ad esempio, furono negli anni Cinquanta e Sessanta gli
insegnanti elementari della provincia, delle Petralie soprattutto,
che il boom dell’istruzione obbligatoria – conseguenza anche di
un incremento demografico più accentuato che nei paesi – portò
in città come vincitori dei concorsi magistrali. Altri si trasferivano per consentire ai figli di seguire i corsi universitari; altri ancora per trovare occupazione nell’edilizia pubblica e privata, la
cui ripresa era stata piuttosto rapida dopo la fine della guerra,
mentre nei paesi decollerà solo alla metà degli anni Cinquanta,
quando arriveranno le rimesse degli emigrati. E ancora si trasferivano in città contadini, addetti ai trasporti e al commercio, artigiani, domestici, amministratori privati, liberi professionisti,
con numeroso seguito di mogli e figli in condizione non professionale. Nel periodo precedente, l’immigrazione a Palermo era
costituita da qualche proprietario, da qualche ex studente di provincia tra i più bravi che si fermava a esercitare la professione,
ma soprattutto da lavoratori o aspiranti tali, che non trovavano
grosse difficoltà a integrarsi nel tessuto sociale della vecchia città,
finendo con l’assumere la ‘cultura’, i codici comportamentali e
talora persino la parlata dei palermitani con i quali venivano più
a contatto. L’immigrazione che comincia con la fine degli anni
Quaranta attingeva invece largamente, specialmente sino al ’55,
ai ceti intellettuali dell’isola: il 40 per cento degli immigrati – secondo una indagine campione dell’inizio degli anni Settanta –
andò infatti a occupare le posizioni superiori della piramide socio-professionale, grazie al possesso della laurea o del diploma.
Si trattava cioè prevalentemente di lavoratori assai meno disposti a rinunciare alla loro ‘cultura’ e ai valori non urbani ai quali
erano stati educati, che finivano spesso con il costituire un impedimento alla loro piena integrazione nella realtà cittadina. Non
amati e talora snobbati dalla borghesia locale, che ne temeva l’arrivismo e si difendeva accentuando la tradizionale spocchia cittadina contro i «pedi ‘ncritati», i villani coi piedi infangati, che
venivano dai paesi dell’interno, essi, a loro volta, si tenevano lontani dagli ambienti popolari della città e non tralasciavano occasione per manifestare la loro diversità. Finivano così col vivere
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Palermo
alquanto isolati nella vecchia città, mantenendo uno struggente
rapporto affettivo con i centri di provenienza; oppure si ritrovavano con i compaesani e con gli altri provinciali in luoghi convenuti o anche nei club di nuova fondazione, in attesa di costruirsi una loro città, una terza città dopo l’antica e la borghese
costruite tra Otto e Novecento. Furono, infatti, i primi – usufruendo di mutui regionali a cooperative per la costruzione o l’acquisto di appartamenti, o impiegando il frutto della vendita di
qualche appezzamento di terreno in paese, che ai neoburocrati ormai non serviva più – a popolare la città che cominciava a costruirsi a nord-ovest della via Notarbartolo. Una Palermo completamente diversa dalle altre due, diversa nella struttura urbana,
nella struttura sociale, negli stessi abitanti, dove le famiglie di rigorosa origine palermitana costituiscono tuttora una minoranza.
Il movimento migratorio verso Palermo non è quantificabile
con esattezza, perché i più continuarono a mantenere ancora per
anni la residenza legale nei centri di provenienza e molti continuano tuttora, cosicché i dati ufficiali non documentano l’intero
flusso, anche se confermano pienamente la tendenza. In base a
essi, l’immigrazione in città, che nel 1939 era stata di 4.213 unità
(emigrati 2.962), era salita dieci anni dopo (1948) a 11.277 (emigrati 4.309), per mantenersi attorno alle 8.000-9.000 unità l’anno sino al 1953, quando ricomincia una nuova fase ascendente
che tocca la punta massima nel 1956 con 15.960 immigrati (emigrati 9.106), cifra non più superata negli anni successivi. Da allora raramente l’immigrazione è scesa al di sotto delle 10.000
unità l’anno, ma il saldo positivo, già in fase di notevole riduzione verso la fine degli anni Cinquanta, è diventato negativo nel
1961 (14.831 emigrati contro 12.291 immigrati) e ha continuato
a esserlo quasi ogni anno sino ai nostri giorni. Il saldo negativo
dell’ultimo trentacinquennio è l’indice più evidente del malessere della città, il cui sviluppo si era basato esclusivamente sull’espansione della pubblica amministrazione e sull’edilizia, che ormai non offrivano e non offrono più grossi sbocchi occupazionali. Un malessere che è dovuto al fallimento politico della Regione Siciliana, che non è riuscita a porre le premesse per lo sviluppo dei settori produttivi, cosicché ai palermitani che cercavano lavoro non rimaneva che seguire la strada sulla quale, già sin
dall’inizio degli anni Cinquanta, si erano incamminati molti altri
IX. Palermo capitale
427
siciliani: l’emigrazione al Nord e poi all’estero – non tanto però
nelle Americhe come in passato, ma nei paesi dell’Europa continentale – e infine ancora al Nord nell’ultimo venticinquennio.
Nel 1961, che è l’anno svolta, il saldo negativo fu dovuto soprattutto alla emigrazione dalla città di contadini delle borgate e
addetti all’industria manifatturiera ed edile, ai trasporti, al commercio; ai quali si unirono negli anni successivi anche laureati e
professionisti, che trovavano impiego nella pubblica amministrazione del continente. L’emigrazione superò così spesso le 15.000
unità e nel ’68 fu pari addirittura a 18.078, di cui 3.293 per la
Lombardia e 2.778 per il Piemonte. Ma ciò non serviva a rendere meno precaria l’occupazione di coloro che restavano a esercitare i mestieri più vari ed eterogenei e del sottoproletariato della città, costretto spesso a escogitare tutti gli espedienti, leciti e
illeciti, per risolvere il problema del pane quotidiano. Nella seconda metà degli anni Settanta si verificò una flessione dell’emigrazione, che scese spesso al di sotto delle 10.000 unità l’anno,
con una improvvisa impennata nel 1980 (15.980 unità), solo in
parte assorbita negli anni successivi quando i valori annuali si stabilizzarono attorno alle 11.000-12.000 unità. Ancora una flessione nel 1988 (9.945 unità) e – in coincidenza con la ripresa della
crisi economica italiana – un rapidissimo balzo a 13.650 unità
l’anno seguente: livello più volte superato nella prima metà degli
anni Novanta, con una punta di 15.151 unità nel 1991.
Di contro, l’immigrazione – che tra il 1961 e il 1987 si è mantenuta quasi costantemente sulle 10.000-12.000 unità l’anno, con
la punta massima di 13.013 nel 1981 – tra il 1988 e il 1994 si è
abbassata al di sotto delle 10.000 unità e talora anche delle 8.000,
con l’eccezione del 1990, quando per effetto della regolarizzazione della posizione da parte di numerosi clandestini afro-asiatici ha toccato la punta di 10.333 immigrati. Dalla fine degli anni Settanta, inoltre, pur se l’immigrazione dalla provincia e dal
resto dell’isola si è mantenuta ancora largamente prevalente, consistenti apporti sono stati forniti per quasi tutti gli anni Ottanta
dall’emigrazione di ritorno – spesso costituita da elementi anch’essi alla ricerca di una nuova occupazione – e dal 1987 in poi
soprattutto dalla immigrazione di gente di colore dai paesi afroasiatici (quasi 2.000 unità nel 1987), la quale alimenta inoltre una
corrente clandestina che non è quantificabile e che trova allog-
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Palermo
gio in abitazioni fatiscenti della vecchia città. E intanto il saldo
con il resto dell’isola, che per tutto il Settanta era stato attivo, negli anni Ottanta è anch’esso diventato negativo. La situazione si
è cioè completamente ribaltata anche nei confronti della Sicilia:
l’immigrazione di ‘regnicoli’, per i quali gli sbocchi occupazionali in città si sono quasi del tutto esauriti, si è ridotta a cifre più
modeste e, di contro, è cresciuta l’emigrazione dei palermitani
nell’ambito della regione (esempio: 4.635 immigrati dal resto della Sicilia nel 1989 contro 7.846 emigrati). Il saldo negativo con il
resto dell’isola è causato soprattutto dal fenomeno, accentuatosi
negli ultimi anni, del trasferimento della popolazione più giovane nei paesi costieri vicini, un po’ per moda, un po’ per l’effettiva necessità di trovare alloggi a minor costo che in città. Ciò da
un lato ha provocato la crescita sproporzionata dei centri abitati che fanno da corona alla città, la cui popolazione proprio nel
decennio 1981-1991 ha avuto un incremento medio del 13,6 per
cento con punte di oltre il 35 per cento (Isola delle Femmine),
mentre invece la popolazione cittadina cominciava lentamente a
decrescere; dall’altro ha accentuato il fenomeno del pendolarismo, ossia del trasferimento giornaliero in città di numerosi abitanti dei comuni vicini per raggiungere il posto di lavoro, agevolati dal notevole miglioramento dei collegamenti stradali realizzatosi negli anni Settanta. Ma il saldo negativo con il resto dell’isola è anche conseguenza dell’espulsione di forza lavoro dalla
città, che mette seriamente in discussione il ruolo di Palermo capitale, perché una città che non sia più centro di attrazione della forza lavoro della regione forse non può più considerarsi una
capitale. E allora resterebbe da verificare se Palermo non abbia
perduto la più grande occasione del XX secolo per dare una svolta decisiva alla sua storia.
È certo, in ogni caso, che Palermo ha finito col pagare, snaturando se stessa e la sua fisionomia urbanistica, un tributo assai
pesante al suo ruolo di capitale, forse non proporzionato ai vantaggi che le sono derivati. La Regione infatti non solo ha speso
molto poco per la sua capitale, ma non si è mai preoccupata dei
riflessi negativi che la sua presenza ha comportato per la città,
costretta, ad esempio, come se già non bastassero i gravi problemi da risolvere che da sempre si trascinava, a far fronte alle conseguenze del massiccio inurbamento e di un incremento demo-
IX. Palermo capitale
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grafico più accelerato del normale. La popolazione cittadina è ufficialmente passata dai 411.879 residenti del ’36 ai 490.692 del
’51, 587.985 del ’61, 642.814 del ’71, 701.782 dell’81, 698.556
del ’91. L’incremento medio annuo è del 12,75 per mille nel 19361951, quando risente delle difficoltà demografiche degli anni del
fascismo e della guerra, pur essendo tuttavia più elevato che nelle città del centro-nord, dove la guerra è durata più a lungo con
conseguenze più pesanti sul tessuto demografico; sale al 19,83
per mille nel 1951-1961 – quando il saldo migratorio è stato positivo – mantenendosi tuttavia inferiore (di poco) a quello di Catania e (di molto) a quelli di Torino, Milano, Bologna, Roma, ecc.;
crolla al 9,32 per mille nel 1961-1971 – quando il saldo migratorio è diventato passivo – mantenendosi comunque, grazie a un
indice di natalità ancora elevato, al livello delle maggiori città,
con esclusione di Torino; e nel 1971-1981, mentre altrove si può
già parlare di crisi demografica, si mantiene sui livelli precedenti (9,17 per mille), sempre grazie a un più elevato indice di natalità rispetto ad altre città. Ciò le consentirà nell’87 di sorpassare
Genova e diventare la quinta città d’Italia. Ma anche a Palermo
negli anni Ottanta la crescita demografica si blocca e il censimento del ’91 segna rispetto all’81 un arretramento di 3.226 residenti, pari a un decremento medio annuo dello 0,47 per mille,
che si aggrava negli anni successivi se a fine 1995 la popolazione
residente della città risulta ridotta a 691.126 unità.
Il notevole inurbamento degli anni 1945-1968 e il rapido sviluppo demografico hanno provocato una crescita elefantiaca della città e comportato costi eccessivi sotto il profilo urbanistico,
delle infrastrutture e dei servizi, che non si sono assolutamente
adeguati, delle condizioni materiali di vita, soggette a una maggiore inflazione a causa dell’accresciuto flusso di denaro in circolazione, che provocava inizialmente un aumento sproporzionato degli affitti e del costo complessivo della vita e successivamente anche del costo delle nuove abitazioni; e ancora delle condizioni sociali, che hanno risentito i contraccolpi di improvvise e
inspiegabili fortune, della sicurezza pubblica, di tutto quanto infine oggi si indica con il termine vivibilità. E hanno finito quasi
col dare una giustificazione alla inettitudine e agli errori delle sue
amministrazioni.
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Palermo
2. Il reclutamento della classe politica democratica
La massiccia immigrazione dal resto dell’isola, in conseguenza della istituzione della Regione Siciliana e dello sviluppo dell’apparato amministrativo e dei servizi, oltre a creare un nuovo
ceto dirigente, ebbe importanti conseguenze sulla formazione e
il reclutamento della classe politica. Già durante l’occupazione
alleata, parecchi professionisti originari di altri comuni, seppure
residenti ormai da anni e talora da decenni in città, erano assurti a ruoli di primo piano e di grande responsabilità. Spesso erano stati determinanti nella riorganizzazione dei vari partiti politici, di cui costituirono i primi quadri dirigenti. La ripresa della
vita democratica nel 1946 offriva ai candidati nativi della provincia con larga base elettorale in città possibilità di successo superiori a quelle dei candidati di estrazione eminentemente urbana, a conferma di una tendenza emersa sin dalle prime consultazioni con il sistema proporzionale nel periodo prefascista; tendenza che si è sempre più rafforzata negli anni successivi al 1946,
cosicché la deputazione parlamentare della città è stata costituita soprattutto da non palermitani. Ciò sino alle elezioni politiche
del 1994, le quali si svolgevano con un nuovo sistema (uninominale con una quota proporzionale) che, eliminando l’apporto dei
voti della provincia, consentiva l’affermazione dei candidati locali. La rappresentanza parlamentare della città oggi risulta così
interamente costituita da palermitani, perché tali possono considerarsi anche i pochissimi originari di altre parti d’Italia, ma da
tempo fortemente radicati in città per ragioni di lavoro. La rappresentanza parlamentare all’Ars lascia invece ancora larghissimo spazio a esponenti originari della provincia, grazie alla persistenza di un sistema elettorale con collegi su base provinciale.
Ancora all’inizio degli anni Cinquanta, gli inurbati costituivano però una percentuale alquanto contenuta all’interno del mondo politico della città, che continuava a essere costituito essenzialmente da professionisti, imprenditori e funzionari di grado
elevato, spesso eredi della borghesia delle professioni affacciatasi alla vita politica tra Otto e Novecento, i quali avevano fatto
della facoltà di Giurisprudenza un importantissimo centro di potere che consentì loro di occupare tutti gli spazi possibili e di sostituire definitivamente l’aristocrazia come ceto dominante della
IX. Palermo capitale
431
città, sino a quando la nuova immigrazione non creerà un nuovo ceto dirigente (peraltro formatosi anch’esso nelle aule della
stessa facoltà) e comincerà a contendere loro anche il potere politico. Lo stesso Pci, che per primo aveva cominciato a creare una
struttura organizzativa affidata a giovani funzionari di partito,
spesso chiamati dalla provincia, al momento delle consultazioni
elettorali era ancora restio a candidare elementi dell’apparato poco conosciuti e preferiva piuttosto affidarsi a professionisti di
prestigio, oltre che a militanti dal passato glorioso (Li Causi, Colajanni). Così, gli eletti al Consiglio comunale nelle amministrative del novembre 1946 – tra i quali i nati fuori Palermo non sembra superassero la decina – erano nella stragrande maggioranza
professionisti e imprenditori già affermati, con qualche giovanissimo di sicuro avvenire professionale.
Le prime elezioni regionali del 1947 e le politiche del 1948 –
che videro il trionfo della Dc, a danno di tutti gli altri partiti
(97.820 voti, pari al 46 per cento, contro il 19 per cento dei monarchici, il 12,5 per cento dei socialcomunisti, il 7 per cento dei
liberali) – non avevano concesso, se non in qualche caso eccezionale, possibilità di vittoria a candidati sconosciuti provenienti dagli apparati di partito e di organizzazioni collaterali. Poiché
allora non vigeva incompatibilità con la carica di deputato nazionale, alle elezioni regionali alcuni partiti preferirono addirittura ripresentare parlamentari in carica, che conferivano maggiore
prestigio alle liste e fornivano maggiori possibilità di successo. E
perciò la rappresentanza della città all’Ars e al Parlamento nazionale, della quale facevano parte anche alcuni originari di altri Comuni, continuava a essere costituita essenzialmente da esponenti del mondo delle libere professioni.
La situazione cambiava già con le elezioni regionali del 1951,
in cui il blocco socialcomunista, con i suoi 46.390 voti (22,5 per
cento), scavalcava la Dc, crollata al 21,3 per cento, e i monarchici
(19 per cento) venivano superati dal Msi (19,4 per cento), che
ereditava buona parte dell’elettorato dell’Uq. Mentre i partiti minori continuavano ancora ad affidarsi a professionisti e a imprenditori, democristiani e socialcomunisti cominciavano ad attingere ai quadri di partito e di organizzazioni vicine (sindacati,
Azione Cattolica, parrocchie, Acli, ecc.), talora – nel caso dei dc
– già inseriti nella burocrazia regionale, cosicché nella Dc non fu-
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Palermo
rono eletti personaggi come il sindaco Cusenza e il professore
Monastero, docente alla facoltà di Agraria e parlamentare uscente, a favore di due esponenti dell’Azione Cattolica; e tra i socialcomunisti rimasero fuori l’ex indipendentista Varvaro (eletto
però nel collegio di Catania) e il professore Gugino – noto docente di meccanica razionale a Ingegneria e deputato uscente, poco ligio alle direttive del partito e piuttosto incontrollabile –, a
favore di due sindacalisti, uno dei quali poi sostituito da uno sconosciuto dirigente di periferia. Il caso più significativo, che dà
proprio il senso della svolta, era certamente quello che nella stessa lista vedeva protagonisti Cusenza, sindaco per circa 30 mesi,
e Salamone, capo ripartizione al Comune nel ramo della Beneficenza, bocciato il primo, eletto il secondo. Seppure in misura più
modesta, il fenomeno è presente anche alle politiche del 1953 –
Dc 33,1 per cento con 81.140 voti, Pnm 19,1 per cento, Pci 17,2
per cento, Msi 16,4 per cento, Psi 4,8 per cento – e comincia a
toccare i partiti minori: nella lista del Msi venne eletto uno studente universitario nativo di Montemaggiore, che l’anno precedente era stato eletto consigliere comunale della città e finirà con
il costituire un esempio tipico del politico di professione, senza
altro mestiere, come molti altri dopo di lui.
Il nuovo sistema di reclutamento della classe politica trovava
maggiore possibilità di applicazione nelle consultazioni per il rinnovo del Consiglio comunale: già nel 1952, entravano a Sala delle lapidi parecchi sconosciuti attivisti di partito e sindacalisti della Dc, dello schieramento socialcomunista e del Msi, spesso provenienti da fuori città: almeno 20 dei consiglieri allora eletti, cioè
un terzo del Consiglio, risultano infatti nati fuori Palermo. Il sistema si consolidò ulteriormente nelle elezioni della seconda
metà degli anni Cinquanta e si affermò definitivamente nel decennio successivo, quando coinvolse anche i nuovi immigrati, che
rispetto agli autoctoni avevano maggiori stimoli e soprattutto una
migliore conoscenza dei meccanismi elettorali e clientelari, dei
quali molto spesso essi stessi e le loro carriere rappresentavano
l’esempio più convincente.
Risolto, dopo quello dell’impiego, il problema dell’abitazione
di proprietà (più oltre si vedrà come), il nuovo inurbato non perse infatti tempo a tentare la grande avventura politica. Per anni
aveva svolto attività di galoppinaggio a favore del ‘suo’ onorevo-
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le, che intanto era diventato magari assessore regionale o deputato nazionale e nella cui segreteria politica spesso egli continuava a lavorare come distaccato, posizione non prevista da nessuna legge, ma alla quale in Sicilia sino a qualche decennio fa si è
sempre fatto largo ricorso, cosicché era difficile trovare un deputato di parte governativa che non avesse il suo bravo distaccato a disposizione, con pagamento a carico dell’erario pubblico. Costui conosceva gli elettori dell’onorevole, che assisteva da
anni curandone personalmente le pratiche presso vari uffici: pensioni, esoneri militari, ricoveri in ospedale, trasferimenti, segnalazioni, pagamenti, ecc. Il suo desiderio di avanzamento nella scala politica coincideva con quello del ‘suo’ onorevole, cui non dispiaceva poter collocare all’amministrazione comunale, e poi anche all’amministrazione provinciale, persone fidate, che lo rappresentassero e ne tutelassero gli ‘interessi’ anche in quelle sedi.
Non fu perciò affatto difficile per il nostro inurbato concentrare
sul proprio nome il pacchetto di voti della città controllato dall’onorevole e risultare tra gli eletti, scavalcando spesso nomi di
assoluto prestigio, lui completamente sconosciuto persino di nome alla stragrande maggioranza dei palermitani. Se poi il protettore era un presidente della Regione o un ministro, per l’addetto alla segreteria potevano anche aprirsi le porte di Sala d’Ercole e in tal caso era facile raggiungere in fretta i vertici della scala
politica. Il primo gradino rimaneva comunque l’elezione al Consiglio comunale o, dalla fine degli anni Sessanta, al Consiglio provinciale, dai quali poi – grazie alla gestione di un assessorato –
era assai più agevole spiccare il volo su Sala d’Ercole, ma anche
su Montecitorio o su Palazzo Madama: non a caso, infatti, buona parte della classe politica cittadina a livello nazionale sino al
1994 risulta formatasi sui banchi di Sala delle lapidi. Eletto deputato regionale o nazionale, l’ex galoppino si metteva in proprio e creava una sua segreteria politica, da cui negli anni futuri
sarebbero usciti nuovi consiglieri comunali e nuovi parlamentari.
Era questo il canale di reclutamento preferito dai democristiani e, dopo l’avvento del centro-sinistra, anche dai socialisti.
Prima della conquista del potere, i socialisti invece si avviavano
alla carriera politica cominciando da funzionari della segreteria
regionale o provinciale del partito o di organizzazioni di massa:
un canale usato anche da talune forze cattoliche (Acli, coltivato-
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Palermo
ri diretti, ecc.) e dalla metà degli anni Cinquanta in poi soprattutto dai comunisti.
La magistratura ha individuato un altro canale di reclutamento di deputati, senatori e consiglieri comunali nella Sofis (Società Finanziaria Siciliana), ma a me pare che il ruolo inquinante dell’ente regionale, più che nella fase di reclutamento, si sia
esercitato nella fase successiva, cioè nel momento in cui è stato
necessario ribaltare le maggioranze creandone di nuove. Lo stesso può dirsi anche per l’avvocato Vito Guarrasi. Grazie alla «sua
personale disponibilità per le più diverse ideologie politiche» –
come si legge in un rapporto della Questura di Palermo – e ai
suoi legami professionali con grandi agrari e industriali, Guarrasi
è stato da sempre considerato al centro di tutti i misteri di Palermo: dall’operazione Milazzo di cui è stato ispiratore (1958) alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro nella quale è stato
coinvolto dalla stampa con il nome di «mister X»; dai «comitati
di affari» – in cui esponenti dei vari partiti, anche di opposizione,
e imprenditori, talora anche legati a cosche mafiose, avrebbero
gestito i grandi affari cittadini – ai grandi salvataggi industriali a
spese del capitale pubblico, e quindi dei contribuenti. Per il questore Mangano, egli sarebbe addirittura il capo supremo della
mafia, la «testa del serpente». Le accuse a Guarrasi non sono mai
state provate e qualcuna si è anche rivelata del tutto infondata,
ma è indubbio che egli sia stato per quasi mezzo secolo il consigliere discretissimo della classe dirigente e imprenditoriale palermitana, senza distinzione di colore politico: dai gruppi monarchico-liberali nell’immediato dopoguerra alla sinistra socialcomunista come socio fondatore e consigliere della società cooperativa La Voce della Sicilia qualche anno dopo; dal quotidiano
«L’Ora», proprietà di una società vicina al Pci, del cui Consiglio
d’amministrazione è stato membro autorevole, a Silvio Milazzo,
che gli consentì di inventare il fondo di rotazione regionale per
il settore zolfifero, grazie al quale la proprietà delle miniere di
zolfo (ormai fuori mercato) fu trasferita a carissimo prezzo alla
Regione Siciliana; da Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, del
quale era consulente, al dc Graziano Verzotto, presidente dell’Ems (Ente minerario siciliano) nonché inventore della Sitas, una
società a capitale misto con maggioranza azionaria in mano all’Ems, che negli anni Settanta avrebbe dovuto valorizzare le ri-
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sorse turistico-termali di Sciacca e che invece è costata alle casse
della Regione Siciliana somme elevatissime, a vantaggio di privati rappresentati dal Guarrasi e forse anche di uomini politici; dall’Impresa Cassina, i cui interessi egli avrebbe perorato presso il
sindaco Insalaco, agli esattori Salvo, assistiti nella trattativa per il
passaggio delle attrezzature della Satris (la società degli esattori)
alla nuova società pubblica che assumeva la gestione delle esattorie, e ancora all’avvocato Francesco Morgante, socio di minoranza dell’Italkali (la società che gestisce le miniere di sali), al
quale egli presta l’assistenza legale nella strana partita a base di
presunti risarcimenti ingaggiata con la Regione Siciliana. Non c’è
stata davvero in Sicilia operazione economica e finanziaria di una
certa importanza che non sia passata attraverso il suo studio legale. Guarrasi ha trovato certamente facile udienza nelle stanze
del potere siciliano e palermitano, ma è assolutamente da escludere un suo intervento nella fase iniziale del reclutamento degli
uomini politici. Egli entrava in scena successivamente, quando i
provvedimenti da assumere richiedevano la costituzione di una
maggioranza che potesse approvarli. In tal senso, il suo capolavoro resta l’operazione Milazzo, la nascita cioè di un governo che
ha consentito, grazie ad apposite norme legislative, di scaricare
sul bilancio pubblico tutte le iniziative industriali più fallimentari, a cominciare dalle industrie zolfifere.
Più complesso il ruolo degli esattori Antonino (Nino) e Ignazio Salvo, cugini. Di essi cominciò a parlarsi al tempo dei governi Milazzo (1958-1960). Nati entrambi a Salemi, Nino nel 1929
e Ignazio nel 1931, da genitori affiliati alla mafia rurale, si erano
laureati in giurisprudenza presso l’Università di Palermo e, attorno al 1950, avevano cominciato a svolgere attività politica nelle file della Dc trapanese, canale privilegiato per una sistemazione nel settore bancario o tra i ranghi della burocrazia regionale,
che allora costituiva il massimo delle aspirazioni per giovani delle loro condizioni sociali. Impenetrabile, glaciale, abile e diplomatico nell’intrecciare rapporti politici ed elettorali Ignazio, che
non a caso sarà soprannominato «il ministro»; rude e grintoso
quanto estroverso ed esuberante Nino. Qualche incidente di percorso venne facilmente superato: l’assoluzione chiudeva infatti
sia il coinvolgimento di Nino nel ’54 in un’inchiesta giudiziaria
in cui lo zio era accusato di spaccio di dollari falsi a Losanna, sia
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Palermo
l’accusa a carico di Ignazio di oltraggio, resistenza a pubblico ufficiale e grida sediziose, per la quale nel ’55 era finito addirittura in carcere. Il matrimonio nel ’55 con la figlia di Luigi Corleo,
ricco proprietario terriero di Salemi ma soprattutto titolare di alcune esattorie in provincia di Trapani, poneva improvvisamente
Nino a contatto con un settore, quello delle esattorie, allora in
fase di notevole espansione, che gli consentiva di far valere le sue
doti di combattente tenace e spregiudicato e, nello stesso tempo,
di mettere a frutto i collegamenti politici intessuti dal cugino
Ignazio. Il successo nella nuova attività avrebbe avuto per Nino
anche il sapore di una rivalsa nei confronti dei familiari della moglie, che – a causa della sua più modesta estrazione sociale e soprattutto della posizione di pregiudicato del padre – ne avevano
a lungo ostacolato il matrimonio.
Nel 1955, cioè all’atto del matrimonio di Nino Salvo, il panorama esattoriale siciliano – dopo la bocciatura nel dicembre
’50 all’Assemblea Regionale, per un solo voto, della proposta di
legge di istituzione di un ente regionale di riscossione delle imposte – era ancora dominato dall’Ingic (Istituto Nazionale Gestione Imposte di Consumo), un ente di diritto pubblico sorto
per la esazione delle imposte indirette (dazi), che dal ’49 aveva
esteso la sua attività anche alla gestione delle più importanti esattorie dell’isola, tra cui quella di Palermo1, e che proprio allora
1
In precedenza, sino alla fine degli anni Quaranta, le esattorie siciliane più
importanti erano state gestite soprattutto da banche (Banco di Sicilia, Cassa di
Risparmio) e quelle dei piccoli centri da privati: la Cassa di Risparmio per le
Province Siciliane, ad esempio, aveva tenuto la gestione dell’esattoria di Palermo sino al 1942, quando le subentrò una società privata (Aloschi-Pagoto-Pizzuto-Ruggeri), cui seguì più tardi l’Intendenza di Finanza e infine l’Ingic, inizialmente come delegata governativa e poi in appalto. La soppressione nel 1950
di un’addizionale di aggio istituita qualche anno prima convinceva infatti parecchi esattori siciliani dell’opportunità di rinunciare alla gestione in appalto,
cosicché alcune esattorie – tra cui quelle dei grandi comuni – in assenza di privati disposti ad assumerne la gestione finirono in delegazione governativa. Molto spesso, però, l’appalto deserto era il frutto di accordi tra gli stessi esattori, i
quali poi riottenevano il servizio in delegazione governativa, che comportava
la facoltà di chiedere (allo Stato sino al ’53 e poi alla Regione Siciliana) il rimborso degli oneri non coperti dalle normali entrate. Fu così che enti come l’Ingic e società come la Sari, che sino ad allora in Sicilia si erano occupati esclusivamente dell’esazione di dazi indiretti, cominciarono a inserirsi nel settore delle esattorie, agevolati anche dal ritiro del Banco di Sicilia e della Cassa di Ri-
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cominciava a essere oggetto di un’inchiesta della magistratura italiana per quello che sarà poi definito lo «scandalo Ingic», consistente nel versamento di «tangenti» ai maggiori partiti italiani per
ottenere l’appalto delle imposte in diversi Comuni2. Per il resto
– se si eccettuano le poche in mano alla Cassa di Risparmio per
le Province Siciliane e alla Sari (Società per Azioni Riscossione
Imposte), una grossa società fiorentina che si era anch’essa inizialmente occupata di imposte indirette3 – le esattorie siciliane
erano gestite da privati come Corleo o da piccole società come
la Satris (Società per Azioni Tributaria Siciliana), che – costituita a Messina alla fine del ’46, sotto la protezione della Sari, da
Francesco (Ciccino) Cambria, segretario comunale di Floresta, e
da alcuni prestanome di Rosario Iuculano, dirigente della stessa
Sari – aveva in appalto l’esazione delle imposte dirette in una decina di comuni dei Nebrodi.
Già allora – per effetto della legge regionale che prorogava gli
appalti, tenacemente voluta dall’assessore La Loggia e approvata, per un solo voto, con l’appoggio determinante del Msi nel giusparmio, solo in parte giustificato dal fatto che, rispetto agli esattori privati, i
due istituti di credito avevano spese di gestione superiori. Eppure nel resto dell’Italia gli istituti di credito continuavano a gestire la maggior parte delle esattorie. È lecito perciò il sospetto di una ben precisa volontà dei due maggiori Istituti siciliani di lasciare libero campo agli esattori privati appoggiati dai partiti
di maggioranza.
2
Proprio nel ’55, il Consiglio di Giustizia amministrativa prima e il Consiglio di Stato dopo annullavano la concessione dell’esattoria di Catania all’Ingic, perché la gestione di esattorie non rientrava nei suoi compiti istituzionali,
ma il governo regionale si guardava bene dal procedere alla revoca, né per Catania né per le altre esattorie gestite dall’Ingic, con la scusa «dei gravissimi inconvenienti che sarebbero derivati dalla interruzione anticipata [... e] in vista
anche della scadenza, col 31 dicembre 1958, delle gestioni esattoriali dello stesso Ingic».
3
La Sari era stata costituita a Firenze nel 1935 da Giovanni Matteini, il
quale aveva subito assunto come suo principale collaboratore Rosario Iuculano, nativo di Floresta (Messina) ma vissuto a Trapani, dove – seppur giovanissimo – aveva maturato una preziosa esperienza nel settore daziario che in
breve tempo lo spingeva ai vertici dell’azienda fiorentina. Con la Sicilia Iuculano continuò a mantenere rapporti di affari – come meglio vedremo più oltre
– ma anche affettivi. Egli infatti ritornò a Floresta all’inizio degli anni Quaranta
per sposare in seconde nozze la figlia dell’esattore comunale Trapanotto e più
tardi inserì nel mondo delle esattorie i fratelli Lombardo di Trapani, suoi cugini di primo grado, mentre una loro sorella sposava uno dei fratelli Cambria,
Carmelo, anch’egli nativo di Floresta.
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gno ’52 – non pochi esattori siciliani percepivano l’aggio massimo del dieci per cento: un aggio cioè scandalosamente elevato,
più alto che in ogni altra parte d’Italia, ma che in Sicilia si giustificava col fatto che nel ’51 solo poche esattorie erano riuscite
a raggiungere un incremento dei carichi superiore di quaranta
volte rispetto a quelli del ’43. Si dimenticava volutamente, ad
esempio, che le esattorie dei piccoli centri venivano gestite a livello familiare dagli stessi esattori, con spese modestissime quindi, e che laddove, come nei grandi centri, si pagavano salari, si
trattava di compensi assai modesti, ben lontani da quelli contemporaneamente corrisposti nel settore pubblico o parapubblico4. La determinazione dell’entità dell’aggio e l’opportunità del
rimborso di spese erano affidate alla discrezionalità dell’assessore regionale alle Finanze, il quale veniva così a concentrare nelle
sue mani un notevole potere, esercitato a favore di esattori amici che da un lato gli garantivano appoggio elettorale e assunzione di personale, dall’altro si trasformavano presto in un potente
gruppo di pressione capace di influire sul reclutamento stesso degli uomini politici, sulle loro decisioni e sulla vita delle istituzioni. Si innescava quindi un perverso rapporto politica-esattorie
che non poco contribuiva a rendere via via sempre più inquinata e corrotta la vita politica siciliana.
L’atto di nascita della lobby degli esattori è del 28 dicembre
1956, quando a Palermo presso il notaio Cesare Di Giovanni venne costituita la Sigert (Sicilia-Gestioni Esattorie Ricevitorie Imposte e Tesorerie), con un capitale sociale di 50 milioni in diecimila azioni da lire cinquemila, sottoscritte da una cinquantina di
esattori in maggioranza provenienti dalla Sicilia centro-orientale,
soprattutto da Messina, Catania e Siracusa. I maggiori azionisti
erano la Sari, rappresentata da Francesco Cambria (1.000 azioni), la Gerit di Roma (1.000 azioni), l’ingegnere Ettore Liotta (nativo di Floresta e domiciliato a Noto, 600 azioni), il dottor Luigi Corleo (600 azioni), la Satris (400 azioni)5. L’operazione quin4
Ad esempio, gli impiegati delle esattorie gestite in delegazione dalla Cassa di Risparmio solo nella prima metà degli anni Sessanta ottennero l’applicazione della scala mobile e il riconoscimento del diritto alle ferie.
5
Con 400 azioni cadauno troviamo anche il rag. Giuseppe Morales di Caltanissetta, il comm. Saro Grassi Bertazzi di Acireale, il comm. Mariano Mau-
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di nasceva nel messinese, sotto l’egida di Cambria – che era contemporaneamente il rappresentante della Sari e il maggiore azionista della Satris – e coinvolgeva anche il più importante esattore della Sicilia occidentale, Corleo, mentre lasciava completamente fuori l’Ingic, di cui si intendevano raccogliere le spoglie
alla scadenza delle gestioni esattoriali fissata allora per il 31 dicembre ’58. I Salvo non erano tra i soci, ma Nino – in rappresentanza del suocero – riusciva a entrare nel CdA della società,
che aveva come presidente Francesco Cambria. Si saldava allora
l’asse Cambria-Salvo, destinato a influenzare pesantemente le vicende e le scelte politiche siciliane degli anni successivi, grazie alla creazione di maggioranze di comodo che non escludevano talora il concorso determinante di elementi dell’opposizione.
L’elezione di Silvio Milazzo alla carica di presidente della Regione Siciliana (ottobre 1958) sembrò bloccare l’ascesa del gruppo, molto legato all’ex assessore alle Finanze La Loggia, il creatore di quella infernale macchina mangiasoldi che si rivelavano
le esattorie, il quale era la prima grande vittima dell’operazione
Milazzo. Ignazio Salvo vedeva bloccata e poi revocata la sua nomina a presidente del Consorzio del Birgi di Trapani e quando
l’assessore alle Finanze Bianco revocò finalmente le concessioni
esattoriali all’Ingic (dicembre ’58), ad avvantaggiarsene non fu il
gruppo Cambria-Salvo, ma la Saric di Roma, che le ottenne a trattativa privata. Nel novembre ’59 inoltre socialisti e comunisti presentarono un disegno di legge per l’istituzione di un Ente regionale per la riscossione dei tributi (proposta già bocciata per un
voto nel 1950), che – se approvato – avrebbe determinato la chiusura delle esattorie private. Sulla base degli atti, non sembra perciò che con i governi Milazzo il gruppo Cambria-Corleo facesse
inizialmente grandi passi avanti. E si comprende allora perché,
alle elezioni regionali del ’59, l’assessore alle Finanze del primo
governo Milazzo, il monarchico messinese Annibale Bianco, non
sia stato più rieletto. Nel trapanese, l’esattore Corleo e i Salvo
continuarono ancora ad appoggiare la Dc.
L’incontro tra il gruppo Cambria-Corleo-Salvo e il governo
Milazzo avvenne a fine dicembre ’59. Milazzo era stato appena
geri di Acireale, Vincenzo Di Pasquale di Palermo e il Banco di Sicilia. Tra i
soci, con 30 azioni, anche il mafioso Matteo Vallone di Prizzi.
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rieletto per la terza volta e gli incarichi assessoriali non erano stati ancora assegnati. Assessore uscente alle Finanze, sia pure in attesa di riconferma, era l’ex monarchico catanese Benedetto Majorana della Nicchiara, che già allora si preparava in segreto a sostituire Milazzo alla guida della Regione. In quella fase, i poteri
dell’assessore non andavano quindi oltre l’ordinaria amministrazione. E tuttavia Majorana non perse tempo a decretare – in risposta a un ricorso della Associazione degli esattori della provincia di Trapani (ossia di Corleo) – la revoca dell’assegnazione
alla Saric delle dodici esattorie (tra cui Palermo) sottratte all’Ingic l’anno precedente6. La revoca, non preceduta da alcuna contestazione, veniva motivata col fatto che al capitale sociale della
Saric era interessata, sia pure marginalmente, l’Ingic. Otto giorni dopo, senza attendere l’esito del ricorso della Saric al Consiglio di giustizia amministrativa, le stesse esattorie – che godevano di un carico di imposte di ben 14 miliardi, ossia di oltre il 40
per cento del carico tributario dell’intera isola – furono conferite alla Sigert. Per i Cambria-Corleo-Salvo, che avevano il controllo della Sigert, era il primo importante scalino verso un’ascesa ormai inarrestabile.
Il ‘benefattore’ del gruppo Cambria-Corleo-Salvo non fu
quindi Milazzo, come spesso si è detto, bensì Majorana della Nicchiara, che meno di due mesi dopo – con l’appoggio determinante degli esattori – riusciva così a sostituire Milazzo alla guida
del governo regionale (febbraio ’60). La caduta definitiva di Milazzo (travolto anche da un tentativo di corruzione non riuscito)
era il frutto di un accordo tra la Dc, che non si era mai rassegnata alla perdita del potere, e il Majorana, che per l’occasione
rientrava tra le file monarchiche. L’operazione però non si sarebbe potuta realizzare senza il ritorno tra i monarchici – favorito dal capomafia ‘don’ Paolino Bontate – dei due dissidenti, Pivetti, assessore in tutti i governi Milazzo, e Antonino Paternò di
Roccaromana; e soprattutto senza il voltafaccia di due parlamentari eletti nella lista dell’Uscs di Trapani (Barone e Spanò),
sollecitati dalla famiglia Corleo-Salvo e sembra anche dalla ma6
Si trattava delle esattorie di Palermo, Barcellona Pozzo di Gotto, Castelvetrano, Favara, Lampedusa, Marsala, Montevago, Palma Montechiaro, Pantelleria, Ravanusa, Riesi ed Erice.
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fia trapanese. Fu così che il gruppo Cambria-Corleo-Salvo si assicurò quella che con un eufemismo l’onorevole Mannino ha
chiamato più tardi «una sorta di benevolenza» da parte della Dc,
la quale pochi mesi dopo riprenderà definitivamente in mano le
redini del governo regionale e continuerà a tenerle ininterrottamente sino al 1995. La «benevolenza» dc significava per i Cambria-Corleo-Salvo mano libera nel lucrosissimo settore delle esattorie, in cambio di appoggi elettorali e di robuste sovvenzioni,
che talora si estendevano anche agli altri partiti, opposizione
compresa. Non a torto, Nino Salvo un quarto di secolo dopo poteva infatti dichiarare alla magistratura «che le esattorie hanno
ampiamente finanziato tutti i partiti indistintamente, compresi il
Msi ed il Partito Comunista, e ciò soprattutto in periodo elettorale». Gli esattori ovviamente intervenivano anche nei momenti
di difficoltà delle giunte regionali a guida dc. Ecco come, secondo il racconto di Lucio Galluzzo:
Rannicchiato su uno scomodo divanetto all’angolo della Sala dei
Viceré di Palazzo dei Normanni, sornione, sarcastico, ironico, don
Ciccino Cambria [...] non si alzava mai dal divano. Erano gli ‘onorevoli’, i politici della Regione, ad avvicinarlo ossequiandolo con caloroso rispetto. Poi, dopo brevi parlottii, una calorosa stretta di mano
e i rappresentanti dell’autonomia siciliana si congedavano dal Grande esattore, entravano nell’adiacente Sala d’Ercole e facevano il loro
dovere. Lui, don Ciccino, mentre i parlamentari erano inghiottiti dall’aula commentava: «Ma quanto mi costi...». Così nacquero e morirono, dopo quelle calorose strette di mano, nel segreto dell’urna venti anni di governi della Regione. Nascevano quando potevano garentire la costruzione prima ed il mantenimento poi di un formidabile
centro di potere finanziario e politico e morivano quando non potevano o, peggio, lo avversavano.
Allo scopo di «affrontare le necessarie spese per garantire la
sopravvivenza dell’intera categoria» degli esattori, ossia per l’esercizio della corruzione e il versamento di «tangenti», nel febbraio ’62 presso la Sigert si costituì addirittura un fondo extra
bilancio, «con facoltà di disporre discrezionalmente e senza obbligo di rendiconto». Il pericolo per la sopravvivenza degli esattori non era inventato: all’Assemblea Regionale si sarebbero presto discussi i disegni di legge d’iniziativa parlamentare sulla isti-
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tuzione di un Ente regionale per la riscossione dei tributi (oltre
quello socialcomunista di cui si è detto, uno presentato dai missini e l’altro dai parlamentari dc della Cisl) e uno di iniziativa governativa sulla riconferma delle esattorie per il decennio 19641973. Peraltro, primo firmatario di uno dei disegni di legge di
iniziativa parlamentare era il socialista ennese Michele Russo,
presidente della Commissione legislativa «finanza e patrimonio»
che avrebbe dovuto discutere l’intera materia; e tra gli altri otto
membri della commissione ben quattro risultavano firmatari di
analoghe proposte (un dc, un socialista e due comunisti). All’interno della Commissione finanza, inizialmente la maggioranza
(cinque su nove) era quindi per l’istituzione dell’Ente regionale.
Ma al momento della votazione, il presidente Russo votò la proposta di proroga del governo del dc D’Angelo, i due comunisti
si astennero, l’altro socialista risultò assente e così l’unico voto
contrario alla proroga fu quello dell’onorevole dc Giuseppe Celi, sindacalista della Cisl. A fine dicembre ’62, anche l’Assemblea
approvava la proroga con 35 voti favorevoli e 27 contrari su 90
parlamentari. Non è inopportuno rilevare che, se la Dc – sostenitrice della proroga, con l’eccezione dei quattro parlamentari
della Cisl – era presente in massa con soltanto il 17,65 per cento degli assenti, tra i socialisti gli assenti costituirono ben il 63,64
per cento, tra i comunisti il 35 e tra i missini il 33,33. Forse qualcuno dei voti a favore fu il frutto di una corruzione, ma forse anche alcune assenze lo furono.
