3. Mu inizia il suo viaggio.
3.1. Il successo americano
Chissà cosa ne avrebbe pensato John Ballou Newbrough dell’annuncio lanciato alla stampa
dall’Universal Service, il 9 Novembre 1924: Tablets Tell of Great Continent With 64,000,000 White
Inhabitants That Was Swallowed Up by Pacific. Quel che è certo è che pur essendo venuto a mancare
nel 1891, con molta probabilità non avrebbe avuto niente da invidiare al nostro archeologo
improvvisato sia per fama che per fonte d’ispirazione. Prima ancora che James Churchward si
guadagnasse – per così dire – le luci della ribalta infatti, Frederick O'Brien pubblicava nel 1922 Atolls
of the Sun: terzo di una serie di racconti di viaggio effettuati dall’autore, giornalista e girovago –
White Shadows in the South Seas (1919), Mystic Isles Of The South Seas (1921) –, ed opera all’interno
della quale O’Brien stesso, approfondendo l’indagine e l’esplorazione dei recessi più misteriosi delle
Isole del Sud del Pacifico, si sarebbe lasciato andare alle memorie di quell’antico continente
sprofondato che avrebbe risposto al nome di Pan:
«The vague science I possessed stimulated the memories of my reading of that oldest
civilization in tradition, the immense continent of Pan, which a score of milleniums ago,
according to the poet archaeologist, flourished in this Pacific Ocean. Its cryptogram
attended in many spots the discovery of a new Rosetta stone. I myself had seen huge
monoliths, half buried pyramids and High Places, hieroglyphs and carvings, certainly the
fashioning of no living races. Were these Paumotus, and many other islands from Japan
to Easter, the tops of the submerged continent, Pan, which stretched its crippled body
along the floor of the Pacific thousands of leagues? There were legends, myths, customs,
inexcplicable absences of usage and knowledge on the part of present peoples, all perhaps
capable of interpretation by this fascinating theory of a race lost to history before Sumer
attained coherence or Babylon made bricks. Over this land bridge, mayhap, ventured a
Caucasian people, the dominant blood in Polynesia to-day, and when the connecting links
in the chain to their cradle fell from the sights of sun and stars, the survivors were isolated
for ages on the islands like Tahiti and the Marquesas. On the mountain-tops, plateau
beneath the water, the coral insect built up these atolls until they stood in their wondrous
shapess plendid examples of nature’s self-arrested labor, sculptures of unbelievable
brillancy. To them came first Caucasians who had been spared in the cataclysm, and later
the new sailors of giant canoes who followed from Asia the line of islets and atolls,
fighting with and conquering the Caucasians, and merging into them in the course of
generations. These first and succeeding migrations must have been forced by devastating
natural phenomena, by terrible economic pressure, by wars and tribal feud.» (Frederick
O'Brien 1922, Atolls of the Sun, pp. 32-33)
Infondo come altrimenti ci si sarebbe potuti spiegare quello sconosciuto mondo facente parte delle
isole del Pacifico? Lo stesso Churchward affermò di averle approfonditamente studiate e visitate per
quanto all’interno dei suoi libri, e più nello specifico in The Lost Continent of Mu, riporti fedelmente
le osservazioni di O’Brien sulle caratteristiche etnologiche e mitologiche riscontrate negli atolli
visitati: scusandolo ovviamente, quando si trova a dover specificare che l’autore desse credito a chi
affermava che il genere umano avrebbe visto i suoi albori nel continente asiatico. Il giorno stesso e
quelli che seguirono l’annuncio iniziale risalente al 9 Novembre 1924, videro fioccare articoli su
articoli in merito all’incredibile scoperta dell’esploratore britannico: Motherland of Mankind at
Bottom of Pacific, says Scientist after Long Study apparso sul Buffalo Courier sempre il 9 Novembre;
Locates Eden in Lost Land – Continent of Mu swallowed by Pacific 13.000 years ago, says Colonel
Churchward, India Tablets tell story, sul New York American del 10 Novembre. Da lì a poco lo
studioso britannico avrebbe potuto persino iniziare a parlare delle sue scoperte durante il programma
radio della WNYC di New York del 12 Novembre, come annunciato da un corrispondente dello staff
dell’Universal Service, Francis J. Tietsort, in un articolo risalente al giorno prima comparso sullo
Shreveport Times. Da allora la sua comparsa sul programma radiofonico sarebbe diventata una
costante, suscitando scalpore ed interesse non soltanto attraverso le sue interviste, ma anche tramite
gli articoli che avrebbero iniziato a fare la loro comparsa sui giornali dell’epoca a partire dal 1925. Il
26 Luglio sul New York World un estratto dal libro che sarebbe avrebbe pubblicato l’anno seguente
si sarebbe accompagnato a riferimenti relativi alle letture fatte l’inverno precedente sulla WNYC, e
ben più interessante sarebbe poi stato Who Lived in America 50.000 years ago? comparso sullo stesso
giornale il 4 Marzo del 1928, dando una sottospecie di brevissimo excursus di ciò che alla fine era
poi stato pubblicato prima nell’edizione del ’26 e che sarebbe stato affrontato in futuro in quella del
‘31: il Nord America sarebbe stato colonizzato dalla razza bianca proveniente da Mu prima che il
continente sprofondasse a causa di un cataclisma legato non a delle inondazioni, ma al fenomeno
esplosivo causato da una camera sotterranea piena di gas sollecitato, a sua volta, da incredibilmente
profonde sacche vulcaniche che avrebbero surriscaldato l’aria aumentando la pressione gassosa sino
all’esplosione, causando così la distruzione della crosta e lo sprofondamento della Terra del Mu.