La legge così approvata prevedeva che «nessun esattore può
ottenere il conferimento o comunque l’assegnazione di un numero di esattorie il cui carico complessivo di riscossione superi,
nell’anno 1962, le lire 20 miliardi». Questo significava per la Sigert la rinuncia ad alcune delle 33 esattorie da essa gestite. Ma
prima ancora che la legge venisse pubblicata sulla «Gazzetta Regionale», la gestione dell’Esattoria di Palermo, nel giro di quattordici giorni, passava con una scrittura privata dalla Sigert alla
Sagap, grazie all’intervento determinante del sindaco Lima, il
quale si impegnava personalmente in una corsa contro il tempo
per la definizione di tutti gli adempimenti necessari, che altrimenti avrebbero richiesto parecchi mesi: registrazione della scrittura privata, approvazione della commissione di controllo, decreto del prefetto, contratto con il Comune, decreto di conces-
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sione dell’assessore regionale alle Finanze. D’altra parte, l’Esattoria di Palermo costituiva un boccone troppo ghiotto (da sola
nel ’61 aveva un carico di quasi 13 miliardi sui 19,4 gestiti dalla
Sigert) per lasciarla ancora in mano alla Sigert, nella quale i Cambria-Corleo – anche se ne avevano il controllo – detenevano pur
sempre partecipazioni modeste, stabilite per statuto. E perciò nel
luglio ’60 essi avevano costituito la Sagap (Società per Azioni Gestione Appalti Pubblici), con un capitale di dieci milioni per 100
azioni da lire 100.000, ripartito esclusivamente all’interno del
gruppo: 3 milioni a Ignazio Salvo, 1 a Francesca Maria Corleo
(moglie di Nino), 2 a Nino Salvo, 3 a Francesco Cambria e 1 al
fratello Carmelo. Al momento opportuno, la Sagap entrava così
in scena, lasciando alla Sigert appena le briciole, tanto che qualche anno dopo la sua sede sociale verrà trasferita a Messina. È
appena il caso di sottolineare che una società con un capitale sociale di appena dieci milioni (l’equivalente del costo di un buon
appartamento nelle zone nuove della città) veniva a gestire tributi per 13 miliardi, con un aggio del 9,87 (9,4 in precedenza),
pari cioè a 1,3 miliardi l’anno. La gestione dell’Esattoria di Palermo, interamente nelle mani delle famiglie Cambria-Salvo, costituì per il gruppo la base della costruzione di un grande impero finanziario, che con gli anni i cugini Salvo estesero anche al
settore alberghiero, alle cantine sociali e alle aziende agricole specializzate, che finiranno con l’assorbire la gran parte dei contributi agricoli della Comunità Europea e della Cassa del Mezzogiorno destinati alla Sicilia. Se Corleo continuò a vivere a Salemi
sino al suo rapimento nel 1975 e don Ciccino Cambria non volle mai lasciare definitivamente Messina, Nino e Ignazio Salvo all’inizio degli anni Sessanta si trasferirono definitivamente a Palermo, non solo per seguire meglio l’attività dell’Esattoria, ma anche per ottenere nuove concessioni e favori (altre esattorie e «tolleranze», ossia lunghe proroghe sulle date di scadenza dei versamenti a favore delle casse regionali, che equivalevano a dei veri
e propri prestiti senza interessi a favore degli esattori) da tutti indistintamente gli assessori regionali alle Finanze e controllare più
da vicino la vita politica siciliana, a sostegno di Lima nel palermitano, della corrente dorotea e dei suoi esponenti nel trapanese, e in particolare di Ruffini che ne era il capo in Sicilia. Ciò senza escludere rapporti con candidati di altri partiti, usati poi – al
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momento opportuno – «come tramiti per costruire accordi politici su determinate operazioni economiche». Membri autorevoli
della ‘famiglia’ mafiosa di Salemi, a Palermo i due cugini assunsero anche un ruolo di cerniera tra politica e mafia, instaurando
rapporti con i Bontate, Badalamenti, Buscetta e altri, che contribuivano ad aumentarne notevolmente il potere e la ricchezza7.
7 Il numero delle esattorie in mano al gruppo Cambria-Corleo-Salvo si accrebbe notevolmente nel 1966, quando la Satris ottenne dal dc ennese Giuseppe Sammarco, assessore alle Finanze nel primo governo Coniglio, ben 72
esattorie sottratte alla Cassa di Risparmio V.E. che le gestiva in delegazione e
che era disposta ancora a tenerle. La Sigert, nella quale la partecipazione azionaria dei Cambria era salita intanto al 20 per cento e così pure quella dei Corleo-Salvo, usciva quasi di scena e si trasferiva a Messina. Di contro la Satris trasferiva a Palermo la sua sede legale e i Corleo-Salvo entravano a far parte della società. Il capitale sociale della Satris, elevato a cento milioni, risultava infatti così ripartito: 19 milioni Francesco Cambria, 8 Giuseppe Cambria (figlio
di Francesco), 6 Carmelo Cambria (fratello di Francesco), 23 Nino Salvo, 4
Luigi Corleo, 6 Gaetano Corleo (figlio di Luigi), 10 Ignazio Salvo, 4 Rosario
Iuculano, 2 Rosaria Lando ved. Trapanotto (suocera di Rosario Iuculano), 18
Giacoma Trapanotto (moglie di Rosario Iuculano). In totale quindi il gruppo
Corleo-Salvo con un capitale di 43 milioni deteneva il 43 per cento della Satris, ossia la maggioranza relativa, contro il 33 per cento della famiglia Cambria e il 24 per cento della famiglia Iuculano-Trapanotto, da circa un trentennio residente a Firenze ma legata ai Cambria. Analoga era, contemporaneamente, la ripartizione del capitale sociale (cento milioni) della Sagap: 43 per
cento risultava in mano alla famiglia Corleo-Salvo (130 azioni su 1.000 appartenevano a Nino Salvo, 100 alla moglie, 100 a Ignazio Salvo, 100 a Luigi Corleo), 33 per cento ai Cambria (90 azioni a Francesco Cambria, 90 al figlio Guglielmo, 90 al figlio Giuseppe, 60 al fratello Carmelo) e 24 per cento agli Iuculano (160 a Rosario Iuculano, 80 al figlio Gaetano). Nel 1974 la Sagap venne incorporata dalla Satris, il cui capitale passava a duecento milioni, mentre
il rapporto percentuale tra le varie partecipazioni rimaneva inalterato.
Il notevole rafforzamento del gruppo nella prima metà degli anni Sessanta
fu tale che esso era ormai in condizione, nella varie consultazioni elettorali, non
solo di favorire i candidati amici, ma anche di punire gli avversari sino alla sconfitta, come dimostrano i casi D’Angelo e Cangialosi. L’onorevole D’Angelo,
parlamentare dalla prima legislatura (1946) e presidente della Regione dal ’61
al ’64, era stato tra i pochi dc a battersi contro il regime delle «tolleranze». Alle elezioni regionali del ’67, egli che era stato sempre il primo eletto in provincia di Enna, perdette oltre diecimila voti e così non solo fu scavalcato da
Sammarco, l’assessore alle Finanze che aveva concesso ai Cambria-Salvo le esattorie della Cassa di Risparmio, ma perdette anche il seggio, che passò ai socialisti, cioè al partito nel quale militava l’assessore alle Finanze del tempo, il marsalese Francesco Pizzo. A Trapani, invece, il dc Cangialosi (del gruppo di parlamentari sindacalisti che avevano avversato il rinnovo delle gestioni esattoriali private nel ’62) perdeva contemporaneamente quasi 4.000 voti e veniva bat-
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Le recenti vicende giudiziarie hanno confermato che anche la
mafia ha costituito un canale di reclutamento del ceto politico.
All’appoggio della mafia a favore di taluni candidati dell’area governativa in verità si era sempre pensato, ma nessuno avrebbe
mai potuto credere che da decenni essa eleggesse suoi esponenti al Consiglio comunale, in quello provinciale, alla Regione, al
Parlamento nazionale. Si tratta spesso di professionisti insospettabili, talora anche affermati, che aderiscono segretamente all’organizzazione mafiosa e la rappresentano nei vari organismi
politici e persino di governo. E – come rileva Umberto Santino
– la mafia non solo interviene nella formazione delle rappresentanze nelle istituzioni, «attraverso la selezione dei quadri, l’appoggio nelle campagne elettorali, il controllo del voto, la partecipazione diretta di [suoi] membri [...] alle competizioni elettorali e alle assemblee elettive»; ma è anche in grado di attuare una
forma di «controllo/gestione delle istituzioni politico-amministrative, attraverso rapporti con gruppi politici e apparati burotuto da Salvatore Grillo, il candidato dc fortemente appoggiato dai Corleo-Salvo. Finanziamenti – secondo un rapporto dei carabinieri – ricevettero in quella tornata elettorale il dc catanese Coniglio, presidente uscente della Regione,
e il dc messinese Santalco.
I favori del mondo politico regionale ai Cambria-Salvo continuarono anche negli anni Settanta-Ottanta: nell’agosto ’73, a Roma, una commissione di
15 deputati e di 15 senatori, controllati a vista da don Ciccino Cambria, concedeva la proroga delle esattorie per altri dieci anni. Per l’occasione era decisivo il ruolo svolto nella capitale dai parlamentari siciliani: i dc La Loggia, Ruffini, Lima, Carollo; il repubblicano Mazzei e il socialista messinese Cascio, che
votava a favore contrariamente alle indicazioni del suo partito. E nel ’75 l’assessore regionale alle Finanze Calogero Mannino, cui gli esattori dovevano già
la concessione di alcune «tolleranze», concedeva loro anche l’esattoria di Siracusa, prima ancora che i precedenti titolari si fossero ufficialmente ritirati.
Quando poi, in seguito alle varie riforme tributarie degli anni attorno all’80 che
disponevano il pagamento diretto di alcuni tributi e la riduzione degli aggi, la
gestione delle esattorie cominciò a rivelarsi deficitaria, la Satris non ebbe difficoltà – nell’estate dell’82 – a lasciare, prima della scadenza del 31 dicembre
1983, l’attività nelle mani della Soged Spa (Società di Gestioni Esattoriali in
Delegazione Governativa in Sicilia) – appositamente costituita tra Banco di Sicilia e Cassa di Risparmio – che le subentrava come delegata governativa e ne
acquisiva in uso le attrezzature e i locali dietro pagamento di un canone annuo
esorbitante: ben otto miliardi e mezzo, contro una stima da parte dei periti nominati dalla magistratura di cinque miliardi. Inoltre, nessuno ha mai chiesto alla Satris il risarcimento dei danni provocati dalla sua unilaterale interruzione
del servizio.
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cratici, dagli Enti locali alle istituzioni centrali». Non sembra invece, alla luce almeno delle attuali conoscenze, che la Massoneria palermitana svolgesse un ruolo attivo – e comunque di rilievo – nelle competizioni elettorali, pur costituendo un forte centro di potere dove, come nella loggia di via Roma 391, si incontravano mafiosi del calibro di Salvatore Greco, l’«ingegnere»,
magistrati, professionisti come Vito Guarrasi e imprenditori come Nino Salvo. Massoni erano anche Michele Greco il «papa» e
Stefano Bontate, il quale negli anni Settanta – e sino al suo assassinio nell’81, durante «la seconda guerra di mafia» – monopolizzò i rapporti con la Massoneria e la politica.
Dopo quanto si è detto, può concludersi che alla base del reclutamento della classe politica – a Palermo come altrove, è giusto dirlo – non c’è stata la normale dialettica dei partiti, ma una
vasta rete di sottopartiti che vivevano di clientele e privilegiavano gli interessi del clan su quelli della città, non disdegnando accordi con i grandi imprenditori e le imprese che gestivano i principali servizi comunali, e contatti con il potere mafioso, di cui talora erano addirittura espressione.
Tali sistemi di reclutamento non concedevano ovviamente
molto spazio ai migliori, a meno che non decidessero di candidarsi da indipendenti nelle liste del Pci, col risultato di ritrovarsi poi a dover fare i conti con un robusto apparato di partito, poco disposto a concedere grossi margini di autonomia. E inoltre,
anche se non si può dire che emarginassero gli autoctoni, non c’è
dubbio che beneficassero soprattutto gli immigrati, innescando
un avvilente processo di ‘paesanizzazione’ di tutta la vita cittadina. Fu così che Sala delle lapidi, da un lato, ancor più che in età
giolittiana, si popolò di personaggi oscuri, rampanti, senza mestiere se non quello di politico di professione (di parecchi assessori e persino di qualche sindaco, uno dei quali diventato anche
deputato regionale, mai nessuno ha conosciuto il mestiere), che
non rappresentavano più la città, ma soltanto se stessi e colui cui
dovevano l’elezione; dall’altro, risultò sempre più lottizzata sulla
base della forza elettorale dei diversi capicorrente. L’arroganza
del potere consentiva di poter presidiare alcuni livelli istituzionali (Comune, Provincia) con truppe di ripiego e perciò, in rappresentanza del ‘suo’ onorevole, l’inurbato cominciò a sedere
spesso anche sulla poltrona assessoriale: nella giunta presieduta
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da Paolo Bevilacqua nel 1966 gli immigrati erano almeno sette,
sindaco e vicesindaco compresi. Anzi, da allora, il sindaco è stato quasi sempre un immigrato e spesso lo è stato anche il vice.
Nel Consiglio eletto nel 1980, quasi i due terzi dei consiglieri erano nati fuori Palermo e ciò spiega perché, nell’ultima giunta presieduta dal messinese Martellucci a fine 1984, gli assessori nativi
di Palermo fossero appena cinque su sedici: gli altri, tra cui il vicesindaco, erano nati a Cerda, Villabate, Cefalà Diana, Termini
Imerese, Salemi, Ravanusa, Partinico, Barcellona Pozzo di Gotto, Bisacquino, Villarosa, Prizzi, cioè in ben cinque diverse province dell’isola. Si trattava in ogni caso di immigrati ormai da anni in città, ma dall’anno successivo, come fosse una colonia, Palermo cominciò addirittura a ‘importare’ amministratori «belli e
fatti» dai paesi vicini: un capocorrente dc evidentemente a corto
di ‘suoi’ candidati locali ne portò uno dal suo paese, un ex maestro già più volte assessore a Partinico con risultati non disprezzabili, ma sconosciutissimo in città, tranne che dai dipendenti di
una Usl cittadina di cui era presidente. Eletto consigliere e subito dopo assessore, costui dovette ‘sacrificarsi’ in una quanto meno fastidiosa spola giornaliera da Partinico, dove continuò ad abitare, sino a quando una provvidenziale elezione al Senato nel giugno 1987 non liberò lui dal gravoso impegno e la città dalla imminente possibilità di ritrovarselo come sindaco, perché già se ne
parlava come destinato a sostituire Leoluca Orlando. Altro assessore pendolare era contemporaneamente l’ex sindaco socialista di Belmonte Mezzagno: la caduta del pentapartito nel 1987
pose fine anche al suo ‘sacrificio’ giornaliero. Ancora nel 1992,
la giunta Rizzo per la metà era costituita da non palermitani, alcuni dei quali erano già stati assessori alla Provincia o nei paesi
vicini (Carini, Vicari, Borgetto).
Lungi da chi scrive, peraltro anch’egli immigrato, l’intenzione di attribuire agli amministratori nati fuori Palermo tutti i mali della città, che sono soprattutto conseguenza dei sistemi di reclutamento della classe politica cittadina già esaminati. Non c’è
dubbio, però, che per quanto abili amministratori – ciò è comunque tutto da dimostrare – agli immigrati generalmente è
mancata una solida cultura urbana, che è innanzitutto conoscenza approfondita dei problemi di una grande città, dei suoi abitanti, della sua storia, delle sue tradizioni, del suo futuro; ed è
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Palermo
mancata spesso la volontà di instaurare con essa un rapporto affettivo pieno e disinteressato. Se si considera che neppure gli amministratori autoctoni, a causa del sistema di reclutamento, costituivano il meglio che la città potesse offrire, si comprende perché Palermo, indipendentemente dai condizionamenti della mafia, che pur sono stati pesantissimi, negli ultimi decenni sia stata
così mal governata. Incapaci di elaborare un progetto per la città,
che trascendesse gli interessi del gruppo che lo promuoveva, e di
affrontarne i grandi problemi, i consiglieri di maggioranza – immigrati e indigeni, senza alcuna distinzione – si sono preoccupati soprattutto della gestione del potere, per conto terzi o in proprio, decisi a non cedere di un centimetro quando si è trattato di
battagliare per un assessorato in più o in meno, per un posto di
sottogoverno, per qualsiasi cosa significasse maggior potere. Per
la maggior parte di essi, anonimi personaggi nella vita civile, l’incarico di assessore, non giungeva come riconoscimento di meriti acquisiti nell’esercizio di una professione o nella gestione di
una impresa, bensì in seguito a una lotta faticosa, che lo trasformava in conquista da gestire non a servizio della città ma della
propria parte, strumento di potere per progredire certamente
nella carriera professionale e possibilmente anche in quella politica. E perciò, la formazione delle varie giunte richiedeva ogni
volta alchimie e dosaggi difficilissimi, con il ricatto continuo degli scontenti, sempre pronti a minacciare e a cambiare disinvoltamente capocorrente e talora anche partito, pur di ottenere l’ambita poltrona assessoriale.
Né la situazione era diversa alla Provincia e alla Regione, perché analoghi erano i sistemi di reclutamento e non cambiava la
qualità dei personaggi sulla scena. Talora non cambiava neppure la qualifica professionale, perché se l’impiegato provinciale o
regionale trovava facile spazio a Sala delle lapidi, l’impiegato comunale si collocava al Consiglio provinciale e nei casi più fortunati anche all’Ars, in uno strano girotondo che a volte coinvolgeva interi gruppi familiari. I risultati sono tuttora drammaticamente sotto gli occhi di tutti.
La crisi dei partiti tradizionali per effetto delle inchieste della
magistratura nel 1993-1994 e le riforme elettorali degli stessi anni hanno provocato un profondo ricambio della classe politica
locale, che non è più espressione dei partiti, ma concede ampio
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spazio ai rappresentanti della società civile. In particolare, la legge elettorale per le amministrative del 1993 ha rafforzato il ruolo del sindaco e della giunta, non più espressione del Consiglio
comunale ma scelta dal sindaco, a sua volta eletto direttamente
dalla cittadinanza e non più dal Consiglio. Seppure profondamente rinnovato e moralmente assai più credibile dei precedenti, il nuovo Consiglio continuò tuttavia a caratterizzarsi per l’elevato grado di litigiosità al suo interno e per la scarsa produttività
che talora ha raggiunto livelli veramente intollerabili.
3. L’amministrazione civica
Lucio Tasca: il sindaco separatista. La prima amministrazione comunale della città liberata dal fascismo fu di nomina del governo alleato, nel settembre ’43. Ne era a capo Lucio Mastrogiovanni Tasca (1880-1957), figlio del defunto senatore Tasca Lanza e noto leader dell’ala conservatrice e oltranzista del movimento
separatista, ed era costituita in maggioranza da separatisti e loro
fiancheggiatori. Lucio Tasca non godeva della fiducia dei rappresentanti del Cln locale e aveva interessi di classe che spesso
non coincidevano con quelli dei suoi amministrati. Intelligentissimo e dotato di grosse capacità organizzative, come testimoniava l’azienda modello di Regaleali da lui creata, il sindaco era pur
sempre il rappresentante di un mondo ormai al definitivo tramonto, che tuttavia egli voleva mantenere ancora in vita, tanto
da scrivere un incredibile Elogio del latifondo siciliano e soprattutto da impegnare se stesso e la sua famiglia nella causa del separatismo, che quel mondo avrebbe dovuto perpetuare in caso
di successo. E perciò non meraviglia il suo invito agli agricoltori
siciliani a ‘difendere’ il loro grano dagli ammassi nei «granai del
popolo», istituiti dal governo italiano per combattere la speculazione e il mercato nero controllato dalla mafia; quel grano cioè
che attraverso i «granai del popolo» avrebbe dovuto sfamare i
suoi amministrati. Il sindaco inoltre non esitava a servirsi della
carica a vantaggio del movimento indipendentista.
La sindacatura Tasca non durò a lungo: quando l’ex ministro
dell’Interno Aldisio sostituì il filoseparatista Musotto nella carica di Alto Commissario e il Cln palermitano acquistò maggiori
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Palermo
poteri, per la giunta Tasca fu la fine. Poiché il governo italiano –
subentrato intanto all’amministrazione alleata – non poteva revocarle il mandato, obbligato com’era a mantenere in vigore i
provvedimenti adottati dalle autorità alleate, il Cln fece dimettere i suoi assessori, costringendo così il sindaco a lasciare l’incarico (agosto ’44). In un proclama alla città, Tasca denunciò la dittatura del Cln che si era sostituita a quella fascista.
A Palazzo delle Aquile si insediò un commissario prefettizio
designato dal Cln, il barone Enrico Merlo (1864-1946), che rimane l’ultimo esponente del ceto aristocratico a capo dell’amministrazione cittadina. La gestione commissariale si chiuse ai
primi di novembre con la nomina alquanto contrastata dell’avvocato Rocco Gullo (Salaparuta 1899-Palermo 1972) a sindaco e
dell’avvocato Guido Napoli a vicesindaco, entrambi socialisti
riformisti che avevano fatto parte della precedente giunta. Per gli
assessori, il prefetto D’Antoni tenne in maggiore considerazione
le indicazioni dei sei partiti del Cln, con il risultato che Palermo
– per la prima volta nella sua storia – si ritrovò a essere amministrata per un biennio da personaggi senza storia, né prima né dopo l’incarico, in maggioranza assolutamente sconosciuti alla cittadinanza: soltanto uno, a parte il sindaco, riuscirà a superare l’esame dell’elettorato alle amministrative del ’46, a dimostrazione
peraltro di quanto poco la città si fosse sentita rappresentata da
essi.
La schiacciante vittoria monarchica nel referendum del 2 giugno ’46 (160.291 voti a favore contro appena 29.870 per la repubblica) ci mostra una città incredibilmente attaccata all’istituto monarchico e al passato, come conseguenza del ruolo di guida ancora esercitato dall’aristocrazia e dalla Chiesa, ruolo che dopo l’unificazione non si era potuto esplicare a livello politico a
causa del suffragio ristretto, che aveva invece favorito la borghesia delle professioni, laica e massonica. Il suffragio universale maschile e femminile portava adesso in piena luce tutta l’anima conservatrice della società palermitana, che il suffragio ristretto del
primo cinquantennio postunitario aveva in qualche modo velato,
almeno a livello politico, facendo talora della città la roccaforte
dell’opposizione al governo. Con un elettorato allargato e per di
più costituito in prevalenza da una popolazione che nella miseria del momento si aggrappava ai tradizionali punti di riferimen-
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to, l’aristocrazia e la Chiesa, le indicazioni delle due forze a favore di casa Savoia, considerata garanzia di ordine e di anticomunismo, trovavano accoglimento favorevole.
Si spiega allo stesso modo il consenso ottenuto nella consultazione per la Costituente dai partiti che poterono contare sul loro appoggio: la Chiesa, che da qualche mese aveva trovato un
energico condottiero nel neoarcivescovo Ernesto Ruffini, si
schierò infatti apertamente per la Dc, che riportò il 25 per cento dei voti (43.425 voti), mentre l’aristocrazia si divise tra la stessa Dc, l’Uomo qualunque (23 per cento dei voti), l’Unione Democratica Nazionale di Orlando (17 per cento) e il Mis (9 per
cento). I risultati confermavano la collocazione clerico-moderata
dell’elettorato palermitano e segnavano in particolare la scomparsa del PdA, l’insuccesso dei separatisti e dei partiti di sinistra
(4,5 per cento dei voti il Psi, 3 il Pri, 2,6 il Pci), il declino dei liberali (Udn) – che sino al fascismo avevano dominato la scena
politica cittadina –, il successo di Dc e Uq, per il quale avevano
votato scontenti, nostalgici ed ex fascisti. A Montecitorio entravano gli esponenti di punta della politica locale (Aldisio, Mattarella e Medi per la Dc, Orlando per l’Udn, Finocchiaro Aprile e
Varvaro per il Mis, Li Causi e Montalbano per il Pci, Musotto e
Gullo per il Psi, Natoli per il Pri), ma anche alcuni che alla vigilia non venivano accreditati di grande successo (Bellavista dell’Udn; Patricolo, Russo Perez e Castiglia dell’Uq). Gli unici superstiti del mondo politico prefascista erano V.E. Orlando, Finocchiaro Aprile e in parte Musotto. Degli altri, qualcuno aveva
svolto attività clandestina durante il fascismo, mentre i più erano uomini nuovi, con una esperienza politica limitata agli ultimissimi anni, anche se c’era chi poteva già vantare incarichi di
governo (Aldisio, Mattarella, Montalbano). A parte Li Causi, funzionario del Pci, i rappresentanti di Palermo – tra i quali non c’era alcun esponente dell’aristocrazia – erano professionisti tra i più
noti in città, ma parecchi di essi non vi avevano avuto i natali.
Le amministrazioni di Destra. Le prime elezioni amministrative,
svoltesi nel novembre ’46 tra il disinteresse generale (votò il 36,8
per cento degli iscritti), ribaltarono per le prime posizioni i risultati delle politiche del giugno precedente, ma confermarono
la collocazione a destra dell’elettorato palermitano: l’Uq diventò
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Palermo
il primo partito della città (24 per cento dei voti), seguito dal Pnm
(Partito Nazionale Monarchico) con il 19,8, mentre la Dc con il
14,5 (11.708 voti) subiva una perdita percentuale di circa dieci
punti, che si spiega sia con la partecipazione dei monarchici con
una loro lista, sulla quale l’aristocrazia concentrò i suoi suffragi,
sia con la notevole astensione dal voto, ancora più elevata tra le
elettrici, dove essa contava i maggiori consensi. Era confermato
anche il declino dei liberali, superati dal Pci, l’unico partito che
aumentò i voti (9.761), con un incremento percentuale di quasi
dieci punti, e che si poneva ormai come il maggiore partito della sinistra: il Psi, pur avendo realizzato un incremento percentuale, non andò oltre i voti delle politiche.
Con i sette seggi dei liberali, la destra qualunquista e monarchica poteva contare su una maggioranza di 34 consiglieri su 60,
ma non tutti i liberali erano d’accordo e l’onorevole Gennaro Patricolo dell’Uq (Palermo 1904-Roma 1980) fu eletto sindaco con
una maggioranza molto risicata (31 voti su 59 presenti), che per
di più non aveva punti di riferimento nel governo nazionale,
espressione dei partiti che a Palermo si ritrovavano all’opposizione. Della sua giunta facevano parte anche tre consiglieri liberali, gli «scaristi» Mariano La Rocca, Giuseppe Guttadauro e Pietro Conti: scaristi venivano chiamati i grossi commercianti di
frutta e verdura che avevano il controllo del mercato ortofrutticolo palermitano, lo scaro, da sempre in mano a potenti gruppi
mafiosi. E non a caso, mezzo secolo dopo, al processo contro il
senatore Andreotti, il pentito Gioacchino Pennino indicherà i tre
assessori come «uomini d’onore» (affiliati alla mafia), a dimostrazione che già allora la mafia riusciva a collocare propri esponenti all’interno delle istituzioni democratiche e a condizionarne
pesantemente l’operato. I tre verranno riconfermati anche nelle
giunte successive quasi ininterrottamente sino a tutto il 1951. Anzi a loro nel ’48 si unirà il monarchico Antonino Sorci, medico,
che per oltre un decennio sarà assessore in diverse giunte: anch’egli sarà indicato come «uomo d’onore» da Pennino. Della
giunta Patricolo, faceva parte anche un altro monarchico, Ernesto Pivetti, che contava tra i suoi grandi elettori noti mafiosi, tra
cui l’ex separatista ‘don’ Paolino Bontate.
A fine ’47 Patricolo, che aveva già lasciato l’Uq, si dimise per
candidarsi alle politiche del ’48 e gli successe l’ex ufficiale medi-
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co Guido Avolio dell’Uq (Noto 1891-Palermo 1978), con una
giunta allargata anche a uno dei due rappresentanti separatisti
dell’Unione Palermitana Indipendenti. La dissoluzione dell’Uq,
confermata dalle politiche del ’48, generava la diaspora dei consiglieri qualunquisti e rendeva molto precaria l’esistenza della
giunta, che all’inizio dell’autunno fu costretta alle dimissioni: peraltro, dopo il grande consenso elettorale ottenuto dalla Dc il 18
aprile, essa non rappresentava più la volontà dell’elettorato.
Cusenza: il primo sindaco democristiano. L’elezione a sindaco del
professore Gaspare Cusenza (1891-1962), docente di clinica otorinolaringoiatrica, più tardi sospettato di legami con la mafia, segnava l’inizio del lungo monopolio democristiano al Comune di
Palermo, che allora, nel novembre ’48, nessuno pensava potesse
durare oltre un quarantennio. In origine, la Dc aveva appena nove consiglieri, dei quali, a parte il sindaco, soltanto uno entrò nella giunta, che risultava espressione di una larghissima coalizione
comprendente – oltre a monarchici, liberali e qualunquisti, presenti con ben otto assessori della precedente giunta Avolio, compreso l’ex sindaco – anche l’allora repubblicano Martellucci e
due socialdemocratici. È molto probabile però che già allora alcuni consiglieri e qualche assessore dello scomparso Uq avessero aderito alla Dc: il Consiglio comunale cominciava ad assolvere la funzione di laboratorio per il riciclaggio di esponenti qualunquisti in democristiani, monarchici e missini; di ex separatisti
in monarchici, comunisti e liberali; e più tardi di liberali e monarchici in democristiani; di cristiano-sociali in democristiani e
repubblicani. Il riciclaggio cioè di una classe politica trasformista, che non ha voluto e saputo perdere, che non ha voluto uscire dignitosamente di scena credendosi insostituibile e, pur di sopravvivere e rimanere al potere, si è adattata a qualsiasi compromesso, quasi sempre a danno della città.
Cusenza diede alla vita amministrativa della città una scossa
positiva e grazie alla mutata situazione economica del paese e all’appoggio del governo, nazionale e regionale, poté avviare la realizzazione di importanti opere pubbliche, tra cui i primi nuclei
di case popolari e la via F. Crispi a doppia carreggiata. La composizione del Consiglio, molto suddiviso in gruppi e gruppetti
che ormai rappresentavano solo se stessi, creava però serie diffi-
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Palermo
coltà all’amministrazione, che fu più volte vicina alla crisi. Nel
marzo ’51, Cusenza, candidato alle elezioni per il rinnovo dell’Ars, si dimise e il vicesindaco Ernesto Pivetti (1888-1970) assunse l’ordinaria amministrazione sino al novembre successivo,
quando Avolio, trasmigrato intanto tra i monarchici, fu rieletto
sindaco, con una giunta della quale non facevano più parte né
repubblicani né socialdemocratici. Ma il Consiglio comunale aveva da tempo esaurito la sua funzione e la nuova giunta non riuscì a evitarne lo scioglimento (gennaio ’52) e l’insediamento di
un commissario prefettizio, il commendatore Riccardo Vadalà
(Catania 1888-Catania 1956).
Le amministrative del maggio ’52 portarono a un vasto ricambio della rappresentanza consiliare, come effetto della scomparsa dell’Uq, della presenza per la prima volta del Msi (19 per
cento dei voti), che però conquistava soltanto 12 dei 15 seggi dell’Uq, e della profonda crisi dei liberali (2 seggi), che perdevano
5 seggi a vantaggio soprattutto della Dc, la quale con il 25 per
cento dei voti balzava a 16 seggi. Il successo dc si doveva in parte anche all’azione del gesuita Antonino Gliozzo, che – inviato in
Sicilia dalla segreteria nazionale – all’inizio degli anni Cinquanta
era già riuscito a creare con la collaborazione dei parroci una ampia rete di sezioni cittadine e ad avviare una proficua opera di
proselitismo che in futuro avrebbe fornito frutti ancora più cospicui. Un seggio ciascuno guadagnavano i socialcomunisti (22,5
per cento, 14 seggi) e i monarchici (22,3 per cento, 13 seggi), divisi ormai in due partiti. Gli altri 3 seggi furono conquistati dai
socialdemocratici (2) e dalla lista Autonomia e rinascita (Federico II) dell’ex presidente dell’Ars Cipolla. Assieme agli sconosciuti cui si è fatto già cenno, del nuovo Consiglio facevano parte parecchi nomi prestigiosi, tra cui tre ex parlamentari della Costituente, un ex deputato regionale, due parlamentari nazionali
in carica e ben dieci deputati regionali. E prima dello scioglimento alla fine del ’55, altri due consiglieri saranno eletti al Senato, quattro alla Camera e uno all’Ars. La mafia intanto rafforzava la sua presenza in seno al Consiglio comunale, perché oltre
alla riconferma di Guttadauro, La Rocca, Conti e Sorci, riusciva
a ottenere l’elezione a consigliere del monarchico Giuseppe Cerami – più tardi trasmigrato nella Dc ed eletto senatore – e for-
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se anche di altri la cui posizione di «uomini d’onore» alla luce
delle ricerche attuali è soltanto ipotizzabile.
Il professore Gioacchino Scaduto (Licata 1898-Palermo
1979) – di famiglia originaria di Bagheria, ordinario di diritto civile alla facoltà di Giurisprudenza, nonché avvocato della Curia,
dell’Immobiliare vaticana e della Società Generale Elettrica Siciliana – fu eletto sindaco di una giunta di centro-destra che comprendeva cinque democristiani e sette monarchici: operazione favorita dal cardinale Ruffini, che tendeva a creare un vasto blocco anticomunista, e resa possibile dal passaggio nelle file monarchiche dei due consiglieri liberali (i noti Guttadauro e La Rocca)
e dall’appoggio esterno del Msi. I problemi della città, come sempre nella sua storia, erano numerosi e resi più gravi dal mancato
funzionamento del Consiglio precedente, lacerato da lotte e dissidi che ne avevano determinato lo scioglimento anticipato. Il deficit del Comune era in progressivo aumento: nel ’54 superava i
quattro miliardi di lire e per la fine del ’55 si prevedeva un disavanzo di quasi sei miliardi, perché le entrate comunali erano assorbite per il 95 per cento dalle quote di mutuo e dalle spese per
il personale, né potevano essere più aumentate, perché la pressione tributaria cui la popolazione era sottoposta era la più alta
tra le città meridionali, anche per effetto dell’incremento dell’imposta di famiglia, pari al 120 per cento negli anni 1950-1954.
E intanto i «Provvedimenti speciali per la città di Palermo» proposti dall’Ars con un disegno di legge unitario nell’agosto ’54 non
riuscivano a passare al Senato. Scaduto si dimise una prima volta nel novembre ’53, ma il Consiglio respinse le dimissioni, che
furono ancora riproposte e accettate nel luglio ’55, quando gli
venne meno la fiducia di un gruppo di monarchici, che contestavano l’operato dei loro assessori. Eletto nuovamente con 25
voti su 36 presenti, il sindaco rifiutò l’incarico perché solo 5 voti provenivano dalla Dc: a Palazzo delle Aquile si insediò un commissario prefettizio, il dottor Mario Liotta (1896-1961). Nell’imminenza della visita a Palermo del presidente della repubblica
Gronchi, il Consiglio comunale, che non era stato ancora sciolto, credette opportuno che fosse un sindaco e non un commissario a rappresentare la città nell’occasione e rielesse sindaco Scaduto, a capo di una giunta monocolore che durò in carica otto
giorni, dopo i quali giunse un nuovo commissario, il dottor Giu-
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seppe Salerno (dicembre ’55). Salerno ebbe il merito di riuscire
in pochi mesi a dotare la città di un piano regolatore, incompleto per la mancanza di dettagli, affrettato in alcune sue parti, con
dei grossi limiti, ma certamente perfezionabile qualora le successive amministrazioni lo avessero voluto.
L’abbandono di Scaduto, che col suo gruppo si ritirò definitivamente dalla vita politica, era soprattutto la conseguenza di
lotte interne alla Dc, che in campo nazionale avevano favorito l’ascesa di Fanfani alla segreteria del partito e a Palermo l’emergere di una nuova dirigenza di giovani aggressivi e spregiudicati,
guidati da Gullotti e Gioia («i giovani turchi»), che portava alla
trasformazione della Dc da partito di notabili a partito di quadri
e all’accantonamento di Restivo alla Regione e dei suoi amici al
Comune. Il centro-destra era entrato in crisi a favore di formule
più avanzate, che però non avevano il conforto pieno dei numeri, tanto che alla Regione, dopo un governo Alessi e due guidati
da La Loggia, si giungerà all’esperienza milazziana, e al Comune
si ricorreva ai commissari governativi – in attesa che le nuove consultazioni del ’56 modificassero ancora una volta gli equilibri – e
più tardi a una giunta minoritaria.
Le amministrative del maggio ’56 segnavano una nuova avanzata della Dc e una vittoria del gruppo dirigente fanfaniano del
partito, che si era accordato con Mattarella, Ciancimino e altri, e
si avviava alla occupazione sistematica di tutti gli spazi di potere. I 53.492 voti dc del ’52 (25 per cento) passavano a 86.378
(35,7 per cento), con un incremento percentuale di oltre dieci
punti, e i seggi da 16 a 23, a danno soprattutto del Msi, che subiva un crollo elettorale e vedeva la sua rappresentanza ridotta
della metà (6 seggi, 10,2 per cento dei voti), e in parte del Pnm,
che perdeva due seggi (9 seggi, 14,3 per cento), uno dei quali veniva assorbito dal Psdi, che con il 5,4 per cento conquistava 3
seggi. La sinistra socialcomunista, che non si presentava più unita, guadagnava un seggio: 10 al Pci (16,2 per cento dei voti) e 5
al Psi (8,6 per cento), mentre liberali e monarchici del Fnm mantenevano i loro seggi, due per partito. Se tra le file dei partiti minori, con l’eccezione del Psi, il ricambio era molto limitato, quando non era addirittura inesistente come nel Msi, il gruppo dc, sia
per l’aumento del numero dei seggi ottenuti, sia per l’abbandono del gruppo Scaduto, usciva profondamente rinnovato dalle
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urne, ma ancor più rinnovato era il gruppo comunista, in cui i
nuovi erano 9 su 10. È molto difficile trovare tra i nomi nuovi
del Consiglio grossi personaggi, se non tra le file dell’opposizione comunista. La rappresentanza dc era costituita nella stragrande maggioranza di giovani di estrazione piccolo borghese allora sconosciuti, dotati di molta grinta ma di nessuna esperienza
amministrativa, e tuttavia decisissimi a impadronirsi in fretta del
potere cittadino, dopo essersi impadroniti delle strutture di partito e aver fatto fuori il vecchio gruppo dirigente dc di estrazione alto borghese, che – ancora legato a un modo tradizionale di
fare politica, in cui il prestigio personale del candidato valeva più
della militanza attiva nel partito – non aveva compreso appieno
la forza degli apparati nella organizzazione del consenso. Inaspettatamente, il primo degli eletti dc fu il medico Francesco Barbaccia, «uomo d’onore» originario di Godrano, assolutamente
sconosciuto in città ma appoggiatissimo dalla mafia, che due anni dopo riuscirà anche a farlo eleggere alla Camera dei deputati.
Cerami e Sorci venivano ancora riconfermati e risultava eletto un
altro «uomo d’onore», il dc Giuseppe Trapani.
La scelta del sindaco – volendo escludere i transfughi da altri
partiti e gli amici di Restivo, sempre più emarginati – cadde quasi obbligatoriamente sull’ex capo del dipartimento ferroviario,
l’ingegnere Luciano Maugeri (Zafferana Etnea 1888 – Palermo
1958), mattarelliano. Per la giunta si ripropose la formula della
Regione: un tripartito Dc, Pli, Psdi, che però non aveva i numeri sufficienti (28 consiglieri su 60) e si reggeva sui voti sottobanco dei monarchici, alcuni dei quali passeranno prestissimo alla
Dc e raggiungeranno posizioni di vertice. Diversamente che nelle precedenti giunte, il potere municipale era ormai monopolio
della Dc – che lasciava agli altri due partiti soltanto i Servizi tributari (Psdi) e l’Igiene (Pli) – e in particolare dei fanfaniani, che
partecipavano alla giunta con parecchi esponenti, tutti neoconsiglieri, tra cui Francesco Barbaccia e Salvo (Salvatore) Lima ai Lavori pubblici. Lima era un giovanissimo impiegato del Banco di
Sicilia, legato già allora a noti esponenti della mafia palermitana
(Angelo e Salvatore La Barbera, Tommaso Buscetta, Matteo Citarda, ecc.) e destinato a compiere una rapidissima carriera politica che toccherà l’apice negli anni Ottanta e ne farà l’uomo più
potente della Dc siciliana, sino alla morte violenta nel 1992 sot-
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to i colpi dei sicari della mafia. Della giunta Maugeri faceva parte (con delega alle Aziende municipalizzate e alle Borgate) anche
il trentaduenne Vito Ciancimino, un personaggio abile e assai
spregiudicato, vicino all’onorevole Mattarella – grazie al quale
era riuscito a ottenere nel ’51, pur senza il possesso dei necessari requisiti, il lucroso appalto del servizio di trasporto in città dei
carri ferroviari, che manterrà per un ventennio – e legato a esponenti mafiosi di Corleone, suo paese natale.
La lunga sindacatura Lima. La scomparsa improvvisa di Maugeri nel maggio ’58 aprì la strada a Salvo Lima (1928-1992), che
costituì una giunta Dc-Pli-Psdi-Pnm: i monarchici infatti – che,
dopo essere stati messi in disparte da Alessi alla Regione, erano
ritornati nuovamente in gioco e assieme ai missini sostenevano
con i loro voti il monocolore del fanfaniano Giuseppe La Loggia
all’Ars – non vollero più continuare a prestare soccorsi sottobanco alla Dc senza una contropartita al Comune e pretesero l’ingresso in giunta di ben tre loro esponenti, uno dei quali era il noto Antonino Sorci. La presenza condizionante della mafia nell’organo di governo della città continuava a rimanere quindi inalterata, anche perché Ciancimino veniva riconfermato e inoltre
entravano nella giunta i dc Giuseppe Trapani e Giuseppe Brandaleone, quest’ultimo personalmente non affiliato alla mafia, ma
figlio del vecchio capomafia di Danisinni.
Con Lima la piccola borghesia palermitana conquistava finalmente per la prima volta il vertice del potere municipale, a danno dell’alta borghesia imprenditoriale e delle professioni liberali
della città, che lo aveva tenuto quasi ininterrottamente per tutto
il Novecento e che riuscirà a riprenderlo soltanto un trentennio
dopo con la sindacatura Orlando. Lima resse l’amministrazione
comunale per quasi un quinquennio, sino al gennaio ’63 e ancora per altri 17 mesi nel 1965-1966. E perciò, nel bene e nel male, egli ha larga parte di responsabilità nelle vicende cittadine di
quegli anni e – per il ruolo di primissimo piano da lui assunto
nella Dc locale – anche del periodo successivo: Palermo non è
una città dalla lunga memoria e di parecchi sindaci dell’ultimo
ventennio conserva appena un ricordo sbiadito, ma non è così
per Lima, sotto la cui gestione la città cambiò volto, purtroppo
non sempre in meglio. Egli non è soltanto uno dei principali re-
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sponsabili del «sacco edilizio» di Palermo, di cui si dirà più oltre, ma anche il regista, assieme a Gioia, del complesso processo
di assorbimento all’interno della Dc palermitana delle residue
forze liberali e monarchiche, mantenute ancora – sotto l’emblema ormai dello scudo crociato – al governo della città con le loro clientele, le loro equivoche connivenze, i loro torbidi rapporti con le cosche mafiose delle quali erano spesso espressione.
Clientele e rapporti che da allora saranno gestiti dalla Dc di Lima, di Gioia e di Ciancimino, e che presto (inizio ’60) si estesero anche agli esattori mafiosi Salvo e al capomafia monarchico
Paolino Bontate. Per i Salvo e i Bontate (‘don’ Paolino e il figlio
Stefano), Salvo Lima nei decenni successivi costituirà sempre il
più importante punto di riferimento politico, che seguiranno anche tra gli andreottiani, dopo la sua rottura con Gioia e il suo abbandono della corrente fanfaniana. E da allora (1968) sino alla
conferma da parte della Cassazione delle condanne inflitte dal
primo maxi processo (gennaio ’92), egli costituirà anche, se non
l’unico, certamente il massimo garante della mafia nei confronti
delle istituzioni. Non è inopportuno ricordare infine che gli oppositori interni finiranno sistematicamente emarginati, se non addirittura eliminati fisicamente, come nel caso del segretario della sezione dc di Camporeale, Pasquale Almerico (marzo 1957),
che si era opposto invano alla cooptazione tra le file dc del capomafia liberale Vanni Sacco (ex separatista), accettata invece
dall’allora segretario provinciale Gioia.