L’anno seguente un articolo comparso sul Kansas City Star avrebbe quindi rafforzato le teorie ed
alimentato la celebrità di Churchward grazie al contributo ed alla testimonianza del suo grande amico,
il Capitano Edward A. Salisbury: grande viaggiatore nelle Isole del Sud del Pacifico, e sostenitore
assoluto dell’esistenza di un continente sprofondato nell’Oceano, avrebbe persino paragonato il gran
sacerdote Ra-Mu al Mussolini dell’epoca, riportando fedelmente il lavoro dell’ingegnere britannico.
L’origine controversa di un articolo pubblicato dal Newspaper Feature Service nel 1931 ci riporterà
al rapporto fra Churchward e Niven: sappiamo che il primo si era interessato alle famose tavolette
dopo averne letto la notizia sui giornali, però in Tracing the First Love Story Back to Ancient Mexico
l’autore dell’articolo affermerebbe che il Colonnello sarebbe stato proprio contattato affinché gli
potesse essere affidato l’onore e l’onore di decifrare le famose tavolette. Con molta probabilità si
tratta dell’oramai a noi particolarmente familiare sottilissima linea fra realtà e finzione, in
Churchward infatti tutto manca fuorché la bassa autostima: in un Reader’s Report dell’11 Ottobre
1929 di cui ci è ignoto l’autore, ma che siamo certi si riferisca all’edizione del 1926 di The Lost
Continent of Mu, leggiamo per l’appunto pesanti critiche nei confronti dello stile espositivo
dell’ingegnere. Prima di tutto viene evidenziato che con molta probabilità il suo lavoro avrebbe avuto
molte più chances di rispettabile accettazione dalla comunità scientifica se si fosse rivolto al pubblico
in forma di suggerimenti ed ipotesi, anziché affermare che le sue conclusioni fossero assolutamente
probanti e definitivamente incontrovertibili. Una maggiore modestia avrebbe di certo aiutato, così
come possibilmente fare riferimento anche alla sua preparazione scientifica: ma come avrebbe potuto
se, come abbiamo già detto, le sue deduzioni e le sue geniali idee sarebbero per l’appunto derivate da
capacità medianiche? In conclusione chi si è occupato di questa recensione afferma di temere che
questo lavoro più che essere discusso avrebbe fatto ridere, e che non avrebbe assolutamente
raccomandato fosse pubblicato a meno che, ovviamente, l’autore non fosse disposto a pagare una
generosa cifra. Degni di appunto, per quanto non ci sia stato modo di risalire alla data di
pubblicazione, a portare la firma del Colonnello sarebbero stati altri due articoli, ambedue comparsi
sul Mount Vernon Daily Argus: in Synopsis of the Earliest History of Central America and Yucatan
ritroviamo i temi trattati sino ad adesso, mentre in The Sun is Not a Superheated Body, He Declares
la faccenda viene a farsi più intrigante. Secondo l’ingegnere infatti il Sole non sarebbe un corpo caldo,
poiché il calore, a suo dire, è proprietà insita ed esclusiva della Terra e della nostra atmosfera. La
nostra stella, dunque, è un corpo freddo ed altamente magnetico il cui calore proviene dal nostro
pianeta di riflesso. Non si trattasse di qualcosa in cui credeva fortemente il nostro Colonnello ci
potrebbe persino balenare per la mente l’ipotesi secondo la quale si tratti della trama di un romanzo
di fantascienza: un continente perduto il cui popolo avrebbe posseduto capacità extrasensoriali,
custode di una conoscenza estremamente avanzata; un Sole magnetico; la fantasiosa e controversa
geologia di fasce sotterranee e gassose che sarebbero state alla base dei cataclismi naturali a causa
dei quali sarebbero sprofondate sia la Terra del Mu che la sua colonia, Atlantide. Non dovrebbe
stupire dunque se la fantasia di James Churchward e le sue controverse speculazioni sarebbero
diventate estremamente attraenti per il mondo della letteratura contemporanea.
In che senso si potrebbe quindi iniziare a parlare di influenza, da parte di Churchward, in quella
che fu ed è stata la fantascienza statunitense? Prima di tutto occorre ripercorrere brevemente quella
che è la storia di un genere letterario che conobbe un grandissimo successo. Se in Europa si può
simbolicamente prendere come punto di riferimento il Frankenstein di Mary Wollstonecraft Shelley,
del 1818, ed affermare che il genere fantascientifico vide incarnare i suoi albori proprio in questo
romanzo, tramite gli influssi del goticismo e delle teorie evoluzionistiche introdotte dal nonno di
Charles Darwin, ovvero Erasmus Darwin – con il suo Zoonomia, pubblicato fra il 1794 ed il 1796 –,
allora per quanto riguarda l’America è importante citare Edgar Allan Poe e l’influsso che ebbe su
Jules Verne. La fine del XIX secolo, come abbiamo sino ad ora esaminato, è piena di quegli influssi
che se da un lato spronano ad una fiducia illimitata nei confronti della scienza, dall’altro lato della
medaglia minano delle sicurezze che vengono poi a confluire in una sottospecie di fame e sete per
l’ignoto, per l’incomprensibile, mescendosi in un pessimismo ambivalente estrinsecatosi poi tramite
H. G. Wells a partire dal 1894: avanzate macchine che avrebbero incarnato anche elementi
negativizzanti, spostando l’interesse dall’individuo alla società tramite i suoi racconti. Il genere di
narrativa analitica sfruttata dallo scrittore britannico ben si allontana dallo stile avventuroso che si
vedrà avanzato da Edgar Rice Burroughs – ideatore di Tarzan, nonché del suo Under the Moons of
Mars del 1912, in cui oltretutto troviamo parecchi dei temi teosofici razziali evidenziati nel primo
capitolo – che, dal canto suo, portò avanti con orgoglio quell’influenza di fiducioso progresso che
negli Stati Uniti stava prendendo così tanto piede. L’avvento dei pulp magazines dopo la crisi dei
dime novels indirizzò l’interesse dei lettori nei confronti delle riviste di massa che, da allora,
iniziarono ad avere sempre più successo. Se il primo pulp che si dedicasse completamente alla
narrativa sarebbe stato Argosy, comparso nel 1896, allora l’Amazing Stories fondato nel 1926 da
Hugo Gernsback sarebbe stato da considerarsi la culla del termine che lo stesso avrebbe in un primo
momento introdotto come scientifiction, definitivamente battezzando il genere come science fiction
poco tempo dopo. Lo scopo che si sarebbe prefissato Gernsback sarebbe stato da intendersi come
tentativo di raggruppare una tipologia narrativa che avrebbe abbracciato Verne, Poe, e Wells: non per
nulla i primi numeri avrebbero contenuto le loro storie, né al contempo ci sarebbe da stupirsi se
gradualmente la sua rivista sarebbe arrivata a divenire il caposaldo della fantascienza americana.