Analoghe responsabilità ricadono quindi su Giovanni Gioia,
il cervello della Dc palermitana e certamente uno dei pochissimi
uomini politici di livello nazionale che Palermo abbia saputo
esprimere nell’ultimo mezzo secolo. Già capo della segreteria politica di Fanfani e dal ’58 deputato nazionale, Gioia – nipote ex
filia di Filippo Pecoraino – ufficialmente non assunse mai incarichi diretti al Comune (non è stato neppure consigliere comunale!), ma era il leader incontrastato dei fanfaniani locali, da cui
dipendevano le sorti dell’amministrazione comunale e di quella
provinciale e a cui rispondevano i vari sindaci e presidenti che
per un ventennio si alternarono nelle due cariche. In un libro di
memorie apparso nel 1996, Giacomo Marchello, sindaco di Palermo negli anni 1971-1975, non esita a riportare una sua lettera
del giugno ’74 in cui ricorda a Gioia di nutrire verso di lui un
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Palermo
debito di gratitudine, «avendomi scelto, tra tanti cari e ottimi
amici, Sindaco di Palermo». Fu Gioia quindi (e più tardi, in alternativa, anche Lima), non il Consiglio comunale a scegliere per
decenni i sindaci della città. E a lui essi ricorrevano perché li aiutasse, intercedendo presso il governo centrale, a risolvere i tanti
e gravosi problemi che assillavano Palermo. Marchello più volte
lo chiama viceré e si chiede ironicamente il perché della esistenza del viceré anche in regime democratico:
Dopo mesi – egli scrive nelle sue memorie – che la Cassa Depositi e Prestiti aveva sbattuto ripetutamente la porta in faccia all’Amministrazione Comunale, dopo che le Banche, Istituti di Credito e Regione Siciliana avevano risposto negativamente alle richieste municipali, eccoti il Ministro del Tesoro, on. Colombo, amichevolmente sollecitato, rassicurare il Viceré, cioè l’on. Gioia, di aver concesso alle
esauste casse del Comune di Palermo un aumento di liquidità che permetteva di concludere e sanare la vertenza con i dipendenti, tanto municipalizzati che comunali. Fortunatamente – continua – le deboli amministrazioni locali del Mezzogiorno d’Italia e delle Isole, ciascuna
per suo conto, un qualche Viceré ce l’avevano tutte. Altrimenti, come avrebbero fatto ad andare avanti? In Sicilia, il Viceré era un’istituzione pluricentenaria ereditata dagli Spagnoli, dai Sabaudi, dagli
Austriaci e dai Borboni. Con l’unificazione italiana, il Viceré fu in linea istituzionale soppresso, ma sopravvisse insediato tra i poteri centrali dello Stato. Ma veniva fatto di chiedersi: con la conquistata libertà democratica, come si poteva mantenere un Viceré? La democrazia aveva pensato anche a questo. Consapevole dell’importanza e
della funzionalità, conservò l’esercizio del Viceregno democraticamente, cioè con il suo attuale sistema elettorale. Con una circoscrizione elettorale come quella della Sicilia occidentale, che comprendeva due milioni e mezzo di abitanti, 160 comuni, 12.000 chilometri
quadrati di superficie, distanze di due-trecento chilometri per portarsi da un estremo all’altro, circoscrizione dispendiosa, e perciò severamente selezionatrice in relazione alle risorse dei singoli candidati, l’elezione conferiva al deputato le dimensioni e il potere di un
viceré.
Nelle mani di Gioia si concentrava davvero un potere notevole e ciò gli valse più volte l’accusa di collusioni mafiose, che le
carte processuali dei nostri ultimissimi anni documentano ormai
in maniera inconfutabile. Diversamente dalla maggior parte de-
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gli uomini politici della città, Gioia aveva però una grande capacità progettuale, come, oltre alle leggi per Palermo del ’62 che
portano il suo nome assieme a quello del comunista Speciale, testimoniano le opere pubbliche da lui ideate e tenacemente volute (autostrada per Mazara del Vallo e Trapani, circonvallazione,
ricostruzione del porto dopo la mareggiata del ’73, progetto della metropolitana e della pedemontana, ecc.). Ma è altrettanto vero che egli spesso non fu felice nella scelta degli uomini e dei metodi – che provocavano danni incalcolabili alla città e fornivano
facile esca agli attacchi degli avversari, anche all’interno della
stessa Dc – e non comprese nella giusta misura l’importanza per
Palermo di un coinvolgimento dei socialisti nell’amministrazione
cittadina, che ritardò il più a lungo possibile, agevolato purtroppo dalla incapacità storica dei socialisti locali di anteporre la soluzione dei problemi reali della città alle loro beghe interne e a
pretese egemoniche che spesso non avevano neppure il conforto
dei numeri.
La vicenda Milazzo, che nell’ottobre ’58 alla Regione relegò
la Dc all’opposizione, per poco non ebbe un seguito al Comune:
lo schieramento milazziano, in occasione della votazione per eleggere un assessore, riuscì a convogliare sul nome del comunista La
Torre ben 30 voti contro i 29 del liberale Di Benedetto, candidato della maggioranza che faceva capo alla Dc. Nel ballottaggio
che seguì, Di Benedetto riuscì a ribaltare però la situazione, riportando 30 voti contro i 29 di La Torre e risultando quindi eletto. La mancata conquista del Comune di Palermo costituì per il
milazzismo una grande sconfitta, la prima, e impedì che esso sottraesse alla Dc elementi di spicco. Le elezioni regionali del ’58
non cambiarono la situazione, perché il successo riportato in città
dall’Uscs (Unione Siciliana Cristiano Sociale) di Milazzo (53.005
voti, pari al 19 per cento) non riusciva a modificare ulteriormente
la maggioranza del Consiglio. Dopo la caduta nel ’60 del governo Tambroni appoggiato dal Msi, alla quale Palermo aveva contribuito con violente dimostrazioni che provocarono quattro
morti, parecchi feriti e notevoli danni, la formula di centro-destra non era più riproponibile, anche se il nuovo Consiglio uscito dalle amministrative del novembre ’60 ne offriva ancora la possibilità. La Dc, a causa della scissione milazziana, non aveva ripetuto il successo delle politiche del ’58, quando ottenne 122.230
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Palermo
voti con un balzo percentuale di nove punti, ma rispetto alle amministrative del ’56 era aumentata in voti (104.116) e in percentuale (37,8 per cento), con il guadagno di un seggio che portava
a 24 la sua rappresentanza. L’Uscs, con 40.437 voti (14,7 per cento) e 9 seggi, era diventata il secondo partito della città, a spese
soprattutto dei monarchici – che con l’8,9 per cento dei voti avevano perduto ben 6 seggi ed erano regrediti a 5 – ma anche degli altri partiti, ognuno dei quali aveva perduto un seggio, tranne i liberali che confermavano i loro 2 consiglieri. Così, il Pci era
passato a 9 seggi, il Msi a 5, il Psi presentatosi con il Pri a 4 (tutti occupati da socialisti), il Psdi a 2.
Tra Dc e alcuni cristiano-sociali un accordo non era irrealizzabile, perché il milazzismo era già in fase calante: rispetto alle
regionali dell’anno precedente il successo dell’Uscs alle amministrative finiva col rivelarsi una sconfitta in voti e in percentuale
e ciò spingeva i suoi improvvisati rappresentanti a non disdegnare eventuali scialuppe di salvataggio, come era avvenuto nel
febbraio precedente alla Regione, dove la Dc era riuscita a cacciare Milazzo all’opposizione e a ritornare al governo, grazie alla defezione di alcuni cristiano-sociali capeggiati dall’ex monarchico Majorana della Nicchiara che aveva favorito la formazione
di una giunta di centro-destra, della quale facevano parte anche
missini, monarchici e liberali. Il declino dell’Uscs finiva perciò
con l’agevolare l’accordo al Comune, anche se dopo mesi di lunghe trattative, tanto che la rielezione a sindaco di Lima poté avvenire solo all’inizio del 1961 e della giunta comunale un mese
dopo. Ma dall’urna uscivano a sorpresa i nomi di due ex monarchici ormai consiglieri dc, i quali non vollero dimettersi e si
posero addirittura alla testa di una pattuglia di scontenti, che lamentavano il mancato riconoscimento delle aspirazioni della minoranza del partito in sede di formazione della giunta. Ciò costrinse il sindaco e gli altri assessori alle dimissioni, mentre i due
dissidenti venivano deferiti ai probiviri, che li sospesero dal gruppo e dal partito per un anno. Solo nell’aprile successivo, Lima
poté formare la nuova giunta, che risultò costituita da 8 assessori dc, 2 cristiano-sociali, 1 liberale e 1 socialdemocratico. Trapani e Brandaleone furono riconfermati e così pure Ciancimino, che
nel settembre ’59 aveva assunto la titolarità dell’assessorato ai Lavori pubblici, tenuta poi sino al giugno ’64. Sorci invece usciva
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definitivamente dalla giunta e di contro entrava per la prima volta l’ex monarchico Cerami, trasmigrato intanto nella Dc.
La nascita, nel settembre ’61, del primo governo di centro-sinistra alla Regione con la partecipazione in giunta dei socialisti e
la formazione a Roma, nel febbraio successivo, di un governo tripartito Dc, Psdi, Pri, con l’astensione dei socialisti, modificavano notevolmente il quadro politico nazionale e alteravano gli
equilibri anche a Sala delle lapidi, dove la dissoluzione dell’Uscs
e l’ulteriore declino dei monarchici avevano dato vita alla cosiddetta «legione straniera», un gruppo di consiglieri, tra cui anche
un comunista e un socialista, che avevano spesso appoggiato la
giunta e che ora cominciavano a trovare una diversa collocazione politica tra le file della stessa Dc, ma anche di partiti minori
dell’area governativa come il Pri, che da un decennio non era stato più rappresentato in Consiglio. Lima, che era stato intanto
eletto segretario provinciale del partito ed era in attesa della nomina a commissario dell’Eras, ritenne allora opportuno anticipare i tempi delle sue dimissioni e far gestire ad altri, che poi erano suoi amici e protetti, la fase di transizione. Prima di passare
la mano, volle però rinnovare a trattativa privata per altri nove
anni l’appalto della manutenzione stradale e fognaria al conte Arturo Cassina (settembre ’62); rinnovo contro il quale si oppose
invano il presidente della Commissione provinciale di controllo,
il magistrato Ferdinando Di Blasi, che lo definì «un atto di mafia», e contro il quale alcuni consiglieri comunali comunisti ricorsero – anch’essi invano – al Consiglio di giustizia amministrativa. Per difendersi dalla dura campagna di stampa del quotidiano «L’Ora», Cassina fondò allora un suo quotidiano, «Telestar» (’63), che chiuse dopo qualche anno con pesanti perdite di
gestione.
Altri sindaci fanfaniani. A Lima successe il medico Francesco
Saverio Diliberto (1898-1974), consigliere dal ’46, con una lunga
esperienza di assessore prima per conto dell’Uq e poi della Dc,
già vicesindaco e assessore ai Lavori pubblici nella prima sindacatura Lima (gennaio ’63). Le trattative per una giunta di centrosinistra Dc, Psi, Psdi e Pri richiesero però parecchi mesi, in una
città violentemente scossa dalla guerra tra le cosche mafiose che
il 30 giugno provocava la strage di Ciaculli, in cui rimasero uc-
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cisi sette agenti dell’ordine. La Dc non era disposta a cedere ai
socialisti l’assessorato ai Lavori pubblici e, otto giorni dopo Ciaculli, Diliberto varò finalmente una giunta di minoranza Dc-Psdi,
che si reggeva sui voti di una parte della «legione straniera» e ripresentava ai Lavori pubblici nuovamente Ciancimino, che il
quotidiano comunista «L’Ora» accusava di «avere consentito alla mafia di spadroneggiare nella speculazione edilizia e dei mercati». Riconfermati anche Trapani, Cerami e Brandaleone, mentre per la prima volta veniva eletto assessore Ernesto Di Fresco,
ex separatista ed ex monarchico trasmigrato da qualche anno nella Dc, legato al costruttore Vassallo e soprattutto a ‘don’ Paolino Bontate, il quale era solito accompagnarlo alle sedute del Consiglio comunale. Al Comune si riproponeva quindi la stessa formula Dc-Psdi della Provincia, dove finalmente si era avuta l’elezione del primo Consiglio e della prima giunta del dopoguerra
(gennaio ’62), presieduta dal fanfaniano Michele Reina e della
quale facevano parte personaggi che più tardi risulteranno appartenenti alla mafia (il limiano di ferro Ferdinando Brandaleone, anch’egli figlio del capomafia di Danisinni) o legati da rapporti di varia natura con esponenti mafiosi (Luigi Barbaccia, fratello del deputato Francesco; Antonino Riggio, vicino all’«uomo
d’onore» bagherese Francesco Mineo, che qualche anno dopo ne
favorirà l’elezione a senatore).
Diliberto non durò a lungo. Di fronte alle accuse di malgoverno rivolte agli amministratori comunali dai partiti e dalla stampa di opposizione – che cominciavano a trovare credito presso
l’opinione pubblica – e dopo avere evitato miracolosamente lo
scioglimento del Consiglio comunale, richiesto all’Ars da una
mozione comunista su cui si erano concentrati anche i voti di
Psiup, Msi e Pli, la Dc ritenne opportuno chiudere l’esperienza
Diliberto e rinnovare completamente la sua rappresentanza in
giunta, con l’esclusione di coloro che i risultati di una inchiesta
regionale sul Comune (rapporto Bevivino), appena conclusasi,
indicavano come responsabili di quello che la stampa nazionale
già definiva il ‘sacco di Palermo’. Dell’amministrazione precedente rimaneva soltanto Paolo Bevilacqua (Pietraperzia 1923), un
medico docente di educazione fisica, fedelissimo limiano, cui fu
affidato il compito di avviare un timido esperimento di centrosinistra con l’apertura al Pri, o meglio ai due ex consiglieri del-
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l’Uscs che vi erano trasmigrati (luglio ’64). Ciancimino era costretto a lasciare finalmente i Lavori pubblici, ma gli subentrava
un suo luogotenente, Francesco Paolo Mazzara.
Con la giunta Bevilacqua tuttavia la presenza di esponenti mafiosi – allo stato almeno delle nostre conoscenze sull’argomento
– viene meno, anche se la partecipazione di fiancheggiatori e collusi continua ad apparire nutrita. Essa ricompare in alcune giunte successive, ma nel complesso può dirsi che da allora in poi Cosa Nostra avesse rinunciato a un impegno diretto. D’altra parte,
ormai una sua presenza diretta nelle giunte non era più necessaria come negli anni Quaranta-Cinquanta, quando ancora essa era
legata a schieramenti politici minoritari (Pli, Pnm, Pdium, ecc.)
anche se appartenenti all’area di governo. Adesso invece il suo
referente principale era la Dc, cioè il maggiore partito di governo al Comune, alla Provincia e alla Regione, oltre che ovviamente
a Roma, e perciò non era più necessario affidare ad assessori affiliati la tutela degli interessi mafiosi, né era conveniente arruolare tra i suoi ranghi uomini politici che per la loro posizione finivano troppo spesso sotto la luce dei riflettori della stampa e
dell’opinione pubblica. Bastava soltanto la garanzia del gruppo
dirigente dc, con il quale essa aveva ormai stretto un solido rapporto affaristico-clientelare, realizzando una feconda divisione
dei ruoli e dei compiti. Con Ciancimino commissario o segretario comunale della Dc palermitana dal 1956 al 1970 (ma anche
con i suoi successori), la mafia assumeva infatti il controllo del
tesseramento nelle sezioni cittadine del partito, organizzava il
consenso in occasione dei vari congressi (e determinava quindi
l’affermazione della corrente fanfaniana e più tardi di quella andreottiana, sia in sede locale che nazionale)8, condizionava la scel8
Ecco come un pentito di mafia, il medico Gioacchino Pennino, ricostruisce al processo Andreotti una riunione – attorno al 1978-1979 – alla Favarella, la tenuta di Ciaculli della famiglia Greco, degli organi direttivi di una
sezione dc della città per la spartizione delle deleghe a un congresso provinciale del partito: «Oltre a me, al Greco [Totò (Salvatore) Greco, detto il Senatore, noto capo mafia], all’ex segretario di sezione e ad un suo amico [...]
c’erano altre due persone [...]. Salvatore Greco decise che delle cinque deleghe che spettavano alla sezione per il quorum degli iscritti così come previsto
dalle norme statutarie del partito, tre le avocava a sé per la corrente fanfaniana e due le dava a me per la corrente cianciminiana. Perché lui faceva parte
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Palermo
ta delle candidature e, a ogni competizione elettorale, forniva il
suo compiacente appoggio a taluni candidati contribuendo in
maniera determinante alla loro ascesa politica a livello nazionale9. Di contro essi le garantivano incredibili violazioni delle norme urbanistiche, facili aperture di credito che non sono estranee
al gravissimo dissesto in cui sono poi cadute le due più importanti banche siciliane (Banco di Sicilia e Sicilcassa), appalti pubblici di comodo, appoggio presso la burocrazia e presso la magistratura per ‘addomesticare’ gli eventuali processi a carico di
esponenti mafiosi, i quali sino alla seconda metà degli anni Ottanta troppo spesso finivano assolti o rimessi in libertà con discutibili motivazioni. Un legame organico, dunque, strettissimo
e pericolosissimo quello tra mafia e politica.
Con le elezioni alle porte, Bevilacqua ebbe appena il tempo
di municipalizzare il servizio di trasporto urbano, che fu affidato all’Amat (Azienda Municipalizzata Autotrasporti), senza tuttavia che si realizzasse l’auspicata normalizzazione del settore, a
causa del perdurare degli scioperi del personale con richieste che
della corrente fanfaniana da sempre ed era vicino alle posizioni dell’onorevole
Giovanni Gioia ed anche dell’avvocato Luigi Gioia, che successivamente subentrò al fratello nella gestione della corrente e soprattutto era vicino a Giuseppe Insalaco».
9
Così Pennino ricostruisce allo stesso processo Andreotti una visita dell’onorevole Lima, in occasione della campagna elettorale per le elezioni amministrative del novembre 1960, a una sezione dc della periferia palermitana: «Arrivarono numerose macchine di codazzo al seguito di Lima e di Ferdinando
Brandaleone [...] e fra gli altri c’erano i fratelli Mancino, i fratelli La Barbera, mio
zio [Gioacchino Pennino], Tommaso Buscetta [cioè noti mafiosi...]. Queste persone avevano un modo di proporsi all’esterno particolare [...]. Rammento che
Saro Mancino aveva un grosso sigaro Avana e lo mostrava con esibizionismo e
con proposizione arrogante all’esterno [...]. Nella sezione questa gente, mentre
Lima parlava, mentre veniva presentato, praticamente lo accompagnavano ed
esibivano la loro presenza, la esibivano in maniera manifesta con posizioni precise. Erano conosciuti sicuramente da molti... Ci sono state altre numerose riunioni di questo tipo in altre borgate della città».
Con Pennino concorda anche Buscetta, per il quale così la mafia appoggiava i candidati: «Quando si proponeva l’aiuto al candidato o il candidato richiedeva l’aiuto di un determinato rione, ci si recava in quel determinato rione in compagnia del candidato e quasi sempre o sempre si trovava il rappresentante di Cosa nostra della borgata per prendere un caffè, nient’altro, perché la gente potesse vedere che il rappresentante di quel rione aveva ricevuto
la visita del sindaco o del candidato, e quindi i voti andavano a quel candidato che noi volevamo».
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presto porteranno l’Azienda sull’orlo del dissesto. La campagna
elettorale per le amministrative del novembre ’64 offrì alla sinistra comunista e socialista una nuova grande occasione per sferrare durissimi attacchi alla gestione dc della città. Al coro si univano anche quei membri della «legione straniera», che dopo avere servito la Dc non erano stati inseriti nella lista dei candidati: a
essi è da attribuire un volantino che invitava gli elettori a ricordare «chi sono i ladri di Palermo», con chiaro riferimento agli
amministratori comunali dc. I risultati, contrariamente alle aspettative dell’opposizione, diedero invece ancora una volta ragione
alla Dc, che conseguì un successo che nelle proporzioni ricordava quello del 18 aprile ’48: 126.262 voti, con una percentuale del
44,3 per cento e ben 37 seggi sugli 80 che da allora, per effetto
dell’incremento demografico della città, costituiranno sino al
1993 il Consiglio comunale, la cui durata diventava quinquennale. Di contro il Pci rimaneva bloccato al 13 per cento e, solo grazie all’aumento a 80 dei membri del Consiglio, riusciva a portare a 11 i suoi seggi. La scomparsa dell’Uscs e la crisi dei monarchici, che con il 3,4 per cento dei voti conquistavano appena 2
seggi, e dei missini, che se riconfermavano i 5 seggi subivano una
perdita percentuale di oltre due punti (6,6 per cento), si risolveva interamente a favore della Dc e dei partiti intermedi: il Pli in
primo luogo, che aumentava di oltre 5 punti percentuali (9,7 per
cento) e quadruplicava i suoi seggi (8); il Pri, che con il 4,6 per
cento dei voti dopo tredici anni rimetteva piede in Consiglio con
ben 4 membri; il Psdi (6,1 per cento), che portava a 5 i suoi seggi; il Psi (6 per cento e 5 seggi). Un seggio ciascuno conquistavano il Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria), l’Unione Democratica Nuova Repubblica e la lista dei geometri.
L’allargamento del Consiglio a 80 membri e la scomparsa dell’Uscs favorivano l’elezione di numerosi nuovi consiglieri e persino il recupero di vecchi personaggi come l’onorevole Castiglia,
che dall’Uq era trasmigrato tra i monarchici e ora diventava consigliere liberale, in attesa di passare ai socialdemocratici: esempio illuminante del trasformismo di quegli anni.
Bloccata dall’opposizione dei socialisti la candidatura a sindaco di Ciancimino, Salvo Lima, che era stato l’oggetto delle più
pesanti accuse durante la campagna elettorale, volle ritornare a
capo dell’amministrazione, un po’ per rivincita personale, ma so-
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Palermo
prattutto per riacquistare con una giunta di centro-sinistra una
credibilità che si era affievolita sotto i colpi degli attacchi avversari. Fu lui così a costituire – superando l’opposizione interna dei
dorotei di Piersanti Mattarella – la prima giunta di centro-sinistra Dc, Psi, Psdi e Pri, in cui però la Dc si riservava una larghissima maggioranza: 10 assessori contro i 6 degli altri 3 partiti, 2 ciascuno (gennaio ’65). Tra gli assessori – alla luce almeno
delle attuali conoscenze – non si rinvengono «uomini d’onore»,
ma resta forte il sospetto che parecchi di essi avessero con la mafia rapporti di contiguità. L’esclusione dalla giunta dei dorotei
creava all’amministrazione comunale non pochi problemi con la
Commissione provinciale di controllo, che non lasciava occasione per invalidarne i provvedimenti: l’ente dipendeva infatti dall’assessore regionale agli Enti locali Carollo, ex fanfaniano e ora
esponente di spicco della corrente dorotea siciliana, il quale era
deluso per non essere riuscito a fare eleggere a Sala delle lapidi
alcuni suoi fedelissimi e per di più assisteva con preoccupazione
all’ascesa di Attilio Ruffini (nipote del cardinale, al quale doveva
nel ’63 la sua prima elezione al Parlamento nazionale, sia pure
con l’aiuto dei Salvo, dei quali era consulente legale), di Mario
Fasino e del giovane Piersanti Mattarella all’interno della sua
stessa corrente. I contrasti tra le varie correnti dc e all’interno
delle stesse correnti, come pure tra dc e socialisti, paralizzavano
quindi la vita del Comune e il sindaco non riusciva a realizzare
nessuno dei punti qualificanti del suo programma amministrativo (risanamento, piano quinquennale, edilizia scolastica, edilizia
popolare, ecc.). La situazione finanziaria cominciava inoltre a farsi alquanto critica, perché sul bilancio comunale cominciavano
ormai a gravare oneri in passato di pertinenza dello Stato. All’immobilismo della giunta contribuiva in maniera rilevante anche la voce, ricorrente sin dal marzo ’65, dell’assegnazione a Lima della presidenza dell’Irfis, l’Istituto regionale di finanziamento alle industrie siciliane, che avrebbe comportato le sue dimissioni dalla carica di sindaco, per la quale, nel novembre successivo, il giornale dell’Impresa Cassina, «Telestar», indicava
Ciancimino come preferito, dato che al possibile concorrente Bevilacqua era già stata assegnata la presidenza dell’Azienda Autonoma del Turismo. Le dimissioni di Lima, motivate da «ragioni
strettamente personali», giungevano invece a metà del 1966 e
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sembravano davvero aprire le porte a una sindacatura Ciancimino, ora fortemente sostenuta da tutte le correnti dc, ma sempre
poco gradita dai socialisti, che preferivano la riconferma di Lima. La candidatura del fanfaniano Ciancimino non era neppure
gradita dal duo Gioia-Lima, che poco fidandosi del personaggio
gli preferivano l’assessore ai Lavori pubblici Giovanni Matta, un
ex separatista da tempo tra i più stretti collaboratori di Lima. La
reazione di Ciancimino, appoggiato quasi dall’intero gruppo consiliare dc che non intendeva subire il veto socialista, fu durissima e rischiò di spaccare la stessa corrente fanfaniana, all’interno
della quale egli godeva di alcuni consensi. Alla fine Ciancimino
accettò di ritirarsi, ma con una mossa a sorpresa impose ai dirigenti fanfaniani la scelta di Paolo Bevilacqua, che come ex sindaco faceva apparire meno umiliante la sua forzata rinunzia e che
– sebbene devotissimo a Lima – era assai più controllabile del
grintosissimo Matta (luglio ’66), il quale conservava l’assessorato
ai Lavori pubblici, invano preteso dai dorotei.
Bevilacqua ripropose la stessa formula di centro-sinistra con
la riconferma di quasi tutti i precedenti assessori e il ritorno in
giunta dei dorotei con i noti Cerami e Trapani. Nel tentativo di
ridurre lo strapotere dc nel settore urbanistico, la prima giunta
di centro-sinistra aveva creato un apposito assessorato, affidato
al socialista Guarraci. La presenza socialista in giunta continuava a costituire motivo frequente di contrasti, che in alcune occasioni portavano a scontri di una certa asprezza: licenze di costruzione all’impresa Cassina nella zona di Monte Caputo (oggi
Poggio Ridente), demolizione di appartamenti costruiti abusivamente dall’impresa Vassallo (il cui appalto andò deserto), risanamento della città, destituzione del presidente dell’Iacp Cacopardo. A fine ’66, quando il ministro socialista della Sanità sostituì il commissario dc dell’Ospedale Villa Sofia Luigi Gioia con
un socialista, la difficile collaborazione Dc-Psi si concluse: i socialisti, accusati di volere occupare fette di potere sproporzionate alla loro effettiva forza elettorale in città, furono messi letteralmente alla porta, assieme ai riluttanti socialdemocratici, costretti a seguirne la sorte per via dell’unificazione dei due partiti
socialisti nel Psu, avvenuta proprio un mese prima. Bevilacqua
costituì allora una giunta bicolore Dc-Pri, che poteva contare su
una maggioranza risicatissima (41 consiglieri) e che tuttavia, gra-
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Palermo
zie alla capacità di mediazione del sindaco, riuscì a sopravvivere
sino a dopo le elezioni politiche del maggio ’68, tenutesi in una
Sicilia occidentale semidistrutta dal terremoto del gennaio precedente, che aveva drammaticamente riproposto a Palermo il
problema della casa e del centro storico che cadeva a pezzi e veniva sempre più abbandonato dagli abitanti.
Le elezioni modificavano i rapporti interni alla Dc: Bernardo
Mattarella, sino ad allora primo eletto nella Sicilia occidentale,
scendeva al settimo posto, con una perdita di 50.000 preferenze
rispetto al ’58, e veniva superato da Restivo, Lima, Volpe, Gioia,
Giglia e Sinesio. Gioia, a sua volta, se rispetto al ’63 era riuscito
a prevalere su Mattarella e Sinesio, si vedeva scavalcato, oltre che
da Restivo e Volpe, anche da Lima, che alla sua prima candidatura alla Camera otteneva oltre 80.000 preferenze, poche centinaia in meno del capolista ministro Restivo. Era la rottura tra i
due leader della corrente fanfaniana, ufficializzata dal successivo
passaggio di Lima ad Andreotti, della cui corrente costituirà nel
venticinquennio successivo l’elemento di maggiore forza elettorale. Ciancimino rimaneva con Gioia e salvava il collegamento
con la mafia della provincia, soprattutto con i «corleonesi» di Luciano Liggio e Salvatore Riina che si preparavano alla scalata dei
vertici di Cosa Nostra con il compiacente aiuto di Michele Greco, non ancora all’apice dell’organizzazione criminale ma da sempre, con il fratello Salvatore «il senatore», vicino a Gioia. Con Lima – estromesso dalla segreteria provinciale del partito – si schieravano invece gli esattori Nino e Ignazio Salvo e buona parte della mafia cittadina con ‘don’ Paolino e Stefano Bontate, Gaetano
Badalamenti, Salvatore Inzerillo, ecc. Le conseguenze della rottura si ripercuotevano immediatamente sull’amministrazione comunale: il limiano Bevilacqua era infatti costretto a lasciare la carica di sindaco a Francesco Spagnolo (1920-1991), un ex monarchico, funzionario presso l’Intendenza di Finanza, che si era
mantenuto fedele a Gioia (ottobre ’68). Il ricorso sempre più continuo a ex qualunquisti o ex monarchici e a immigrati era determinato certamente dalle difficoltà della Dc palermitana di trovare al suo interno elementi rappresentativi cui affidare la carica di
primo cittadino o di assessore, ma più ancora dalla precisa volontà dei maggiori leader di mantenere comunque il controllo
dell’attività comunale, reso più agevole dalla presenza a capo del-
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l’amministrazione e in giunta di elementi politicamente deboli e
perciò più facilmente controllabili. Il controllo si estendeva anche all’attività di Enti e Aziende pubbliche, che alla fine degli anni Sessanta così risultavano lottizzati tra i vari capicorrente dc: a
Gioia rispondevano l’Amnu, l’Azienda del Gas, la Casa del Sole, il Centro Tumori (presidenza), il Consorzio Antitubercolare,
il Consorzio per lo Sviluppo Industriale, il Consorzio Provinciale dei Patronati, l’Ente Porto, l’Ospedale Psichiatrico, la Palermo Calcio, il Teatro Massimo; a Lima l’Acquedotto, l’Aiuto Materno, l’Amat (direzione generale), l’Azienda del Turismo, il Centro di Igiene Mentale, il Centro Tumori (direzione), il Cimitero
di S. Orsola, l’Isef (Istituto superiore di educazione fisica), l’Istituto per l’Assistenza all’Infanzia, il Museo Pitrè, l’Ospedale Civico, l’Ospizio Marino (direzione); a Carollo il Consorzio Risalaimi; a Mattarella l’Enal; a Muccioli (Cisl) l’Orchestra Sinfonica; a Nicoletti il Consorzio Anticoccidico. Come si vede, il duo
Gioia-Lima (ossia fanfaniani e neoandreottiani) monopolizzava
la quasi totalità dei vertici delle aziende pubbliche cittadine, lasciando ai leader minori soltanto qualche briciola.
Eletto per un soffio al secondo scrutinio, tra numerose schede bianche e voti dispersi, a dimostrazione che dall’interno della Dc i contrasti si erano ormai trasferiti all’interno delle stesse
correnti, Spagnolo riconfermò tutti gli assessori della precedente giunta Dc-Pri. Ma le nuove fratture in seno al suo gruppo consiliare gli creavano notevoli difficoltà e lo costringevano a tralasciare persino l’ordinaria amministrazione, in una città in preda
al caos, agitata da dimostrazioni di studenti e netturbini e squassata dalla ripresa dell’attività mafiosa. Le agitazioni studentesche
del ’68 a Palermo continuarono anche negli anni successivi, motivate dalla carenza di infrastrutture scolastiche, rese parzialmente inagibili dal terremoto. I netturbini reclamavano a gran
voce la municipalizzazione del servizio di nettezza urbana, che
ottennero nel giugno ’69, dopo una lunga serie di scioperi (il solo sindacato autonomo ne indisse per 35 giorni!), cui altri ne seguirono con richieste di aumenti salariali e indennità di vario tipo, che ne fecero la categoria meglio pagata della città senza che
il servizio ne guadagnasse in alcun modo. Non a torto, la stampa poteva parlare di immondizie che «hanno ormai raggiunto
stratificazioni archeologiche, specie nei quartieri popolari». Ma
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Palermo
era tutta la città che appariva in uno stato miserevole a un inviato del «Corriere della Sera»:
una collezione di nobili palazzi che vanno in malora, di chiese rattoppate alla meglio, di monumenti arabo normanni devastati da usi
profani e incrostati di casupole. Pochi sembrano però soffermarsi a
riflettere sul vero dramma dei mandamenti, quello dei centomila palermitani che ci vivono come in sterminati lager, senza acqua, servizi
igienici, strutture sociali, aria pulita da respirare, e un lavoro sicuro.
Assieme agli slums di periferia invasi dai contadini inurbati, i mandamenti costituiscono la piaga, il tumore della città, e in buona parte spiegano i problemi e i fermenti di Palermo, sconvolta da una dozzina di scioperi generali in un anno e afflitta da malanni che molti ritengono senza rimedio.
E intanto, dopo le assoluzioni dei processi di Bari e Catanzaro contro Liggio e le cosche mafiose palermitane, riprendeva, come nei primi anni Sessanta, la guerra di mafia, legata ancora in
questa fase alla speculazione edilizia: è del dicembre ’69 la vendetta della banda dei Greco contro quella di Pietro Torretta nell’ufficio di viale Lazio del costruttore Moncada, conclusasi con
una strage in cui rimase ucciso anche il mafioso Cavatajo.
Alle amministrative del giugno ’70 la Dc per la prima volta
nelle elezioni comunali subì una flessione in voti (123.473), in
percentuale (40,7 per cento) e in seggi (34). Più pesante la caduta del Pli, che dopo l’exploit del ’64 subiva un ridimensionamento e scendeva a 5 seggi (5,9 per cento dei voti). I 6 seggi perduti dai due partiti venivano recuperati dal Psi, che passava a 8
(9,7 per cento) e dal Pri, che con 7 seggi e l’8,7 per cento dei voti si attestava su valori mai più toccati successivamente. Guadagnava un seggio il Psiup (3,3 per cento e 2 seggi), mentre mantenevano le precedenti posizioni il Pci (11 seggi), i socialdemocratici del Psu (5), il Msi (5), i monarchici del Pdium (2), i Geometri (1).
Qualche settimana dopo le elezioni amministrative si verificava un nuovo esempio di prevalenza dell’interesse privato su
quello generale in un settore diverso da quello edilizio, la gestione
e manutenzione degli impianti di illuminazione pubblica concesse in appalto alla Icem. Già in passato non erano mancati gli
appalti di favore concessi dagli amministratori comunali a im-
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prese amiche. Si ricordano in proposito quello alla ditta Vaselli
nel 1959 (servizio di nettezza urbana) – con l’astensione alquanto sospetta del gruppo consiliare del Pci – e gli altri alle imprese dei Cassina nel 1953, nel 1962 e nel 1974 (manutenzione delle strade e fogne del territorio comunale). L’appalto del 1970 alla Icem, che vede come attori esponenti di primissimo piano della corrente fanfaniana di Gioia, è veramente emblematico – più
ancora forse delle vicende degli appalti alle società dei Cassina –
di come i servizi comunali potessero costituire una fonte di illecito arricchimento per gli amministratori. All’appalto-concorso
per l’assegnazione della manutenzione degli impianti d’illuminazione pubblica vennero invitate quasi esclusivamente imprese
che soltanto formalmente avevano i requisiti per partecipare e
che perciò disertarono la gara. A concorrere si ritrovarono così
soltanto due ditte, una delle quali era la Icem, impresa assolutamente sconosciuta e priva di serie referenze, che il 30 giugno
1970, qualche settimana appunto dopo le elezioni amministrative, si aggiudicò l’appalto per la durata di un decennio. Fatto inconsueto, la Commissione che procedette all’appalto – anziché
dall’assessore ai Lavori pubblici, cui competeva – fu presieduta
dall’assessore all’Urbanistica Giovanni Matta, che la voce pubblica indicava come socio occulto dell’Icem. Della Commissione
faceva parte anche Ciancimino, il quale, eletto sindaco pochi mesi dopo, si preoccupò immediatamente di stipulare con la Icem
un accordo aggiuntivo, che non solo vanificava le garanzie offerte dalla procedura pubblicistica seguita nella stipula del contratto originario, ma – contrariamente a quanto mendacemente da
lui asserito in giunta, e cioè che il nuovo accordo non comportava «alcuna variazione all’importo dell’appalto» – sottoponeva
il Comune a un aggravio di spesa del 131 per cento (novembre
1970). Matta e Ciancimino militavano entrambi tra i fanfaniani
di Gioia, anche se il primo era stato in precedenza molto vicino
a Lima, che tuttavia non aveva seguito tra gli andreottiani. Nel
’72, Matta fu eletto deputato nazionale e imposto da Gioia come
membro della Commissione parlamentare antimafia, ma la sua
nomina fu ritenuta a ragione incompatibile con il ruolo da lui
svolto al Comune di Palermo e vivacemente contestata da altri
commissari (tra cui anche alcuni dc), che non esitarono a dimettersi per protesta. Il caso si risolse con la ricostituzione della
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Palermo
Commissione e l’esclusione di Matta e di quei dc che più degli
altri si erano opposti alla sua presenza. Dopo la sua morte nel
1983, l’ingegnere Parisi, amministratore unico della Icem, cedeva ‘gratuitamente’ agli eredi Matta la metà del pacchetto azionario: era finalmente la logica conferma della sua cointeressenza
nella società che gestiva in appalto la manutenzione degli impianti comunali d’illuminazione.
La breve sindacatura Ciancimino. Ma ritorniamo alle vicende comunali. Sebbene Spagnolo fosse stato largamente il primo degli
eletti alle amministrative del giugno ’70, la Dc – e più precisamente le correnti capeggiate da Gioia, Piersanti Mattarella e Ruffini – gli preferì per la carica di sindaco il personaggio più spregiudicato della vita politica cittadina, Vito Ciancimino (Corleone 1924), eletto con soli 36 voti contro i 35 del candidato dell’opposizione di sinistra (il notaio Andrea Alaimo, socialista), che
poté avvalersi nell’occasione anche di voti di consiglieri dc, divisi in fanfaniani, andreottiani, morotei, basisti, ecc. Nei mesi precedenti, rapporti riservati della polizia indicavano Ciancimino
come sospetto di collusione con elementi mafiosi: collusione ritenuta alla base del suo rapido e notevole arricchimento e, un
ventennio dopo, accertata anche dalla magistratura. Per l’opposizione e l’opinione pubblica egli era inoltre uno dei principali
responsabili del ‘sacco di Palermo’, in qualità di assessore ai Lavori pubblici nelle giunte Lima e Diliberto, e perciò la sua elezione alla carica di primo cittadino venne interpretata come una
provocazione e una sfida alla città. A nulla valse un intervento
del segretario nazionale dc Forlani su Gioia per convincere il sindaco a dimettersi, né le minacce delle minoranze dc di non accettare la disciplina di partito, né il diniego dei socialisti di far
parte dell’amministrazione, né le perplessità dei repubblicani che
non volevano partecipare a una giunta senza i socialisti. Ciancimino non volle dimettersi e, surrogando con liberali e monarchici
i franchi tiratori dc, riuscì a varare una giunta tripartito Dc, Pri,
Psu (novembre ’70).
Le minoranze dc che facevano capo a Lima e a Nicoletti (un
ex gioiano) formalizzarono il loro dissenso in un durissimo documento alla loro Direzione Nazionale, in cui accusavano Gioia
– oltre che di continui atti di prevaricazione, di arbitrio e di ille-
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galità nella gestione del partito in Sicilia (congressi illegali, falsi
tesseramenti, monopolio delle cariche interne, ecc.) – di aver fortemente voluto l’elezione della giunta Ciancimino, con il risultato di creare in città «una situazione assai pesante. Un partito in
crisi – scrivevano –, aggredito, che difende posizioni impossibili
e screditate, in un clima di sospetto e di fuga, con disperate polemiche, una opinione pubblica in rivolta, un dramma che incombe e di cui non si intravede la conclusione». Non c’è tuttavia nel documento una parola contro ciò che l’elezione a sindaco di Ciancimino poteva significare per Palermo, ma soltanto la
preoccupazione per i risvolti negativi che essa poteva avere per
la Dc in città, cosicché resta il convincimento che la lotta a Ciancimino delle minoranze dc fosse esclusivamente una lotta interna al partito, per ottenere lo scioglimento degli organi locali sotto il ferreo controllo di Gioia e conquistare maggiori spazi di potere. E, d’altra parte, non poteva essere diversamente se si considerano i nomi dei firmatari, tra i quali quelli del noto Ferdinando Brandaleone, di Michele Reina, di Sebastiano Purpura, un
tempo non lontano amici e sodali di Gioia e di Ciancimino e ora
trasmigrati all’opposizione tra gli andreottiani al seguito di Lima.
La stessa fronda a Ciancimino dei consiglieri della «Base», la corrente della sinistra dc capeggiata a Palermo da Nicoletti, a una
attenta lettura dei fatti si rivela motivata dall’esclusione di un loro rappresentante dalla lista degli assessori.
L’opposizione comunista presentò una mozione all’Ars con la
quale chiedeva la sospensione dalla carica del sindaco e del presidente della Provincia Sturzo. I socialisti e una parte dei dc (gli
andreottiani) erano decisi ad approvarla, cosicché la maggioranza quadripartita Dc, Psi, Pri, Psu non riusciva a concordare una
linea unitaria, determinando così la caduta del governo Fasino.
Il Pri annunciava allora il ritiro dei suoi assessori al Comune e alla Provincia, offrendo alla minoranza dc la motivazione politica
per sganciarsi da Ciancimino e costringerlo finalmente alle dimissioni (dicembre ’70). Era la vittoria delle forze antimafiose
della città, ma era anche la vittoria di Salvo Lima, che aveva guidato le minoranze dc nell’attacco al sindaco e che adesso riacquistava una verginità di facciata a danno di Vito Ciancimino,
elevato quasi a simbolo unico dello scempio edilizio di Palermo
e del perverso rapporto mafia-politica.
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Palermo
Marchello: il sindaco colonnello. Mentre per le strade della città
si manifestava al grido di «via i mafiosi dal Comune» e «la città
ha un solo nemico: Ciancimino», il partito di maggioranza relativa optava per una sindacatura di transizione, per la quale scelse ancora una volta un uomo dell’entourage di Gioia, ma alquanto
al di sopra delle parti, il colonnello dell’aeronautica Giacomo
Marchello (Paceco 1915), che non aveva mai assunto incarichi
assessoriali e perciò era estraneo alle faide interne al gruppo dc
(aprile ’71). La gestione Marchello resta invece una delle più lunghe della storia della città, quasi a dimostrazione di quanto sia
duraturo a Palermo il provvisorio. Marchello costituì una giunta
monocolore che si avvaleva dell’appoggio esterno di repubblicani e socialdemocratici, in attesa che maturassero finalmente i tempi del centro-sinistra anche al Comune. Per facilitare le trattative, il sindaco in novembre si dimise, ma l’assurda pretesa dei socialisti del riconoscimento di «forza privilegiata» a favore di Dc
e Psi fece fallire l’accordo e ritardò di ben quattro anni il loro ingresso in giunta. Marchello, che nei pochi mesi della sua gestione aveva mostrato un certo attivismo che gli era valso parecchi
consensi, fu riconfermato nella carica a capo di una giunta tripartito Dc, Pri, Psu.
Egli si trovò immerso in una situazione difficilissima: nel 1971,
su una spesa preventiva di 201 miliardi di lire, di cui 52 per rimborso prestiti, le entrate tributarie superavano appena i 13 miliardi, cosicché il pareggio poteva raggiungersi solo con l’assunzione di prestiti per 171 miliardi; nel ’72, la spesa preventivata
saliva a 271,5 miliardi, di cui 80,5 per rimborso prestiti, le entrate tributarie a 15 e l’ammontare dei prestiti da assumere a
234,5 miliardi di lire. Il reperimento dei fondi necessari al pagamento degli stipendi degli impiegati comunali e delle aziende municipalizzate finiva con l’assorbire così larga parte dell’impegno
dell’amministrazione, con risultati spesso scoraggianti se il sindaco, a metà del ’71, era costretto ad esempio a rilevare come «la
pulizia della città [...] lascia di molto a desiderare e non corrisponde né all’attesa della cittadinanza né ai rilevanti oneri cui la
civica amministrazione fa fronte».
La città – continuava Marchello in una lettera ultimatum al commissario dell’Amnu (Azienda municipale nettezza urbana) – è spor-
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ca, sudicia e, in alcuni quartieri, addirittura abbandonata. A questo
punto è bene mettere le carte in tavola e parlare in termini di estrema chiarezza. Il sindaco dice: o la città pulita o lo scioglimento dell’Amnu, o il rispetto delle ore di lavoro oppure la gente [cioè i netturbini] si cerchi un altro impiego.