Dagli autori sopracitati sarebbe poi passato gradualmente ad introdurne di nuovi a partire dal 1928,
con E. E. Doc Smith, John Campbell – con lo pseudonimo di Don A. Stuart –, Jack Williamson ed
Edmond Hamilton. Nello stesso periodo iniziarono a sorgere altre riviste di grande successo come
Astounding Science Fiction, destinata a divenire il principale pulp magazine durante la golden age
della fantascienza americana: periodo infatti la cui nascita è da individuarsi nell’esatto istante in cui
John Campbell venne scelto per dirigere la rivista. La firma dell’autore era già da individuarsi in
numerosi racconti apparsi sull’Amazing Stories di Gernsback, quella che fra tutti ci interessa
maggiormente però risale al 1934, con la pubblicazione su Astounding Science Fiction di The
Mightiest Machine – Aarn Munro il Gioviano. Come già esaustivamente esaminato da Ciardi in Il
Mistero degli Antichi Astronauti, la storia ruoterebbe attorno alla figura di questo geniale inventore
figlio di terrestri anche se nato sul Pianeta Giove che, venuto in contatto con una razza extraterrestre
detta dei «Magyani», trovò in essa dei caratteri similari ai suoi: cercando di comprendere il perché di
questo arcano, scoprirà durante una chiacchierata con Anto Rayl, la storia della loro razza:
«Molti, molti “millia” (un periodo di mille giorni di trenta ora) fa, in un mondo posto al
di là del Vallo del Nulla, vivevano i nostri padri – cominciò Anto Rayl. Era un mondo
verde, grande su per giù come Magya (un tantino più piccolo, forse...) e formato di terre
prospere e di grandi mari. E in mezzo al mare più grande vivevano i Ma-jhay-anhu, la
razza madre. Le generazioni di questo popolo costruirono grandi città, eressero
monumenti maestosi e svilupparono una grande civiltà. Non avevano mire imperialistiche
e vivevano dentro i loro confini. Poi, con lo svilupparsi dei mezzi di comunicazione, e
specialmente con l’avvento dell’aviazione, i Ma-jhay-anhu cominciarono ad esplorare gli
altri continenti. In alcuni di questi i viaggiatori trovarono dei selvaggi irsuti e bestiali,
appartenenti ad una razza ben differente, molto simili alle scimmie. Poi venne l’anno della
calamità. Il suolo tremò, un grande crepaccio si aprì nel fianco del monte sacro dove erano
sepolti i capi dei Ma-jhay-anhu. E dal crepaccio emersero i Teff-Hellani. Erano questi i
discendenti di una razza bastarda, un incrocio degenere. Si riteneva che fossero il risultato
dell’evoluzione di un incrocio fra razze del tutto differenti, alla base delle quali dovevano
trovarsi, come procreatori, i caproni. Un milione di anni fa, forse, tali esseri erano stati
chiusi negli ipogei in un vasto sistema di caverne poste nel continente di Mahu. E là, nella
luce strana di elementi bizzarri, loro si svilupparono.» (Campbell 1965, I Figli di Mu, p.
65)
Il magyano Anto Rayl gli parlerà dell’eterna guerra fra le due razze, finendo con il raccontargli di
come, a causa di un tentativo fallito di Tsu-Ahs – l’ultimo grande capo dei Ma-jhay-anhu – per vincere
quell’eterna guerra, il continente di Mahu avrebbe finito con lo sprofondare. Per quanto l’assonanza
sia piuttosto lapalissiana, alla fine uno dei membri dell’equipaggio di Aarn Munro avrebbe finito con
l’identificare in quel continente niente che meno la mitica Mu:
«Naturalmente! Avete mai sentito parlare di Mu? Ecco cos’è rimasto di Mahu. Mai sentito
parlare dell’Isola di Pasqua e dei resti della grande città posta nel mezzo del Pacifico? E
chi furono, se non i Magyani, a costruire le grandi torri a Babilonia e le piramidi in
Messico? E perché mai i greci e le altre razze hanno sempre parlato di esseri che avevano
la testa e il tronco d’uomo e il resto di bestia?» (Ivi, p. 66)
Ancor prima della pubblicazione di Campbell però, nel 1931, H. P. Lovecraft già aveva messo nero
su bianco The Shadow over Innsmouth, sebbene avrebbe avuto accesso ad una prima pubblicazione
nel 1936 e soltanto poi nel Gennaio 1942, sulla rivista Weird Tales – comparsa la prima volta nel
Marzo del 1923. La storia, che si apre con la testimonianza del giovane Robert Olmstead, ruota
attorno alle vicende che hanno visto il ragazzo recarsi inizialmente nel New England per un viaggio
turistico, antiquario e genealogico, venendo a conoscenza dell’esistenza della piccola quanto
inquietante cittadina di Innsmouth soltanto una volta raggiunto Newburyport ad Arkham. Dopo aver
cercato di documentarsi sul paesino presso la biblioteca pubblica della città e scoprendo ben poco
sulla sua storia più recente, si interesserà ad uno strano gioiello la cui esistenza viene menzionata fra
le documentazioni: facente parte di una collezione presso il Museo della Miskatonic University e
conservati nella sala espositiva della Newburyport Historical Society, lo stile, la fantasia decorativa
a tema marino e grottesco ed il metallo che forma quella magnifica tiara fanno sorgere in lui un misto
di terrore e meraviglia. Recatosi dunque ad Innsmouth nonostante tutte gli avvertimenti, avrà modo
di incappare in Zadok Allen: un anziano beone divenuto folle ma che sfugge alla maledizione di
quella che il protagonista descrive come «maschera di Innsmouth», morbo misterioso che sembra
affliggere la schiva e diffidente popolazione del paese di pescatori tramutandone i tratti somatici.