L’Amnu nel ’72 aveva già accumulato un debito di gestione di
62 miliardi, l’Amat di 50, l’Acquedotto di 10 e l’Azienda del gas
di 8: i salari degli impiegati delle municipalizzate erano ormai i
più alti della città e tra i più alti d’Italia. Ciò costringeva l’amministrazione comunale a trasferire continuamente alle quattro
aziende somme di denaro già destinate ad altri scopi e ad altri
settori, che venivano trascurati accrescendo le carenze della città
e i disagi della popolazione. E tuttavia, i sindacati – che molto
hanno da farsi perdonare, per avere sposato la filosofia del «giorno per giorno» ed essersi intestarditi in una politica accentuatamente corporativa, senza preoccuparsi dei contraccolpi che essa
provocava alla città, in anni in cui il paese attraversava una fase
di emergenza economica a causa della crisi petrolifera – i sindacati, dicevo, non la smettevano con richieste pretestuose e demagogiche e il ricorso continuo a scioperi che paralizzavano la
vita cittadina. Come non ricordare, ad esempio, la richiesta di un
incredibile «premio di incentivazione per la presenza in servizio
dei netturbini»? Un premio cioè per non assentarsi, in un settore dove i presenti non superavano giornalmente la metà degli addetti. Come non ricordare gli scioperi selvaggi dei mezzi di trasporto del settembre ’74, per rivendicazioni salariali che costrinsero il sindaco a far affiggere un manifesto con l’indicazione dei
salari degli impiegati dell’Amat in sciopero, che risultavano assai
più elevati di quelli degli impiegati dello Stato e della stessa amministrazione comunale? E tutto ciò mentre Palermo, risparmiata dal terrorismo politico che insanguinava l’Italia, era terrorizzata dalla escalation della criminalità mafiosa, che proprio nel ’71
dava inizio al suo attacco contro le istituzioni dello Stato, con
l’uccisione del procuratore della repubblica Scaglione a opera dei
«corleonesi» di Liggio. Attacco che colpì nel segno, se negli anni successivi, malgrado nuovi gravi fatti delittuosi, si registrò –
ove si eccettui il processo a carico di 114 imputati di associazione a delinquere – «una lunga stagione di tolleranza verso le ma-
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Palermo
nifestazioni della criminalità mafiosa [...] [che] – come rileverà
più tardi la sentenza istruttoria del maxi processo – contribuì in
modo determinante al consolidamento del potere mafioso in un
periodo molto delicato di trasformazione degli interessi economici delle cosche, che dal mercato dei tabacchi esteri andavano
progressivamente convergendo verso quello dell’eroina».
Alle elezioni amministrative del giugno ’75, la Dc era costretta – per volontà della Segretaria nazionale del partito – a non ricandidare un terzo dei consiglieri uscenti, tra cui Ciancimino, Cerami, Sorci, Matta e Di Fresco. Poco male per il senatore Cerami e l’onorevole Matta, che erano parlamentari nazionali; il fanfaniano Di Fresco veniva dirottato alla Provincia, della quale subito dopo veniva eletto addirittura presidente; Ciancimino rimaneva invece escluso completamente da tutto e si impegnava con
successo per la elezione di un gruppetto di suoi fedelissimi. Se a
livello regionale la Dc perdeva il 3 per cento dei voti, a Palermo
– grazie alla presenza in lista di parecchi candidati di prestigio,
poi regolarmente trombati a favore degli «uomini delle clientele» – guadagnava in voti (150.463), in percentuale (41,6 per cento) e in seggi (35). Assai più consistente era però l’avanzata del
Pci, che balzava al 18,4 per cento dei voti e a 15 seggi, con un
guadagno di 4 seggi, due dei quali venivano occupati da Leonardo Sciascia e Renato Guttuso, esponenti di primissimo piano
del mondo culturale italiano. Il Msi-Dn si collocava al terzo posto con il 10,3 per cento e 8 seggi: assorbiva cioè i due seggi dei
monarchici e ne conquistava un terzo. Il Psi avanzava di qualcosa in voti, ma non in percentuale (9,3 per cento) né in seggi (8).
Lo spostamento a sinistra dell’elettorato avveniva esclusivamente a danno dei partiti minori dell’area governativa: il Pri scendeva a 5 seggi, il Psdi a 4 e il Pli, continuando nella sua caduta,
crollava addirittura a 3. Un seggio ciascuno conquistavano Democrazia Proletaria e Nuova Repubblica.
In attesa che i socialisti, divisi in lauricelliani e manciniani, si
mettessero d’accordo sulla loro rappresentanza in giunta, Marchello varò un tripartito Dc, Pri e Psdi (luglio ’75), durato pochissimi mesi, sia perché due assessori del gruppo Ciancimino
non vollero accettare la delega, sia per il maturare di nuovi equilibri all’interno della Dc palermitana che presto convincevano il
sindaco dell’opportunità di chiudere definitivamente con le di-
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missioni la sua esperienza di capo dell’amministrazione comunale. La corrente morotea capeggiata da Piersanti Mattarella e quella dorotea di Ruffini si staccavano infatti dai fanfaniani di Gioia,
mentre Ciancimino – cui bruciava terribilmente l’esclusione dalla lista dc alle ultime amministrative, che seguiva la mancata candidatura al Senato nel sicuro collegio di Partinico-Monreale, che
Gioia nel ’72 non era riuscito a imporre – si era già collocato in
una posizione d’indipendenza, pur continuando a mantenere la
responsabilità del settore Enti locali del partito. Gioia quindi perdeva la maggioranza nel Comitato provinciale, che passava nelle
mani di Lima, Nicoletti e Mattarella, con conseguente elezione a
segretario provinciale dell’andreottiano Michele Reina, in sostituzione del fanfaniano Gaspare Mistretta. I fanfaniani riuscivano
a mantenere ancora la presidenza della provincia con Di Fresco,
ma dovevano cedere alle altre correnti dc la poltrona di sindaco.
Scoma: prova palermitana di un ‘governo di solidarietà nazionale’. L’incarico di guidare la nuova giunta di centro-sinistra fu affidato a Carmelo Scoma (Prizzi 1931), un sindacalista vicino al
segretario regionale dc Nicoletti, che a livello nazionale si riconosceva sulle posizioni della sinistra di Bodrato. Egli varò una
giunta ancora a forte maggioranza dc: 9 assessori, contro i 3 del
Psi, 2 del Pri e 2 del Psdi, ma aperta – con un anticipo di alcuni mesi rispetto al «governo delle astensioni» di Andreotti – al
confronto con il Pci, che partecipava agli accordi programmatici e alle trattative per la formazione della stessa giunta, dalla quale, per propria scelta, inizialmente rimanevano fuori i fanfaniani
di Gioia in aperto dissenso con la politica del confronto (gennaio
’76). Durante la gestione Scoma, la città fu divisa in 25 quartieri
con propri Consigli e venne rilanciato il problema del risanamento del centro storico, che provocò gravi dissidi tra i repubblicani, favorevoli a delegare la società Rep, e i socialisti, che temevano una speculazione sulle nuove aree edificabili del centro
storico e ricusavano gli accordi già conclusi. Da allora è passato
un quarto di secolo e il risanamento è ancora ben lungi dall’essersi realizzato.
Dopo le elezioni regionali del giugno ’76, il Pri chiese una rotazione degli incarichi assessoriali, per sostituire Pullara eletto all’Ars e ottenere l’assessorato ai Lavori pubblici, che consentiva
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Palermo
di partecipare più efficacemente al dibattito sul risanamento. Ma
alle dimissioni dei due assessori repubblicani non seguì la crisi: i
due dimissionari vennero surrogati da un socialista e da un dc e
il quadripartito si trasformò in tripartito, che a fine ’77, quando
i socialisti si ritirarono dalla maggioranza, diventò un monocolore dc, con la presenza in giunta dei rappresentanti di tutte le componenti del partito, compresi quindi anche gioiani e cianciminiani. Ciancimino, che controllava un gruppo fedelissimo di consiglieri comunali e provinciali, si era definitivamente allontanato
da Gioia e nel novembre ’76 si era accordato con gli andreottiani, sui quali qualche anno dopo farà convergere le sue deleghe
congressuali, in cambio del pagamento delle tessere da parte di
Lima. Con tutti gli altri partiti all’opposizione, solo l’appoggio
esterno del Pci – che a Roma faceva parte della maggioranza che
sosteneva Andreotti – consentiva a Scoma di reggersi stancamente sino all’ottobre ’78.
La caduta della sua giunta anticipò di qualche mese la fine del
governo di solidarietà nazionale a Roma e riaprì le porte ai socialisti, che rientravano in una giunta tripartito Dc, Psi e Psdi guidata dal limiano Salvatore Mantione (Milena 1922), farmacista,
il quale nell’86 sarà poi arrestato sotto l’imputazione di avere –
come assessore all’Edilizia privata nella precedente giunta Scoma – autorizzato in cambio di lotti di terreno la costruzione, su
terreno destinato a verde agricolo dal piano regolatore, di 300
villette a Pizzo Sella (Partanna Mondello), a favore della Sicilcase, una società rappresentata dalla sorella di Michele Greco il ‘papa’, il capo dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra. Accusa dalla quale nel ’93 sarà infine scagionato in appello.
Tra Martellucci e Pucci, ossia tra Lima e Gioia. L’amministrazione Mantione fu presto in preda alla protesta di piazza: camionisti che bloccavano il traffico; senza tetto, disoccupati e diseredati che bivaccavano a Piazza Pretoria e talora a Palazzo delle Aquile, occupato anche dagli operai dell’Icem in sciopero. E
fu così sino alle elezioni amministrative del giugno ’80, che segnarono l’ennesimo trionfo della Dc, che ottenne il 46,7 per cento dei voti (167.502 voti) e ben 39 seggi, quasi la maggioranza assoluta. Gli altri due partiti dell’area governativa guadagnavano
un seggio ciascuno e passavano a 9 il Psi (11,6 per cento dei vo-
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ti) e a 5 il Psdi (6,1 per cento), mentre il Pri manteneva i suoi 5
seggi, perdendo in voti e in percentuale (6,7 per cento). Al successo dc faceva riscontro il pesante calo del Pci, che perdeva 3
seggi (12 seggi) e 3 punti percentuali (15,4 per cento dei voti) e
l’arretramento del Msi, che perdeva 1 seggio (7 seggi) e due punti percentuali (8,4 per cento). La scelta del sindaco non era in discussione: la Dc aveva presentato come capolista l’avvocato Nello Martellucci (Messina 1921-Palermo 1997), vicino a Lima ma
non sgradito a Gioia e agli altri capicorrente, con il preciso scopo di dare alla città un sindaco competente, che restituisse alla
carica quel prestigio che negli ultimi tempi si era offuscato e alla macchina amministrativa una maggiore efficienza, per sfruttare meglio gli effetti della legge sulla finanza locale del ’78, che
aveva ripianato i debiti del Comune e lo aveva dotato di entrate
sicure. Martellucci, che ritornava dopo un trentennio a Sala delle lapidi, aveva acquisito una vasta esperienza amministrativa alla guida dell’Ospedale Civico e della Commissione provinciale di
controllo.
Avvenimento quasi mai verificatosi, la maggioranza riuscì a
eleggere nella stessa seduta sindaco e giunta, un’amministrazione tripartito Dc, Pri e Psdi, che se vedeva il ritorno dopo quattro anni dei repubblicani e l’attenzione costruttiva del Pci (non
tanto nei confronti della giunta quanto piuttosto del sindaco), registrava l’uscita dalla maggioranza del Psi, che – come spesso gli
accadeva – non riusciva a risolvere in tempi brevi i suoi problemi di dosaggio interno (luglio ’80). Nel tentativo di provocare
una crisi che consentisse il loro rientro nella maggioranza, i socialisti si impegnarono allora in una opposizione durissima, ai limiti dell’ostruzionismo, aiutati talora anche dai missini e, con il
trascorrere del tempo, da gruppi dc. Ciancimino, ad esempio, da
tempo non faceva più parte del Consiglio comunale e nell’83 rinunciava platealmente alla tessera dc, ma continuava ancora a
mantenere saldamente il controllo della vita amministrativa del
Comune, grazie a un gruppetto di consiglieri a lui legatissimi, che
sino al suo arresto nel novembre ’84 costituivano un vero e proprio partito con il quale bisognava fare sistematicamente i conti,
come sperimentarono, dopo Martellucci, anche la Pucci e Insalaco, soprattutto quando tentarono di affrontare il problema dei
«grandi appalti» comunali, ossia la manutenzione di strade e fo-
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gne e la illuminazione pubblica, la cui gestione – come sappiamo
– era da decenni in mano a gruppi facenti capo alla famiglia Cassina e all’ingegnere Parisi (poi assassinato dalla mafia), che esercitavano una forte azione di controllo della vita politica cittadina. Ma anche i morotei facevano talora la fronda, che spesso era
capeggiata dallo stesso capogruppo dc. E così, malgrado l’amministrazione fosse sulla carta forte di una maggioranza di 50
consiglieri, la giunta, dopo un avvio che aveva suscitato tante speranze nei palermitani, cominciò a trovarsi sempre più in difficoltà
e il sindaco sempre più contestato per il suo protagonismo e il
suo carattere accentratore.
L’assassinio, nel settembre ’82, del prefetto generale Dalla
Chiesa – che seguiva quelli di altri fedeli servitori dello Stato (il
vicequestore Giuliano, luglio ’79; il giudice Terranova, settembre
’79; il capitano Basile, maggio ’80; il procuratore della repubblica Costa, agosto ’80; il medico legale professor Giaccone, agosto
’82, per non citare che i più noti) e di prestigiosi uomini politici
(il presidente della Regione Piersanti Mattarella, gennaio ’80; il
deputato comunista La Torre, aprile ’82) impegnati in prima persona nella battaglia per la moralizzazione della vita pubblica e
nella lotta alla mafia – riportò Palermo alla ribalta nazionale come capitale della mafia e del malgoverno, con i maggiori esponenti della Dc locale accusati di responsabilità morale nell’omicidio, per avere isolato il generale rendendolo più facile bersaglio della mafia. Mentre resta tutto da dimostrare che la mafia
colpisca di preferenza gli uomini isolati (l’isolato non fa alcuna
paura alla mafia!), il cordoglio unanime e sinceramente sentito
dei palermitani per la morte di Dalla Chiesa dimostra invece come il prefetto non fosse affatto isolato e quanto la città degli onesti sperasse nella sua azione. Era proprio nel consenso che il suo
impegno riscuoteva giorno dopo giorno che la mafia vedeva il
maggior pericolo, sino a deciderne la soppressione.
A causa di alcune sue precedenti discutibili prese di posizione, anche il sindaco – che pure in passato era stato vittima di un
attentato mafioso che gli aveva distrutto la villa – fu coinvolto
nell’accusa, che si rivelò poi, almeno per quanto lo riguardava,
infondata. Ma intanto gli attacchi violentissimi degli avversari finivano col travolgerlo: i comunisti, che in precedenza non si erano associati alla dura opposizione dei socialisti, ne chiesero insi-
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stentemente le dimissioni, assieme a quelle del presidente della
Regione D’Acquisto, numero due della corrente andreottiana a
Palermo, mentre i socialisti, che avevano dato la loro disponibilità per un pentapartito comprendente anche i liberali, si tirarono in disparte. Non sostenuta dal consenso pieno della maggioranza e paralizzata dalle tensioni e dai ricatti all’interno della Dc,
l’amministrazione cadeva nell’immobilismo più completo, sino a
convincere la procura della repubblica ad aprire due inchieste sul
disservizio della nettezza urbana e sulla scuola-sfascio e l’assessore regionale agli Enti locali a nominare un commissario ad acta per alcuni adempimenti. Per la giunta Martellucci, la fine giunse pochi mesi dopo, quando i fanfaniani – che dopo la morte di
Giovanni Gioia nell’81 avevano trovato un nuovo capo nel fratello Luigi – ritirarono i loro assessori (febbraio ’83).
Fallito in sede di gruppo dc un tentativo di riproporre il sindaco uscente, i fanfaniani imposero la professoressa Elda Pucci
(Trapani 1928), pediatra, che fu il primo sindaco donna di una
grande città italiana (aprile ’83). A capo di un pentapartito Dc,
Psi, Pri, Psdi e Pli, anche la Pucci – sebbene si considerasse allieva di Giovanni Gioia, alla cui memoria rimase sempre fedele
– era come il suo predecessore un sindaco «prestato alla politica» e perciò anche la sua elezione suscitò attese e speranze che
il trascorrere dei mesi si incaricherà di dissolvere nel nulla. Dal
dopoguerra, mai nessun sindaco aveva potuto contare sulla carta su una maggioranza così consistente: peraltro la Dc, per effetto del passaggio tra le sue file di due consiglieri di altri partiti,
aveva – situazione mai realizzatasi in precedenza – la maggioranza assoluta (41 su 80 consiglieri). Ma all’interno del pentapartito l’accordo era alquanto precario e i difficili rapporti si riflettevano pesantemente sull’azione della giunta, creando incomunicabilità e conflitti tra i vari assessori che il sindaco non riusciva a comporre. La mappa delle correnti dc veniva poi quasi
completamente ridisegnata durante la campagna elettorale del
giugno ’83 e perciò le correnti non rappresentate in giunta costituivano un pericoloso partito della crisi che lavorava nell’ombra, con un’azione di logoramento costante che contribuiva all’immobilismo dell’amministrazione, incapace di fornire risposte
concrete ai problemi della città e di tradurre operativamente il
proclamato rinnovamento. Le realizzazioni più importanti fini-
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Palermo
vano con l’essere la costituzione di parte civile nel processo di
Caltanissetta per l’assassinio nel luglio ’83 del giudice Chinnici e
l’approvazione del Piano programma per il risanamento. Redatto da un comitato di quattro consulenti (De Carlo, Di Cristina,
Samonà, Sciarra Borzì) con il preciso intendimento di definire «i
modi per l’attuazione di una politica di riconversione e di ristrutturazione del centro antico», il Piano programma capovolgeva le indicazioni del Piano Regolatore e poteva costituire un
indispensabile quadro di riferimento per la tutela dei valori artistici e ambientali del centro storico, senza escludere modifiche
necessarie alla modernizzazione dei servizi abitativi e delle infrastrutture primarie, nel convincimento che un centro storico non
è un’area urbanistica da progettare bensì un realtà esistente da
recuperare e da rivitalizzare senza stravolgimenti. E tuttavia esso
non avrà pratica attuazione.
I dissidi e le spaccature all’interno del gruppo dc non consentivano intanto alla giunta di sostituire un assessore inquisito
dalla magistratura e ne provocavano le dimissioni. La caduta della professoressa Pucci rilanciava la candidatura di un politico di
professione, Giuseppe Insalaco (San Giuseppe Jato 1941-Palermo 1988), ex pupillo del ministro Restivo, passato poi tra i fanfaniani. Abbastanza spregiudicato e sino a qualche anno prima vicino ai fratelli Michele e Salvatore Greco, che non poco in passato avevano contribuito con i loro voti alla sua ascesa politica, Insalaco si pose subito come alfiere della moralizzazione e del rinnovamento. Ricostituì una nuova giunta pentapartito (aprile ’84),
che superò appena la tregua per le elezioni europee del giugno
’84, in cui la Dc subì a Palermo una pesante sconfitta, passando
in un quadriennio dal 46,7 per cento delle comunali dell’80, al
42,8 per cento delle regionali dell’81, al 36 per cento delle politiche dell’83 e infine al 32,5 delle europee. Nei partiti, ma soprattutto nella Dc, riesplodevano i contrasti e le faide. Si litigava, come rilevava un acuto osservatore delle vicende cittadine,
per un posto in più nell’azienda del gas o per un commissario in un
concorso di inserviente. [I partiti] perdono di mira le grandi questioni
di Palermo delle quali non si parla più, ciascuno volendo impedire ad
un gruppo concorrente oppure a un partito alleato di rafforzarsi con
una nuova poltrona in una municipalizzata o con l’assunzione di qual-
IX. Palermo capitale
485
che bidello. A costo di provocare l’immobilismo più assoluto e la paralisi di ogni attività. Forse in questa città esistono gruppi e gruppetti organizzati per «non fare» ed anche «per non far fare». Come se il
rischio più grosso fosse quello di modificare anche in piccola parte
l’esistente.
E intanto la città era allo sbando più completo:
I rifiuti nuovi coprono quelli vecchi, i topi e gli insetti invadono
uffici pubblici, costringendo gli impiegati a sloggiare, l’acqua scarseggia per gli usi potabili e manca del tutto per quelli agricoli (malgrado le piogge abbondanti), il caos del suolo pubblico, del traffico,
dei mercati tocca punte insopportabili [...]. Presidi e insegnanti reclamano interventi sempre promessi e mai attuati per la scuola, urbanisti e senzatetto aspettano che i «piani» (sempre mega-improbabili piani) per il risanamento comincino a trasformarsi in mattoni e
cemento, giovani e invalidi inseguono da anni i concorsi-fantasma che
dovrebbero aggiungere funzionalità all’amministrazione e ridurre la
disoccupazione. Sono questi i problemi con i quali i cittadini ogni
giorno sono costretti a confrontarsi in una città priva di servizi e con
quelli esistenti che non funzionano, ricca di finanziamenti che non
vengono utilizzati e di programmi, iniziative, proposte che si perdono in un labirinto di polemiche, di contrasti, di verifiche che non approdano a nulla10.
Senza il sostegno del suo partito sulla questione degli appalti
dell’illuminazione pubblica e della manutenzione di strade e fogne e colpito intanto da una comunicazione giudiziaria per una
vecchia storia di tangenti, che pochi mesi dopo lo porterà addirittura in carcere, Insalaco fu costretto presto a dimettersi. Ancora qualche anno e finirà assassinato dalla mafia (1988).
Bocciata in sede di gruppo dc la candidatura del professore
Leoluca Orlando, moroteo, che era stata suggerita dal segretario
nazionale De Mita, il Consiglio comunale, assenti numerosi consiglieri dc, elesse sindaco Stefano Camilleri (Ioppolo Giancaxio
1935), della frazione della sinistra dc che localmente faceva capo
all’onorevole Pumilia (agosto ’84). Ma non fu più possibile eleg10
A. Vaccarella, Palermo caos e politici ciechi, in «Giornale di Sicilia», 28
giugno 1984.
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Palermo
gere la giunta, perché la spaccatura del gruppo dc provocò il ritiro dei partiti alleati, i cui rapporti con il partito di maggioranza relativa si erano molto logorati. La preoccupazione che eventuali elezioni anticipate in seguito a uno scioglimento del Consiglio si risolvessero in una grave sconfitta convinse i consiglieri dc
a rilanciare una nuova candidatura Martellucci, alla quale gli altri partiti per un attimo pensarono di contrapporre quella del socialista Rocco Lo Verde, già vicesindaco nella giunta Pucci. All’inizio di ottobre, Martellucci riuscì comunque a dare vita a un
monocolore dc, con l’unico scopo di evitare il commissariamento immediato del Comune e quindi le elezioni anticipate. Lo scioglimento del Consiglio giunse un mese dopo (novembre ’84),
quando le dimissioni di numerosi consiglieri dell’opposizione furono seguite da quelle della maggioranza, volute adesso anche da
Sergio Mattarella, che ne aveva fatto una condizione irrinunciabile per accettare l’incarico di commissario provinciale della Dc.
Nessuno avrebbe mai immaginato una simile conclusione all’indomani del trionfo dc alle amministrative dell’80. E invece,
un partito che aveva la maggioranza assoluta dei consiglieri non
era riuscito a esprimere una amministrazione duratura e con i
suoi intrighi incomprensibili, le sue faide interminabili, la forte
componente mafiosa di una sua parte, l’ostilità a ogni serio rinnovamento, aveva privato Palermo di un governo efficiente. Opportuno si rivelava perciò l’autoscioglimento, che comunque riusciva a evitare le elezioni anticipate e precedeva di pochissimi
giorni gli arresti dell’ex sindaco Ciancimino e dell’esattore comunale Nino Salvo, accusati di associazione mafiosa, e il suicidio
dell’ex segretario regionale dc Nicoletti, il quale, senza la solidarietà del suo partito, non riuscì a resistere al sospetto di responsabilità morale nell’omicidio Dalla Chiesa avanzato anche sul suo
conto dal figlio del prefetto.
Il commissario regionale Nicolò Scialabba (Tusa 1936) e successivamente il commissario straordinario prefetto Gianfranco
Vitocolonna (Roma 1933 – Trabia 1986) si impegnarono a rimuovere le più grosse incrostazioni della macchina amministrativa, riuscendo a varare numerosi provvedimenti che da anni erano in lista d’attesa. Le 2.600 deliberazioni adottate da Vitocolonna, in cinque mesi di permanenza a Palazzo delle Aquile, più
di quanto il disciolto Consiglio era stato capace di approvare in
IX. Palermo capitale
487
quattro anni e mezzo, danno l’idea della scossa positiva che la gestione commissariale diede alla vita amministrativa della città e
dovrebbero costituire un esempio da imitare per gli amministratori comunali, i quali amano mascherare i loro ritardi appellandosi ai «tempi tecnici», che in realtà sono soltanto «tempi politici», che non coincidono affatto con i tempi della gente comune. Si spiega perché l’azione dei due commissari sia stata confortata dal consenso pressoché generale dell’opinione pubblica: Vitocolonna, in particolare, ebbe il merito di fornire risposte rapide alle lunghe attese e ad alcuni vecchi problemi della città,
avviando l’iter per risolvere il nodo dei cosiddetti «grandi appalti» (manutenzione di strade e fogne, illuminazione pubblica),
che erano costati la carica agli ultimi sindaci. Dopo quasi mezzo
secolo, la nuova amministrazione retta da Orlando poteva così finalmente sottrarre l’appalto della manutenzione di strade e fogne alla Lesca-Farsura, ossia all’impresa Cassina che su di esso
aveva costruito le sue fortune sino a diventare l’azienda leader
della città e uno dei pilastri fondamentali del sistema di potere
dc a Palermo (dicembre ’85-gennaio ’86); e l’appalto della manutenzione ordinaria degli impianti della pubblica amministrazione alla Icem (settembre ’85).
Le elezioni amministrative del maggio ’85 rinnovavano per oltre la metà il Consiglio comunale. La Dc – che non aveva ricandidato ben 29 consiglieri uscenti – con 148.632 voti e il 37,3 per
cento recuperò 5 punti percentuali rispetto alle europee dell’anno precedente ma ne perdette quasi 10 rispetto alle precedenti
amministrative, riducendo così i seggi da 39 (o 41 se si considerano anche i due consiglieri acquisiti) a 32. Della caduta dc si avvantaggiavano il Psi, che guadagnava 2 seggi (13,3 per cento dei
voti, 11 seggi), le liste civiche Unione Popolare Siciliana (2 seggi)
e Città per l’Uomo (2 seggi), dove erano confluiti soprattutto dissidenti dc e cattolici fortemente impegnati nel movimento antimafia, e ancora la Lista Verde (1 seggio) e Democrazia Proletaria
(1 seggio). Stazionarie rimanevano le posizioni del Pci (14,7 per
cento, 12 seggi), del Msi (9,1 per cento, 7 seggi), del Pri (5,9 per
cento, 5 seggi) e del Pli (4,2 per cento, 3 seggi), mentre il Psdi
perdeva un seggio (5,3 per cento, 4 seggi).
Da Orlando a Orlando. L’incarico di costituire la nuova giunta
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Palermo
pentapartito Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli fu affidato a Leoluca Orlando (n. 1947), un giovane docente della facoltà di Giurisprudenza, che aveva l’appoggio di buona parte dei cattolici palermitani.
Con Orlando, appartenente a una famiglia borghese e discendente per parte di madre dai marchesi Arezzo, l’alta borghesia
palermitana ritornava, dopo decenni di assenza, alla guida della
civica amministrazione, anche se parecchi membri della giunta
erano inurbati e due – come sappiamo – addirittura viaggiavano
da Partinico e da Belmonte Mezzagno. La sua sindacatura per
tanti versi costituiva certamente una svolta positiva nella vita della città. L’impegno antimafia del sindaco – che, se gli è valso una
morbida opposizione dei consiglieri comunisti, non è stato sempre favorevolmente giudicato, e non solo all’interno del suo partito – ha dato a livello nazionale una immagine nuova della città:
una città decisa finalmente a rompere con la parte peggiore del
suo passato, una città il cui Consiglio comunale ha saputo darsi
un diverso codice di comportamento che ha costituito un modello altrove imitato, una città desiderosa di avvicinarsi di più ai
modelli europei.
Sul piano delle realizzazioni immediate il bilancio della prima
giunta Orlando non può però considerarsi altrettanto positivo:
venne avviato dopo quarant’anni il risanamento del centro storico, furono rinnovate commissioni scadute da anni, ma per il resto – funzionamento della macchina amministrativa, nettezza urbana, trasporti, assistenza, circolazione stradale, ecc. – la situazione non cambiò, cosicché neppure la giunta Orlando sfuggì all’accusa di immobilismo, lanciata più volte anche da sindacalisti
vicini alla Dc («l’immagine non dà da mangiare», tuonava il segretario della Cisl) e ripresa nell’imminenza di ogni competizione elettorale dai socialisti, che spesso dell’immobilismo erano i
più diretti responsabili, allo scopo di mettere in difficoltà il sindaco e, in nome dell’alternanza, sostituirlo con un loro esponente. Né si realizzava il notevole risparmio per le casse comunali
come conseguenza degli incredibili – e per molti versi anomali –
ribassi sulla base d’asta con i quali le società romane Co.Si. (Cozzani e Silvestri) e Si.Co. (Silvestri e Cozzani) si aggiudicavano l’affidamento dei servizi di manutenzione ordinaria di strade e fognature per il quadriennio 1986-1989 la prima (ribasso del 26 per
cento) e di manutenzione straordinaria la seconda (ribasso del 36
IX. Palermo capitale
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per cento). Le due società si rivelavano infatti assolutamente inadeguate allo svolgimento del servizio e provocavano un lungo contenzioso con il Comune che faceva lievitare i prezzi degli appalti
ben oltre la stessa base d’asta. Le strade cittadine si trasformavano
così in tappeti di buche e di scavi non ricoperti e i liquami maleodoranti straripavano dalle fognature non riparate, mentre gli
operai della Lesca-Farsura, in gran parte non riassunti dalle due
imprese, organizzavano manifestazioni e cortei con cartelli inneggianti alla mafia («Vogliamo la mafia», «Con la mafia si lavora,
senza no», «Cittadino, non scandalizzarti quando il lavoratore
inneggia alla mafia, perché prima si lavorava, ora con le istituzioni pulite c’è disoccupazione», «Ciancimino come sindaco»). E
l’ombra di Ciancimino evocata riappariva improvvisamente dietro l’aggiudicazione degli appalti: fideiussore delle due imprese
romane risultava infatti il conte Vaselli, che in passato aveva gestito il servizio della nettezza urbana a Palermo e che soprattutto
era noto per i suoi rapporti d’affari con l’ex sindaco. Qualche anno dopo si scoprirà inoltre che nell’aprile ’87 la Si.Co. – con l’autorizzazione della giunta, poi revocata – si era associata al 50 per
cento nell’appalto la Siciliana Scavi e Costruzioni dei fratelli Vincenzo, Filippo e Salvatore D’Agostino, accusati di associazione
mafiosa e legati a Ciancimino e alla Ices del conte Vaselli. Estromessa dalla porta, Cosa Nostra era rientrata dalla finestra.
Già prima delle elezioni politiche del giugno ’87, la giunta era
di fatto in crisi, che esplose formalmente subito dopo: una pesante dichiarazione del sindaco, che attribuiva il notevole successo del Psi a Palermo (16,4 per cento dei voti, contro il 13,7
nelle regionali dell’86, il 13,3 nelle amministrative dell’85 e addirittura il 9,8 nelle politiche dell’83) all’aumento di voti nelle
borgate tradizionalmente controllate dalla mafia – e, è il caso di
aggiungere, sino ad allora feudo della Dc –, provocò il ritiro dei
socialisti dalla giunta, seguito da vivaci polemiche tra i due partiti e da un grave deterioramento dei rapporti. Il Psi chiese insistentemente la testa di Orlando («sarà un bravissimo figlio, ma
non è un bravo sindaco», ripeteva il vicesegretario nazionale socialista Martelli) e, forte dei risultati elettorali, propose una candidatura laica alla guida della città, come già a Napoli e a Bari.
Ma la Dc, che a livello nazionale era stata costretta a subire il governo Goria, imposto da Craxi, non era disposta a farsi spode-
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Palermo
stare a Palermo. I socialisti non lo compresero e da un lato continuarono a tirare la corda, soprattutto con provocatorie dichiarazioni di Martelli, dall’altro adottarono una politica di rinvii che
non giovavano certamente alla città.
Falliti tutti i tentativi di ricucire l’alleanza pentapartito, a metà
agosto ’87 una maggioranza costituita da Dc, da socialdemocratici e da un «cartello» comprendente Città per l’Uomo, Sinistra
indipendente e Verdi, con l’avallo del dc Mattarella e del socialdemocratico Vizzini, entrambi ministri in carica, rielesse sindaco
Orlando, a capo di una giunta della quale facevano parte anche
rappresentanti dei due partiti e del «cartello». Si trattava di una
svolta dagli sviluppi imprevedibili, che mise a soqquadro il mondo politico nazionale, perché per la prima volta la Dc adottava
in una grande città la politica del «gioco a tutto campo» (o la
«strategia delle mani libere»), proprio a danno del Psi che l’aveva per primo teorizzata e spesso applicata: vicesindaco infatti veniva nominato l’onorevole Aldo Rizzo della Sinistra indipendente, già componente del Consiglio superiore della Magistratura,
che alle amministrative precedenti il Pci aveva presentato come
suo capolista e indicato agli elettori come futuro sindaco della
città. Per uno dei paradossi di cui è ricca la storia della città, il
vicesindaco Rizzo, più volte giudice istruttore in processi di mafia, si ritrovava al suo fianco come assessore il manniniano Vincenzo Inzerillo, già segretario dell’ex senatore Cerami e finito più
tardi in carcere con l’accusa di appartenenza a Cosa Nostra.
Il Pci inizialmente si schierava all’«opposizione costruttiva»,
ma il suo «no» a Orlando non durava a lungo. Pochi mesi dopo
(ottobre ’87), approvando il programma di governo della città
esposto dal sindaco, esso trasformava il suo iniziale «ni» in un
appoggio sempre più determinante per l’esistenza della giunta
pentacolore. Nasceva così il «caso Palermo» – o «l’imbroglio di
Palermo», come lo definivano immediatamente i socialisti; o «la
primavera di Palermo», come la chiamavano invece i sostenitori
di Orlando –, cioè un esperimento di governo di una grande città
che intendeva sostituire a un’egemonia di apparati un’egemonia
di valori, e perciò rompeva le logiche partitiche per reggersi su
un accordo programmatico tra il maggiore partito italiano (la Dc)
e la maggiore forza di opposizione (il Pci), con l’esclusione del
Psi e di due partiti laici (il Pri e il Pli) che a Roma partecipava-
IX. Palermo capitale
491
no con la Dc al governo nazionale. Come compenso dell’appoggio esterno alla giunta Orlando, i comunisti ottenevano nell’agosto successivo l’ingresso nella giunta provinciale guidata dal limiano Girolamo Di Benedetto, cioè da un esponente di quel
gruppo da essi considerato come il simbolo dell’intreccio tra mafia e politica. Alcuni anni dopo, in occasione delle elezioni politiche del ’92 e delle polemiche che seguirono l’assassinio dell’onorevole Lima, gli ex comunisti (il Pci si era intanto trasformato
in Pds), ormai in rotta con Orlando che aveva sottratto loro la
leadership del movimento antimafia, rivelarono che era stato proprio il sindaco a mediare con lo stesso Lima – in cambio dell’appoggio del forte gruppo andreottiano alla sua giunta – il loro ingresso nella giunta Di Benedetto, facendone una condizione pregiudiziale per accettare la loro collaborazione al Comune.
Ma la possibile mediazione di Orlando non vale a escludere né
ad attenuare la responsabilità dell’ex Pci nella complessa operazione che lo portava al governo della Provincia in compagnia degli amici di Lima11.
Grazie intanto alla forte caratterizzazione antimafia dell’amministrazione comunale, l’immagine della città a livello internazionale migliorava notevolmente. Allo scopo di eliminare il rischio di interferenze mafiose nella assegnazione degli appalti il
sindaco propose addirittura che la gestione dei grandi investimenti che interessavano Palermo venisse affidata a un’autorità
appositamente istituita sotto il controllo diretto dello Stato, provocando il risentimento dell’imprenditoria locale che si sentiva
criminalizzata in blocco a vantaggio di quella continentale. Ma
né ciò né il consenso pressoché unanime della grande stampa, il
forte sostegno di una parte del mondo cattolico (i gesuiti di padre Sorge, che erano tra i teorici dell’esperimento), il favore del11
Il rapporto Lima-Pci, assai conflittuale negli anni Cinquanta-Sessanta,
quando Lima militava nella corrente fanfaniana, è notevolmente migliorato dalla fine degli anni Settanta in poi, cioè da quando il Pci ha fornito l’appoggio
esterno al governo Andreotti. Come Andreotti, più volte salvato dalle inchieste della magistratura per l’atteggiamento a suo favore del Pci (clamorosa l’astensione nella votazione sui rapporti Andreotti-Sindona), anche Lima, capo
degli andreottiani di Sicilia, nell’84 fu salvato dal voto contrario del Pci sulla
proposta di discutere al Parlamento europeo i suoi rapporti con la mafia, rilevati dalla Commissione parlamentare antimafia.
492
Palermo
la maggioranza dei palermitani, l’indiscutibile impegno di singoli amministratori valsero a risolvere i problemi cittadini, che in
buona parte si aggravarono ulteriormente, provocando critiche
durissime da parte delle opposizioni e delle organizzazioni sindacali, che più volte si trovarono in pesante disaccordo con la
giunta Orlando e ne denunciarono l’inerzia e i ritardi. Ritardi che
diventavano preoccupanti a causa dei programmi inattuati, delle
opere pubbliche bloccate, dei servizi in costante peggioramento.
Grave era ormai la crisi delle attività commerciali del centro storico sempre più abbandonato, che determinava il trasferimento
nei nuovi quartieri di alcuni esercizi, ma più ancora la chiusura
definitiva di aziende di rilievo che avevano fatto la storia della
città. E intanto la mafia, dopo gli ergastoli e le scarcerazioni del
primo maxi processo (dicembre ’87), aveva ripreso la sua catena
di morte.
Nel tentativo di risolvere la crisi amministrativa che si trascinava da parecchi mesi, la Dc palermitana non esitò – tra polemiche furibonde, che coinvolsero i vertici nazionali dei partiti e
rischiarono di compromettere la stabilità del ministero De Mita
– a passare alla seconda fase dell’esperimento: l’ingresso in giunta dei comunisti con due rappresentanti (oltre a Rizzo, che manteneva la carica di vicesindaco) e la riconferma a sindaco di Orlando, indicato come il simbolo della volontà di rinnovamento
della città (aprile ’89). Inzerillo era confermato assessore. Per
propria scelta, rimanevano fuori della giunta gli andreottiani di
Lima e rimanevano all’opposizione i socialisti, che non accettavano di partecipare senza un preventivo azzeramento delle posizioni, mentre repubblicani e liberali erano tenuti ostentatamente in disparte. Diversamente da quanto poté sembrare dalle dichiarazioni verbali e dai comportamenti esteriori dei diretti interessati, la «giunta anomala» di Palermo era il frutto di giochi assai complessi, che andavano ben oltre l’orizzonte cittadino: il segretario nazionale dc Forlani, non spingendo il suo filosocialismo
sino a bruciare Orlando e l’immagine che egli rappresentava nel
paese, allontanava da sé l’accusa di voler affossare il rinnovamento e riusciva a non compromettere i già difficili rapporti con
la minoranza interna del suo partito, che appoggiava il sindaco;
il segretario nazionale socialista Craxi e il suo vice Martelli, che
avevano minacciato ripercussioni a livello di governo centrale, fi-
IX. Palermo capitale
493
nivano con l’acquisire un grosso credito nei confronti della Dc,
pagabile in qualsiasi momento e su qualsiasi piazza (Roma, ad
esempio, dove più tardi sarà eletto un sindaco socialista con l’appoggio determinante della Dc), e inoltre riuscivano a tenere lontano dal potere i socialisti locali, ponendo così le premesse di un
più facile ricambio della loro rappresentanza municipale alle successive elezioni comunali; il segretario nazionale repubblicano La
Malfa, minimizzando l’esclusione dalla giunta del suo partito, sapeva di contribuire al mancato rafforzamento del leader siciliano Gunnella, suo oppositore all’interno del Pri.
Al di là comunque dei giudizi contrastanti che sull’intera operazione furono espressi, la diretta partecipazione dei comunisti
al governo della città – anche se non in alternativa alla Dc, neppure alla parte più chiacchierata del partito di maggioranza, con
la quale peraltro essi continuavano ad amministrare la Provincia
– rappresentava un fatto di rilevante novità, che però non valse
a determinare una svolta nella vita amministrativa cittadina. La
rottura con il potere e la cultura della mafia fu nettissima, ma come le precedenti, neppure la giunta esacolore riuscì a tradurre
efficacemente propositi e programmi in azioni concrete, né sfuggì
a sospetti e ad accuse di sperperi e disamministrazione. D’altra
parte non era agevole fronteggiare l’emergenza provocata da decenni di malgoverno. E perciò quando, nel gennaio 1990, Orlando, travolto dalle contraddizioni del suo partito (in cui ormai
prevalevano i suoi oppositori), ma ancora forte del consenso popolare e dell’opinione pubblica nazionale, decise di dimettersi, i
tantissimi problemi di Palermo (traffico, crisi idrica, funzionamento della macchina amministrativa, centro storico, abusivismo
commerciale, ecc.) erano ancora tutti da risolvere e qualcuno si
era anche ulteriormente aggravato.
In attesa che si svolgessero le nuove elezioni comunali, nel
marzo 1990 Orlando venne sostituito da un commissario straordinario, il dottor Andrea Gentile. I comunisti cercarono in tutti
i modi di convincere l’ex sindaco («un compagno prestato alla
Dc») a lasciare il suo partito e a capeggiare una lista civica della
quale facessero parte tutte le forze progressiste che avevano sostenuto la sua giunta. Era questa anche la posizione del gesuita
Ennio Pintacuda, in contrasto con quella di Bartolomeo Sorge, il
direttore del Centro Arrupe (la scuola di formazione politica dei
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Palermo
gesuiti palermitani), convinto invece della possibilità di rinnovare la Dc dall’interno, con Orlando non più nel ruolo di bulldozer
bensì di guida capace di usare il filo a piombo della ricostruzione. Leoluca Orlando, che sperava anch’egli di riuscire prima o
poi a portare la Dc sulle sue posizioni, non volle così abbandonare il suo partito e capeggiò la lista dc, ottenendo – malgrado il
presidente del Consiglio Andreotti avesse invitato gli elettori a
non votarlo – un grande trionfo personale con oltre 70.000 preferenze, un record che equivaleva al 35,2 per cento dei voti di lista e che relegava al quarto posto con neppure 14.000 voti l’ex
presidente della Provincia Di Benedetto, cioè il candidato sindaco in pectore di Lima e di Andreotti (maggio ’90). Il ministro Calogero Mannino, che sino ad allora i vari capicorrente locali erano riusciti a tenere fuori dalle vicende del Comune di Palermo,
ereditava l’elettorato dell’ex senatore Cerami, che gli consentiva
di piazzare al secondo posto con quasi 20.000 preferenze lo sconosciuto Salvatore (Totò) Cuffaro, un giovane medico originario
di Raffadali, e di fare eleggere un gruppetto di altri cinque candidati, tra cui il giovanissimo figlio di Cerami. Mannino così
estendeva considerevolmente il suo potere e poteva finalmente intervenire con maggior peso anche nelle questioni comunali.
Grazie alla presenza in lista di Orlando, che sottraeva un cospicuo numero di voti alla Sinistra comunista e al movimento cattolico Città per l’Uomo, la Dc palermitana realizzava il migliore
risultato della sua storia: ben 200.222 voti, pari al 49,1 per cento, con 42 seggi, ossia la maggioranza assoluta. Di contro la lista
Insieme per Palermo, voluta dal Pci, collezionava un insuccesso
altrettanto storico, con appena 32.028 voti (7,8 per cento rispetto al 14,7 della sola lista comunista nell’85), che dimezzavano la
rappresentanza della Sinistra comunista rispetto all’85 (da 12 a 6
seggi). La sconfitta della Sinistra era aggravata dalla perdita dell’unico seggio di Democrazia Proletaria. La rappresentanza del
Msi risultava più che dimezzata (da 7 a 3 seggi, con il 3,8 per cento dei voti). Il Psi con il 12,6 per cento subiva una lieve flessione, ma riusciva a mantenere i suoi 11 seggi e rinnovava per oltre
un terzo la sua rappresentanza, dalla quale rimanevano fuori due
ex vicesindaci. I laici miglioravano la loro posizione, passando
nel complesso da 12 a 13 seggi, mentre rimaneva stazionaria l’U-
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nione Popolare Siciliana di Di Fresco con i suoi 2 seggi, i Verdi
passavano da 1 a 2 seggi e Città per l’Uomo da 2 a 1.