Conversando seduti sui ruderi di un magazzino crollato presso la riva del mare, la visione dello
Scoglio del Diavolo convince il folle a raccontare la storia della decadenza della città e della sua
maledizione:
«Ecco dove è iniziato tutto, quel posto maledetto dove cominciano le acque profonde. E’
la porta dell’inferno... va giù a picco e non c’è scandaglio che riesca a toccarne il fondo.
La colpa è del vecchio capitano Obed: nelle isole dei mari del Sud ha trovato cose che
non fanno bene, nossignore, e non ne hanno fatto né a lui né agli altri! A quei tempi tutti
se la passavano male: commerci in fallimento, fabbriche che perdevano affari (anche le
più moderne), il fiore della nostra gioventù distrutta dopo essersi battuta alla disperata
nella guerra del 1812, o annegata nel naufragio della goletta Eliza e del brigantino
Ranger... Tutte proprietà dei Gilman. Obed Marsh, lui, aveva tre navi: il brigantino
Columbia, il brigantino Hetty e il veliero Sumatra Queen. Era l’unico che trafficasse con
le Indie Orientali e il Pacifico, anche se la goletta Malady Pride di Esdras Martin andò
laggiù per un viaggio non più tardi del ’28. Non c’è mai stato nessuno come il capitano
Obed, un vero briccone! Eh, eh, mi pare ancora di sentirlo parlare dei suoi viaggi.
Chiamava scemi tutti quelli che si comportavano come cristiani e sopportavano
umilmente i loro fardelli. Diceva che avrebbero fatto meglio a trovarsi dei migliori, come
quelli della gente delle Indie... dei che portassero tanto pesce in cambio dei loro sacrifici
ed esaudissero le preghiere per davvero. A Matt Eliot, il suo secondo, piaceva
chiacchierare come a lui... ma non voleva che facessimo riti pagani. Ci raccontò di
un’isola dove c’erano rovine tanto vecchie che nessuno sapeva a quando risalissero. Tipo
quelle di Ponape, nelle Caroline, ma con facce scolpite che somigliavano alle grandi
statue dell’Isola di Pasqua. Dalle stesse parti c’era una piccola isola vulcanica, dove si
trovavano altre rovine con sculture differenti... rovine consumate come dopo secoli di
immersione, e coperte di immagini di mostri disgustosi.» (H. P. Lovecraft 2015, Tutti i
racconti, pp. 785-786)
Attratto ed intrigato dalle ricchezze dei nativi di quest’isola misteriosa, Obed farà di tutto per scoprire
il loro segreto:
«Bé, signore... Obed venne a sapere che su questa terra ci sono cose di cui nessuno ha
mai sentito parlare, e nemmeno ci crederebbe se le sentisse. Pare che quei Kanaka
sacrificassero giovinetti e verginelle a una specie di mostri... dei-mostri che vivevano
sotto il mare. In cambio ottenevano ogni specie di favori. Si incontravano con i mostri
nella piccola isola con le strane rovine e sembra che le schifose immagini scolpite sugli
amuleti fossero il ritratto di queste creature. Magari sono mostri così che hanno fatto
nascere le leggende delle sirene che incantavano i marinai. Le creature avevano una
specie di città in fondo al mare, anzi molte città, e l’isoletta vulcanica era emersa dagli
abissi completa di rovine.» (Ivi, p. 786)
Dopo una serie di incontri con Walakea, il vecchio capo della popolazione indigena, Obed avrebbe
avuto modo di capire quale fosse il senso di quella sottospecie di patto che bisognasse suggellare con
quelle mostruosità. Lovecraft li chiama i Deep Ones, gli Abitatori del Profondo, sparsi in città
sottomarine sparse per il globo, ed in questo caso evidentemente situati fra i ruderi di quelle che
sarebbero da considerarsi le ultime vestigia del continente sommerso di Mu. L’interessante della
storia della Maschera di Innsmouth non si ferma certamente a questo, poiché Obed, contro ogni
consiglio da parte di Matt, avrebbe comunque deciso di stringere un patto con quelle creature
esattamente come avevano fatto Walakea ed i suoi progenitori: in cambio di sacrifici umani, ed in
cambio del permesso di mischiare il sangue umano con il loro, gli avrebbero promesso non soltanto
ricchezze ma anche la vita eterna. Infatti i figli ibridi pur nascendo sottoforma umana, raggiunta una
certa età avrebbero iniziato a palesare le somiglianze morfologiche di quelle creature metà pesci e
metà rana, mostruosi, ritornando all’oceano ed andando ad abitare nelle profondità dello stesso, in
particolare nelle città sommerse di cui, Y’ha-nthlei, lì di fronte ad Innsmouth sotto lo Scoglio del
Diavolo, è soltanto un esempio. Qualcosa va decisamente storto però:
«Poi, nel ’38 (quando io avevo sette anni), Obed tornò dall’isola dicendo che non c’era
più nessuno. Pare che gli abitanti delle isole vicine avessero mangiato la foglia e che
avessero risolto la faccenda a modo loro: immagino che avessero con sé i vecchi segni
magici, quelli che le cose-del-mare temevano... i segni degli Antichi. Da quelle parti, ogni
tanto il mare erutta isole con rovine più vecchie del diluvio. I nemici dei pagani avevano
agito a fin di bene, perché non avevano lasciato in piedi alcun monumento né sull’isola
principale né sull’isolotto vulcanico, salvo le rovine troppo grandi per essere abbattute.