Le numerose bocciature e il ritiro di alcuni dalla scena consiliare (è il caso, ad esempio, di Elda Pucci) provocavano un largo
ricambio che interessava ben 30 consiglieri su 80, ma non sempre i nuovi poi risulteranno migliori dei vecchi. Del nuovo Consiglio facevano parte anche il ministro della Marina Mercantile
(il socialdemocratico Vizzini), il sottosegretario alle Finanze (il liberale De Luca), il vicesegretario nazionale del Msi (Lo Porto),
l’assessore regionale ai Beni culturali (il socialista Lombardo), un
deputato regionale e ancora parecchi ex sindaci di comuni del
circondario ed ex presidenti di quartiere.
La dura sconfitta della Sinistra costituiva un indubbio indebolimento di Orlando, che difatti, eletto sindaco nel luglio ’90,
non riusciva a varare la giunta, che oltre ai comunisti e a qualche
esponente del vecchio ‘cartello’ avrebbe dovuto comprendere anche i socialisti, i quali – non molto convinti – furono i primi a tirarsi indietro. L’insuccesso di Orlando aprì la strada a Domenico Lo Vasco (Brescia 1928), doroteo, ex sindaco di Marineo e
funzionario presso la Corte d’Appello di Palermo, il quale poche
settimane dopo riusciva a dar vita a un monocolore dc che secondo le dichiarazioni iniziali avrebbe dovuto muoversi sulle linee programmatiche già tracciate da Orlando (agosto ’90). In
realtà, il monocolore – di cui era adesso vicesindaco Inzerillo –
era il mezzo per chiudere nel più breve tempo possibile la parentesi orlandiana e agevolare un ritorno al passato, ossia al centro-sinistra. Proprio allo scopo di favorire l’allargamento della
maggioranza, a fine 1990 Lo Vasco si dimise per varare pochi
giorni dopo una giunta tripartito con il Psi e l’immancabile Psdi
(gennaio ’91). La gestione Lo Vasco non segnò nessun cambiamento qualitativo rispetto al periodo precedente e si trascinò
stancamente sino al giugno ’92. Scomparso Orlando dalla scena
locale, per dedicarsi alla organizzazione a livello nazionale della
Rete, il nuovo movimento politico da lui fondato, l’attenzione
verso la città della grande stampa e dell’opinione pubblica nazionale si affievolì di giorno in giorno e l’amministrazione comunale si ritrovò sola – e con una maggioranza rissosa e ingovernabile – a tentare di risolvere i numerosi e gravi problemi di
Palermo.
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Palermo
L’uccisione di Lima nel marzo ’92 – colpevole, secondo i pentiti di mafia, di non essere riuscito a evitare la conferma definitiva, a fine gennaio, degli ergastoli inflitti nel primo maxi processo – creava sgomento e paura tra le file dc, senza distinzione alcuna di corrente: chi poteva, cercava perciò di defilarsi; chi non
poteva, rimaneva inoperoso, come paralizzato, privo ormai di
punti certi di riferimento. La fuga da ogni responsabilità ovviamente non risparmiava gli amministratori comunali, che in verità
neppure in precedenza avevano brillato per attivismo.
Alle elezioni politiche dell’aprile successivo, la Dc palermitana riusciva tuttavia a mantenere le sue posizioni con il 35,1 per
cento dei voti, mentre la Rete di Orlando conseguiva un successo strepitoso con oltre 100.000 voti e il 24,5 per cento (Orlando
risultava il più votato in città con 85.000 preferenze), a danno del
Pds (Partito democratico della Sinistra), ossia l’ex Pci, e del Psi,
che crollavano rispettivamente al 5,7 e all’8,9 per cento. I risultati elettorali rafforzavano ulteriormente la posizione del segretario regionale dc Calogero Mannino, che era riuscito tra l’altro
– grazie all’elezione al Senato dell’assessore Inzerillo – a riconquistare alla Dc il secondo collegio di Palermo, perduto nelle precedenti elezioni. Scomparso Lima, Mannino era ormai l’uomo
più potente della Dc siciliana e come tale si faceva carico del rilancio dell’azione amministrativa al Comune di Palermo sotto la
guida di una personalità di prestigio e con una maggioranza ancora più ampia, che valesse anche a evitare il temuto scioglimento
anticipato del Consiglio. Era necessario inoltre fornire una risposta rassicurante a una città inebetita e impotente di fronte alla terribile vendetta della criminalità mafiosa, che dopo avere regolato i suoi conti con Lima riusciva a eliminare anche il suo nemico numero uno, il Direttore Generale degli Affari penali presso il ministero di Grazia e Giustizia Giovanni Falcone, massacrato con la moglie e la scorta sull’autostrada Punta Raisi-Palermo (maggio ’92). E dopo Falcone la vendetta mafiosa si abbatterà
su un altro magistrato di punta: Paolo Borsellino, ucciso anch’egli con la sua scorta da un’autobomba in via D’Amelio (luglio
’92).
L’uomo adatto a sostituire Lo Vasco venne individuato in Aldo Rizzo (n. 1935), ex presidente regionale del Pds – partito che
aveva appena abbandonato – ma soprattutto magistrato, che per
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il suo ruolo e per il passato impegno antimafia poteva fornire una
valida speranza alla città e costituire un sicuro punto di riferimento per i consiglieri della maggioranza sfiduciati e impauriti.
Come vicesindaco di Orlando, Rizzo si era inoltre fatto apprezzare per l’impegno e la decisione con cui aveva affrontato alcuni
problemi della città. Da tempo ormai però egli si disinteressava
delle faccende comunali e disertava le sedute del Consiglio. Non
aveva più né il contatto con la realtà municipale, né il polso del
Consiglio, tra i cui membri nessuno era disposto – dato il momento – ad assumersi responsabilità in prima persona, ma neppure consentiva che altri lo facesse al proprio posto. A fine giugno ’92, Rizzo diede vita a una amministrazione pentapartito (Dc,
Psi, Psdi, Pri e Pli), che tra i punti fondamentali del suo programma poneva l’impegno antimafia, il funzionamento dei servizi, la trasparenza e l’efficienza. Approvato lo statuto comunale,
la giunta si sarebbe dimessa per consentire l’ingresso di esterni
non indicati dai partiti. All’opposizione, oltre al Msi, si collocavano i pidiessini di Insieme per Palermo, la Rete di Orlando e
Città per l’Uomo, ossia gli ex amici di Rizzo, secondo i quali egli
si era prestato «ad una operazione di facciata che serve a coprire i vecchi metodi di governo».
Prima ancora però che il neosindaco potesse cominciare seriamente a operare, si ritrovava con i due assessori socialdemocratici dimissionari (ottobre ’92), ufficialmente per dissensi sul
piano traffico della città, ma in realtà per favorire lo scioglimento del Consiglio e quindi elezioni anticipate che avrebbero riportato Orlando a sindaco e il Psdi nuovamente in giunta. E ciò
proprio alla vigilia dell’incontro tra Rizzo e il presidente del Consiglio Amato per discutere le emergenze della città. «Un nonsenso? – si chiedeva Giovanni Pepi sul «Giornale di Sicilia» –
No, forse siamo solo a Palermo dove, tra furori e dissesti, solo il
nonsenso ha un senso».
La corsa contro il tempo per scongiurare lo scioglimento del
Consiglio si chiudeva con l’elezione del primo e unico sindaco
socialista della storia cittadina, Manlio Orobello (Salemi 1943),
docente presso l’Istituto tecnico nautico, a capo di una giunta
Dc, Psi, Pli, dalla quale rimanevano fuori cinque consiglieri socialisti (tre dei quali della corrente di sinistra), che non approvavano l’alleanza con il Pli e dichiaravano di astenersi (dicembre
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Palermo
’92). Astenuti anche i due rappresentanti delle Acli. Il cammino
della giunta Orobello si presentava quindi difficile e pochi mesi
dopo essa aveva già accumulato un centinaio di inadempienze,
che spingevano l’assessore regionale agli Enti locali a mettere in
mora il Comune. Il sindaco considerava allora conclusa la sua
esperienza e anche la Dc, per bocca dei suoi massimi esponenti
locali Mannino e Mattarella, conveniva che lo scioglimento del
Consiglio era ormai inevitabile. Si era davvero toccato il fondo,
come dimostrava impietosamente anche lo stato dei servizi pubblici, con l’Amap incapace di garantire la regolare distribuzione
dell’acqua, l’Amia la raccolta dei rifiuti a causa dello sciopero dei
dipendenti e dei mezzi perennemente guasti, l’Amat la regolarità
dei trasporti urbani a causa della mancanza di gasolio.
Alle dimissioni di Orobello e della sua giunta seguiva così l’autoscioglimento del Consiglio (aprile ’93), malgrado l’estremo tentativo di evitarlo da parte di un gruppo di consiglieri Dc appoggiati dal Pli, che dichiaravano di voler costituire una giunta «al
di fuori dei partiti e delle correnti». In realtà sapevano che difficilmente l’elettorato li avrebbe rieletti a Sala delle lapidi.
Nel novembre successivo si tennero le consultazioni per il rinnovo del Consiglio comunale per il quadriennio 1993-1997, con
una nuova legge elettorale che sanciva anche in Sicilia il diritto
dei cittadini di scegliersi direttamente il sindaco. Assieme a Leoluca Orlando, appoggiato da un cartello comprendente la Rete,
Ricostruire Palermo (Pds), Rifondazione comunista, Cattolici democratici ed ex socialdemocratici, concorrevano alla carica di
primo cittadino il magistrato Alfonso Giordano, espressione dell’Unione di centro (Pli), e l’ex sindaco e parlamentare europeo
Elda Pucci (da circa un anno aveva sostituito a Strasburgo il repubblicano Giorgio La Malfa), collegata con i laico-socialisti del
Forum e i cattolici della lista Dc-Popolare, cioè con i partiti già
al centro dell’inchiesta «Mani pulite», ma appoggiata anche sottobanco dal Msi e soprattutto sostenuta da un comitato elettorale raccogliticcio e scarsamente qualificato sotto il profilo politico e culturale.
Giordano era caro ai palermitani per avere diretto con polso
fermo il primo maxi processo, ma non aveva il supporto di una
valida organizzazione politica. E perciò i suoi quasi 24.000 voti
(6,1 per cento) furono soprattutto il risultato della stima e della
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simpatia personale da lui godute, piuttosto che dell’apporto della formazione politica che lo aveva voluto candidare. La Pucci,
per la quale a distanza di anni Orlando rimaneva ancora l’usurpatore della sua poltrona di sindaco nel 1985, piuttosto che puntare su un serio e convincente programma amministrativo, basò
la sua campagna elettorale sugli attacchi personali nei confronti
dell’ex sindaco, che finivano col disorientare il suo potenziale
elettorato, parte del quale, se era disposto a votarla per disciplina di partito, non dimenticava di aver seguito con simpatia l’ascesa di Orlando. Il risultato fu perciò molto deludente per la
professoressa Pucci: appena 63.000 voti, pari al 16,3 per cento,
contro i 292.000 voti di Leoluca Orlando, che con il 75,2 per cento dei suffragi veniva eletto sindaco alla prima tornata, senza dover ricorrere al ballottaggio. Il grandioso trionfo di Orlando era
completato dal successo delle liste che lo appoggiavano, che ottenevano complessivamente 32 seggi sui 50 che da allora compongono il Consiglio comunale di Palermo. Tra i consiglieri eletti, al primo posto con quasi 40.000 voti risultava Antonino Caponnetto, già capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale cittadino e ‘padre’ del pool antimafia che ebbe tra i suoi membri Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
L’elevato numero di suffragi totalizzato da Orlando e dalla Rete ha posto immediatamente il problema della influenza del voto di mafia. Se per Sgarbi non c’erano dubbi sul fatto che i vecchi voti mafiosi fossero confluiti su Orlando, la Pucci e Giordano non nascosero la loro perplessità e non ne esclusero tassativamente la possibilità. È mia convinzione invece che quella del
1993 sia stata una delle poche, forse l’unica, campagna elettorale di questo dopoguerra in cui la mafia sia rimasta in disparte. E
ciò non tanto per le sconfitte che lo Stato cominciava a infliggerle, quanto perché i vecchi referenti politici erano ormai anch’essi in difficoltà o non offrivano più sufficienti garanzie, tanto che qualcuno (Lima, Ignazio Salvo) era stato punito con la
morte e qualche altro era sul punto di esserlo. Cosa Nostra era
indubbiamente alla ricerca di nuovi referenti, ma nessuno di coloro che si contendevano la carica di sindaco era in qualche modo condizionabile dall’organizzazione criminale: certamente non
Alfonso Giordano e la stessa Elda Pucci, ma neppure Leoluca
Orlando che della lotta alla mafia aveva fatto una bandiera. La
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Palermo
mafia quindi non sapeva in quell’occasione come impegnarsi e
restava giocoforza a guardare, in attesa che la situazione politica
– già in forte movimento – si facesse più chiara e si delineasse
una nuova leadership da sostenere e appoggiare.
Il seguito non appartiene ancora alla storia.
4. Il ‘sacco di Palermo’
Nel maggio 1943, il governo fascista aveva attribuito a Palermo il riconoscimento di «grande mutilata», ma dopo di allora i
bombardamenti continuarono e non cessarono neppure con l’ingresso delle truppe alleate, a causa delle incursioni aeree tedesche che sino a novembre sostituirono quelle anglo-americane.
La città usciva dalla guerra in sfacelo, ridotta a un cumulo di rovine: erano stati distrutti o resi inabitabili ben 123.000 vani e l’indice di affollamento, che nel 1940 era pari a 1,53 abitanti per vano, era salito a 2,7. Il patrimonio artistico era stato danneggiato
in maniera talora irreparabile e inoltre – secondo il «Piano di Ricostruzione» del 1947 – risultavano «distrutti o gravemente danneggiati 180 edifici pubblici, 46 stabilimenti industriali e tutti gli
impianti portuali. Gravi danni avevano pure subìto gli altri servizi pubblici come le ferrovie, i telefoni, gli impianti elettrici, gli
acquedotti, l’officina e la tubolatura del gas, le strade, le fognature, la stazione radio-trasmittente, l’aeroporto, gli ospedali, le
cliniche, il macello, lo stabilimento di disinfezione, ecc.».
Per il momento però il problema più grave e urgente da risolvere era quello alimentare. Malgrado i viveri inviati dal governo americano, la situazione annonaria della città continuò a
rimanere gravissima per molto tempo: nell’ottobre ’44, i prezzi
ufficiali dei principali generi alimentari risultavano aumentati di
almeno otto-dieci volte rispetto al corrispondente mese del ’42,
mentre i salari erano appena raddoppiati. Ciò da un lato era causa di rapidi arricchimenti – i «profitti del dopoguerra» non furono inferiori ai «profitti di guerra» –, dall’altro provocava vivissimo malcontento tra la popolazione, che si sfogava con cortei e dimostrazioni di protesta, che proprio in quei giorni (19 ottobre) sfociarono drammaticamente nel sangue, quando al corteo degli impiegati comunali che si dirigeva a Palazzo Comitini,
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per protestare sotto le finestre dell’Alto Commissario, si unirono
altri impiegati della città, operai e soprattutto donne e bambini
dei vicoli adiacenti via Maqueda, con cartelli invocanti «Pane e
pasta per tutti». I funzionari della Prefettura si sentirono assediati dalla folla minacciosa, che già si era data al saccheggio dei
negozi vicini, e richiesero l’intervento dell’esercito, che non esitò
a usare le armi quando i dimostranti lanciarono una bomba a mano: sul selciato rimasero 19 morti e 108 feriti (30 morti e 150 feriti secondo l’inchiesta del Cln), con un’alta percentuale di ragazzi tra gli undici e i diciassette anni. L’azione dell’amministrazione civica in campo annonario era assolutamente insufficiente,
condizionata peraltro dalla disastrosissima situazione del bilancio comunale, e perciò il problema alimentare continuò a rimanere irrisolto ancora a lungo, con periodi di crisi acuta come nel
primo semestre del ’46. Il ritorno in città di tutti gli sfollati e di
buona parte dei reduci senza lavoro, alla fine della guerra, aveva
infatti reso più drammatica la situazione alimentare, provocando
altre dimostrazioni popolari e scioperi, che nel marzo ’46 degenerarono in assalti alle sedi dell’Esattoria comunale, dell’Ufficio
carte annonarie e della Pretura, conclusisi con la devastazione dei
locali, l’incendio di suppellettili e documenti, due morti e una
trentina di feriti.
Nella «città disagiatissima», come Palermo veniva dichiarata
dal Consiglio dei ministri, non era migliore la situazione dell’ordine pubblico: la mancanza di un efficiente servizio di polizia e la miseria pressoché generale avevano favorito la diffusione della delinquenza e del banditismo, tra le cui file la mafia,
che dopo la venuta degli Alleati aveva immediatamente rialzato
il capo, trovava i suoi sicari. Il numero dei delitti era in costante ascesa: nel ’44, in provincia di Palermo si ebbero ben 245 omicidi, 646 rapine e 47 estorsioni, che costituiscono cifre impressionanti a confronto con i dati del ’42, anno in cui si registrarono 42 omicidi, 30 rapine e 2 estorsioni. E si trattava di delitti rimasti impuniti nella stragrande maggioranza: solo per 38 dei 245
omicidi del ’44 furono scoperti gli autori, rimasti sconosciuti anche per 556 rapine e una quarantina di estorsioni. Dalle estorsioni ai sequestri il passo fu breve e parecchi benestanti palermitani ne rimasero vittime, compreso lo stesso Lucio Tasca alcuni anni dopo (1953), malgrado i passati legami tra separatismo,
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banditismo e mafia, della quale un generale dei carabinieri lo indicava come uno dei capi: la decisione di attuare sequestri di
persona per finanziare la guerriglia separatista era stata presa
nell’incontro di Sagana (1945) tra il bandito Giuliano e alcuni
capi del separatismo, che si impegnarono a designare le persone da sequestrare. La criminalità era così agguerrita che nel 1946
davanti alla sede dell’Alto Commissariato stazionavano in permanenza un centinaio di militari armati anche di mitragliatrici:
si temeva soprattutto qualche attacco di Giuliano, che nella sua
qualità di colonnello dell’Evis non esitava ad assaltare persino le
caserme dei carabinieri e gli accampamenti dei soldati inviati
contro di lui.
Quando il problema annonario diventò meno assillante, negli
ultimissimi anni Quaranta si cominciò a pensare più seriamente
alla ricostruzione, grazie anche alle leggi Fanfani e Tupini del
1949 sull’edilizia abitativa. Sino ad allora si può dire che l’attività edilizia si fosse limitata allo sgombero delle macerie, alla ricostruzione di monumenti cittadini, soprattutto edifici religiosi,
e all’avvio della costruzione di alcuni lotti di case popolari, tra
cui quelli di via Pitrè e di via Imperatore Federico realizzati dall’impresa Cassina. L’ufficio tecnico comunale – con la collaborazione dei vincitori del concorso bandito nel ’39 per il piano regolatore della città (Airoldi, Caracciolo, Epifanio, Villa) e sulla
base dei suggerimenti della commissione giudicatrice – aveva
provveduto, sin dall’aprile ’44, alla redazione di un piano regolatore, il primo forse in Italia redatto secondo la legge urbanistica del 1942, ma destinato a rimanere sulla carta. Pur se mancante del supporto di una indagine socio-economica, il piano presentava delle interessanti novità, come l’attribuzione alle diverse
zone edilizie di caratteristiche tipologiche ben definite, che escludevano che la città potesse espandersi caoticamente come in passato; la nascita di nuovi quartieri separati da zone verdi, in parte vincolate all’uso pubblico; la nuova zona industriale a valle della statale 113, in territorio di Ficarazzi.
La legge primo marzo 1945 obbligò il Comune ad adottare
un piano di ricostruzione, con validità di piano particolareggiato,
che venne redatto dallo stesso ufficio comunale in collaborazione con gli urbanisti già citati, ai quali si aggiunsero Spatrisano e
Susini. Approvato nel 1947, il piano era destinato quasi esclusi-
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vamente alla ricostruzione dell’aggregato urbano e alla individuazione di aree di ampliamento fuori dell’abitato, in cui sistemare quella parte della popolazione che, per la riduzione della
densità, non avrebbe più trovato spazio nei vecchi rioni. Finiva
con il costituire così un passo indietro rispetto al piano del ’44,
offrendo tra l’altro maggiori possibilità alla speculazione perché,
per non imporre lunghi vincoli sulla proprietà privata, limitava
all’indispensabile le zone di ampliamento, in attesa di un progetto suppletivo mai più redatto, che ne definisse l’estensione.
Ne derivarono parecchie conseguenze negative. Già prima
della redazione del nuovo piano regolatore del 1956, poté cominciare impunemente, ad esempio, la distruzione della via Libertà e delle strade adiacenti, le cui villette, appartenenti a proprietari borghesi ma anche a parecchi epigoni della aristocrazia,
cominciarono a essere demolite per dar luogo ad anonimi palazzoni condominiali. I palazzinari trovavano più comodo accordarsi con l’unico proprietario di una villetta da demolire o dell’area
fabbricabile, piuttosto che con i tanti proprietari di un antico palazzo da ricostruire o da restaurare. Ciò da un lato bloccava la ricostruzione nei vecchi quartieri, ritenuta più costosa, dall’altro
l’istituto della lottizzazione finiva – come rileva S.M. Inzerillo –
col diventare «nella prassi corrente l’unico strumento urbanistico ‘abilitato’ a regolare l’espansione edilizia». E mentre i più addentro alle faccende edilizie, tra cui qualche assessore, si accaparravano terreni periferici a poco prezzo lungo le direttrici d’espansione, i nuovi piani di lottizzazione proposti dai privati, approvati caso per caso dall’amministrazione comunale, e gli insediamenti di edilizia sovvenzionata, in sedi periferiche, costituivano impegni pubblici che il piano regolatore del 1956 dovrà
necessariamente riconoscere, rimanendone pesantemente condizionato. L’iniziativa privata e pubblica, piuttosto che impegnare
le aree di ampliamento previste dal piano di ricostruzione, certamente costose e regolate da norme edilizie ritenute restrittive,
preferiva le aree esterne a nord-ovest della città, che così riceveva una nuova spinta verso i Colli. Si trattava di aree in buona parte ancora in mano a membri dell’aristocrazia o a grosse famiglie
borghesi, che essendo a colture poco pregiate e distanti dal centro avevano un più basso valore di mercato e consentivano inol-
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tre costruzioni secondo il regolamento del 1889, con densità superiore a 25 mc/mq e altezza sino a 32 metri oltre l’attico.
In attesa del decollo dell’edilizia privata nel corso degli anni
Cinquanta, le più importanti realizzazioni si dovevano all’edilizia
sovvenzionata: 390 vani in via Pitrè, 192 in corso Pisani, 3.957
nel complesso Malaspina-Notarbartolo (su progetto dei Caronia), 3.000 alla Zisa-Quattro Camere (su progetto di Caracciolo),
quest’ultima fuori dall’espansione prevista dal piano. Anche il
complesso del quartiere della Rosa, su progetto dell’Ina Casa, per
una popolazione di 3.200 abitanti – il primo grosso nucleo edilizio a nord, dopo il quartiere Matteotti (ex Littorio) – era in buona parte fuori dall’area di ampliamento: faceva parte di un piano regolatore d’iniziativa dei Terrasi, proprietari del fondo Resuttana, a valle del prolungamento di via Sciuti (oggi tra via E.
Restivo e via Brigata Verona), molto distante dall’abitato cittadino. E si continuò ancora a costruire fuori dalle zone di ampliamento: 252 alloggi dell’Iacp nel fondo Bracco, a margine della
via principe di Palagonia, e un quartiere per 4.000 abitanti, sempre per conto dell’Iacp, a monte della via Tasca Lanza, alquanto
distante dal nucleo abitato in località Perpignano. Sono di quegli anni anche il villaggio Ruffini, tra San Lorenzo e Pallavicino,
nato da una pubblica sottoscrizione in risposta a un appello del
cardinale alla radio; il quartiere Santa Rosalia con 598 alloggi costruiti dall’Escal su progetto Spatrisano-Tortorici; un progetto
dell’ufficio tecnico comunale per un villaggio a Romagnolo, che
poi, come era accaduto ad altri progetti, sarà stravolto in fase di
realizzazione.
Le iniziative pubbliche nel settore edilizio provocavano come
si vede l’avvio di una imponente attività che negli anni successivi attraeva sempre più capitali e personaggi sino ad allora estranei all’imprenditoria edilizia: personaggi spesso sorti dal nulla
(meccanici, muratori, carrettieri, calzolai, ecc.), i quali, grazie a
‘opportune’ protezioni politiche e bancarie, si trasformarono nei
più grandi speculatori della storia della città. Il caso più eclatante era quello di Francesco Vassallo, un carrettiere di Tommaso
Natale, che aveva cominciato nel 1950 con l’appalto della costruzione del tratto fognario Tommaso Natale-Sferracavallo, ottenuto dalla giunta Cusenza dopo avere costretto all’abbandono
gli altri concorrenti. Pochi anni ancora e l’ex carrettiere riusciva
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a diventare il leader dei costruttori palermitani, grazie sia all’ampia apertura di credito senza garanzie concessagli dalla Cassa di Risparmio presieduta dall’ex sindaco dc Cusenza, suocero
di Gioia, sia alla ‘benevolenza’ degli amministratori comunali del
tempo, con i quali si diceva fosse anche in rapporti di affari, tanto che in città si parlava ironicamente di una società edile
Va.Li.Gio, ossia Vassallo-Lima-Gioia. Dopo avere costruito interi quartieri nella città nuova, attorno al Settanta Vassallo era in
condizione di mettere a disposizione degli enti pubblici palermitani tutti i locali di cui abbisognavano per far fronte, con onerosi contratti d’affitto, all’allargamento dell’apparato burocratico e
al notevole incremento dell’istruzione secondaria. Strettissimo
era soprattutto il rapporto con la Provincia, che per la sistemazione delle scuole di secondo grado di nuova istituzione a carico
del suo bilancio utilizzava in affitto quasi esclusivamente edifici
(che talora erano soltanto scantinati) di proprietà del Vassallo, il
quale finiva addirittura per passare come un vero e proprio benefattore della scuola.
Intanto, la realizzazione nel corso degli anni Quaranta-Cinquanta di nuclei di edilizia sovvenzionata nell’agro cittadino e la
costruzione delle relative opere di urbanizzazione si risolvevano
in una grossa speculazione a vantaggio dei proprietari delle aree
su cui essi insistevano e delle aree limitrofe, che acquistavano un
ben diverso valore ed erano ormai pronte per nuove speculazioni edilizie, spesso grazie a convenzioni con l’amministrazione comunale: il Comune concedeva un certo indice di sfruttamento
edilizio e il proprietario cedeva gratuitamente l’area per strade,
verde e attrezzature, che però, nei rari casi in cui fu lasciata, dovette essere espropriata e pagata per la mancanza di regolari atti pubblici.
Sulla scia dell’iniziativa pubblica decollava così anche l’edilizia privata, sino ad allora limitata alle soprelevazioni dei volumi
edilizi, soprattutto nei quartieri ottocenteschi: l’unico grosso intervento nel centro urbano era stato la costruzione del nuovo
quartiere Villarosa, iniziato alla fine degli anni Quaranta, sull’area in parte occupata dal settecentesco palazzo dei duchi di Villarosa, tra via R. Settimo e via M. Stabile. Con il trascorrere degli anni Cinquanta, mentre continuava il saccheggio del rione Libertà, l’iniziativa privata si indirizzava sempre più verso le aree
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periferiche, lungo il reticolo di strade che l’amministrazione comunale aveva cominciato a realizzare (prolungamento della via
Villafranca sino a via principe di Paternò, prolungamento di via
Roma da via delle Croci sino a piazza Ranchibile, prolungamento di via Sciuti, via Brigata Verona, primo tronco della via A. De
Gasperi, prolungamento di corso Tuköry, collegamento del quartiere Zisa con corso A. Amedeo, allacciamento del quartiere Santa Rosalia con il centro urbano, ecc.). Le prime convenzioni cominciarono a stipularsi dopo le amministrative del maggio ’52:
riguardavano i terreni di Villa Camastra (Villa Tasca) e di Villa
Sperlinga (la villa dei Whitaker), ormai controllati dalla Immobiliare di Roma, una società edilizia vicina al Vaticano, di cui era
avvocato il professore Scaduto, neosindaco della città. Si trattava – come scrive S.M. Inzerillo – di una «operazione ponderata,
lungimirante, condotta con i dati catastali alla mano, da parte di
persone influenti facenti parte di società immobiliari anonime,
cui non mancherà l’appoggio del Comune come organo tecnico,
e quello della Regione come ente finanziatore». Siamo di fronte
a grossi esempi di speculazione edilizia, con il beneplacito della
amministrazione comunale e dello stesso governo regionale. L’area di Villa Sperlinga era destinata dal piano di ricostruzione a
verde privato: con la convenzione si trasformava l’area in verde
pubblico per quasi un quinto e per il resto (circa 70.000 mq) in
area edificabile e sedi stradali. Per rendere più agevole l’operazione, i ‘soliti ignoti’ adottarono la tecnica della distruzione del
patrimonio vegetale, usando addirittura piccole cariche di esplosivo per i tronchi più maestosi, tecnica cui più volte si farà ricorso negli anni successivi. Altrettanto ben congegnata l’operazione «Conigliera», un magnifico parco a monte del quartiere
Matteotti, che Vincenzo Florio aveva ceduto alla Gioventù Italiana del Littorio, riuscendo a recuperarlo attorno al 1950, per
cederlo immediatamente a una società privata di cui egli stesso
era presidente (soltanto di nome, però) e rappresentante legale
era l’avvocato Cacopardo, cioè il presidente di quell’Iacp che faceva costruire su proprietà Terrasi il quartiere della Rosa, determinando l’improvviso rilevante incremento del valore delle aree
limitrofe, tra cui appunto la «Conigliera». Del parco si salvò soltanto l’attuale «viale delle Magnolie», grazie alle denuncie della
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stampa: la «casina di caccia», che poteva essere sottoposta a vincolo, fu distrutta da un ‘provvidenziale’ incendio.
Per non tediare il lettore, ricordo soltanto altri due casi di quegli anni che si trascinarono per oltre un quinquennio: le convenzioni del 1955 con Terrasi e Spadafora recepite dal «piano regolatore di coordinamento ed integrazione dei piani di iniziativa
privata» predisposto dagli uffici tecnici del Comune per la zona
nord a monte di via Libertà, cioè la zona attualmente compresa
tra le vie Lazio, E. Restivo, A. De Gasperi, sulla quale era già stato costruito il quartiere della Rosa e che il piano di ricostruzione destinava in buona parte a verde agricolo. Con il nuovo piano predisposto dal Comune, le due lottizzazioni venivano regolate dai seguenti indici: strade 22 per cento della superficie totale, verde pubblico 3 per cento, area di utilità pubblica 5 per cento, edilizia residenziale 70 per cento, densità 10 mc/mq. L’assessore ai Lavori pubblici Ciancimino dichiarava trionfalmente in
Consiglio comunale che l’amministrazione era riuscita a sostituire finalmente «la bieca edilizia del passato» con «uno sviluppo
armonico e ordinato che, a buon diritto, è ritenuto uno fra i migliori d’Italia in questo dopoguerra» (1961).
In realtà, gli indici dimostrano quale grossa speculazione edilizia fosse stata realizzata all’insegna dello slogan limiano «Palermo è bella, facciamola più bella!». A parte l’incremento del valore dei terreni che passavano da verde agricolo ad area edificabile, quantificato in almeno quindici volte il valore iniziale, i
70.000 abitanti dei sette milioni di metri cubi di costruzione avevano una disponibilità pro capite di appena 0,30 mq di verde
pubblico e 0,75 mq di servizi pubblici. Incredibile! Il verde pubblico peraltro poté essere realizzato soltanto dopo un trentennio
dalla ratifica nel 1962 delle convenzioni da parte del Consiglio
comunale (si tratta dell’area di circa due ettari compresa tra le
vie Lazio, Campania, Brigata Verona, oggetto di una lunga controversia tra Comune e proprietari), mentre lo spazio per i servizi pubblici, già irrisorio, si è ulteriormente ridotto perché in parte destinato a edilizia residenziale (area tra le vie Sardegna ed E.
Restivo dove sorge il Palazzo Vassallo, del quale si è lungamente
occupata la Commissione antimafia).
Nel corso degli anni Cinquanta l’edilizia privata in aree non
previste dal piano di ricostruzione e la viabilità presero così de-
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cisamente il sopravvento sulla ricostruzione del centro storico
della città, che – malgrado le due leggi Gioia-Speciale, che facevano del risanamento un’opera di prevalente interesse nazionale
con finanziamento a carico dello Stato e della Regione – è rimasto così il solo in Europa a conservare ancora per oltre un quarantennio le rovine della guerra e si è ormai trasformato in un’area marginale e depressa. D’altra parte, l’immobilismo e l’abbandono in cui esso cadde erano anche funzionali agli scopi di
talune forze politiche ed economiche, che dal ciclo degrado-demolizione-ricostruzione si ripromettevano di trarre in seguito notevoli profitti. Intanto hanno generato danni in molti casi irreparabili, maggiori addirittura di quelli provocati dai bombardamenti e dal terremoto del 1968, e di cui più tardi ci si consolava
(ben magra consolazione!) pensando ai guasti che avrebbe prodotto l’adempimento delle prescrizioni del piano regolatore. E
sono anche all’origine di un esodo dal centro antico che non ha
eguali nella storia di altre città: i 125.481 residenti del ’51, che
allora costituivano oltre il 25 per cento della popolazione cittadina, si sono ridotti a 106.148 (18 per cento) nel ’61, a 52.686
(8,1 per cento) nel ’71, a 38.960 (5,5 per cento) nell’81, a 24.729
nel ’91 (3,5 per cento). Nel frattempo, per quasi mezzo secolo, si
è studiato e ristudiato come salvare il centro storico, si è litigato
accanitamente tra interventisti e conservatori a ogni costo, si sono creati e sciolti istituti (Irset) e società (Rep e Italter) cui affidare i lavori di risanamento, che soltanto da qualche anno sono
stati in parte avviati. A ogni nuovo assessore all’Urbanistica non
è parso vero di «escogitare – come rileva Giuseppe Pavone – nuovi strumenti pianificatori (possibilmente fuori dai normali canali di legge)» e quindi «di ‘azzerare’ quanto iniziato dai suoi predecessori, per inaugurare una nuova linea operativa, presentata
come geniale e risolutiva. Il che ha significato, appunto, non concludere mai nulla», ma consentiva di «affidare sempre nuove deleghe, vuoi professionali, vuoi gestionali, a (quasi) sempre nuovi
soggetti e (quasi) sempre in bianco».
Se la scelta delle aree periferiche per i nuovi insediamenti residenziali era determinata dalla volontà di ridurre i costi di costruzione e accrescere i margini di guadagno, l’espansione edilizia era determinata da altri fattori. L’inurbamento di «regnicoli»
titolari di redditi sicuri contribuiva a mantenere elevati gli affitti
IX. Palermo capitale
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e quindi la rendita fondiaria urbana, invogliando così l’aristocrazia e i grossi agrari, che la riforma agraria espropriava di una parte dei loro terreni in varie località dell’isola, a investirne il ricavato nell’acquisto di nuovi appartamenti da affittare. La domanda di nuove abitazioni si accrebbe ulteriormente quando la Regione e gli istituti bancari cominciarono a concedere ai loro dipendenti mutui a lungo termine e a tassi agevolati. Fu allora una
corsa alla casa quale mai si era verificata in precedenza, in una
città dove la stragrande maggioranza di professionisti e impiegati era sempre vissuta in case di affitto. La casa di proprietà nei
nuovi quartieri – che, non a caso, per decenni ospiteranno lo zoccolo duro dell’elettorato dc – diventava una conquista realizzabile anche per il ceto medio impiegatizio, che appagato dai pavimenti in marmo e dal portiere più o meno gallonato non guardava più ad altro. Così come ad altro non guardavano i sindacati, sia perché i loro quadri erano spessissimo di estrazione provinciale e quindi privi anch’essi, come i politici, di cultura urbana; sia perché preoccupati del problema dell’occupazione, che
bene o male il boom edilizio risolveva. E non vigilava neppure la
cultura locale, al cui mondo appartenevano parecchi amministratori degli anni a cavallo tra il Quaranta e il Cinquanta; i progettisti, spesso di sinistra, dei tanti casermoni di ‘civile abitazione’ disseminati per la nuova città; gli stessi progettisti del piano
regolatore generale del 1956, contro il quale, ad esempio, ben poco ebbe allora a osservare la Soprintendenza ai Monumenti, né
per il previsto sventramento del centro storico che avrebbe dovuto dar luogo a una «terza via», annullato poi dal presidente
della Regione per le pressanti sollecitazioni di Bruno Zevi, né per
il piano particolareggiato del rione Castello-San Pietro che prevedeva quasi l’azzeramento del malconcio patrimonio architettonico esistente. Senza volere attenuare le responsabilità degli amministratori e dei politici, che restano gravissime, è corretto riconoscere che sindacati e intellettuali li hanno aiutati a ‘sbagliare’ e a crearsi dei comodi alibi. Comodi, certo, perché anche il
risanamento del centro storico fu considerato dai politici del tempo, senza eccezione alcuna, come una operazione economico-finanziaria a fini di lucro. E perciò, alcuni anni dopo (1969), Mario Farinella poteva rilevare polemicamente come «non tanto ai
Lima, ai Ciancimino, ai Gioia, a Matta [e ai loro predecessori, è
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Palermo
opportuno aggiungere], la cultura chiederà conto di tanto scempio, quanto a quegli intellettuali (e non sono pochi) che di questa gente si son fatti complici per lucro o per quieto vivere, per
ignavia o per conformismo»; uno scempio che il giornalista individuava a ragione sia nella inesorabile rovina della Palermo arabo-normanna, chiaromontana, barocca, sette-ottocentesca e liberty, sia nell’agglomerato di brutture edilizie, nelle costruzioni
da incubo, nei tracciati stradali senza avvenire che costituiscono
la nuova Palermo.
Il piano regolatore generale del 1956 fu redatto da un comitato del quale facevano parte i migliori urbanisti della città: era
quindi espressione della cultura locale12. Il fatto che venisse redatto durante la gestione commissariale costituiva un grosso vantaggio per il Comitato, perché le sue decisioni erano meno condizionate da pressioni politiche, anche se il suo operato non si
sottrasse lo stesso ad accuse da parte della stampa e dell’opinione pubblica. Il piano tuttavia non poteva non risentire della fretta con cui fu redatto e inoltre presentava almeno tre grossi limiti: consentiva una densità media elevata; non teneva nel giusto
conto lo sviluppo automobilistico, con il risultato di dotare la
città di strade asfittiche, che l’assenza di posteggi condominiali,
neppure essi previsti, trasformò presto in tappeti di auto e rese
ancor più intransitabili; non prevedeva il boom dell’istruzione superiore e quindi non riservava aree sufficienti per l’edilizia scolastica. Tuttavia, l’adozione del piano da parte del commissario
prefettizio – che tante polemiche suscitò e fu poi annullata dalla
Commissione di controllo – e la successiva immediata approvazione da parte del nuovo Consiglio comunale facevano di Palermo una delle pochissime città italiane dotate di piano regolatore
ed evitavano che, in sua assenza, si continuassero a concedere licenze edilizie in contrasto con le linee del piano stesso. Purtroppo lo stesso Consiglio fece poi ben poco per migliorarlo, anzi nel
1959 approvò le modifiche, quasi tutte peggiorative, apportate in
12
Il Comitato di redazione era costituito da V. Nicoletti, G. Caronia, E.
Caracciolo, L. Epifanio, G. Spatrisano, P. Villa, V. Ziino, ed era affiancato da
un ufficio redazionale del quale facevano parte funzionari (M. Lojacono, V.
Capitano, G. Pirrone) e professionisti esterni (B. Colajanni, S.M. Inzerillo, G.
Mannino, D. Saladino).
IX. Palermo capitale
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sede di revisione. Le 1.233 istanze di opposizione al piano avevano infatti rimesso tutto in discussione, sotto la spinta non più
tanto dei proprietari dei suoli, quanto dei costruttori, tra i quali
– come osserva S.M. Inzerillo – «tanti improvvisati ma resi forti
da un assunto atteggiamento di manifesta prepotenza».
Così, le superfici a verde pubblico, quando non furono trasformate in verde privato o addirittura eliminate, furono ridotte,
consentendo l’edificabilità in alcune parti prospettanti su nuove
strade: il verde cittadino che il piano del ’56 fissava in 420 ettari – esclusi i grandi parchi della Favorita, del Monte Pellegrino e
dell’Oreto – si riduceva a 234, solo in parte a vantaggio del verde attrezzato che passava da 271 a 343 ettari. Le superfici a verde agricolo vennero decisamente ridotte e trasformate in aree edificabili, che tra il ’56 e il ’59 aumentavano da 2.200 a 2.654 ettari, per una popolazione sino a 900.000 abitanti. In alcune zone,
la densità fu modificata, rendendo conveniente negli anni successivi la demolizione degli edifici preesistenti, per utilizzarne l’area con nuove costruzioni sulla base dei nuovi più favorevoli parametri, con il risultato che non poche strade caratteristiche della città otto-novecentesca cambiarono completamente fisionomia
e subirono irreparabili guasti di ordine estetico-funzionale.
Nel novembre 1959, il Consiglio comunale – sindaco Lima –
approvò a maggioranza il piano regolatore «variato» e all’unanimità il piano particolareggiato delle opere di risanamento, piani
che provocarono un’altra valanga di ricorsi e opposizioni. Pochi
giorni dopo, il 28 novembre, sabato, fu presentata richiesta ufficiale di demolizione della Villa Deliella di piazza Crispi, un gioiello del Basile. L’amministrazione comunale non ritenne di dovere
applicare la legge di salvaguardia e, con una rapidità che farebbe onore alla burocrazia municipale se non fosse più che sospetta, lo stesso giorno concesse regolare licenza di demolizione: i lavori cominciarono nello stesso pomeriggio e proseguirono anche
la domenica, per evitare che con il 31 dicembre successivo scattassero i cinquant’anni dall’esecuzione dell’opera e quindi il vincolo ministeriale, in mancanza del quale però il Comune avrebbe potuto applicare le norme regolamentari del piano. L’indignazione della stampa locale e nazionale fu unanime e il comitato redazionale del piano regolatore si dimise. Le dimissioni diventarono irrevocabili nel marzo ’60, quando il Comune auto-
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Palermo
rizzò la costruzione di tre palazzine su un’area contigua alla
«montagnola» di Villa Sperlinga, che i piani del ’56 e del ’59 destinavano a verde pubblico, in contrasto con la nota convenzione del ’52 con l’Immobiliare, che invece l’amministrazione ritenne di rispettare per non esporre il Comune a un’azione giudiziaria: nel ’62, il decreto di approvazione del piano regolatore generale da parte del presidente della Regione D’Angelo respingerà
la variante, ma intanto le tre palazzine erano già state costruite.
E così gli anni della sindacatura Lima restano nella storia cittadina quelli in cui più intensa è stata la speculazione edilizia e più
rapida l’ascesa del potere mafioso a essa collegato.
Le violazioni del piano regolatore generale continuarono negli anni successivi: l’amministrazione comunale – con Ciancimino assessore ai Lavori pubblici – non si avvaleva delle misure di
salvaguardia e, sulla base di varianti al piano del ’59, che determinavano situazioni di fatto che nel ’62 non avranno poi l’approvazione del presidente della Regione, concedeva licenze spesso «a beneficio di persone già allora indicate come mafiose o che
tali si sarebbero rivelate nel corso di avvenimenti successivi». Il
lettore che volesse approfondire l’argomento potrà consultare
utilmente il rapporto del prefetto Bevivino13, che offre un nutrito campionario di casi irregolari con le controdeduzioni del Comune. Beneficiari delle varianti al piano regolatore risultavano tra
gli altri alcuni congiunti dell’onorevole Barbaccia, il mafioso latitante Antonio Matranga, i mafiosi Matteo Citarda e Nicolò (Cola) Di Trapani, allora in carcere per associazione a delinquere. Il
rigetto nel ’62 da parte della Regione di numerose varianti già approvate dal Consiglio comunale convinse l’amministrazione a impugnare il decreto regionale di approvazione del piano regolatore generale davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la
Regione Siciliana, mentre alcuni costruttori, in appoggio all’azione del Comune, ricorrevano alla serrata e chiedevano sanatorie
per le costruzioni eseguite in base a varianti approvate dal Comune e respinte dalla Regione. La Corte dei Conti inoltre ricusava inizialmente la registrazione del decreto regionale, la cui
13
Documentazione allegata alla Relazione conclusiva della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Tipografia del senato,
vol. IV, tomo VI.
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pubblicazione poté avvenire solo all’inizio del ’63. Per la sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa dovettero passare altri quattro anni, ma già nel ’64 esso aveva potuto accertare
la esistenza di costruzioni sprovviste di licenza o abusive, la precipitosa approvazione di progetti e il rilascio altrettanto precipitoso di licenze edilizie nel periodo di carenza della salvaguardia e, soprattutto, la distorsione e la falsa applicazione di vecchie norme regolamentari (del 1889) richiedenti l’intervento nelle licenze edilizie e nelle conseguenti costruzioni «di un capomastro od impresario capace ed abile». Si è preteso di dare applicazione a tali norme (i cui fini originari
erano ormai esauriti e superati dalla normazione sulle professioni di
ingegnere, geometra ed analoghe, in relazione alla compilazione di
progetti e alla direzione di lavori edili), attraverso l’istituzione ed il
mantenimento di un albo di costruttori «per conto terzi» nel quale,
per disposizione dell’Assessore, sono state iscritte persone delle quali non risultano chiari i titoli e le benemerenze professionali e che, negli ultimi anni, hanno monopolizzato quasi per intero il settore delle
licenze edilizie, fungendo evidentemente da prestanome degli effettivi costruttori rimasti nell’ombra14.
Il ricorso del Comune fu respinto come infondato, ma nessuna delle costruzioni abusive (tra cui una chiesa costruita dal cardinale Ruffini in un’area destinata a edificio scolastico dal piano
regolatore) fu mai demolita: l’unica volta in cui, come si è accennato, un assessore socialista ordinò la demolizione di alcuni
appartamenti, non riuscì ad appaltarne i lavori. Le irregolarità
continuarono anche dopo l’approvazione regionale del piano regolatore nel 1962 e nel trentennio successivo numerosi sono stati gli insediamenti abusivi: edifici residenziali unifamiliari soprattutto, ma anche palazzi per uffici, attrezzature commerciali e
impianti produttivi.
La città ha pagato costi elevatissimi per la prevalenza dell’interesse privato su quello generale, tanto in materia edilizia quanto anche in altri settori. Assieme al privato si è avvantaggiato il
politico, che ha potuto così pagare precedenti appoggi elettorali
oppure ha posto le premesse per un allargamento della sua base
14
Cit. in Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia
in Sicilia. Relazione conclusiva (Carraro), p. 217.
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Palermo
clientelare. Il rapido improvviso arricchimento di taluni uomini
politici e amministratori comunali fa pensare che talora la contropartita sia stata di ben altra natura. L’assessore comunale dc
P., ex monarchico, consigliere per un ventennio dal ’56, indicato come protettore di costruttori, qualcuno dei quali in odore di
mafia, proveniva da una famiglia senza grossi beni di fortuna: il
padre, che abitava nei pressi di piazza dello Spasimo, nel cuore
della vecchia città, era commesso in un noto negozio di abbigliamento. Le sue fonti di entrata erano una pensione di guerra
(lire 45.000 mensili) e lo stipendio di ragioniere (prima nell’amministrazione statale e poi in quella regionale), che – stando alle
sue dichiarazioni dei redditi – tra il ’67 e il ’70 gli fornivano un
reddito annuo di poco più di due milioni di lire. Come imposta
di famiglia, aveva concordato per un imponibile di lire 700.000,
elevato a 1.100.000 nel ’69. C’è da chiedersi come sia riuscito con
tali redditi ad acquistare in un decennio, tra il ’59 e il ’69, un appartamento di 7 vani e uno di 4, con relativi accessori, garage e
scantinato, in uno stabile nella zona più signorile della città, quasi ad angolo tra le vie Libertà e Notarbartolo, e ancora tre appartamenti in periferia per complessivi 9 vani e accessori, con un
costo dichiarato (quello di mercato era però ben più elevato) di
32.800.000 lire, di cui solo 8.520.000 coperti da mutuo. L’assessore P. non rappresenta il solo caso di politico rampante dedito
all’arricchimento personale, indipendentemente dal partito di
appartenenza, che era allora la Dc solo perché il partito monarchico non aveva più potere e più tardi sarà qualche altro partito.
Non a caso si è parlato di «partito trasversale», vero e proprio
«comitato di affari» comprendente esponenti di diversi partiti,
anche di opposizione, che realizzavano lucri consistenti con la gestione della cosa pubblica.
Né era diversa la classe politica regionale se, alla fine degli anni Sessanta, il giornalista Mario Farinella non riusciva a trattenere il suo sbalordimento di fronte alla regale dimora di un esponente di primo piano, da lui conosciuto anni prima, quando abitava una casa «modesta, arredata con mobili di poco prezzo, impersonale e grigia»:
Mi trovo nel bel mezzo dei quartieri alti, di fronte ad una palazzina di gran lusso, bianca di marmi, con un fruscio di alberi e un re-
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frigerante scenario verde sul retro. Marmi anche all’interno e quadri
di buona epoca, mobili di ogni stile, ori antichi intatti nel loro splendore, esposizioni di gioielli, monete, reperti archeologici, preziosissimi crocefissi d’avorio in profana promiscuità con panciuti Budda di
giada. Avevo la sbalordita impressione di trovarmi dinanzi al pingue
e disordinato bottino di un corsaro. E il personaggio era lì, in vestaglia lunga; si sbaciucchiava con i suoi capi elettori convenuti dal circondario. Era proprio lui, l’uomo che avevo conosciuto agli inizi della sua carriera politica, povero come un Giobbe: mi chiedevo quale
sortilegio gli avesse fatto scaturire attorno quel fiume d’oro.
Oggi lo stupore di Farinella sarebbe incomprensibile, anzi ci
stupiremmo del contrario. E in fondo non lo era neppure allora,
se lo stesso giornalista un anno dopo riconosceva che
a voler fare i nomi e gli inventari degli uomini politici che partiti da
zero ci guardano ora dall’alto del loro miliardo e passa, ci sarebbe da
mettere mano al calcolatore elettronico. E non è cosa nostra. Quel
che soprattutto ci preme additare ancora una volta è la ampiezza del
fenomeno, la ricchezza facile che scaturisce quasi sempre dai sotterranei intrecci tra politica e affarismo, dal tristo connubio tra clientelismo, mafia e politica. Perché non si può arricchire facendo soltanto ed esclusivamente politica, esercitando le funzioni di sindaco, di
assessore, di deputato [...]. Si facciano quindi i conti in tasca a chi
vanno fatti e si facciano pubblicamente perché è di tutti il denaro che
in questi anni di arrembaggio è stato trasformato in appartamenti di
lusso, in ville-fortezze, in costosissimi pezzi di antiquariato, o messo
al sicuro all’estero.
Quei conti non sono stati mai fatti!
Le varie sanatorie edilizie hanno regolarizzato nel tempo le
numerose irregolarità, comprese le trasformazioni illegali realizzate nelle aree vincolate a servizi e attrezzature, ma le brutture
restano ancora, mute testimonianze di un’epoca in cui nel settore urbanistico-edilizio tutto era consentito. E restano le strade
asfittiche e prive di verde, su cui incombono palazzi mastodontici e sgraziati, che non riuscirà a cancellare neppure la variante
Cervellati al piano regolatore generale, oggi ancora in fase di approvazione. Al centro di infuocate polemiche e di scontri durissimi tra sostenitori e oppositori, tra giunta e commissione urba-
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Palermo
nistica, tra giunta e Consiglio comunale, tra consiglieri comunali e di quartiere dell’una e dell’altra parte politica e talora persino dello stesso schieramento, la Variante ha come suo obbiettivo fondamentale la riqualificazione ambientale e privilegia il recupero del verde e delle periferie, la creazione di grandi parchi,
la valorizzazione dei monumenti, la restituzione della fascia costiera alla città, il contenimento della espansione urbana. Abbandona inoltre l’idea di un’unica grande area metropolitana e
propone la disarticolazione della realtà comunale in municipalità: otto piccole città comunicanti e interagenti, ognuna però con
una sua ben precisa identità. Una proposta certamente in linea
con le più avanzate soluzioni urbanistiche, anche se la perimetrazione delle nuove circoscrizioni – almeno quella inizialmente
proposta – appare alquanto disinvolta, perché spesso ignora la
situazione presente del territorio, effetto delle trasformazioni dell’ultimo secolo, e si rifà ai confini ottocenteschi delle parrocchie
e di proprietà agricole di cui oggi non restano che labili tracce.
Per il centro storico è operante da alcuni anni il Piano particolareggiato esecutivo (Ppe) elaborato alla fine degli anni Ottanta dagli architetti Pierluigi Cervellati, Leonardo Benevolo e Italo Insolera, e approvato con decreto regionale del giugno ’93. Il
Ppe era stato preceduto da un «Piano dei servizi» redatto per
conto del Comune da un apposito Centro interdipartimentale
dell’Università di Palermo – che aveva visto la partecipazione
convinta di numerosi docenti di quasi tutte le facoltà dell’Ateneo
– al fine di «consentire all’Amministrazione una vastissima gamma di interventi di restauro, conservazione e ripristino di un
enorme patrimonio storico-culturale, il rifacimento dei servizi a
rete e della viabilità, nonché nuove iniziative nel campo dei servizi sociali, utilizzando le risorse finanziarie disponibili e quelle
in via di acquisizione» (luglio ’88). La ristrettezza dei tempi imposti dall’amministrazione comunale – nel cui ambito l’ostilità
nei confronti del mondo universitario locale era alquanto diffusa – non consentì ai redattori di approfondire ulteriormente la
parte più significativa del piano, ossia la parte relativa al fabbisogno di servizi sociali, anche perché, al momento della consegna dello studio, non era stato ancora emanato il decreto regionale che, in applicazione della legge 9 maggio 1986 sul riordino
delle attività socio-assistenziali, avrebbe dovuto fissare «gli stan-
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dard strutturali e organizzativi dei servizi istituiti». Peraltro il
«Piano dei servizi» non era neppure uno strumento urbanistico
previsto dalla vigente legislazione e perciò la giunta comunale ritenne opportuno affidare al gruppo Cervellati l’incarico per la redazione del piano particolareggiato di recupero del centro antico della città, il Ppe appunto, con la precisa avvertenza – che era
poi un vincolo – che gli strumenti attuativi fossero rigorosamente in linea con il Piano programma.
Il Ppe si discosta invece in maniera clamorosa dallo spirito
informatore del Piano programma, il cui obiettivo era il risanamento ambientale e la conservazione e recupero del patrimonio
edilizio esistente secondo il metodo morfologico, che – come è
noto – studia le forme degli organismi viventi e le possibili modificazioni dall’interno, in coerenza con la loro genesi e la loro
storia. Tutt’altra la filosofia del Ppe, che adotta il metodo filologico, cioè il metodo classico dell’archeologia, che mira invece a
ricostituire un elemento del passato nella forma più aderente possibile all’originale. Anch’esso perciò è stato al centro di forti polemiche non ancora del tutto sopite. E tuttavia è indubbio che
l’adozione del Ppe ha bloccato nel centro storico stravolgimenti
irreversibili e ha consentito di avviare finalmente negli ultimissimi anni una seria ed efficace azione di recupero. Azione certamente ancora insufficiente – soprattutto in considerazione della
vastità degli interventi da attuare, impossibili peraltro senza nuovi sostanziosi contributi finanziari da parte non solo della Regione e del Comune, ma anche dello Stato e della Comunità europea – e che è tuttavia il segno di una svolta fondamentale nella
politica comunale sul centro storico, che è auspicabile venga fortemente potenziata già nel prossimo futuro.
5. L’ascesa della mafia: dal tabacco e i mercati all’edilizia e alla
droga
Il boom edilizio e le irregolarità amministrative a esso connesse hanno contribuito notevolmente al rafforzamento della mafia urbana e a rendere più organici i rapporti tra politici e mafiosi, ampiamente esaminati nelle pagine precedenti. Dopo la crisi del separatismo, la mafia – come si è detto – si era schierata
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Palermo
dalla parte dei liberali e dei monarchici, ma nel corso degli anni
Cinquanta, con il passaggio delle vecchie forze del blocco agrario dal Pli e dal Pnm alla Dc, anch’essa si indirizzò verso il maggiore partito di governo e scoprì l’edilizia, un settore che inizialmente – quando già enti sovvenzionati e società private avevano
avviato la grande speculazione – non aveva attirato il suo interesse. Più tardi, negli anni Ottanta, le organizzazioni mafiose individuarono in radicali e socialisti, che si erano messi ad agitare
la bandiera del garantismo contro i maxi processi, dei possibili
referenti e – allo scopo anche di lanciare un forte segnale alla Dc,
da cui non si sentivano più pienamente tutelate – non esitarono
a indirizzare una parte dei suffragi da esse controllati verso candidati dei due partiti laici, come dimostra il già ricordato successo del Psi alle politiche dell’87 nelle borgate da esse tradizionalmente controllate. La scomparsa della Dc alle elezioni politiche del ’94, cui si aggiungeva anche quella del Psi, ha privato Cosa Nostra dei suoi principali referenti politici e l’ha spinta addirittura a promuovere la formazione di un nuovo movimento politico, Sicilia libera. Fallita l’iniziativa, in questi ultimissimi anni
la mafia sembra avere stretto rapporti con esponenti del Polo, alcuni dei quali sono in atto sotto processo.
L’esplosione del fenomeno mafioso in città è stata spessissimo
attribuita a un inserimento negli anni Cinquanta della mafia dei
feudi nella società urbana, dimenticando che a Palermo la mafia
aveva avuto la sua culla, vi era in ogni caso fortemente radicata,
controllava il mercato ortofrutticolo, il contrabbando dei tabacchi e gli agrumeti della Conca d’Oro ancora numerosi, e soprattutto si avvaleva già di un organismo di coordinamento controllato dalle ‘famiglie’ di Palermo centro. Si commette perciò un errore grossolano quando si afferma che negli anni Cinquanta i mafiosi si sono trasferiti dalla campagna a Palermo. In realtà, la mafia del feudo si indeboliva per l’inaridirsi delle fonti di reddito a
causa della crisi della vecchia struttura agricola, effetto a sua volta dell’abbandono delle campagne da parte dei contadini siciliani che emigravano all’estero e nelle città industriali del Nord Italia. Di contro, negli stessi anni la mafia palermitana si rafforzava
notevolmente perché – diversamente da quella del feudo – poteva operare in una realtà economica urbana in fase di forte sviluppo. E un attento esame dei fatti rivela che i tentativi d’inseri-
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mento dall’esterno furono quasi tutti spietatamente stroncati nel
sangue: raramente infatti qualche esponente della mafia dei feudi
è riuscito a trovare spazio in città anteriormente all’esplosione del
fenomeno della droga negli anni Settanta, che modificherà le gerarchie all’interno di Cosa Nostra e porterà alla ribalta i corleonesi Liggio prima e Riina dopo, ossia la «bassa manovalanza» che
all’inizio degli anni Ottanta finirà con l’assumere la leadership dell’organizzazione criminale. Prima di allora, neppure i capi mafia
di borgata avevano trovato facile inserimento e parecchi di essi
erano caduti nel vano tentativo di ammodernamento dei metodi
di sfruttamento parassitario, nella fase di passaggio dalla mafia tradizionale dei giardini, dei mercati all’ingrosso e del tabacco alla
nuova mafia dell’edilizia e della droga. La mafia sorta all’ombra
dei grattacieli, che aveva sostituito la lupara con il mitra, l’agguato dietro la siepe con la sparatoria dall’auto in corsa, non tollerava intrusioni di sorta. Il prototipo del nuovo mafioso-gangster era
Angelo La Barbera, figlio di un venditore di carbonella della borgata di Pallavicino, che tra il ’52 e il ’63 si trasformava in un facoltoso e dinamico imprenditore edile e nel capo della «famiglia»
di Palermo centro. Così ne parlano Chilanti e Farinella:
Irruento, volitivo, di modi sbrigativi, amabile e generoso con gli
amici e con gli estranei, autoritario con i gregari, lo avresti visto più
nelle mansioni di un giovane e capace capitano d’industria che non
in quelle abiette di capo di una vasta associazione criminale [...]. Del
vecchio costume mafioso aveva conservato soltanto la prepotenza, il
disprezzo per il diritto altrui, l’arte sottile di alimentare i rapporti con
gli uffici, gli enti, le personalità politiche del momento; per quelle che
in certi ambienti vengono ancora considerate le antiche virtù della
mafia – prudenza, pazienza, accomodamento – nutriva, invece, avversione e disdegno. Aveva quasi un battaglione di picciotti sui quali poteva contare, ma spesso preferiva scendere in campo lui stesso
[...]. Per la sua azione e per le sue attività aveva scelto quanto di più
moderno e lucroso poteva offrire l’odierna società palermitana: gli appalti, i trasporti di materiale, i cantieri, la speculazione edilizia e, in
subordinata, il contrabbando.
La mafia tradizionale non rimase ovviamente a guardare e la
lotta tra cosche, alla quale si è già fatto cenno, insanguinò le strade della città e culminò nella strage di Ciaculli (giugno ’63): un’au-
520
Palermo
to imbottita di tritolo destinato contro Salvatore Prestifilippo
esplose uccidendo gli agenti dell’ordine accorsi a disinnescarla.
La pronta risposta dello Stato con l’arresto e l’invio al confino di
numerosi pregiudicati determinò una tregua tra le cosche sin
quasi alla fine degli anni Sessanta.
Ancora negli anni Cinquanta, il controllo dei giardini e dei
mercati all’ingrosso assieme al contrabbando dei tabacchi costituivano le principali attività dei gruppi mafiosi della città e delle
borgate. Le guardianie degli agrumeti della Conca d’Oro e la vendita del frutto ai grossisti subivano la loro pesante intermediazione, alla quale era impossibile sottrarsi. La mafia dei giardini
controllava anche il mercato ortofrutticolo di via Guglielmo il
Buono alla Zisa, il cui trasferimento all’Acquasanta nel ’55 scatenò uno scontro violentissimo durato sino ai primi anni Sessanta con la mafia del quartiere, che rivendicava il controllo dei nuovi locali. Tra i concessionari degli stands numerosi erano gli appartenenti alle cosche mafiose, che fissavano i prezzi dei prodotti ed esigevano vere e proprie «tangenti» dai produttori, i quali
avrebbero dovuto godere di spazi riservati e invece erano costretti a passare attraverso l’intermediazione parassitaria dei concessionari, pagando un compenso del 10-12 per cento sull’entità
delle operazioni di mercato. Anche il mercato delle carni era in
mano a operatori e macellai pregiudicati, collegati con la mafia
rurale ancora dedita all’abigeato. Né faceva eccezione il mercato
all’ingrosso del pesce, in mano a pochissimi monopolisti dalla fedina penale non sempre pulita. Ma il settore più redditizio, prima che la mafia scoprisse l’edilizia, era il contrabbando dei tabacchi esteri, che peraltro continuò a praticarsi anche dopo, incrementandosi addirittura, tanto che negli anni Settanta su un
consumo nazionale di 80.000 tonnellate di sigarette si calcolava
che 10.000 fossero di contrabbando. L’attività non veniva svolta
direttamente dalla mafia, che si limitava a dirigerla e a finanziarla partecipando ai cospicui guadagni da essa prodotti, inizialmente nella sola Sicilia e con gli anni Sessanta-Settanta anche nel
napoletano e via via in Lombardia e in Liguria. A capo dell’organizzazione criminale erano allora Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Michele Greco.
Nel corso degli anni Cinquanta, sia pure con ritardo, la mafia palermitana cominciò a partecipare alla torta della specula-
IX. Palermo capitale
521
zione edilizia, ottenendone lucri mai realizzati in precedenza, che
la rafforzavano notevolmente, in una fase in cui invece la mafia
dei feudi era in dissoluzione, a causa prima della riforma agraria
che aveva lottizzato numerosi latifondi e successivamente della
crisi dell’agricoltura come conseguenza dell’abbandono delle
campagne da parte dei contadini. Grazie a indovinate coperture
politiche, elementi mafiosi cominciarono a occuparsi direttamente di aree fabbricabili, ad aprire cantieri edili, a imporre agli
altri costruttori di servirsi di determinati fornitori, a fornire essi
stessi i materiali necessari (calcestruzzo, ferro, sanitari, ecc.), a
controllare gli appalti pubblici e a regolarne la distribuzione, a
imporre subappalti e cottimi; il mezzo più convincente nei confronti dei riluttanti era l’avvertimento a base di tritolo che colpiva gli impianti e, nei casi estremi, una raffica di mitra. In breve
l’intero settore finì con l’essere dominato da imprenditori legati
alla criminalità organizzata o da essa fortemente condizionati.
Non è possibile in questa sede una ricostruzione completa
dell’attività mafiosa, che richiederebbe uno spazio che il taglio
del presente lavoro non può consentirsi: l’argomento, in ogni caso, è il più studiato della storia cittadina e non sarà difficile al lettore che volesse approfondirlo trovare sul mercato ottimi testi.
Importa ancora rilevare che l’edilizia e il contrabbando dei tabacchi non rimasero a lungo i principali campi di attività della
mafia, la quale negli anni Settanta trovò altre fonti di accumulazione nei sequestri di persona, nei flussi di spesa pubblica destinati all’agricoltura (sovvenzioni statali, comunitarie, regionali),
nell’attività estorsiva a danno di imprenditori e di commercianti, e soprattutto nel mercato della droga, che faranno passare in
secondo piano tanto l’impegno nel settore edilizio, che peraltro
ha attraversato periodi di congiuntura sfavorevole, quanto quello nel settore dei tabacchi alla fine degli anni Settanta. Ormai, la
mafia non era più un fenomeno limitato alla sola Sicilia occidentale, ma – pur continuando sempre a mantenere a Palermo il centro decisionale della sua attività criminosa – aveva esteso le sue
ramificazioni anche al di là dell’isola, nell’Italia settentrionale,
dove ad esempio sono avvenuti i più importanti sequestri di persona, da cui invece la Sicilia rimaneva per certi versi immune. I
pochi sequestri verificatisi nell’isola, più che da motivazioni
estorsive, sono stati determinati dalla esigenza di alcune cosche
522
Palermo
di affermare il proprio predominio screditando le cosche rivali,
non più in grado di assicurare protezione: è il caso ad esempio
del sequestro nel ’75 dell’esattore Luigi Corleo, deceduto in cattività, a opera dei «corleonesi» di Liggio e di Riina allo scopo di
intaccare il prestigio di Stefano Bontate cui i Salvo erano legati.
E, allo stesso modo, l’assassinio di magistrati, funzionari statali e
dello stesso presidente della Regione, oltre che come messaggio
denso di una potente carica d’intimidazione rivolto ai colleghi
della vittima, va interpretato anche come strumento di lotta tra
‘famiglie’ rivali, grazie al quale spesso autori e mandanti riuscivano a indirizzare contro gli avversari la repressione dello Stato,
che di solito fa seguito all’omicidio di ogni funzionario.
L’appropriazione di flussi di spesa pubblica da parte di organizzazioni mafiose avviene attraverso società per azioni, finanziarie immobiliari, cooperative da esse strettamente controllate,
che consentono di drenare enormi quantità di denaro pubblico
e di riciclare i proventi di altre attività illecite. Il riciclaggio del
‘denaro sporco’ avviene però soprattutto attraverso il controllo
di determinate banche, che servono anche a occultare improvvisi arricchimenti e a finanziare eventualmente la stessa organizzazione criminale: non a caso, negli anni Settanta-Ottanta, si è verificato nell’isola, ma in particolare nella Sicilia occidentale, che
ne era in verità carente, un vertiginoso aumento di sportelli bancari, contrariamente a quanto accadeva nel resto d’Italia, dove invece il numero degli sportelli era in fase di diminuzione. Lo stesso può dirsi per i depositi bancari, aumentati percentualmente
addirittura più che in Piemonte. Può accadere così che nel ’79 il
più alto reddito annuo (819 milioni) possa essere in città quello
denunciato dall’imprenditore edile Rosario Spatola, più tardi
condannato perché implicato nella vicenda Sindona e nel traffico di stupefacenti.
Il traffico di droga – al quale la mafia cominciò a dedicarsi
con più convinzione dalla metà degli anni Sessanta, utilizzando
gli antichi canali del contrabbando delle sigarette – è via via diventato l’attività di gran lunga prevalente e più lucrosa, soprattutto in considerazione dell’elevato valore aggiunto dell’eroina.
Inizialmente, i mafiosi siciliani operavano in posizione secondaria, ma verso la metà degli anni Settanta – grazie sia ai capitali
accumulati con i sequestri di persona e con la partecipazione a
IX. Palermo capitale
523
varie attività imprenditoriali, sia ai capitali attinti presso le banche – riuscirono a sostituire Marsiglia nella produzione di eroina per il mercato statunitense. L’eroina veniva infatti fabbricata
in laboratori impiantati nei pressi di Palermo, che – con una capacità di produzione di 50 kg la settimana ciascuno – fornivano
utili elevatissimi, sino a quando non furono scoperti e smantellati dalla polizia. All’inizio degli anni Novanta, l’Istat valutava in
9.000 miliardi l’anno (le «narcolire») il valore dei narcotici illegali commercializzati in Italia: una somma in gran parte controllata da Cosa Nostra, la quale veniva così a disporre di ingenti capitali che finivano col modificare alquanto il tradizionale rapporto mafia-politica. In verità, il potere mafioso ha sempre goduto di una certa autonomia nei confronti del potere politico, ma
se talvolta in passato esso ha potuto agire in posizione subordinata, negli anni Ottanta-Novanta se ne è del tutto emancipato:
la scala della [...] ricchezza [dei mafiosi] – rileva Arlacchi – è diventata tale da poter consentire loro una autonomia di azione molto superiore a quella detenuta dai loro stessi protettori politici. Senza una
autonomia così ampia, essi non avrebbero potuto neppure concepire
i piani di omicidio delle massime autorità politiche e giudiziarie attuati in Sicilia negli ultimi anni.
Ma proprio la nuova strategia contro le istituzioni statali da
essi messa in atto attorno all’Ottanta e ripresa all’inizio degli anni Novanta con le stragi dei giudici Falcone e Borsellino e delle
loro scorte (1992) ha avuto per Cosa Nostra un effetto boomerang: da un lato, infatti, ha provocato una decisiva svolta della
politica governativa nei confronti del fenomeno mafioso, che ha
portato all’emanazione di norme più restrittive e a una legislazione premiale a favore dei «pentiti di mafia», i cui effetti sono
stati la cattura di pericolosissimi criminali tra cui Totò Riina; dall’altro, ha eroso una parte consistente dei margini di consenso
che la mafia riusciva ancora a trovare in alcuni ceti e ha inoltre
determinato nella società civile l’abbandono dell’indifferenza
verso il fenomeno e il sorgere di un forte movimento antimafia.
La bandiera dell’antimafia non era più agitata soltanto dai gruppi di Sinistra, come avveniva ancora negli anni Settanta, ma trovava numerosi alfieri anche nel mondo cattolico, nelle parroc-
524
Palermo
chie, nelle associazioni del volontariato, nelle riviste («Segno», in
primo luogo), nei centri sociali e culturali, nelle stesse amministrazioni pubbliche. E tuttavia la strada della sconfitta definitiva
della mafia è ancora lunga e non mancano talora pericolosi «cali di tensione», come nel momento in cui scriviamo.
6. Alle soglie del Duemila
Non è un caso se la prima – e per parecchi anni anche l’unica – esclusione di una squadra di calcio da un campionato nazionale ha colpito proprio Palermo, la cui maggiore formazione
calcistica nel settembre ’86 non è stata ammessa a disputare il
campionato di serie B, perché la SS. Palermo, già pesantemente
indebitata, non è stata in grado di fornire adeguate garanzie. Si
è parlato di congiura ai danni di una città, di lotta interna alle
correnti dc, ma le successive indagini della magistratura, culminate con l’arresto del presidente della società e il mandato di cattura contro il maggiore azionista, latitante, hanno abbondantemente messo in luce una conduzione societaria tale da motivare
il provvedimento di esclusione dal campionato. Se assieme a Palermo fossero state allora colpite contemporaneamente altre città,
il provvedimento avrebbe avuto una ben diversa valenza: rientrerebbe nella logica del mondo del calcio. Purtroppo, non è così: esso rientrava invece in una logica tutta palermitana, in cui largo spazio è lasciato alla improvvisazione e alla fiducia che, prima
del giorno del redde rationem, sarà sempre possibile un intervento assistenziale, che nella fattispecie non si è verificato. E perciò esso finisce con l’assumere un valore altamente emblematico
della condizione della città, che affida il suo sviluppo quasi esclusivamente alla presenza pubblica e all’economia assistita.
Palermo continua a essere una città in cui le contraddizioni,
gli squilibri, i ritardi che caratterizzano le grandi città meridionali rispetto alle aree a economia ‘matura’ appaiono ancor più
accentuati dalla piaga del fenomeno mafioso e di una agguerrita
piccola criminalità, dalla grave insufficienza di infrastrutture e di
servizi essenziali, dal degrado incredibile di alcuni quartieri cittadini. È innegabile che nell’ultimo cinquantennio la città sia notevolmente cambiata, e non soltanto nella sua conformazione ur-
IX. Palermo capitale
525
banistica e nella sua struttura produttiva, con la fortissima riduzione, quasi una scomparsa, del settore agricolo (orti e agrumeti
della Conca d’oro), una buona espansione delle attività manifatturiere e del settore industriale in genere, il boom del terziario.
Ma è altrettanto indubbio che il ritardo nei confronti della parte più progredita del paese è stato colmato solo per quanto riguarda alcuni aspetti. La situazione abitativa, ad esempio, come
si diceva, è notevolmente migliorata nell’ultimo cinquantennio.
Tra le grandi città italiane, Palermo nel ventennio 1951-1971, ha
avuto, dopo Roma, il maggiore incremento di abitazioni e di stanze (+ 90 per cento), incremento che è continuato anche nel ventennio successivo, cosicché nel ’91 la città contava 260.579 abitazioni per oltre un milione di vani. Le 19,5 abitazioni per ogni
100 abitanti di cui essa disponeva nel ’51 (contro le 31 di Torino, 29 di Milano, 28 di Genova, 18,8 di Roma, 18,5 di Napoli)
sono diventate 37,3 nel ’91, mentre contemporaneamente il numero medio di stanze è passato da 57 a 149,2 per ogni 100 abitanti. La situazione abitativa quindi si colloca ormai sulla media
nazionale e almeno la casa a Palermo non costituisce più un grave problema. Il fatto che, pur in presenza di un cospicuo numero di abitazioni non occupate (44.000), quasi ogni famiglia disponesse nel ’91 della sua abitazione (le coabitazioni ormai interessavano soltanto il 12,6 per mille delle famiglie, mentre in altre città come Firenze e Torino superavano il 22) e che ogni abitante avesse a disposizione quasi un vano e mezzo (1,43), ossia
mq 29,3, costituisce una conquista non da poco.
Il livello medio dell’istruzione della popolazione è migliorato
in maniera considerevole, grazie anche all’aspettativa di un lavoro impiegatizio, più facile da ottenere con un titolo di studio più
elevato: l’analfabetismo, che ancora nel ’21 colpiva oltre un quarto della popolazione di oltre 6 anni, era già sceso al 18 per cento nel ’51, all’11,23 per cento nel ’61, per ridursi infine al 2,3 per
cento nel ’91, mentre contemporaneamente il 5,7 per cento della popolazione di oltre 6 anni risulta in possesso di laurea, il 18,1
per cento di diploma, il 29,1 per cento di licenza media. Ma all’aumento della scolarizzazione solo negli ultimi anni ha corrisposto un miglioramento delle attrezzature scolastiche e ancor
oggi numerose sono le aule ubicate in locali di fortuna di proprietà privata. Peraltro, se nel ’91 il tasso di scolarità per le scuo-
526
Palermo
le dell’obbligo, pari a 97,3 per cento, si collocava quasi sulla media delle grandi città (media nazionale 98,3), tra queste Palermo
aveva il più basso tasso di scolarità per la scuola materna (appena 47,7 per cento, contro la punta massima di 84 a Bologna) e
uno dei più bassi per la scuola superiore e l’università (28,6 per
cento), appena più elevati di quelli di Napoli e di Catania.
La popolazione attiva (occupati, disoccupati e persone in cerca di prima occupazione) è anch’essa cresciuta nel cinquantennio, in buona parte grazie al nuovo ruolo assunto dalla donna nel
mercato del lavoro, che però ha provocato talora un aumento della disoccupazione maschile, cosicché in alcuni periodi l’incremento della popolazione attiva ha finito con l’essere determinato largamente da disoccupati e giovani in cerca di prima occupazione. In particolare, nel decennio 1981-1991, la popolazione
attiva ha subìto una preoccupante flessione (dal 44,3 al 37,6 per
cento della popolazione cittadina), che solo in parte è spiegabile
con i diversi criteri di classificazione utilizzati nei due censimenti. Ci troviamo di fronte a una riduzione effettiva, causata dall’incremento del numero dei pensionati prima ancora del raggiungimento dei limiti di età: fenomeno che si è ulteriormente accentuato negli ultimissimi anni e che è presente in tutto il paese,
ma a Palermo ha effetti più negativi, se a livello nazionale il tasso di attività del ’91 è riuscito a fermarsi al 42,2 per cento. La situazione palermitana appare particolarmente grave se inoltre si
considera che degli attivi fanno parte anche i giovani di ambo i
sessi in cerca di prima occupazione o di nuova occupazione. Per
la sola classe 14-29 anni, nel ’91 si registrava un tasso di disoccupazione del 33,4 per cento, il più alto dopo Napoli (41,7), ben
lontano dal 9,3 per cento di Bologna o dal 12,2 di Milano. Il fenomeno della ricerca della prima occupazione riguarda addirittura anche le classi successive, cosicché il numero dei senza lavoro a Palermo è da un quindicennio in continuo aumento e crea
non poche tensioni. Già nel ’91 il tasso di disoccupazione maschile era balzato dal 24,3 per cento dell’81 al 33,4 e quello femminile al 38. Complessivamente toccava il 34,8 per cento, un tasso elevatissimo, tra i più alti d’Europa (che negli anni Novanta si
è ulteriormente innalzato), ben lontano dal valore nazionale (7,5
per cento) e, tra le grandi città, inferiore soltanto a quello di Napoli. D’altra parte, non è un caso se a fronte di un saldo demo-
IX. Palermo capitale
527
grafico naturale ancora positivo, da anni il saldo migratorio – come si è già osservato nelle pagine iniziali del presente capitolo –
risulta negativo, proprio a causa di una fuoruscita dalla città di
popolazione in età lavorativa. L’espansione della disoccupazione
nell’ultimo quindicennio è la conseguenza del fortissimo rallentamento dell’attività edilizia, della crisi che ha investito il settore
manifatturiero locale e infine della introduzione di innovazioni
tecnologiche nel comparto produttivo dei servizi, che non solo
impediscono la creazione di nuovi posti di lavoro ma finiscono
spesso col provocare una riduzione della stessa forza lavoro impiegata. E perciò il problema occupazionale resta oggi uno dei
più importanti problemi cittadini da risolvere, se non addirittura il più importante.
Tra la popolazione in condizione professionale (occupati e disoccupati), gli imprenditori e i liberi professionisti costituivano
nel ’91 il 7,2 per cento (Italia 6,9 per cento) e i lavoratori in proprio e coadiuvanti il 13,9 per cento (Italia 19,8 per cento). I primi risiedevano soprattutto nella città nuova a nord del Politeama, e più precisamente nei quartieri Libertà, Resuttana-San Lorenzo e Politeama, mentre i lavoratori in proprio erano concentrati prevalentemente nei quartieri periferici (Settecannoli, Oreto-Stazione, Resuttana-San Lorenzo, Zisa, Noce, Villagrazia-Falsomiele, Mezzomonreale-Villa Tasca, Uditore-Passo di Rigano,
Pallavicino, Monte Pellegrino), con alcuni nuclei cospicui anche
nei vecchi quartieri borghesi (Libertà, Politeama). Il resto – a parte uno 0,4 per cento di soci di cooperative – erano lavoratori dipendenti, ossia dirigenti e impiegati per il 51,9 per cento della
popolazione in condizione professionale (Italia 29,6 per cento) e
lavoratori per il 26,6 per cento (Italia 43 per cento). La bassa incidenza percentuale dei lavoratori autonomi sul complesso della
popolazione palermitana in condizione professionale, cui si contrappone l’elevata incidenza percentuale di dirigenti e impiegati
(soprattutto nel comparto del credito e dei servizi alle imprese),
mostra chiaramente la forte vocazione terziaria della città. Ma
proprio il forte squilibrio tra le ipertrofiche attività terziarie e le
atrofizzate attività industriali costituisce la più grave distorsione
del sistema produttivo cittadino. Distorsione che si è ulteriormente accentuata negli anni Novanta se si considera che l’area
industriale di Partanna Mondello, a causa della mancata realiz-
528
Palermo
zazione di strutture di servizio adeguate e della progressiva perdita di competitività dell’industria manifatturiera locale, è ormai
in fase di progressivo smantellamento (parecchie sono le strutture industriali abbandonate), mentre l’Area di sviluppo industriale di Brancaccio, se da un lato non offre più spazi liberi per nuovi insediamenti, dall’altro è occupata anche da diverse aziende
chiuse e talora addirittura fallite. I pochi nuovi insediamenti industriali di questi ultimi anni si sono perciò realizzati nelle Aree
industriali extracomunali di Carini e di Termini Imerese, dove la
forza lavoro è però reclutata in maggioranza nella provincia, non
più nella città.
L’esame della condizione socio-professionale ci mostra nel ’91
una città in cui borghesia e ceti medi costituiscono la maggioranza della popolazione attiva. Come in passato, però, la borghesia non è tanto costituita da imprenditori, quanto essenzialmente da professionisti, con ingegneri e medici che da tempo
hanno sostituito gli avvocati al primo posto, a dimostrazione delle modificazioni che lo sviluppo urbanistico e dei servizi sanitari
ha apportato alla stessa struttura sociale. Nell’ambito delle classi medie, i ceti impiegatizi rappresentano la componente più significativa; il resto è costituito dalla piccola borghesia relativamente autonoma, tra cui i commercianti. All’interno della classe
operaia, al primo posto stanno ancora i lavoratori dell’industria
(11,3 per cento della popolazione attiva in condizione professionale), seguiti dagli addetti ai trasporti e servizi (8,1 per cento),
all’edilizia (7,8 per cento), ai servizi domestici (2,4 per cento), all’agricoltura e pesca (2,2 per cento).
Il reddito medio pro capite, negli ultimi decenni, è notevolmente migliorato in termini reali e consente consumi e livelli di
vita assolutamente impensabili all’inizio degli anni Cinquanta. E
tuttavia, il reddito medio conseguito dal palermitano nell’82
(5,78 milioni di lire per abitante) collocava Palermo all’ultimo posto tra i capoluoghi siciliani. Di contro, per livello di consumi
(4,9 milioni per abitante), Palermo balzava al secondo posto tra
le città dell’isola, con una propensione al consumo altissima (84
per cento), la più elevata in assoluto tra i comuni con popolazione superiore ai 700.000 abitanti, dove oscillava dal 58 per cento di Genova all’83 per cento di Milano: l’elevata propensione
media al consumo è da attribuirsi sia alla sperequazione nella di-
IX. Palermo capitale
529
stribuzione del reddito tra gli abitanti, sia alla presenza di redditi da attività illecite (estorsioni, traffico di droga, ecc.), che nell’82
erano piuttosto consistenti. Secondo una indagine di una banca
romana, il reddito medio pro capite sarebbe stato invece assai più
elevato (9,4 milioni nell’85) e avrebbe superato, sia pure di poco, quelli di Enna, Caltanissetta e Trapani. Ma Palermo sarebbe
rimasta sempre agli ultimissimi posti tra i capoluoghi italiani (al
primo posto Bergamo con 21 milioni) e al penultimo tra le città
medio grandi, seguita solo da Napoli con 9,2 milioni (al primo
posto Milano con 18,2 milioni). Una indagine dell’Istituto Tagliacarne per il 1994 attribuisce alla provincia di Palermo (non
quindi al solo comune capoluogo) un reddito disponibile annuo
per abitante di 16,1 milioni, che la collocherebbe all’85º posto su
103, ben lontana non solo dal primo posto di Bologna con 29,7
milioni, ma anche dalla media nazionale pari a 21,2 milioni.
Il livello di vita risente indubbiamente della permanenza di
elementi di arretratezza che non sono stati rimossi, cosicché gli
indicatori di benessere assegnavano nell’81 alla città di Palermo
14 punti in meno (86) della media nazionale fatta uguale a 100;
e contemporaneamente gli indicatori di disagio superavano la
media nazionale di ben 48 punti (148,23). Palermo cioè si trovava in una posizione di vantaggio rispetto alla media nazionale soltanto per quanto riguarda medici, aule per l’istruzione secondaria di secondo grado, abbonamenti e numero di apparecchi telefonici. Per il resto, tutti gli altri indicatori di benessere e di disagio la ponevano in una posizione di svantaggio: posti letto, personale paramedico, aule di scuola materna e dell’obbligo, abbonamenti Rai-Tv, spesa per spettacoli, propensione media al
risparmio, sportelli bancari, protesti, fallimenti, delitti contro la
vita e il patrimonio, tasso di non attività, non occupati, tasso di
disoccupazione, tasso di ricerca di prima occupazione, indice di
affollamento delle abitazioni, quoziente di mortalità infantile, tasso di analfabetismo, pensioni d’invalidità. Solo l’indice di coabitazione era pari all’indice nazionale, grazie al boom edilizio, che,
al di là dei danni apportati al tessuto urbanistico di cui si è parlato, ha migliorato notevolmente la situazione abitativa della città.
I pochi dati disponibili per il periodo successivo confermano
sostanzialmente il quadro dell’81 e perciò, a ragione, a fine 1996
il quotidiano «Il Sole-24 Ore» poteva collocare la provincia di
530
Palermo
Palermo all’ultimo posto per qualità della vita. Essa infatti risultava all’82º posto per tenore di vita, al 97º per affari e lavoro, al
penultimo (102º) per servizi e ambiente, al 92º per la criminalità,
al 42º per la situazione demografica, al 57º per il tempo libero.
Più in particolare, essa si collocava al di sotto della media nazionale per reddito pro capite, risparmio, quote assicurative, pensioni Inps, inflazione, nuove imprese, numero di assegni a vuoto,
iscritti alle liste di collocamento di età inferiore a 29 anni (60,9
per cento del totale degli iscritti al 30 settembre ’95, contro una
media nazionale del 64,5 per cento), efficienza del servizio postale (ultimo posto), autovetture circolanti (49,7 per ogni 100 abitanti), furti negli appartamenti (358 per 100.000 abitanti), truffe,
quoziente di mortalità, incidenza dei tumori nella mortalità, associazioni artistiche culturali e ricreative, spesa pro capite per
spettacoli sportivi teatrali e cinematografici, numero di palestre;
al di sopra per importo pro capite dei protesti, fallimenti, iscritti
alle liste di collocamento (24,7 per cento della popolazione residente al 30 settembre ’95, contro una media nazionale del 12 per
cento), tempi di attesa per l’allacciamento telefonico, numero medio per classe degli studenti degli istituti scolastici di secondo grado (21,6 contro una media nazionale di 21,5), omicidi volontari
(12,09 contro una media nazionale di 5,31 ogni 100.000 abitanti), furti di auto (784 per 100.000 abitanti), criminalità minorile,
microcriminalità, numero di nati vivi, densità demografica, separazioni tra coniugi, librerie. Palermo cioè si collocava quasi sempre al di sotto dei livelli nazionali negli aspetti positivi, al di sopra in quelli negativi: agli ultimi posti nella positività, ai primi nella negatività. Conclusione: ultimo posto della graduatoria. Certamente i dati provinciali non possono totalmente estendersi al capoluogo, ma è indubbio che nella collocazione all’ultimo posto
della provincia gran parte ha sicuramente il peso della città di
Palermo.
Negli ultimissimi anni non mancano tuttavia i segnali positivi: forte ripresa delle attività culturali con iniziative di grande interesse, miglioramento delle infrastrutture scolastiche, miglioramento dei servizi comunali e delle municipalizzate, notevole miglioramento della «macchina amministrativa» comunale rispetto
al recente passato (tanto che una successiva inchiesta dello stesso quotidiano «Il Sole-24 Ore» poteva collocare il comune di Pa-
IX. Palermo capitale
531
lermo al 30° posto tra i comuni capoluoghi, come Trento e Udine, per velocità nei pagamenti, e addirittura al 27°, con Modena
e Belluno, per capacità di investimenti), riapertura (finalmente,
dopo una chiusura lunga 23 anni!) del Teatro Massimo, sviluppo turistico, riscoperta del centro storico, partecipazione sempre
più massiccia del mondo scientifico al dibattito culturale europeo, rilevante contributo della scienza medica al progresso dell’umanità, crescita civile della popolazione. Elementi che se non
valgono ancora a segnare una svolta decisiva nella storia della
città, la rendono sicuramente meno lontana.