In cerchi posti Obed e i suoi avevano trovato piccole pietre sparse, simili ad amuleti, con
sopra quelle che oggi chiamiamo svastiche. Forse erano i segni degli Antichi. Insomma,
da due isole erano spariti tutti i pagani e non c’era neanche l’ombra degli oggetti d’oro.
Quanto ai Kanaka dell’arcipelago, stavano abbottonati e non si riusciva a cavargli una
parola. Anzi, sostenevano che l’isola deserta era sempre stata abbandonata.» (Ivi, p. 788)
Questi «segni degli Antichi» di cui parla Zadok Allen non vengono certamente fuori dal niente. Posto
che il racconto sia stato completato da Lovecraft nel 1931 ed individuati tutti i punti in comune con
la teoria piuttosto diffusa dell’epoca relativamente l’esistenza di un continente antidiluviano nel bel
mezzo del Pacifico, aggiungiamo anche un articolo comparso sul Popular Science Monthly del Marzo
1928: Swastika may trace races to lost Pacific Continent. Stando al documento, la riprova del fatto
che sarebbe esistito il continente di cui parla James Churchward – che viene direttamente citato come
fonte autorevole all’interno dell’articolo – sta nella serie di simboli a forma di svastica disseminati
fra le rocce in America, in Asia, in Europa ed in Africa: in particolare i petroglifi nordamericani,
stando al nostro, non sarebbero stati compatibili con l’arte di tribù indiane piuttosto recenti, ma
sarebbero appartenuti ad una civiltà di molto più antica, ovvero quella che sarebbe esistita sul
continente sommerso nel Pacifico. E’ quindi piuttosto verosimile che H. P. Lovecraft si sia
direttamente ispirato a questi ritrovamenti e che, a modo suo, da buon scettico qual era, volesse
prendere un po' per i fondelli il Colonnello. Il suo contributo letterario nei confronti dell’estroso
ingegnere non si fermò certamente ai terrificanti eventi di Innsmouth, tutt’altro: Through the gates of
the Silver Key, racconto scritto nel 1932 anche se comparso sul Weird Tales nel Luglio del 1934,
mesce l’esperienza sia di Lovecraft che di E. Hoffmann Price tramite i viaggi intra-cosmici di
Randolph Carter: la fonte s’ispirazione promanante dalla corrente teosofica e dalle radici evolutive
blavatskiane trova apogeo nelle origini iperboree della chiave d’argento tramite la quale il
protagonista, il cui punto di vista viene narrato dalla misteriosa figura indù di Swami Chandraputra,
si muove di mondo in mondo, di cosmo in cosmo, esplorando le incarnazioni tramite cui poi fa ritorno
al 1928 – anno in cui è ambientato il racconto. La narrazione, ad eccezione del viaggio di Carter –
che in effetti richiama molto alla memoria Under the moons of Mars di Edgar Rice Burroughs,
risalente al 1912, particolarmente intriso di teosofia e teorie razziali –, è incentrato attorno alla
presenza presso la dimora dell’occultista, nonché grande amico dell’apparentemente scomparso
protagonista, Etienne-Laurent de Marigny, di altre tre persone: Aspinwall, Phillips e Swami
Chandraputra. I quattro esaminano ciò che Randolph Carter ha lasciato nella propria macchina prima
di scomparire nei pressi del «ciglio di un’antica strada coperta d’erba, fra le colline che sorgono alle
spalle della fatiscente Arkham»: una scatola scolpita tramite grottesche fantasie, ed una misteriosa
pergamena piena di strani geroglifici:
«De Marigny, impugnata la pergamena trovata nella macchina di Carter, prese la parola.
“No, non sono riuscito a decifrarla. Anche il signor Phillips, qui presente, ha dovuto
rinunciare. Il colonnello Churchward afferma che non è Naacal, e non somiglia affatto ai
geroglifici scoperti sulla clava di legno dell’isola di Pasqua. Le incisioni sulla scatola,
tuttavia, fanno pensare fortemente alle caratteristiche figure dell’isola di Pasqua.”» (Ivi,
pp. 1257-1260)
Quella Naacal è ovviamente la presunta lingua proveniente dalla terra madre dell’uomo ipotizzata da
James Churchward, dal Mu, ed è interessante osservare come ancora una volta i temi del linguaggio
presente nei glifi dell’Isola di Pasqua tornino ad essere presi in considerazione tramite questa
sottospecie di preambolo narrativo con cui, Lovecraft, maturerà nel suo universo un tema che poi
troverà forma effettiva in un racconto scritto assieme ad Hazel Heald l’anno seguente, nel 1933. Fatta
la sua comparsa sempre su Weird Tales nell’Aprile del 1935, Out of Eons narra la testimonianza
dell’allora curatore del Museo archeologico Cabot, a Boston, Richard H. Johnson:
«Ritengo che l’inizio dell’orrore risalga al 1879, molto prima che io diventassi curatore,
quando il museo acquistò una mummia orrenda e assolutamente misteriosa dalla
Compagnia Mercantile dell’Oriente. La scoperta era stata di per sé alquanto sinistra,
perché la mummia proveniva da una tomba d’origine sconosciuta, e di eccezionale
antichità, che sorgeva su una lingua di terra emersa improvvisamente dal fondo del
Pacifico.» (Ivi, p. 1307)
L’11 Maggio 1878 il comandante Weatherbee «facendo rotta da Wellington, in Nuova Zelanda, a
Valparaìso, in Cile, avvistò un’isola nuova e non segnata sulle carte, di evidente origine vulcanica.»