Appendice
AMMINISTRATORI COMUNALI DAL 1860
Nominativi
Durata dell’incarico
dal
Benso della Verdura duca Giulio (pretore)
28/5
Balsano cav. Salesio (sindaco)
11/7
Stabile comm. Mariano (sindaco)
19/12
Starrabba di Rudinì marchese Antonio (sindaco) 1/8
Balsano comm. Salesio (sindaco)
22/12
Peranni comm. Domenico (sindaco)
23/10
Notarbartolo cav. Emanuele (sindaco)
28/9
Perez sen. comm. Francesco Paolo
(sindaco)
20/12
Raffaele sen. Giovanni (sindaco)
3/11
Turrisi Colonna sen. barone Nicolò
(sindaco)
12/12
Ugo delle Favare marchese Pietro (sindaco)
26/2
Romano Lo Faso cav. Salvatore (sindaco)
13/1
La Farina avv. Giuseppe (sindaco ff.)
30/6
Vergara di Craco duca Fortunato (sindaco ff.)
18/7
Benso della Verdura duca Giulio (sindaco)
16/11
Turrisi Colonna sen. barone Nicolò (sindaco)
3/11
Benso della Verdura duca Giulio (sindaco)
11/11
Paternò sen. prof. Emanuele (sindaco)
7/5
Ugo delle Favare sen. marchese Pietro
(sindaco)
12/1
Oliveri comm. Eugenio (sindaco)
31/12
Ugo delle Favare sen. marchese Pietro
(sindaco)
25/7
Oliveri comm. Eugenio (sindaco)
2/9
Pantaleone comm. L. Angelo
(regio commissario)
5/11
Amato Pojero sen. comm. Michele (sindaco)
15/5
Oliveri sen. comm. Eugenio (sindaco)
12/11
al
1860 11/7
1861 10/11
1862 31/7
1863 21/12
1866 22/10
1868
3/9
1873 30/9
1861
1862
1863
1866
1868
1873
1876
1876
1879
2/11
26/9
1879
1880
1880 26/1
1882 12/1
1885 30/6
1885 18/7
1885 16/11
1885 31/10
1886 31/10
1887 30/4
1890 12/1
1882
1885
1885
1885
1885
1886
1887
1890
1892
1892 30/12
1893 25/7
1893
1895
1895
1896
28/8
5/11
1896
1896
1896 15/5
1897 12/11
1898 30/1
1897
1898
1900
534
Nominativi
Palermo
Durata dell’incarico
dal
Rebucci cav. Mario (regio commissario)
31/1
Beccadelli di Camporeale sen. principe
Paolo (sindaco)
30/9
Tasca Lanza comm. Giuseppe (sindaco)
2/6
Veyrat Pietro (regio commissario)
5/1
Tasca Lanza sen. comm. Giuseppe (sindaco)
18/4
Bonanno on.le avv. Pietro (pro sindaco)
21/1
Di Martino comm. avv. Girolamo (sindaco)
23/2
Tasca Lanza sen. comm. Giuseppe (sindaco)
14/3
Tesauro comm. Francesco Paolo (sindaco)
6/8
Bladier comm. Gennaro (regio commissario)
30/8
Trigona conte Romualdo (sindaco)
8/6
Moncada Grispo cav. Francesco
(regio commissario)
19/7
Gay cav. Francesco (regio commissario)
8/8
Di Martino sen. comm. Girolamo (sindaco)
22/2
Di Salvo barone Vincenzo (sindaco)
26/8
Tagliavia conte Salvatore (sindaco)
26/10
Lanza di Scalea cav. Giuseppe (sindaco)
19/5
Di Donato comm. Gennaro (regio commissario) 21/6
Delli Santi comm. Domenico
(commissario prefettizio)
26/4
Di Marzo prof. Salvatore (pro sindaco)
30/8
Di Marzo prof. Salvatore (podestà)
24/12
Spadafora principe Michele (podestà)
21/9
Borrelli Gr. Uff. avv. Bernardo
(commissario straordinario)
22/10
Noto Sardegna Gr. Uff. prof. Giuseppe
(podestà)
8/11
Sofia comm. dott. Francesco (podestà)
6/7
Monroy generale Alberto (regio commissario)
15/7
Poletti colonnello Charles
(commissario affari civili G.M.A.)
22/7
Tasca cav. Lucio (sindaco)
29/9
Merlo barone Enrico (commissario prefettizio) 31/8
Gullo avv. Rocco (sindaco)
4/11
Patricolo on.le dott. Gennaro (sindaco)
27/11
Avolio dott. Guido (sindaco)
9/3
Cusenza prof. Gaspare (sindaco)
10/11
Pivetti avv. Ernesto (vice sindaco)
1/4
Avolio dott. Guido (sindaco)
13/11
Vadalà comm. dott. Riccardo
(commissario prefettizio)
2/1
Scaduto prof. avv. Gioacchino (sindaco)
3/7
Liotta dott. Mario (commissario prefettizio)
11/8
Scaduto prof. avv. Gioacchino (sindaco)
6/12
1900
al
29/9
1900
1900 26/5
1901 28/12
1902 17/4
1902 25/12
1904 11/2
1905 14/3
1906 10/7
1907 28/7
1908
7/6
1909 30/6
1901
1901
1902
1903
1905
1906
1907
1908
1909
1910
1910
7/8
1910 21/2
1911 18/8
1914 10/10
1914 15/5
1920 21/5
1924
8/4
1910
1911
1914
1914
1920
1924
1925
1925 30/8
1925 23/12
1926 20/9
1929 21/10
1925
1926
1929
1933
1933
7/11
1934
1934
1939
1943
5/7
14/7
21/7
1939
1943
1943
1943 27/9
1943 30/8
1944 3/11
1944 26/11
1946
8/3
1948 9/11
1948 31/3
1951 12/11
1951
1/1
1943
1944
1944
1946
1948
1948
1951
1951
1952
1952
2/7
1952 10/8
1955 5/12
1955 14/12
1952
1955
1955
1955
535
Appendice Amministratori comunali dal 1860
Nominativi
Durata dell’incarico
dal
Salerno dott. Giuseppe
(commissario prefettizio)
Maugeri Gr. Uff. ing. Luciano (sindaco)
Lima dott. Salvatore (vice sindaco)
Lima dott. Salvatore (sindaco)
Diliberto dott. Francesco Saverio (sindaco)
Bevilacqua dott. Paolo (sindaco)
Lima dott. Salvatore (sindaco)
Bevilacqua dott. Paolo (sindaco)
Spagnolo dott. Francesco (sindaco)
Ciancimino Vito (sindaco)
Marchello dott. Giacomo (sindaco)
Scoma Carmelo (sindaco)
Lapi Giovanni (sindaco)
Mantione dott. Salvatore (sindaco)
Martellucci avv. Nello (sindaco)
Pucci prof.ssa Elda (sindaco)
Insalaco Giuseppe (sindaco)
Camilleri dott. Stefano (sindaco)
Martellucci avv. Nello (sindaco)
Scialabba dott. Nicolò
(commissario regionale)
Vitocolonna dott. Gianfranco
(commissario straordinario)
Orlando prof. Leoluca (sindaco)
Gentile dott. Andrea
(commissario straordinario)
Orlando prof. Leoluca (sindaco)
Lo Vasco dott. Domenico (sindaco)
Rizzo on.le Aldo (sindaco)
Orobello prof. Mario (sindaco)
Scialabba dott. Nicolò
(commissario straordinario)
Lo Cascio Antonino
(commissario straordinario)
Piraneo dott. Vittorio
(commissario straordinario)
Orlando on.le prof. Leoluca (sindaco)
al
15/12
18/6
24/5
9/6
24/1
1/7
27/1
10/7
24/10
25/11
27/4
3/1
28/10
13/11
23/7
19/4
13/4
6/8
2/10
1955
1956
1958
1958
1963
1964
1965
1966
1968
1970
1971
1976
1978
1978
1980
1983
1984
1984
1984
17/6
23/5
9/6
23/1
30/6
27/1
9/7
23/10
25/11
27/4
3/1
28/10
13/11
23/7
19/4
13/4
6/8
2/10
11/12
1956
1958
1958
1963
1964
1965
1966
1968
1970
1971
1976
1978
1978
1980
1983
1984
1984
1984
1984
11/12
1984
4/2
1985
4/2
16/7
1985
1985
15/7
12/3
1985
1990
13/3
9/7
15/8
29/6
4/12
1990
1990
1990
1992
1992
8/7
14/8
28/6
3/12
13/4
1990
1990
1992
1992
1993
14/4
1993
16/4
1993
17/4
1993
19/4
1993
20/4
3/12
1993
1993
2/12
1993
INDICI
INDICE DEI NOMI
Abba, Giuseppe Cesare (1818-1910),
85.
Abbate e Migliore, Salvatore (1820?), 62.
Abbatelli, Francesco, 17.
Acerbo, Giacomo (1890-1969), 355.
Adami, Pietro Augusto, 305.
Adelasia, contessa, 9.
Afflitto, Pietro, 17.
Agatone, papa, 7.
Aguglia, Francesco, 338, 340.
Ahrens, Alberto, 287, 299, 303.
Airoldi, Pietro, 502.
Aiutamicristo, Guglielmo, 16-7.
Alagna, Vincenzo (1866-1931), 278.
Alaimo, Andrea, 474.
Albanese, Enrico (1834-89), 120,
276, 321.
Albanese, Giuseppe (1823-?), 120,
131-2.
Albeggiani, Ferdinando, 324.
Albrecht, Giovanni, 50.
Aldisio, Salvatore (1890-1964), 412,
449, 451.
Alessi, Francesco, 346, 365.
Alessi, Giuseppe (n. 1905), 422-4,
456.
Alfieri, Vittorio (1749-1803), 54, 56.
Aliotta, Antonio (1881-1964), 324.
Aliotta, Natale, 298.
Almerico, Pasquale (m. 1957), 459.
Almerita, Beatrice Lanza e Branciforte in Tasca (1825-1900), contessa d’, 227.
Almerita, Lucio Mastrogiovanni Tasca (1820-92), conte d’, 40, 100,
226-7.
Alongi, Gaetano, 124.
Amari, Emerico (1810-70), 55-6, 63,
65, 90, 142, 146-7.
Amari, Michele (1806-89), 59, 63, 99,
102-3, 138-9, 321-2.
Amato, Giuliano, 497.
Amato Pojero, Giuseppe (18631940), 193, 275, 323-4.
Amato Pojero, Michele (1850-1914),
175, 178, 181, 189, 192-3, 275,
323, 335.
Ambrosini, Gaspare, 411.
Amendola, Giovanni (1882-1926),
240, 363, 369.
Amico, Antonino, 22.
Amico, Ugo Antonio (1836-1917),
324.
Amilcare Barca, 5.
Amoroso, fratelli, 216.
Amoroso, impresa, 393.
Andreotti, Giulio (n. 1919), 452,
465-6, 470, 479-80, 491, 494.
Aragona, Antonio Burgio (18511933), principe di, 365.
Arceri, cantiere navale, 400.
Archirafi, famiglia del duca d’, 280.
Arcuri, Vincenzo (1885-1944), 354.
Ardizzone, Alessandro, 250.
Ardizzone, Giuseppe, 365.
Arena, Paolo, 414.
Arenella, Giuseppe Valguarnera
(1868-?), principe di Niscemi, duca dell’, 226, 235, 241, 244, 255,
259.
Arezzo, famiglia del marchese, 488.
Arezzo, Emanuele (1875-1935), 196,
229.
540
Arezzo, Orazio (1837-1928), marchese, 239.
Arlacchi, Pino, 523.
Armao, Liborio, 199.
Armò, Eduardo, 247, 351, 365.
Armò, Ernesto (1867-1924), 278.
Artom, Camillo, 411.
Ascoli, Maurizio, 411.
Asdrubale, 5, 14.
Attilio Calatino, 5.
Augusto, 6.
Avellone, Leonardo, 217.
Avellone, Salvatore (1859-1913),
217, 224.
Avolio, Guido (1891-1978), 453.
Badalamenti, Gaetano, 444, 470,
520.
Badalamenti, Giuseppe, detto zu Piddu Ranteri, 126.
Badessa, 150.
Badia, Giuseppe (1824-88), 107,
110-8, 129, 133, 147, 150.
Bagnasco, Rosario (1810-79), 116,
128.
Bagnera, Giuseppe (1865-1927),
321-2.
Balsano, Rocco (1863-1939), 338-40,
352, 356-7, 363, 370.
Balsano della Daina, Salesio (181894), 137-8, 141-3, 146, 158, 163,
175, 177, 181-2, 326.
Barba, Luigi, 241.
Barbaccia, Francesco (n. 1922), 457,
464, 512.
Barbaccia, Luigi, 464.
Barbaro, Paolo, 45.
Barbaro, Raffaele, 46.
Barbato, Nicolò (1856-1922), 185-7,
210, 221, 255.
Barbera, Renzo (1861-1938), 237,
247-8, 254, 256-9, 338, 340, 343,
363.
Bardesono, Cesare (1833-92), conte
di Rigras, 161, 167, 173.
Barone, Antonino, 440.
Barone, Giuseppe, XV.
Basile, Emanuele, 482.
Indice dei nomi
Basile, Ernesto (1857-1932), 278,
286, 301, 325, 511.
Basile, Ferdinando, 305.
Basile,
Giovambattista
Filippo
(1825-91), 64, 140, 154, 203, 278,
321, 326.
Bastogi, Pietro (1808-99), 173.
Battisti, Cesare (1875-1916), 261.
Baudelaire, Charles (1821-67), 326.
Baviera, Giovanni (1875-1963), 411412.
Belisario, 6.
Bellaroto, Ferdinando (1859-1928),
marchese, 246-7.
Bellavia, Gaetano, 118.
Bellavista, Girolamo (1908-76), 451.
Beloch, Karl Julius (1854-1929), 322.
Belsito, Ugo Parodi Giusino (18781942), duca di, 378-9, 382-3, 385.
Beneventano, Giuseppe Luigi (18641932), 280.
Benevolo, Leonardo, 516.
Benso Celeste, Mario, 181.
Berchet, Giovanni (1753-1851), 54.
Berlioz, Giuseppe, 309.
Berlioz, Odon, 38.
Bettinelli, Saverio, 58.
Beuf, libraio, 61.
Bevilacqua, Paolo (n. 1923), 447,
464, 466, 468-70.
Bevilacqua, Piero, 124.
Bevivino, Tommaso, 464, 512.
Bianco, Annibale (1898-1966), 439.
Biondo, fratelli, 404.
Biondo, Gioacchino, 61.
Biondo, Giuseppe, 61.
Bione, 58.
Bissolati, Leonida (1857-1920), 255.
Biundi, Pietro, 133.
Bivona, Gaspare, 118.
Bivona Bernardi, Antonino (17781837), 59.
Bladier, Gennaro (1859-1924), 236,
243.
Bodrato, Guido (n. 1933), 479.
Bolis, Giovanni (1831-84), 105-6.
Bombrini, Carlo, 173.
Bonafede, Francesco (1829- ?), 107,
118.
Bonanno, Pietro (1863-1905), 181,
Indice dei nomi
183, 185, 191, 199, 209, 215, 221222, 224-6, 231-8, 320.
Bonanno, Stefano, 231.
Bonci e Rutelli, impresa, 393.
Bontate (Bontà sino al 1926), Francesco Paolo, detto don Paolino
(1914-74), 440, 444, 459, 464, 470.
Bontate, Paolino, v. Bontate, Francesco Paolo.
Bontate, Stefano (1938-81), 444, 446,
452, 459, 470, 520, 522.
Borboni, 26, 33, 63, 79, 84, 87, 90,
93-4, 98, 110, 118, 121, 127, 138,
163, 276, 288, 382, 460.
Borgese, Giovanni (1884-1916), 258,
262-3.
Borgo, 150.
Borrelli, Bernardo (1878-?), 386, 388.
Borrello, Luigi, 415.
Borruso, socialista rivoluzionario,
235.
Borsani, Giuseppe (1812-86), 121,
132.
Borsellino, Paolo (m. 1992), 496,
499, 523.
Bosco, Ferdinando Beneventano del,
146.
Bosco, Rosario Garibaldi, 185-7,
210-1, 221, 227, 231, 233, 237,
247, 255.
Boscogrande, Giovan Battista (18451901), barone, 273, 280.
Boscogrande di Carcaci, barone, 382.
Botta, Carlo (1804-70), 54.
Bottai, Giuseppe (1895-1959), 379.
Bozzo, Giuseppe, 57, 62-3.
Bracciante, Rosario, 243.
Brandaleone, Ferdinando, 464, 466,
475.
Brandaleone, Giuseppe, 458, 462,
464.
Briuccia, Paolo, 137.
Brunet, impresa, 305.
Bruno, Giovanni (1818-91), 56, 62,
146, 326.
Buccola, Gabriele (1854-85), 322.
Bülow, Bernhard von (1849-1929),
260.
Buonocore, Mariano, 44.
Buonocore, Salvatore, 288.
541
Busacca, Raffaele (1810-93), dei marchesi di Gallidoro, 56, 62.
Buscetta, Tommaso (n. 1928), 444,
457, 466.
Butera, Caterina Branciforte e Reggio (1768-1816), principessa di,
279.
Butera, principe di, v. Scordia, principe di.
Buttà, Giuseppe, 85.
Byron, George Gordon (1788-1824),
54, 58.
Cacciatore, Gaetano (1814-89), 63.
Cacciatore, Nicolò (1780-1841), 54,
63.
Cacioppo, Federico, 74.
Cacopardo, Rosario, 419.
Cacopardo, Santi, 469, 506.
Cadorna, Raffaele (1815-97), generale, 119-20.
Cagno, Alessandro, 296.
Cairoli, Benedetto (1825-89), 58.
Calà Ulloa, Pietro, 34, 43, 54.
Calandra, Eduardo (1880-?), 364,
391.
Calapso, Pasquale (1872-1934), 324.
Calcara, ciantro, 106.
Calcara, Pietro, 59.
Calogero, Guido (1904-86), 415.
Cambria, famiglia, X, 444.
Cambria, Carmelo, 437, 443-4.
Cambria, Francesco (Ciccino), 437-9,
441, 443-5.
Cambria, Giuseppe, 444.
Cambria, Guglielmo, 444.
Cambria-Corleo, gruppo, 439, 443.
Cambria-Corleo-Salvo, gruppo, 440441.
Cambria-Salvo, gruppo, X, 439, 443,
445.
Camilleri, Stefano (n. 1935), 485.
Caminneci, Giuseppe Simone, 44.
Caminneci,
Lorenzo
Valentino
(1816-79), 156.
Caminneci, Valentino, 162, 171, 185,
216.
Cammarata, Giuseppe, barone, IX.
542
Campofranco, Ettore Lucchesi Palli
(1806-64), principe di, 100.
Camporeale, Domenico Beccadelli
(1826-63), principe di, 145.
Camporeale, Pietro Paolo Beccadelli
e Acton (1852-1918), principe di,
179-80, 188, 198-9, 212, 215, 219220, 224-9, 233, 237-9, 249-50,
256, 260, 335.
Cancila, Orazio, 48.
Cangialosi, Domenico, 444-5.
Cannella, Francesco, 125.
Cannizzaro, Stanislao (1826-1910),
63, 317, 321-2.
Cantù, Cesare (1809-77), 54.
Capaci, Ignazio Pilo e Gioeni (180692), conte di, 79, 100.
Capitano, V., 510.
Capitò, Giuseppe, 349.
Capitò, Michele, 172.
Caponnetto, Antonino, 499.
Cappellani, Giuseppe, 221.
Capuana, Luigi (1839-1915), 325.
Caracciolo, Domenico, marchese di
Villamaina, 28-9, 34-5, 67.
Caracciolo, Eduardo, 502, 510.
Carcaci, Stefano Boscogrande (18731951), barone di, 365.
Cardarelli, Antonio (1832-1927),
321.
Carducci, Giosuè (1835-1907), 58.
Carella, Domenico, 301, 303.
Carini, Isidoro (1843-95), 322.
Carlo di Borbone, poi Carlo III di
Spagna (m. 1788), 26, 29.
Carlo I d’Angiò (m. 1285), 12.
Carlo V d’Asburgo (1500-58), imperatore, 16, 21, 132.
Carlotti, Giuseppe, 324.
Carnevale, Emanuele, 257.
Carnilivari, Matteo, 16.
Carollo, Vincenzo, 445, 468-9, 471.
Caronia, Giuseppe, 510.
Caronia Roberti, Salvatore (18871971), 279, 354, 364, 411.
Carraro, Luigi, 513.
Caruso, Ignazio, 303.
Caruso Pecoraro, Giuseppe, 321.
Cascio, Armando, 445.
Cascio Ferro, Vito (1862-1943), 243.
Indice dei nomi
Casiglia, Giovan Battista, 316.
Casoria, Filippo, 69.
Cassaro, Antonio Statella e Naselli
(1784-1864), principe di, 80.
Cassina, impresa, 468-9, 473, 482,
487, 502.
Cassina, Arturo, 463.
Cassina, Enrico (1905-50), 408.
Cassisi, Giovanni, 48.
Castelcicala, Paolo Ruffo (1790-?),
principe di, 39, 78-79, 81.
Castiglia, Benedetto (1811-77), 55,
57.
Castiglia, Giovan Battista, 57.
Castiglia, Luigi, ingegnere, 172.
Castiglia, Pietro (1808-79), 137.
Castiglia, Pietro (1897-1984), 451,
467.
Cavagnari, Uriele, 178.
Cavallaro, Luigi, 300.
Cavallotti, Felice (1842-98), 191.
Cavarretta, famiglia, 279-80.
Cavarretta, Giovan Battista, 365.
Cavatajo, Michele (1920-69), 472.
Cavour, Camillo Benso (1810-61),
conte di, 88, 90-1.
Cecilio Metello, 5, 14.
Celesia, Michelangelo (1814-1904),
cardinale, 150, 209, 234.
Celi, Giuseppe, 442.
Cerami, Giuseppe, 454, 457, 463-4,
469, 478, 490, 494.
Cerda, Giulio Santostefano e Benso
(1867-?), duca della Verdura e
marchese di Murata La, 258.
Cervellati, Pierluigi, 515-7.
Cervello, Carlo, 364.
Cervello, Vincenzo (1854-1918),
239, 286.
Cesareo, Giovanni Alfredo (18621937), 324, 364, 411.
Cesarò, Calogero Gabriele Colonna e
De Gregorio (1841-78), duca di,
81-2.
Cesarò, Ernesto (1856-1906), 321.
Cesarò, Giovanni Antonio Colonna e
Sonnino, (1878-1940), duca di,
261, 358, 362, 365-6, 412.
Chiappara, Salvatore, 413.
Indice dei nomi
Chiara (recte: Di Chiara), Giuseppe
(Peppino), 415.
Chiara, Luciano, 415.
Chiaramonte Bordonaro, famiglia,
53, 296.
Chiaramonte Bordonaro, Annetta in
Tasca Lanza (1860-1930), 262.
Chiaramonte Bordonaro, Antonio
(m. 1868), 41, 44, 49, 53.
Chiaramonte Bordonaro, Gabriele
(1834-1913), barone, 41.
Chiaramonte Bordonaro, Gabriele,
barone (1770-1854), 43-4, 48-49,
53.
Chiaromonte, famiglia, 12-5.
Chiaromonte, Manfredi, 12.
Chiazzese, Lauro (1903-57), 411-2.
Chilanti, Felice, 519.
Chinnici, Giorgio, 82, 85.
Chinnici, Rocco (m. 1983), 484.
Christian, Henry, 286.
Ciancimino, Vito (n. 1924), 456, 458459, 462-5, 467-70, 473-6, 478-81,
486, 489, 507, 509.
Cingari, Gaetano, XIV.
Cipolla, Calogero (Gino) (n. 1923),
415.
Cipolla, Ettore (1875-1963), 422,
454.
Cipolla, Michelangelo, 365.
Cipolla, Michele (1880-1947), 321.
Cipolla, Nicola (n. 1922), 415.
Cirincione, Giuseppe (1863-1929),
338-9, 350-1, 354, 370.
Citarda, Matteo, 457, 512.
Ciuffelli, Augusto (1856-1921), 199.
Civello, Castrenze, 410.
Civiletti, Benedetto (1845-99), 326.
Clamis, Emanuele, 62.
Clemente, Francesco, 255, 383.
Codignola, Ernesto (1885-1965), 324.
Codronchi Argeli, Giovanni (18411907), conte, 190-2.
Colajanni, Benedetto, 510.
Colajanni, Napoleone (1847-1921),
178-9, 197, 212, 218.
Colajanni, Pompeo (1906-87), 431.
Colloca, Girolamo, 123.
Colnago, Francesco, barone, 230.
Colobria, barone di, v. Riso.
543
Colombo, Emilio, 460.
Colonna, Marco Antonio, duca di
Tagliacozzo, 22, 124.
Colozza, Antonio, 415.
Colozza, Giovanni Antonio (18571943), 322.
Columba, Gaetano Mario (18611947), 324.
Comitini, Giuseppe Gravina e Ruffo
(1834-96), principe di, 274.
Composto, Renato, XIV.
Coniglio, Francesco, 444-5.
Consiglio, Bonaventura, 47.
Conti, Pietro, 452, 454.
Conti, Salvatore, 215, 242, 251, 255,
383.
Corbino, Orso Mario (1876-1937),
322, 324, 366.
Cordova, Filippo (1811-68), 91, 110.
Corleo, Francesca Maria, 443.
Corleo, Gaetano, 444.
Corleo, Luigi, 436-40, 443-4, 522.
Corleo, Simone (1823-91), 110.
Corleo-Salvo, gruppo, X, 440, 444-5.
Corona, Vittorio (1901-66), 410.
Corrao, Giovanni (1822-63), generale, 106-7, 110, 129, 133.
Corsaro, Italo (1892-1989), 412.
Corsi, Pietro, 299.
Corteggiani, Domenico, 150.
Corvaja, fratelli, 297.
Costa, Gaetano (m. 1980), 482.
Costantino, Domenico (1840-1915),
325.
Costanza d’Altavilla (m. 1198), 11.
Cousin, Victor (1792-1867), 55.
Craco, Fortunato Vergara (18331928), duca di, 172, 218.
Cracolici, Francesco, 365.
Craxi, Benedetto (Bettino) (n. 1934),
490-1.
Cremona, Luigi (1830-1903), 323.
Crisafi, monsignore, 224.
Crispi, Francesco (1818-1901), 57,
80, 87, 91, 96, 100, 104, 107-8,
110, 112, 116, 118, 120, 145, 157,
161-2, 165, 171, 173-6, 178-9, 184185, 187, 190-1, 199, 211, 221-2,
227, 232, 254, 282-3, 289, 306.
544
Crispi, Giuseppe (1781-1859), 60,
64.
Croce, Benedetto (1866-1952), 55,
59, 411-2, 415.
Cuccia, Simone (1841-94), 171, 174175, 178, 185.
Cucco, Alfredo (1893-1968), 337,
349-51, 353-4, 356-7, 362-4, 368370, 372-4, 378, 380-1.
Cuffaro, Salvatore (Totò), 494.
Cumia, Paolo Fardella e Di Napoli
(1823-82), duca di, 100.
Cusenza, Gaspare (1891-1962), 432,
453-4, 504-5.
Cusmano, Giacomo (1834-88), 168,
300, 333.
Cusumano, mafioso, 126.
Cusumano, Vito (1843-1908), 162,
166, 326.
Cutò, famiglia del principe di, 226.
Cutò, Alessandro Mastrogiovanni
Tasca e Filingeri (1874-1942), principe di Cutò, 190, 196, 210, 226-7,
231, 233, 235, 237, 241, 245-9, 255257, 259, 261-2, 335, 338-40, 351,
354, 365-6, 412.
Cutò, Lucio Mastrogiovanni Tasca e
Lanza (1842-1918), principe di,
226.
Cutrano, 376.
Cutrera, Antonino, 215.
D’Accardi, Giuseppe, 242, 362, 365.
D’Acquisto, Benedetto (1790-1867),
arcivescovo di Monreale, 55, 64,
89, 120.
D’Acquisto, Mario (n. 1931), 483.
Dagnino, Luigi, 177, 239.
Dagnino, Nicolò, 276, 299, 302, 316.
D’Agostino, Filippo, 489.
D’Agostino, Salvatore, 489.
D’Agostino, Vincenzo, 489.
Daita, Gaetano (1806-87), 59, 63, 68,
137.
D’Alia, Giuseppe, 316.
Dalla Chiesa, Carlo Alberto (192082), 482, 486.
Damiani Almeyda, Giuseppe (18341911), 142, 155, 321.
Indice dei nomi
D’Angelo, Giuseppe, 442, 444, 512.
Dante Alighieri (1265-1321), 56.
D’Antoni, Paolo (1895-1982), 450.
Dato, Giovanni, 302.
Davì, Francesco, 413.
D’Azeglio, Massimo (1798-1866), 54.
De Amicis, Edmondo (1846-1908),
268, 333.
De Carlo, Giancarlo, 484.
De Felice Giuffrida, Giuseppe
(1859-1920), 185, 187.
De Franchis, Michele (1875-1946),
321, 410.
De Francisci Gerbino, Giovanni,
364, 385, 411.
De Gasperi, Alcide (1881-1954),
363.
Del Bosco, 150.
De Lisi, Benedetto (1831-75), 326.
Della Rovere, Alessandro (1815-64),
94.
Della Rovere, Antonino (1771-1837),
59.
Delli Santi, Domenico, 360-1.
De Luca, F., 186.
De Luca, Stefano (n. 1942), 494.
De Luca Aprile, Girolamo, 173.
De Maria, Federico, 325.
De Maria Bergler, Ettore (18501938), 286, 325.
De Mauro, Mauro, 434.
De Michele Ferrantelli, Domenico
(1853-1926), barone, 243.
De Mita, Ciriaco (n. 1928), 485, 492.
De Musset, Alfred (1810-57), 55.
De Pace, Luigi (m. 1898), 49, 288.
De Pace, Salvatore (m. 1874), 44, 49,
53, 288.
Depretis, Agostino (1813-87), 58, 91,
161, 164, 167, 173-4, 179.
De Roberto, Federico (1861-1927),
325.
De Ruggiero, Guido (1888-1948),
324.
De Seta, Francesco (1843-1911),
marchese, 195, 215, 219, 242, 245.
De Spucches (De Spuches), famiglia,
42.
Di Bartolo, Giuseppe, 41.
Di Bartolo, Vincenzo, 47.
Indice dei nomi
Di Benedetto, Alfonso (n. 1920),
461.
Di Benedetto, Girolamo, 491, 494.
Di Benedetto, Onofrio, 118-9.
Di Blasi, Carlo, 258-9.
Di Blasi, Ferdinando, 463.
Di Cristina, mafioso, 126.
Di Cristina, Umberto, 484.
Di Donato, Gennaro (1879-1970),
360.
Di Fresco, Ernesto (n. 1929), 464,
478-9, 495.
Di Gesù, Vito, 413.
Di Giorgio, Antonino (1867-1932),
356, 370, 377.
Di Giovanni, Cesare, 438.
Di Giovanni, Francesco (1805-89),
137.
Diliberto, Francesco Saverio (18981974), 463-4, 474.
Diliberto, Pietro, 257, 340, 343.
Di Maggio, Vincenzo, 299.
Di Marco, Vincenzo (1812-81), 137.
Di Martino, Carlo, 345.
Di Martino, Girolamo (1860-1915),
199, 226, 235-8, 241, 249, 251-3,
256, 258, 265, 335.
Di Marzo, Salvatore (1875-1954),
356, 364, 378-80, 383-4, 411.
Di Menza, Giuseppe, 177.
Diodoro, 4.
Dionisio I, 4.
Di Pasquale, Vincenzo, 439.
Di Piazza, Salvatore (1885-1947),
412, 416.
Di Pietra, Biagio, 365.
Di Salvo, Vincenzo (1869-?), 258,
263-4, 338-40, 344, 351.
Di Stefano, fratelli, 305.
Di Stefano Napolitani, Giuseppe
(1861-1932), 220-1, 224, 234, 245,
253, 256, 259-60, 336, 338, 340.
Di Trapani, Nicolò (Cola), 512.
Domville, James, sir, 286.
Donadoni, Eugenio, 324.
Donatuti Ciprì, Salvatore, 181.
Donaudy, famiglia, 309.
Donaudy, Etienne, 288.
D’Ondes Reggio, Vito (1811-85), 56,
63, 90, 101, 110, 142, 147, 151.
545
D’Ondes Trigona, Giovanna in Florio, 220, 289.
Drago, Aurelio, 209-10, 221, 237,
245, 248, 255-7, 261, 335, 338-40,
350-1, 353, 385.
Ducrot, ditta, 263, 286, 303, 336,
401, 404, 407.
Ducrot, Vittorio (1867-1942), 246,
301, 325, 378-80.
Dumas, Alexandre (1802-70), 54-5.
Einaudi, Luigi (1874-1961), 411.
Emiliani Giudici, Paolo (1812-72),
58, 63.
Epifanio, Luigi, 502, 510.
Ercole, Francesco (1884-1945), 377380, 411.
Ermocrate, 5.
Errante, Vincenzo (1813-91), 57.
Euripide, 58.
Falcone, Giovanni (1939-92), X, 496,
499, 523.
Falcone, Salvatore, 316.
Fanfani, Amintore (n. 1908), 456,
459, 502.
Fardella, Simone, 413-4.
Farina, Vito, detto Farinella, 80.
Farinacci, Roberto (1892-1945), 367,
372.
Farinella, Mario, 509, 514-5, 519.
Fasino, Mario (n. 1920), 468, 475.
Fassini, Alberto, barone, 278, 400.
Favara, Vincenzo (1816-85), barone,
104.
Favare, Pietro Ugo (m. 1847), marchese delle (recte: barone delle Favare, marchese di Mascalucia),
169.
Favare, Pietro Ugo e Ruffo (182798), marchese delle (recte: barone
delle Favare, marchese di Mascalucia), 169-72, 177-8, 180-4, 188-9,
193-4, 199, 203.
Favier, Giuseppe Federico, 140.
Favier, impresa, 166, 189, 194, 230,
298, 304, 306.
Fazio, Giuseppe (Beppe), 415.
546
Fazio Almayer, Vito (1885-1958),
324, 411.
Fazzari, Gaetano (1856-1935), 324.
Fecarotta, fratelli, 38.
Fecarotta, Giovanni, 38.
Federici, Cesare, 321.
Federico II di Svevia (m. 1250), 1011.
Federico IV d’Aragona (m. 1377),
12.
Federico, Antonio, conte di Villalta,
149.
Federzoni, Luigi (1878-1967), 260,
377.
Ferdinando di Borbone, III di Sicilia,
IV di Napoli, 27.
Ferdinando II Borbone (1810-59), re
delle Due Sicilie, 79.
Ferdinando II il Cattolico (m. 1516),
17.
Fermi, Enrico (1901-54), 322.
Ferrara, Francesco (1810-1900), 56,
62-3, 90, 147, 156-7.
Ferreri, Bartolomeo, marchese, 155.
Ferretti, Alessandro, 307.
Ferretti, Gino (1880-1950), 324.
Ferri, Enrico (1856-1929), 210.
Figlia, Francesco, XIV.
Finocchiaro Aprile, Andrea (18801964), 338-40, 342, 351, 356-7,
416, 451.
Finocchiaro Aprile, Camillo (18511916), 149, 335, 340.
Florio, famiglia, 38, 45, 283-4, 288,
292-3, 295-6, 303.
Florio (I. e V. Florio), 45-7, 288, 291,
297.
Florio, Franca, n. Jacona di S. Giuliano (1873-1950), 292, 335.
Florio, Giulia, v. Trabia, Giulia Florio, principessa di.
Florio, Ignazio, di Ignazio (18681957), 184, 191, 197, 209, 211-3,
220-1, 223-4, 234, 237, 240, 242-3,
245-9, 254, 260, 267, 280, 286,
291-4, 301, 331, 335-6, 363-4, 366,
368, 399.
Florio, Ignazio, di Vincenzo (17761828), 44-5, 292.
Indice dei nomi
Florio, Ignazio, di Vincenzo (183891), 41, 53, 179, 283, 289-92, 306.
Florio, Paolo (m. 1807), 45.
Florio, Vincenzo, di Ignazio (18831959), 234, 291-2, 295, 385, 506.
Florio, Vincenzo, di Paolo (17991868), 41-50, 53, 137, 279, 288-9,
292, 295.
Foderà, Michele (1793-1848), 54, 63.
Fogliani, Giovanni, marchese, 28.
Follina, Giuseppe, 316.
Forlani, Arnaldo (n. 1925), 474, 492.
Formosa, Giuseppe Monroy e Allegra (1867-?), principe di, 279-80.
Fornaciari, Luigi (1798-1858), 57.
Foscolo, Ugo (1777-1827), 54-6, 58.
Foti, 150.
Fourier, Carlo (1772-1837), 54.
Francesco II Borbone (1836-94), re
delle Due Sicilie, 79, 87, 89, 101,
106, 112.
Franchetti, Leopoldo (1847-1917),
133.
Frasconà, Antonio, 60.
Frattaroli, Domenico, 383.
Friscia, Saverio (1813-86), 54, 107,
149.
Frisella Vella, Giuseppe (18981970), 411.
Fubini, Mario, 411.
Furnari, Francesco Notarbartolo e
Palizzolo (1875-1917), principe di,
262.
Furness, George, 305.
Galasso, Giuseppe, XIV.
Galati, Domenico, 124.
Galati, Gaspare, 124, 130-1, 134.
Galati, Giuseppe De Spucches e
Ruffo (1819-84), principe di, 54,
57, 124, 142.
Galland, impresa, 140.
Gallitano, Gioacchino D’Ondes e
Reggio, conte di, 280, 289.
Gallo, Agostino (1790-1872), 57.
Gallo, Corrado, 415.
Galluzzo, Lucio, 441.
Gangi, Benedetto Mantegna e Allia-
Indice dei nomi
ta (1843-1907), principe di, 178,
181.
Ganzaria, Giovan Battista Guccia e
Cannizzaro (1850-1922), marchese
di, 246-7.
Gardner, Beaumont, 309.
Gardon, Giuseppe, 38.
Garibaldi, Giuseppe (1807-82), 83-7,
89-92, 95, 97, 99, 103-4, 108-11,
113, 119, 144, 169, 173, 180, 231,
321.
Garofalo, Luigi (1792-1837), 59.
Garzilli, Nicolò (1830-50), 55, 77.
Gemmellaro,
Gaetano
Giorgio
(1832-1904), 322.
Genco Russo, Giuseppe, 423.
Gentile, Andrea, 493.
Gentile, Giovanni (1875-1944), 322,
324-6, 381.
Gentiloni, Vincenzo Ottorino (18651916), 253.
Genuardi, Luigi, 365.
Geraci, marchese di, 53.
Gerbaldi, Francesco (1858-1934),
321.
Germanà, Ludovico, 351.
Gestivo, Francesco, 134-5.
Gestivo Puglia, Giuseppe, 364.
Ghera, Francesco, 415.
Ghilardi, S., 303.
Ghilardi e Conigliaro, 303.
Giaccone, Paolo (m. 1982), 482.
Giachery, famiglia, 279-80.
Giachery, Carlo (1812-65), 53, 64,
288, 321.
Giachery, Vincenzo, 288.
Giacosa, Guido, 106.
Giafaglione, Gaetano, 415.
Giammona, Antonino, 81, 126, 130,
134-5.
Giampietro, Luigi, 373.
Gianferrara, Oreste, 413.
Giardina, Andrea (1875-1948), 322.
Giardinelli, Francesco Saverio Starrabba e Statella (m. 1915), principe di, 80, 82.
Giarrizzo, Giuseppe, XV.
Giarrusso, Felice, 206-7, 239, 271,
274, 392.
Giglia, deputato, 470.
547
Giglio Tramonte, Giuseppe, 234,
254.
Gioberti, Vincenzo (1801-52), 55,
58.
Gioia, Agostino, 302.
Gioia, Giovanni (1925-81), 456, 459461, 466, 469-71, 473-76, 479-81,
483, 505, 509.
Gioia, Luigi, 466, 469, 483.
Gioia, Melchiorre (1767-1829), 56.
Giolitti, Giovanni (1842-1928), 184,
186-7, 209, 229, 232, 234, 240,
245, 255, 260, 294-5, 320, 343,
349.
Giordani, Pietro (1774-1848), 55.
Giordano, Alfonso, 498-9.
Giuffrè, Liborio, 247, 249, 251, 256257, 321.
Giuffrida, Romualdo, XIV.
Giuffrida, Vincenzo, 357.
Giuliano, Boris (m. 1979), 482.
Giuliano, Salvatore (1922-50), 419,
502.
Giusti, Giuseppe (1809-50), 56.
Gliozzo, Antonino, 454.
Goethe, Johann Wolfgang (17491832), 27.
Golia, Carlo, 301.
Gorgone, Giovanni (1801-68), 63,
321.
Goria, Giovanni, 490.
Govone, Giuseppe (1825-72), generale, 103, 105, 107-8.
Gramsci, Antonio (1891-1937), 366.
Granatelli, Francesco Maccagnone
(1807-57), principe di, 138.
Grassi Bertazzi, Saro, 439.
Grasso, Franco (n. 1913), 414-5, 420.
Graziano, Emanuele, 297, 316.
Graziano, Salvatore, 316.
Greco, Ignazio, 280.
Greco, mafiosi, 465, 472.
Greco, Michele (n. 1924), 446, 470,
480, 484.
Greco, Salvatore (detto il Senatore),
465, 470, 484.
Greco, Salvatore (detto l’Ingegnere),
446.
Greco e Maddalena, impresa, 389.
Gregorio Magno, 7.
548
Gregorio, Rosario (1853-1909), 63.
Grillo, Salvatore, 445.
Gronchi, Giovanni (1887-1978),
456.
Grosoli, Giovanni, 245.
Gualterio, Filippo (1819-74), marchese, 127.
Guardione, Francesco (1847-1940),
324.
Guarino Amella, Giovanni (18721949), 362, 421.
Guarnaschelli, famiglia, 279.
Guarnaschelli Ganci, Girolamo, 280.
Guarneri, Andrea (1826-1914), 103,
146, 177, 188, 212, 335.
Guarneri Citati, Andrea, 412.
Guarraci, Anselmo (n.1926), 469.
Guarrasi, Vito (n. 1914), X, 434-5,
446.
Guastella, Cosmo (1854-1922), 324.
Guccia di Ganzaria, Giovan Battista
(1855-1914), 323, 410.
Guccione, Giambattista, 129.
Gugino, Edoardo, 432.
Guglielmo I il Malo (m. 1166), 10.
Guglielmo II il Buono (m. 1189), 910.
Gulì, Antonio, 316.
Gulì, Emanuele, 185.
Gulì, Giuseppe (1857-1949), 300,
303.
Gulì, Salvatore, 38.
Gullo, Rocco (1899-1972), 420, 450451.
Gullotti, Antonino (Nino), 456.
Gunnella, Aristide (n. 1931), 493.
Guttadauro, Giuseppe, 452, 454-5.
Guttadauro, Salvatore, 316.
Guttuso, Renato (1912-87), 410, 479.
Hamnett, Eduardo, 316.
Hamnett, Giovanni, 316.
Hartwing, 154.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
(1770-1831), 55.
Helg, Federico, 301.
Hilbert, David (1862-1943), 323.
Hirzel, Giovan Corrado, 309.
Holm, Adolf, 322.
Indice dei nomi
Hugony, Augusto, 303, 309.
Hugony, Vincenzo, 309.
Ibn Hauqal, 8.
Icem, 487.
Ices, 489.
Imbrogiano, antifascista, 415.
Impallomeni, Giovan Battista (18461907), 322.
Indelicato, fratelli, 305.
Indelicato, Mariano (m. 1897), 162,
171.
Ingegneros, Salvatore, 149.
Ingham, Beniamino (1784-1861), 41,
43, 46-7, 49, 52-3, 148, 277, 286.
Ingham e Whitaker, 297.
Ingrassia, 305.
Insalaco, Giuseppe (1941-88), 435,
466, 482, 484-5.
Insolera, Italo, 516.
Inzenga, Giuseppe, 59.
Inzerillo, Salvatore Mario, 503, 506,
510-1.
Inzerillo, Salvatore, 470.
Inzerillo, Vincenzo, 490, 492.
Iuculano, Gaetano, 444.
Iuculano, Rosario, X, 437, 444.
Iuculano Trapanotto, famiglia, 444.
Izzi, 150.
Jannelli, Giuseppe, 196, 246, 338-9,
352.
Jemma, Rocco, 246.
Jung, fratelli, 287, 300, 309, 316.
Jung, Guido (1876-1949), 287, 297,
324, 356, 377-80, 385.
Jung, Mario, 287.
Jung, Ugo (m. 1940), 297.
Kayser, Giovanni, 309.
Keyes, Geoffrey, 416.