Una volta avvicinatisi i suoi uomini si sarebbero accorti dei segni di una prolungata immersione nelle
profondità dell’oceano, non mancando di individuare anche tracce di costruzioni oramai in rovina a
causa di probabili fenomeni sismici:
«Fra i detriti di cui l’isola era cosparsa spiccavano megaliti d’aspetto evidentemente
artificiale; un rapido esame permise di accertare la presenza di elementi architettonici
giganteschi come già sono stati trovati su altre isole del Pacifico, e che costituiscono un
perenne enigma archeologico. Alla fine i marinai entrarono in una grande sala di pietra
che doveva aver fatto parte di un edificio più grande e immerso profondamente nel
sottosuolo; in un angolo della cripta stava rannicchiata la mummia spaventosa. Dopo un
momento di panico, causato in parte da alcuni bassorilievi che ornavano le pareti, gli
uomini si lasciarono convincere a trasportare la mummia sulla nave, benché la toccassero
con timore e disgusto. Vicino al corpo, come se un tempo fosse stato infilato nelle sue
vesti, era un cilindro di metallo sconosciuto che conteneva un rotolo d’una sostanza
membranosa, bianca azzurra, altrettanto ignota, coperta di caratteri molto particolari
tracciati con un pigmento grigio e non identificabile.» (Ibidem)
Pickman, l’allora curatore del museo, fece in modo di acquistare sia la mummia che il rotolo, per poi
andare a controllare di sua sponte se ci fossero ancora tracce della misteriosa isola: con sua grande
delusione purtroppo, sia lui che i ricercatori che lo avevano accompagnato, «si resero conto che le
stesse forze sismiche che avevano improvvisamente catapultato l’isola dalle acque, l’avevano
trascinata ancora una volta nelle tenebre dove aveva riposato per milioni di anni». Ciò non toglie che
la mummia sarebbe stata esposta al pubblico a partire dal Novembre del 1879, nel relativo padiglione,
iniziando a far scaturire l’interesse che pian piano avrebbe iniziato a far fioccare le ipotesi sulla sua
provenienza:
«Ovviamente, scienziati di vario tipo fecero del loro meglio per classificare l’oggetto
spaventoso, ma sempre senza successo. Le teorie di una civiltà scomparsa nel Pacifico,
della quale le statue dell’isola di Pasqua e le costruzioni megalitiche di Ponape e NanMatol sarebbero le probabili vestigia, circolavano liberamente fra gli studiosi, e le riviste
scientifiche pubblicavano varie e a volte contrastanti teorie su un antico continente le cui
montagne più alte sopravvivrebbero oggi come gli arcipelaghi della Melanesia e
Polinesia. Le diverse opinioni sull’epoca in cui sarebbero fioriti l’ipotetica cultura
scomparsa e il continente che la ospitò, sono allo stesso tempo incredibili e divertenti; ma
nei miti di Tahiti e altre isole sono state scoperte allusioni più che significative.» (Ivi, p.
1309)
Churchward, come abbiamo già esaminato, era fortemente convinto del fatto che le Isole del Sud del
Pacifico rappresentassero l’ultimo baluardo della razza bianca che un tempo avrebbe per l’appunto
popolato il Mu. Ciò detto, l’avventuriero fece un ragionamento piuttosto azzardato sfruttando
presunte testimonianze indù relative al popolamento del Deccan da parte di questa fantomatica razza
bianca che, a sua volta, era giunta lì provenendo dalla loro terra madre: posizionata ad Est
rispettivamente alla Birmania, proprio da dove si troverebbe la Polinesia. Secondo l’ingegnere
britannico così facendo avrebbe dimostrato senza minimo dubbio che se la civiltà americana
proveniva da Ovest, e quella indù da Est, allora avremmo avuto una prova incontrovertibile
dell’esistenza di un continente scomparso al centro del Pacifico. Altro fattore di determinante
influenza per entrambi sono certamente le figure di «Ponape e Nan-Matol»: costruite sul basalto e sul
corallo, consistente in 100 isole artificiali al largo delle coste sudorientali dell’isola di Pohnpei, isola
sita nella Micronesia, Nan Madol è un affascinante mistero che, pur essendo stato parzialmente
svelato, ha ancora certamente molto da dirci. Certo, non si sta assolutamente alludendo al fatto che
potrebbe aver veramente fatto parte di un unico continente perduto assieme all’Isola di Pasqua, ciò
nonostante la sua esistenza ha certamente posto molte domande ai ricercatori. Il primo occidentale a
mettere piede sull’Isola di Pohnpei fu Pedro Fernandes de Quiro nel 1595, ma né nei suoi scritti di
viaggio né in quelli degli altri europei che navigarono in zona fu fatto alcun riferimento al sito di Nan
Madol. Il motivo è molto semplice: le rovine megalitiche in basalto di quella che viene chiamata la
Venezia del Pacifico occupano 175 acri di terreno completamente celato dalla vegetazione,
impossibile da individuare dal mare e nemmeno dalla terra. Le prime navi americane arrivarono in
Micronesia nel 1791, iniziando a cartografare l’arcipelago poco tempo dopo; mentre fra il 1850 ed il
1860 i maggiori frequentatori della zona sarebbero stati dei balenieri. Prima ancora di loro ci
giungono notizie dall’avventura di James O’Connell: giovane irlandese che naufragò nel 1826 in
Micronesia e che sopravvisse abbastanza da raggiungere Pohnpei. E’ sua la prima descrizione ed il
primo accenno al sito di Nan Madol, all’epoca chiamato Nan Matol: stando alla sua esperienza – che
mise per iscritto dopo che fu salvato da una nave di passaggio nel 1837 – sarebbe riuscito a convincere
i locali a fargli visitare la città su cui continuava ad udire leggende. Ci volle un po' di tempo, ma al
contrario dell’esperienza di Churchward che, purtroppo, ci ha lasciato con un pugno di mosche nel
merito della localizzazione del tempio buddhista dove avrebbe trovato le sue tavolette Naacal, nel
caso di O’Connell la fortuna arrise agli audaci lasciandoci la preziosa testimonianza della città sacra
dei locali. Le rovine ciclopiche si compongono di un centinaio di isolotti artificiali su cui sorgono
strutture rettangolari basaltiche collegate fra loro da canali artificiali, per un’estensione di circa 18
km2. La città sacra sarebbe stata l’antica capitale sacra della dinastia Saudeleur, motivo per cui tutt’ora
è considerata e vista sotto una luce di reverenziale timore dalle popolazioni autoctone; inoltre, se
vogliamo parlare in termini di leggende e miti sull’esempio del nostro James Churchward, allora
possiamo fare tranquillamente riferimento ad una leggenda di Pohnpei secondo la quale l’Isola
sarebbe stata popolata da una razza nera proveniente da Ovest: non certamente da una razza bianca
proveniente dall’Est – ulteriore prova a sostegno di questa tesi è stato il ritrovamento di antichi resti
umani di morfologia negroide. Ciò nonostante, come sarà approfondito più avanti, molti autori che si
sarebbero prefissati il compito di compilare delle disamine sul lavoro e sulle teorie di Churchward
avrebbero erroneamente preso per vere delle incorrettezze provenienti da parte del Colonnello:
Kolosimo in Non è terrestre, e Charroux sbaglieranno proprio in questo.
Rituffandoci in Lovecraft e nel suo racconto, fingiamo di dimenticarci la verità sui ritrovamenti a
Nan Madol: le tradizioni illustrate nel passaggio sopracitato vengono a far parte dell’eredità del Mu
inserendosi in quelle che sono le conoscenze esoteriche presenti nei Culti innominabili di Von Junzt
– pseudobiblia comparso per la prima volta in Robert E. Howard nel 1931, nel suo Figli della Notte.
Studiosi ed occultisti – a seguito del grande scalpore suscitato dall’articolo uscito il 5 Aprile
nell’edizione domenicale del Pillar che, portando la firma del giovane Stuart Reynolds, avrebbe
fomentato la fantasia dei più tramite «una verniciata di dottrine teosofiche e una certa passione per le
teorie di scrittori come il colonnello Churchward e Lewis Spence a proposito di continenti perduti e
civiltà dimenticate» – avrebbero dunque individuato rassomiglianze linguistiche fra i glifi presenti
all’interno del Libro Nero o i Culti Innominabili con ciò che compariva sul cilindro, spronando il
protagonista a leggerlo e scoprire quindi l’occulta ed inquietante verità:
«Gli antichi racconti riferiti nel Libro nero, tutti collegati a simboli o disegni affini a quelli
del nostro cilindro e del rotolo che conteneva, erano del tipo che lascia sbalorditi e non
poco intimoriti. Superando un abisso di tempo che aveva dell’incredibile e spingendosi
al di là di tutte le civiltà, razze e paesi che conosciamo, essi si accentravano intorno a una
nazione e a un continente svanito in un’epoca incerta e favolosa, all’alba del mondo... il
continente che le leggende chiamano Mu, e che le antiche tavolette nel primitivo
linguaggio Naacal affermano essere fiorito duecentomila anni fa, quando l’Europa
ospitava solo creature ibride e nella perduta Iperborea si celebravano i riti senza nome in
onore dell’amorfo, nero Tsathoggua.» (Ivi, p. 1312)
Una provincia fra tutte era considerata la più sacra: K’naa infatti avrebbe ospitato «le nude pareti di
basalto del monte Yaddith-Gho, sormontato da una gigantesca fortezza di megaliti infinitamente più
antica dell’umanità e costruita dalla stirpe extraterrestre del nero pianeta Yuggoth, che aveva
colonizzato il nostro mondo prima della nascita della vita sulla terra». Questa antica stirpe, dopo la
sua scomparsa, si sarebbe lasciata dietro il loro Dio, Ghatanothoa, una creatura grottesca e terribile
che il popolo di K’naa avrebbe dovuto continuare a tenere a bada tramite dei sacrifici umani: «Grande
era il potere dei sacerdoti di Ghatanothoa, perché da loro soli dipendeva la preservazione di K’naa, e
di tutta la terra di Mu, dal rischio che Ghatanothoa il pietrificatore emergesse dai suoi labirinti
sotterranei.» Un eroe tuttavia sarebbe entrato in gioco: il suo nome era T’yog, gran sacerdote di ShubNiggurath, una delle divinità positive; deciso ad opporsi al malefico dio extraterrestre ed ispirato dalla
Dea Madre, «T’yog scrisse una formula misteriosa nell’arcano linguaggio Naacal del suo ordine: egli
riteneva che il suo possessore sarebbe diventato immune al potere pietrificante del Dio Oscuro.»