Klein, Felix (1849-1925), 323.
Kressner, 309.
La Barbera, Angelo, 457, 466, 519.
La Barbera, Salvatore, 457, 466.
La Bella, Rosario (1892-?), 350, 356.
Labriola, Arturo (1853-1959), 365.
La Farina, Giovanni, 198.
Indice dei nomi
La Farina, Giuseppe (1815-63), 88,
90-1.
La Farina, Giuseppe, avvocato, 172.
Laganà, Augusto (1863-?), 185.
La Loggia, Enrico (1872-1960), 357,
412, 421.
La Loggia, Gaetano (1808-89), 104.
La Loggia, Giuseppe (1911-94), 437,
439, 445, 456, 458.
La Lumia, Isidoro (1823-79), 90,
102, 146.
La Malfa, Giorgio (n. 1939), 493,
498.
La Malfa, Ugo (1903-79), 377.
La Motta, Stefano (1920-51), barone,
419.
Lampasona, Salvatore, 413.
Lampedusa, Giulio Maria Tomasi
(1814-86), principe di, 101.
Lampedusa,
Giuseppe
Tomasi
(1896-1957), principe di, 80.
Lancia di Brolo, Corrado (18261906), marchese, 147.
Lancia di Brolo, Federico (1824-83),
65, 68.
Lando (ved. Trapanotto), Rosaria,
444.
Lanza e Branciforte, Ottavio, dei
principi di Trabia, 81-3.
Lanza, Ferdinando, generale, 87.
Lanza, Giuseppe, v. Trabia, principe
di.
Lanza, Ottavio, duca di Camastra, v.
Trabia, principe di.
Lanza, Pietro, v. Scalea, principe di.
Lanza, Pietro, v. Scordia, principe di.
Lanza, Pietro, v. Trabia, principe di.
Lao, Francesco, 60.
La Placa, Salvatore, 81-2.
La Porta, Filippo, 279.
Larderia, Michele Platamone, principe di, 53.
La Rocca, Mariano, 452, 454-5.
La Torre, Pio (1927-82), 461, 482.
Laudicina, Antonino (1880-1931),
400, 404.
Lauria, Michele, 297.
Lauriel, Guglielmo, 60.
Lazzaro, Carmelo, 251, 346.
Lecerf, Alberto, 287, 316.
549
Lello, Ferdinando, 44.
Lemmi, Adriano (1822-1906), 184,
305.
Lentini, Gerlando, 415.
Lentini, Rocco (1858-1943), 325.
Leone, Antonino, 165.
Leone III (Vincenzo Gioacchino
Pecci) (1810-1903), papa, 195.
Leopardi, Giacomo (1798-1837), 54.
Lesca-Farsura, 487, 489.
Levi, Primo, 273.
Librino, Ignazio, 166.
Licata, Salvatore, 81, 126, 133, 215.
Licata, Salvatore, di Andrea, 215.
Li Causi, Girolamo (1896-1977),
420, 431, 451.
Li Donni, Ferdinando, 231.
Liggio (recte: Leggio), Luciano, 470,
477, 519, 522.
Li Gotti, Ignazio, 408.
Lima, Salvatore (1928-92), 442-3,
445, 457-60, 462-3, 466-71, 473-5,
479-81, 491-2, 494, 496, 499, 505,
509, 512.
Linguaglossa, Silvio Bonanno (180374), principe di, 119.
Liotta, Ettore, 438.
Liotta, Mario (1896-1961), 455.
Lo Cascio, Giuseppe, 196.
Lodato, Gaetano, 257.
Lo Jacono, Francesco (1838-1915),
324-5.
Lojacono, M., 510.
Lombardo, fratelli, 437.
Lombardo, Salvatore (Turi), 495.
Lombardo Radice, Giuseppe (18791938), 324.
Lo Monte, Giovanni, 338-9, 351,
356-7, 363-4, 370, 374, 412.
Loncao, Enrico, 255.
Lo Porto, Guido (n. 1937), 495.
Lo Presti, antifascista, 412.
Lorsnaider, Giovan Battista, 61.
Lo Sardo, Francesco (1871-1931),
357, 365.
Lossieux, Gaetano, 31.
Lo Valvo, Oreste (Oleandro), 257,
268-70, 282, 285, 320, 332.
Lo Vasco, Domenico (n. 1928), 495496.
550
Lo Verde, famiglia, 279.
Lo Verde, Rocco (n. 1937), 486.
Lo Vetere, Filippo, 212, 237, 260.
Lualdi, Alessandro, cardinale, 245,
263.
Luciano, Eduardo, 413.
Lugaro, Enrico, 415.
Luigi Filippo d’Orléans, duca (poi re
dei Francesi), 27.
Lupo, Ciccio, 254.
Lupo, Salvatore, XV.
Luzzatti, Luigi (1841-1927), 248.
Macaluso, Damiano (1845-1932),
322.
Maggio, Andrea, 415.
Maggio, Nicolò, 365.
Maggiorani, Carlo (m. 1885), 321.
Maggiore Di Chiara, Giuseppe, 354.
Maggiore Perni, Francesco (18361907), 300.
Maggiore, Giuseppe, 411.
Maggiore, Ottorino, 365.
Maglione, Giovanni, 199.
Majorana, Angelo (1864-1931), 224.
Majorana della Nicchiara, Benedetto
(1899-1982), 440, 462.
Malusardi, Antonio (1818-91), 215.
Malvica, Ferdinando, barone, 56-7,
100.
Mamiani, Terenzio della Rovere
(1789-1885), conte di, 154.
Mancino, fratelli, 466.
Mancino, Salvatore, 55.
Mancino, Saro, 466.
Mandre, Carella, conte delle, 279.
Manfredi (1232-66), 12.
Manfredi, Luigi (1861- ?), 322.
Mangano, Antonino, 434.
Mangano, Vincenzo, 196, 224, 229.
Maniscalco, Alfonso, 387.
Maniscalco, Salvatore (1813-64), 40,
78, 80, 82, 84, 99-100, 105, 109,
128-9, 351.
Mannino, Calogero (n. 1939), 441,
445, 494, 496, 498.
Mannino, G., 510.
Mantegna, Beatrice, duchessa dell’Arenella, 226.
Indice dei nomi
Mantione, Salvatore (n. 1922), 480.
Manzoni, Alessandro (1785-1873),
54, 58.
Marcacci, Arturo, 199.
Marchello, Giacomo (n. 1915), 459,
476.
Marchesano, Giuseppe, 219, 221-2.
Marchesi, Salvatore (1852-1926),
325.
Marino, Flavia in Airoldi, marchesa,
280.
Marino, Giuseppe Carlo, XIV.
Marinuzzi, Antonio (1851-1917),
178, 180, 185, 196-8, 227, 229,
234, 244-6.
Marinuzzi, Gino (1882-1945), 325.
Martelli, Claudio (n. 1943), 489-91.
Martellucci, Nello (1921-97), 346,
447, 453, 480-1, 483, 486.
Martines, Antonio, 190, 199, 202,
207.
Martino il Giovane (m. 1409), 17.
Marvuglia, Giuseppe Venanzio
(1729-1814), 321.
Marziali, Giovan Battista (18951948), 375, 387-8.
Masi, Saverio, 194.
Massa, Giovanni Andrea, 125.
Mastrogiovanni Tasca, famiglia, 226,
284.
Mastrogiovanni Tasca, Giuseppe
(1912-98), conte d’ Almerita, IX,
419.
Mastrogiovanni Tasca Bordonaro,
Lucio (1880-1957), 350, 369, 41920, 449-50, 501.
Mastrogiovanni Tasca Bordonaro,
Ottavio (1882-1916), 262.
Mastrogiovanni Tasca e Filingeri,
Alessandro, v. Cutò, principe di.
Mastrogiovanni Tasca e Lanza, Giuseppe (detto Giuseppe Tasca Lanza, 1849-1917), 199, 210, 215, 226,
228-33, 235-9, 241, 249, 256, 260,
262, 335, 350.
Mastrogiovanni Tasca e Lanza, Lucio, v. Cutò, principe di.
Matranga, Antonio, 512.
Matta, Giovanni (1928-83), 469, 473474, 478, 509.
551
Indice dei nomi
Mattarella, Bernardo (1905-71), 412,
421, 451, 456, 458, 470, 474, 479.
Mattarella, Piersanti (1935-80), 468,
474, 479, 482.
Mattarella, Sergio (n. 1941), 486,
490, 498.
Mattei, Enrico (m. 1962), 434.
Matteini, Giovanni, 437.
Matteotti, Giacomo (1885-1924),
361, 378.
Matteotti, vedova, 362.
Maugeri, Luciano (1888-1958), 457458.
Maugeri, Mariano, 439.
Maurigi, Giovanni (1878-?), marchese e conte di Castelmaurigi, 385.
Mazzara, Francesco Paolo, 465.
Mazzarino, famiglia del conte di,
262, 284.
Mazzei, Luigi, 445.
Mazzini, Giuseppe (1805-72), 77, 80,
97, 112-3, 118, 144, 147, 151.
Mechel, Giovanni Luca von, colonnello, 84.
Medi, Enrico, 451.
Medici, Giacomo (1817-82), marchese del Vascello, generale, 103, 115,
120, 131-2, 145, 150.
Mercadante, Vito F., 316.
Merlo, Enrico (1864-1946), barone,
450.
Messina, Giuseppe (1877-1946),
378-80, 411.
Metello, v. Cecilio Metello.
Miccichè, Gaetano (n. 1906), 412.
Miceli, Salvatore, 117, 126-7.
Migliore, carcerato, 221.
Mignosi, Pietro (1895-1937), 410.
Milazzo, Silvio (1903-82), 424, 434435, 439-40, 461-2.
Mineo, Corradino (1875-1960), 324.
Mineo, Francesco, 464.
Mineo, Mario (1920-87), 415-6, 420.
Minghetti, Marco (1816-86), 145,
167, 179.
Minneci, Lorenzo, 118.
Mirri, Giuseppe (1834-1907), 222.
Mirto, Giuseppe Lanza e Filingeri
(1835-1902), principe di, 137.
Mistretta, Gaspare, 479.
Mommsen, Theodor (1817-1903),
154.
Monastero, Salvatore, 432.
Moncada, costruttore, 472.
Montalbano, Giuseppe (n. 1895),
451.
Montalbo, famiglia del duca di, 273.
Montalbo, Marianna Sammartino
(1874-?), duchessa di, 280.
Monteleone, famiglia del duca di, 40.
Monteleone, Antonio Pignatelli e
Lucchesi Palli (1827-81), principe
di Castelvetrano, duca di Terranova e di, 60, 82.
Montezemolo, Massimo Cordero
(1807-79), marchese di, 102.
Morales, Giuseppe, 439.
Morana, Giovan Battista (18391901), 156, 162, 171, 173, 175.
Mordini, Antonio (1819-1902), 69,
91-2, 138, 321.
Morello, Vincenzo (Rastignac), 209.
Morgante, Francesco, 435.
Mori, Cesare (1872-1942), 265, 368376.
Mortillaro, Vincenzo (1806-88), marchese di Villarena, 100-1, 151-2,
170-1, 269.
Morvillo, Antonino, 191, 298, 300.
Mosca, Gaetano (1858-1941), 218,
225, 322, 327, 338, 340, 366.
Mosca, Gaspare, 127.
Mosco, 58.
Motisi, Francesco, 215.
Mouton, Paul, 307.
Mundy, Rodney, ammiraglio, 86.
Muratori, Angelo (1843-1918), 178,
184-5, 227-8.
Mure, Benoît Jules, 54.
Murger, Henri (1822-61), 326.
Musotto, Francesco (1881-1961),
350, 356, 362, 370, 449, 451.
Mussolini, Benito (1883-1945), 349,
353, 358, 360, 362, 366, 368-9, 372,
374, 377, 382, 385, 387, 389, 407.
Naccari, Giuseppe, 71.
Nantier, libraio, 61.
552
Napoleone III Bonaparte (1808-73),
imperatore dei Francesi, 104.
Napoli, Bino (1898-1967), 365, 412,
420.
Napoli, Guido, 365, 412, 420, 450.
Narbone, Alessio (1789-1860), 60.
Naselli, Gian Battista (1786-1870),
dei duchi di Gela, arcivescovo, 89,
120.
Naselli, Giulio (1827-1920), dei duchi di Gela, 159, 177, 188.
Nasi, Nunzio (1850-1935), 244, 254,
256-9, 356, 358, 365-6.
Nasi, Virgilio, 256, 421.
Natoli, Aurelio, 451.
Natoli, Luigi (1857-1941), 257.
Niccolini, Giambattista (1782-1841),
54-5.
Nicoletti, Rosario (1934-84), 471,
474-5, 479, 486.
Nicoletti, Vincenzo, 510.
Nicotera, Giovanni (1828-94), 124.
Nicotri, Gaspare, 365.
Niscemi, Corrado Valguarnera e Tomasi (1838-1903), duca dell’Arenella e principe di, 80, 82, 163,
235, 379.
Niscemi, Giuseppe Valguarnera e
Ruffo (1786-1869), principe di, 80.
Niscemi, Maria Favara in Valguarnera (1850-1912), principessa di,
284.
Nitti, Francesco Saverio (18681953), 336, 412.
Nobile, Salvatore, 117.
Notarbartolo, Emanuele (1834-93),
dei marchesi di S. Giovanni, 138,
141, 152-8, 168, 170, 214, 217-8,
221, 230.
Notarbartolo, Giovanni, dei marchesi di S. Giovanni, 82.
Notarbartolo, Leopoldo (18691947), 219.
Notarbartolo, Leopoldo (m. 1914),
marchese di S. Giovanni, 306.
Noto Sardegna, Giuseppe (18771964), 361-2, 388, 390.
Obole, Mario, XIV.
Oddo, Giuseppe, 321.
Indice dei nomi
Oddo, Vincenzo, 376.
Odero, Attilio, 294.
Olivares, Enrico de Gusman, conte
d’, 124.
Oliveri, Eugenio (1842-1925), 177,
181-4, 189-90, 192-4, 199, 203,
215, 228, 301-2.
Oliveri, Giovanni, 182.
Oliveri, Michele, 118.
Omodeo, Adolfo (1889-1946), 324.
Onufrio, Enrico (1858-85), 272, 326,
333.
Orcel, Giovanni (1887-1920), 255,
262, 343, 345.
Orestano, Francesco (1873-1945),
324, 381.
Orlando, Camillo, 320.
Orlando, fratelli, 49.
Orlando, Leoluca (n. 1947), 260,
447, 485, 487-99.
Orlando, Vittorio Emanuele (18601952), 141, 224, 245, 256, 320,
322, 326, 338-40, 343, 350-1, 3548, 362, 365-8, 451, 458.
Orobello, Manlio (n. 1943), 497-8.
Pace, Biagio (1887-1955), 356.
Pagano, Giacomo, 118, 128.
Paino, Giuseppe (1845-1908), barone di Luccoveni, 199.
Paino, Giuseppe, 44.
Pais, Ettore (1856-1939), 322.
Palizzi, famiglia, 13.
Palizzolo, Raffaele (1842-1918), 161,
165, 175, 177, 179, 184-5, 188,
191, 214-25, 234, 238, 244, 246,
251, 254, 257, 259, 335.
Pallavicino Trivulzio, marchese
Giorgio Guido (1796-1878), 92,
103.
Palmeri, Nicolò (1778-1837), 56, 59.
Pantaleo, Giovanni (1832-79), 107,
149.
Pantaleo, Mariano (1811-96), 64, 321.
Pantaleone, Luigi Angelo, 190, 193,
199.
Pantano, Edoardo (1842-1932), 107,
113.
Panzera, Francesco, 299, 301-2.
Indice dei nomi
Parini, Giuseppe (1729-99), 56.
Parisi, Roberto (m. 1985), 474, 482.
Parlatore, Filippo (1816-77), 62, 166.
Parodi Giusino, Ugo, v. Belsito, duca di.
Pasqualino, Gaspare, marchese, 134.
Paternò di Roccaromana, Antonino,
440.
Paternò, Emanuele (1847-1935), poi
duca, 166, 177-84, 193, 199, 203,
228, 249-50, 306, 321, 335.
Paternò, famiglia del principe di, 40.
Paternò, Ugo Moncada e Valguarnera (1890-1974), principe di, 379.
Paternò, Vincenzo (m. 1949), barone
del Cugno, 247.
Paternostro, Alessandro (1852-99),
174-5, 191, 247.
Paternostro, Giuseppe, di Alessandro, 246-7.
Paternostro, Paolo (1821-86), 129,
147.
Paternostro, Roberto, di Alessandro
(1887-?), 346, 365, 374.
Patricolo, Gennaro (1904-80), 451-2.
Pavone, Giuseppe, 508.
Pavone, Michele (1894-1975), 391.
Pecoraino, Filippo (1857-1937), 213,
230, 237, 239-43, 245-6, 250, 2546, 260, 297, 301, 316, 369, 404,
459.
Pecoraino, Salvatore (1880-1954),
250, 365.
Pecoraro Lombardo, Antonino
(1871-1939), 244-6, 254, 259, 338,
340, 351, 357, 365-6.
Pedone, Domenico, 220.
Pedone, Giovanni, 220.
Pedone, Giuseppe, 220.
Pedone Lauriel, fratelli, librai-editori, 60-1.
Pellerito, Vincenzo, 301-2.
Pellico, Silvio (1788-1854), 54.
Pelloux, Luigi (1839-1924), 212, 222.
Pennino, Gioacchino, 452, 465-6.
Pennino, Gioacchino, altro, 466.
Pepi, Giovanni, 497.
Peranni, Domenico (1802-75), 129,
143, 145-7, 149, 155, 158-9, 165,
251, 265.
553
Peratoner, Alberto (1862-1925), 321.
Perez, Francesco Paolo (1812-92),
55-8, 63, 90, 142, 146, 155, 157-60,
164, 166, 177.
Perricone, Salvatore, 214.
Perroni Paladini, Francesco (18301908), 107, 110-1, 129, 244.
Pescosolido, Guido, XIV.
Petrosino, Joseph (1860-1909), 243.
Piaggio, titolare del Cantiere Navale,
297, 405.
Piazza Martini, Vincenzo, 321.
Pica, Giuseppe (m. 1887), 108.
Pignatelli, Antonio, v. Monteleone,
duca di.
Pignatelli, Federico (1864-1947),
principe, 320.
Pignato, Luca, 410.
Pilo, Rosalino (1820-60), 77, 79, 106.
Pincitore, Alberico, 247.
Pinna, Felice, 114-8.
Pintacuda, Ennio, 494.
Pipitone Federico, Giuseppe (18501940), 244, 277, 324.
Pirandello, Luigi (1867-1936), 381.
Pirri, Rocco, 22.
Pirro, 4.
Pirrone, G., 510.
Pisani, Casimiro (1803-81), barone,
81.
Pisani, Pietro (1760-1837), 59.
Pitrè, Giuseppe (1841-1916), 127,
188-9, 219-20, 223, 229, 325, 335.
Pivetti, Ernesto (1888-1970), 440,
452, 454.
Pizzo, Francesco, 445.
Poincaré, Henri (1854-1912), 323.
Pojero, Michele (1791-1866), 44, 49,
193.
Pojero, Michele jr. (1837-1926), 316.
Pope, Alexander (1688-1744), 54.
Porcasi, Giuseppe, 71.
Porry, Agostino, 46, 291.
Pottino, Ettore (1874-1945), barone
di Capuano, 378-9.
Prati, Giovanni (1841-84), 54.
Prestifilippo, Salvatore, 520.
Priulla, editore, 409.
Pucci, Elda (n. 1928), 346, 480-1,
483-4, 495, 498-9.
554
Pucci di Benisichi, Giuseppe (18671942), 351, 354.
Puglia, Giuseppe Mario, 175.
Puglisi, Ignazio, 413.
Puglisi, Vincenzo, 300.
Pullara, Leopoldo (n. 1929), 479.
Pumilia, Calogero (n. 1936), 486.
Puricelli, impresa, 393, 408.
Purpura, Sebastiano (n. 1931), 475.
Purpura, Sebastiano, 371, 415.
Purpura, Vincenzo (1885-1976), 262,
346, 365, 416.
Quadrio, Francesco Saverio (16951756), 58.
Radalì, Ernest Wilding (m. 1874),
principe di, 53, 279-80.
Radalì, Ernesto Giorgio Wilding (m.
1898), principe di, 273, 280.
Radalì, George Wilding (m. 1841),
principe di, 279.
Raffaele, Giovanni (1804-82), 105-7,
158, 160-2.
Raffo, Michele, 43-4, 288.
Ragusa, Enrico, 276, 287.
Ragusa, Pippo, 352.
Ragusa, Salvatore, 43.
Ragusa, Vincenzo (1841-1927), 325.
Ragusa Moleti, Girolamo (18511917), 326.
Raimondi, Emanuele (Nenè), 233.
Raja, Vincenzo, 351, 355, 362.
Ranzano, Pietro, 17.
Rao, Carlo, 365.
Rapisardi, Mario (1844-1912), 325.
Rasponi, Gioacchino (1829-77), 132.
Rattazzi, Urbano (1808-73), 103-4.
Rebucci, Mario (1850-1928), 195,
199.
Redfern, Alexander e C., impresa,
176.
Reina, Michele, 464, 475, 479.
Reitano, duchessa di, 287.
Renan, Ernest (1823-92), 154.
Renda, Francesco, XIV.
Restivo, Empedocle (1876-1938),
236, 238, 245-6, 251, 254, 256-7,
Indice dei nomi
259, 325, 335-6, 338-40, 342, 346,
356-7, 363-4, 383, 411.
Restivo, Franco (1911-76), 412, 421,
456-7, 470, 484.
Ricasoli, Bettino (1809-80), barone,
103.
Ricca Salerno, Giuseppe (18491938), 326.
Riccobono, Salvatore (1864-1958),
322, 324, 359, 364, 381, 411.
Riggio, Antonino, 464.
Riina, Antonino, 365.
Riina, Salvatore, 470, 519, 522-3.
Riolo, Vincenzo (1772-1837), 59.
Riso, famiglia, 296.
Riso, Francesco (1820-60), 81-3.
Riso, Giovanni (m. 1841), barone di
Colobria, 40, 44, 47, 49, 53.
Riso, Pietro (m. 1854), barone di Colobria, 40, 44, 48-9.
Riso e Notarbartolo, Giovanni (18361901), barone di Colobria, 81-2,
107, 147.
Rivas, Francesco Paolo (1854-1917),
279.
Rizza, Maurizio, XIV.
Rizzo, Aldo (n. 1935), 447, 490, 492,
496-7.
Rizzo, bandito, 124.
Rizzo, Pippo (1897-1964), 410.
Rizzotto, Giuseppe (1828-95), 127.
Roberto il Guiscardo (m. 1085), 9.
Roccaforte, Lorenzo Cottù e Marziani (1818-93), marchese di, 101,
137, 142.
Rocco, Alfredo (1875-1935), 379-80.
Romagnosi, Gian Domenico (17311835), 54, 56.
Romano, Giuseppe, 55.
Romano, Santi (1875-1947), 322,
380-1.
Romano Lo Faso, Salvatore, 172.
Romeo, Rosario (1924-87), XV.
Rossi, Eugenio (1871-?), 224, 259,
338, 340, 352.
Rostand, ditta, 47.
Rovasenda, Alessandro (1858-1943),
conte di, 249.
Rubattino, Raffaele (1809-81), 288,
290.
Indice dei nomi
Rudinì, Antonio Starrabba e Statella
(1839-1908), marchese di, 80, 97,
101, 120-1, 129, 131, 138-41, 1534, 158, 162, 173-4, 179, 184, 187,
190-1, 194, 205, 211, 217, 221,
382.
Ruffini, Attilio, 445, 468, 474, 479.
Ruffini, Ernesto, cardinale, 451, 455,
513.
Ruffini, Francesco, 411.
Ruggero II (m. 1154), 9, 13.
Russo, Michele, 442.
Russo, Nando, 420.
Russo, Salvatore, 415.
Russo Perez, Guido, 451.
Rutelli, Giovanni, 280.
Rutelli, Giovanni, altro, 409.
Rutelli, Mario (1859-1941), 280, 325.
Sabino, 306.
Sacco, Vanni, 459.
Saeli, famiglia, 217.
Saitta, Giuseppe (1881-1965), 324.
Saladino, D., 510.
Salamone, Antonino (1898-1984),
432.
Salandra, Antonio (1853-1931), 174,
261.
Salerno, Giuseppe, 455.
Salinas, Antonino (1841-1914), 237,
326.
Salomone Marino, Salvatore (18471916), 321, 325.
Salvioli, Giuseppe (1857-1928), 212,
322, 326.
Salvo, famiglia, X, 435, 439, 443, 459,
468, 523.
Salvo, Antonino (Nino) (1929-86),
435-6, 439, 441, 443-4, 446, 459,
470, 486.
Salvo, Ignazio (1931-92), 435-6, 439,
443-4, 470, 499.
Sammarco, Giuseppe, 445.
Samonà, Giuseppe, 484.
Sampolo, Luigi (1825-1905), 63, 323.
Sampolo, Pietro (1807-61), 63.
San Cataldo, Nicolò Galletti e Platamone (1813-97), principe di Fiumesalato, marchese di, 42.
555
Sanderson, Sophia (1816-85), 286.
Sandron, Decio (m. 1873), 60-1.
Sandron, fratelli, 404, 409.
Sandron, Remo (1854-1925), 303,
324.
Sanfilippo, Giacomo, 224.
Sanfilippo, Ignazio, 56.
Sanfilippo, Pietro, 60, 101, 106.
Sangiorgi, questore, 219.
Sangiorgi Invidiato, Salvatore (18731943), 239, 359.
Sansone, Alfonso (1853-1930), 324.
Sansone, Giovanni, 316.
Santalco, Carmelo, 445.
Santangelo, Giovan Battista (18891966), 279.
Sant’Elia, principe di, famiglia, 40.
Sant’Elia, Romualdo Trigona e Gravina (1809-77), principe di, 50, 80,
99, 106, 141.
Santino, Umberto, 445.
Santocanale, Filippo (1798-1884),
137.
Santoro, Andrea, 38.
San Vincenzo, Pietro Vanni e Ruvolo, principe di, 107, 119.
Sapio, Francesco, 354, 383.
Satriano, Carlo Filangieri (17841867), principe di, 39, 77, 127.
Savettiere, Giuseppe, 298, 300-1.
Savona, fratelli, 302, 316.
Savona, Michele, 38.
Scaduto, Francesco (1858-1942),
322.
Scaduto, Gioacchino (1898-1979),
455-6.
Scaglione, Pietro (1906-71), 477.
Scalea, famiglia del principe di, 226,
284, 320.
Scalea, Eleonora Lanza e Mastrogiovanni Tasca (m. 1887), dei principi di, 320.
Scalea, Francesco Lanza e Spinelli
(1834-1919), dei principi di Trabia, principe di, 175, 177, 226.
Scalea, Giuseppe (Peppino) Lanza e
Mastrogiovanni Tasca (18701929), dei principi di, 225-6, 2289, 239, 241, 243, 251, 263, 338,
556
341, 343-5, 347-9, 352, 354-5, 357359, 364-6, 370.
Scalea, Pietro Lanza e Mastrogiovanni Tasca (1863-1938), principe di,
350-1, 354, 356, 364, 366, 370,
382-3.
Scaletta, Vincenzo Ruffo e Jacona
(1810-1907), principe della, 100.
Scalia, Alfonso (1823-94), 286.
Scalia, Anna Luisa (Tina) in Whitaker (1858-1957), 286, 375.
Scalia, Giulia, 68.
Scelba, Mario, 421.
Scelsi, avvocato, socialista, 121.
Schanzer, Carlo (1865-1953), 199,
248, 341.
Schiattarella, Raffaele (1839-1902),
322, 326.
Schicchi, Paolo, 413.
Schuchert e C., impresa, 189, 199,
306-7.
Schumacher, Julius, 306.
Schuster, armatore, 49.
Scialabba, Giuseppe (1881-?), 338-9,
344, 351, 354, 366, 412.
Scialabba, Nicolò (n. 1936), 486.
Sciara, Filippo Notarbartolo e Pignatelli (1851-1927), principe di, 279280.
Sciara, Francesco Paolo Notarbartolo e Pilo (1755-1823), principe di,
152.
Sciarra Borzì, Anna Maria, 484.
Sciascia, Leonardo (1921-89), 478.
Scinà, Domenico (1765-1837), 59.
Scoma, Carmelo (n. 1931), 479-80.
Scordato, Giuseppe (1813-81), 126127.
Scordia, famiglia del principe di, 280.
Scordia, Giuseppe Lanza e Florio
(1889-1927), principe di, 338, 340,
343, 350-1, 354, 356, 370.
Scordia, Pietro Lanza e Branciforte
(1807-55), principe di Butera (poi
anche di Trabia) e di, 42, 54-56, 69,
79.
Scorza, Gaetano (1876-1939), 324.
Scott, Walter (1771-1832), 54.
Seefelder, Giorgio, 303.
Segrè, Emilio (1905-87), 322, 411.
Indice dei nomi
Segreto, Salvatore, 71.
Sellerio, Ugo (n. 1915), 414.
Semper, Goffredo, 154.
Sénes, Giuseppe, 38.
Sergio I, papa, 7.
Serpi, Giovanni, generale, 108.
Sessa, famiglia del duca di, 180.
Settimo dei principi di Fitalia, Ruggero (1778-1863), 138.
Sgadari di Lo Monaco, barone, critico d’arte, 409-10.
Sgarbi, Vittorio, 499.
Sgroi, fratelli, 49.
Shakespeare, William (1564-1616),
54.
Sindona, Michele (1920-86), 491.
Sinesio, Giuseppe (n. 1921), 470.
Siragusa, Alfonso, 181.
Sofia, Francesco (1878-1944), 390.
Sofocle, 58.
Solari, Gioele, 411.
Soler, Emanuele (1867-1940), 380.
Somma, Francesco, 238, 241.
Sonnino, Sidney (1847-1922), 174,
212, 224, 238, 240.
Sorci, Antonino (Nino), 452, 454,
457-8, 463, 478.
Sorge, Bartolomeo (n. 1929), 492-3.
Sorge, Francesco, 412.
Sorgi, Antonino (Nino), 415.
Spadafora, Michele (1874-1958), duca di Bissana, principe di, 308,
378, 382, 385-6.
Spadaro, Placido, 118.
Spagnolo, Francesco (1920-91), 470471, 474.
Spanò, Andrea, 440.
Spatola, Rosario, 522.
Spatoliatore, Giovanni, 413.
Spatrisano, Giuseppe, 502, 504, 510.
Speciale, famiglia, 17.
Speciale, Giuseppe (n. 1919), 461.
Spedalotto, Achille Paternò e Ventimiglia (1816-86), marchese di (recte: barone di Spedalotto, marchese
di Regiovanni), 146, 150.
Spedalotto, Francesca Paternò, di,
231, 320.
Spedalotto, Ignazio Paternò (1898-
Indice dei nomi
1951), marchese di (recte: dei marchesi di), 382.
Spica Maccataio, Pietro (1854-1929),
321.
Spinuzza, Salvatore (1829-57), 118.
Stabile, Mariano (1806-1863), 137-9,
141, 153, 158.
Starace, Achille (1889-1945), 353.
Sternheim, O., 316.
Stocchi, Giuseppe, 128.
Strazzeri, Giovanni, 247.
Sturzo, Francesco (n. 1925), 475.
Sturzo, Luigi (1871-1959), 245, 351,
420.
Sue, Eugène, 54.
Sury, generale borbonico, 82.
Susini, Alfio, 502.
Tagliavia, famiglia, 316.
Tagliavia, Angelo, 259.
Tagliavia, Filippo, 259.
Tagliavia, Pietro (1823-84), 290.
Tagliavia, Salvatore (1869-1965),
conte, 255, 259, 263-5, 287, 297,
339-43, 363-4, 383.
Tajani, Diego (1827-1921), 132.
Tambroni, Fernando (1901-63), 461.
Taparelli D’Azeglio, Luigi, 55.
Tasca, Alessandro, v. Cutò, principe
di.
Tasca, conte, v. Almerita, Lucio Mastrogiovanni Tasca, conte d’.
Tasca, contessa, v. Almerita, Beatrice
Lanza, contessa d’.
Tasca, famiglia, v. Mastrogiovanni,
Tasca.
Tasca, Giuseppe, v. Mastrogiovanni
Tasca, Giuseppe, conte d’Almerita.
Tasca, Lucio, v. Mastrogiovanni Tasca Bordonaro, Lucio.
Tasca, Ottavio, v. Mastrogiovanni
Tasca Bordonaro, Ottavio.
Tasca di Cutò (recte: Mastrogiovanni
Tasca di Cutò), v. Trigona, Giulia.
Tasca Lanza, Giuseppe, v. Mastrogiovanni Tasca e Lanza, Giuseppe.
Teodosio, monaco, 7.
Termini, Francesco (1873-1953),
357, 362, 365, 370.
557
Terranova, v. Monteleone, duca di.
Terranova, Cesare (m. 1979), 482.
Terrasi, famiglia, 504, 506-7.
Terrasi, Giovanni, 300, 316.
Tesauro, Francesco Paolo (18521922), 231, 233, 237, 241-3, 250-1,
339.
Thiers, Louis-Adolphe (1797-1877),
54-5.
Thomas, fratelli, 309.
Tiraboschi, Girolamo (1731-94), 58.
Todaro, Agostino (1818-92), 146.
Togliatti, Palmiro (1893-1964), 420.
Toledo (de), Garcia, 123.
Tommasi-Crudeli, Corrado (18341900), 127.
Toniolo, Giuseppe (1845-1918), 245.
Torelli, Luigi (1810-87), conte, 31,
114-5.
Torregrossa, Ignazio, 196, 213.
Torremuzza, Gabriello Lancillotto
Castelli e Valguarnera (1809-84),
principe di, 137.
Torrente, Giuseppe, 199.
Torretta, Pietro, 472.
Tortorici, famiglia, 206.
Tortorici, Enrico, 305.
Tortorici, S., 504.
Trabia, famiglia del principe di, 40,
226-7, 284, 286.
Trabia, Giulia Florio in Lanza (18701947), principessa di, 292, 379.
Trabia, Giuseppe Lanza e Branciforte (1780-1855), principe di, 40, 4243, 79.
Trabia, Ignazio Lanza e Florio (18901917), dei principi di Trabia, 262.
Trabia, Manfredi Lanza e Florio
(1894-1918), dei principi di Trabia, 262.
Trabia, Ottavio Lanza e Galeotti
(1863-1938), duca di Camastra e
dal 1929 principe di, 380.
Trabia, Pietro Lanza e Branciforte, v.
Scordia, principe di.
Trabia, Pietro Lanza e Galeotti
(1862-1929), principe di, 184-5,
191, 221-2, 224, 229, 233-4, 244,
254, 262, 283, 286, 292, 338, 344,
365-6, 379.
558
Traina, Francesco, 167.
Trambusti, Arnaldo, 257.
Tranchina, Giuseppe (1797-1837),
59.
Trapanese, Ernesto, 242.
Trapani, Giuseppe, 457-8, 462, 464,
469.
Trapanotto, esattore comunale, 437.
Trapanotto, Giacoma, 444.
Trasselli, Carlo, 129.
Travia, Francesco, 413.
Trentacoste, Domenico (1859-1933),
325, 381.
Trezza, impresa, 360.
Trifiletti, famiglia, 297.
Trigona, Giulia, n. Mastrogiovanni
Tasca di Cutò (1878-1911), 226,
247.
Trigona, Romualdo, dei principi di S.
Elia, conte, 226, 237, 241, 246-8,
264, 363, 368.
Trigona di Sant’Elia, famiglia, 226.
Troia, repubblicano, 365.
Truden, Emanuele, 61.
Tumminelli, Agostino, 156.
Tupini, Giorgio, 502.
Turano, Domenico (1814-85), vescovo di Girgenti, 101.
Turati, Augusto (1888-1955), 379.
Turiello, Pasquale, 124.
Turrisi, Mauro (1771-1843), barone
di Buonvicino, 40, 169.
Turrisi Colonna, Giuseppina (182248), principessa di Galati, 58.
Turrisi Colonna, Nicolò (1817-89),
barone di Buonvicino, 40, 104,
126, 130, 134, 137, 144, 158, 160,
162-4, 166-72, 175, 184, 205, 333.
Turrisi e Ballestreros, Mauro (18561912), barone di Buonvicino, 224.
Ugdulena, Gregorio (1815-72), 63,
321-2.
Ugo, Antonio (1870-1950), 246, 325.
Ugo e Ruffo, Pietro, v. Favare, marchese delle.
Umberto I di Savoia (1844-1900), re
d’Italia, 109, 197.
Indice dei nomi
Umberto II di Savoia (1904-83), re
d’Italia, 419.
Utveggio, impresa, 393.
Vacca, Giuseppe, 110.
Vaccarella, Armando, 485.
Vadalà, Riccardo (1888-1956), 454.
Valdina, Pietro Papè e Vanni (18321906), principe di, 100.
Valenti, Salvatore (1835-1903), 147,
324-5.
Valguarnera, Corrado, v. Niscemi,
principe di.
Vallone, Matteo, 439.
Vanni e Biglia, impresa, 181.
Varvaro, Antonino (1892-1972), 432,
451.
Varvaro, Francesco, 44.
Varvaro, Giovanni (1888-1972), 410.
Varvaro Pojero, Francesco, 302, 327.
Vaselli, impresa, 389, 405.
Vaselli, Romolo, conte, 489.
Vassallo, Francesco (1910-77), 464,
469, 504-5.
Verde, Biagio, 44.
Verdi, Giuseppe (1815-97), 285.
Verdura, Francesco Benso e Mortillaro (1794-1858), duca della, 79.
Verdura, Giulio Benso e San Martino (1817-1904), duca della, 79-80,
85, 104, 111, 137, 158, 170, 173-5,
177-8, 181, 203, 205, 218, 228,
258.
Verga, Giovanni (1840-1922), 325.
Vergara, Giuseppe, dei duchi di Craco, 77.
Verro, Bernardino, 185-7.
Verzotto, Graziano, 434.
Vespasiano, imperatore, 7.
Vetri, Pasquale, 413.
Veyrat, Pietro (1842-1907), 228, 230.
Vico, Giambattista (1668-1743), 55.
Vigo, Salvatore (1794-1874), 91, 129.
Villa, Pietro, 502, 510.
Villafranca, Giuseppe Alliata e Lo
Faso (1844-1913), principe di
Ucria, principe di, 280.
Villarosa, famiglia del duca di, 274,
281, 505.
Indice dei nomi
Villarosa, Irene Notarbartolo, n. Palizzolo (1850-1929), duchessa di,
220.
Vitale, Filippo, 215.
Vitocolonna, Gianfranco (1933-86),
486.
Vitrano, Giuseppe, 316.
Vittoria (1819-1902), regina d’Inghilterra, 284.
Vittorio Amedeo II di Savoia (16661732), re di Sicilia, 25-6.
Vittorio Emanuele II di Savoia
(1820-1878), re d’Italia, 80, 83, 92,
106, 109, 113, 147.
Vittorio Emanuele III di Savoia
(1869-1947), re d’Italia, 180, 236.
Vivona, Francesco, 324.
Vizzini, Carlo (n. 1947), 490, 495.
Volpe, Calogero, 470.
Vyel, Andrea, 18.
Wedekind, Paul, 309, 316.
Wedekind, Robert, 309, 316.
Weinen, Peter, 287.
Whitaker, famiglia, 284, 286-7, 309.
Whitaker, Cordelia (Delia) (18851971), 287.
559
Whitaker, Eleonora (Norina) (18851971), 356.
Whitaker, Joseph jr. (Pip) (18501936), 280, 286.
Whitaker, Joseph sr. (Giuseppe)
(1802-84), 286.
Whitaker, Joshua (Joss) (1849-1926),
286.
Whitaker, Robert (Bob) (18561923), 286.
Whitaker, Tina, v. Scalia, Anna Luisa.
Whitaker, Willie (1841-93), 148.
Windscheid, Bernhard, 322.
Woodhouse, famiglia, 46.
Ximenes, Ettore (1855-1926), 325.
Zaban, Vittorio, 246
Zanardelli, Giuseppe (1826-1903),
209.
Zevi, Bruno, 509.
Ziino, V., 510.
Zito, famiglia, 316.
Zito, Nicolò (1869-?), 254, 338, 340,
344, 351-2, 363-4, 383.
Zola, Emile (1840-1902), 326.
INDICE DEL VOLUME
Premessa alla seconda edizione
Premessa alla prima edizione
I.
Una città plurimillenaria
XI
XIII
3
1. Panormo: tra Punici e Romani, p. 3 - 2. Da Balarm a
Palermo: la città felice, p. 7 - 3. Tra decadenza e ripresa,
p. 11 - 4. Capitale senza corte, p. 16 - 5. Palermo spagnola,
p. 19 - 6. La crescita settecentesca, p. 25
II.
L’Ottocento borbonico
31
1. Da capitale a capoluogo di provincia, p. 31 - 2. L’aristocrazia della terra, p. 36 - 3. L’aristocrazia del capitale,
p. 43 - 4. Vincenzo Florio e il problema industriale, p. 45 5. Gli intellettuali, p. 54 - 6. L’Università e la borghesia professionale, p. 62 - 7. I ceti subalterni, p. 69
III.
L’unificazione difficile
77
1. «Gli uomini del disordine», p. 77 - 2. Garibaldi, p. 83 - 3.
L’annessione, p. 87 - 4. Le speranze deluse, p. 92 - 5. I partiti politici, p. 98 - 6. L’oscuro episodio dei pugnalatori, p.
102 - 7. La rivolta del ‘sette e mezzo’, p. 110 - 8. La mafia
tra Borboni e Savoia, p. 121
IV.
Tra moderatismo e regionismo
1. Le amministrazioni moderate, p. 137 - 2. La svolta clericoregionista al Comune, p. 143 - 3. L’Internazionale e la riorganizzazione dei clericali, p. 149 - 4. La rottura dell’alleanza clerico-regionista e il ritorno dei moderati al Comune,
p. 151 - 5. La Sinistra al potere, p. 156 - 6. L’ultima giunta regionista, p. 159
137
562
V.
Indice del volume
Il trasformismo
163
1. Il ritorno dei Gattopardi, p. 163 - 2. Il trasformismo dell’antitrasformismo, ossia l’idillio Crispi-Rudinì, p. 173 - 3.
Sotto il segno di Crispi, p. 176 - 4. Dai marchesi ai mercanti: la borghesia alla riconquista del Comune, p. 180 - 5. La
crisi del crispismo e l’avanzata del socialismo. I Fasci dei lavoratori, p. 183 - 6. Dall’accordo clerico-moderato al primo
scioglimento del Consiglio comunale, p. 187 - 7. Codronchi
e la conquista clerico-moderata del Comune, p. 190 - 8. L’effimera vittoria dei partiti popolari, p. 195 - 9. L’inchiesta sul
Comune, p. 198 - 10. Le cause della crisi finanziaria del Comune, p. 201 - 11. Il risanamento, p. 205
VI.
L’età giolittiana
209
1. L’opposizione socialista, p. 209 - 2. Mafia e politica: il
caso Notarbartolo, p. 214 - 3. Palermo boccia l’inchiesta,
p. 225 - 4. Le municipalizzazioni, p. 230 - 5. Tra popolarismo e nasismo, p. 241 - 6. La lunga sindacatura Di Martino,
p. 249 - 7. I contrastanti effetti del suffragio universale maschile, p. 253 - 8. La prima guerra mondiale, p. 259
VII. Palermo ‘felicissima’
267
1. Le contraddizioni della città, p. 267 - 2. Sviluppo demografico ed espansione urbanistica, p. 270 - 3. La ‘belle époque’, p. 282 - 4. I Florio: apogeo e tramonto di una grande
famiglia borghese, p. 288 - 5. Lo sviluppo industriale: avanti adagio, quasi indietro, p. 296 - 6. Servizi e capitale straniero, p. 304 - 7. Il lento sviluppo commerciale, p. 308 - 8.
Università e cultura, p. 317 - 9. Alfabetizzazione, condizione
professionale, consumi, p. 326
VIII. Dopoguerra e fascismo
335
1. Il dopoguerra, p. 335 - 2. L’ultima amministrazione liberale, p. 342 - 3. Verso il fascismo, p. 349 - 4. Sconfitta, p. 358 5. La dittatura, p. 368 - 6. La classe dirigente fascista e l’amministrazione civica, p. 377 - 7. La città littoria, p. 391 8. Cultura e antifascismo, p. 409
IX.
Palermo capitale
1. Una occasione mancata?, p. 417 - 2. Il reclutamento della
classe politica democratica, p. 430 - 3. L’amministrazione civica, p. 449 - 4. Il ‘sacco di Palermo’, p. 500 - 5. L’ascesa della mafia: dal tabacco e i mercati all’edilizia e alla droga, p.
517 - 6. Alle soglie del Duemila, p. 524
417
Indice del volume
563
Appendice Amministratori comunali dal 1860
533
Indice dei nomi
539