Ovviamente il suo atto non sarebbe stato visto di buon occhio dalla casta sacerdotale dei devoti a
Ghatanothoa e, Imash-Mo, l’Arciprete, optò per un sotterfugio tramite cui avrebbe scambiato
l’incantesimo indosso a T’yog con uno fasullo ma vergato nei medesimi caratteri, che ovviamente
non avrebbe avuto effetto. L’eroe quindi fallì e non fece mai ritorno:
«Col passare degli anni l’inganno di Imash-Mo venne scoperto dal popolo, ma questo non
modificò il sentimento generale: era meglio non opporsi a Ghatanothoa. Nessuno osò più
sfidarlo. Passarono i secoli e re succedette a re, Arciprete ad Arciprete; nuove nazioni
conobbero la gloria e la decadenza, nuove terre emersero dalle acque per sprofondarvi
ancora. Col passare dei millenni la terra di K’naa conobbe la decadenza, finché alla fine,
in un terribile giorno di tuoni e tempesta, di boati spaventosi e onde alte come montagne,
l’interno continente di Mu s’inabissò per sempre.» (Ivi, p. 1316)
Il culto però non scomparve come il continente in cui vide i suoi albori. L’idea di religione primigenia,
capostipite di tutte le altre, è ovviamente lapalissiano riflesso delle speculazioni di Churchward
quando ci parla dei simboli scolpiti sui ruderi di pietra delle Isole dei Mari del Sud, citando anche
soltanto per amor di specificità il fatto che i testi sacri di tutto il mondo derivino dalle «Sacre Scritture
della Madreterra che i Naacal portarono nelle colonie del Mu in tutto il mondo 70.000 e più anni fa»
(Churchward 1975, p. 128). Lovecraft infatti non si fa certamente sfuggire l’occasione per parlare di
una religione che si sarebbe diffusa nel mondo:
«Benché il culto fiorisse principalmente nelle regioni del Pacifico dove un tempo era sorta
la stessa Mu, echi della religione segreta e temuta di Ghatanothoa circolavano nella
predestinata Atlantide e sull’aborrito altopiano di Leng. Von Junzt sosteneva che la sua
presenza si era perpetuata nella favolosa regione sotterranea di K’n-yan e forniva prove
incontrovertibili della sua penetrazione in Egitto, Caldea, Persia, Cina, nei dimenticati
imperi semiti d’Africa e, nel Nuovo Mondo, in Messico e Perù. [...] In un modo o
nell’altro riuscì a sopravvivere nell’Estremo Oriente e sulle isole del Pacifico, dove i suoi
insegnamenti si mescolarono alle tradizioni esoteriche degli Areoi polinesiani.» (Ivi, pp.
1316-1317)
Pur essendo pressoché noto lo scetticismo di H. P. Lovecraft, continuano senz’altro a meravigliare
gli intrighi fantasiosi che nella sua mente sapevano assumere la forma di perfette unioni fra le sue
letture e l’universo che stava parallelamente mettendo al mondo. Furono numerosi i rapporti epistolari
tramite i quali avrebbe per l’appunto messo nero su bianco la sua idea nichilista e cinica del mondo,
nonché chiarendo nettamente la sua posizione nei confronti delle pseudoscienze e dell’occultismo –
come scrisse in una lettera diretta a Clark Ashton Smith il 9 Ottobre del 1925 – da cui affermava con
convinzione di dissociarsi per quanto, dal canto suo, le trovasse piuttosto utili ed ispiranti laddove le
si affrontasse nelle loro tematiche speculative.
Di forse stesso avviso avrebbe potuto dirsi Fredric Brown quando, nel 1949, avrebbe pubblicato su
Astounding Science Fiction il tanto affascinante quanto breve racconto Letter to a Phoenix. Come
dice il titolo stesso, si tratta di una lettera diretta al lettore. Chi la scrive afferma di non essere un vero
immortale, ma di aver vissuto 180.000 anni durante i quali ha vissuto ben 4000 esistenze. Il motivo
di una tale longevità è fondamentalmente concesso da un incidente avvenuto durante la seconda
guerra atomica che ha avuto modo di combattere: prima di essa e prima dell’incidente infatti il
giovane ventenne avrebbe sofferto di una grave malattia alla ghiandola pineale che gli avrebbe
accorciato di parecchio la vita. Dopo il trauma radioattivo e le ustioni invece sarebbe completamente
guarito e non solo, avrebbe cessato di dormire definitivamente. Si sarebbe addormentato soltanto ogni
trent’anni, finendo con il dormirne sedici; scoperto, dopo aver studiato 150.000 anni prima
endocrinologia, che non solo era guarito dalla sua malattia ma che le radiazioni avrebbero diminuito
in maniera abnorme il suo processo di invecchiamento così da «invecchiare al ritmo di un giorno ogni
quarantacinque anni», sarebbe sopravvissuto «a sette delle peggiori guerre atomiche – e
superatomiche – della storia, di quelle che hanno ridotto la popolazione della Terra a pochi selvaggi
riuniti attorno ai rari fuochi delle poche zone ancora abitabili.» Questa lettera ci svela l’immortalità
della razza umana, il fatto che nonostante in tutte le sue vite abbia avuto modo di scoprire altre civiltà
disseminate per l’universo, abbia constatato per esperienza che quella umana sia la sola ad aver
«raggiunto un livello d’intelligenza senza raggiungere anche un alto livello di sanità mentale.» Noi
esseri umani siamo la fenice che dalle sue ceneri riprende vita:
«Se davvero è così, tutto ciò non fa che rafforzare la mia tesi: può darsi che il genere
umano sopravviva da più dei centottantamila anni di cui sono stato testimone io, può darsi
che sia sopravvissuto a più dei sei conflitti finali che hanno avuto luogo da quando ho
creduto di essere stato io il primo a scoprire la pira della fenice. Ma il passato non conta:
il nostro seme è così diffuso tra le stelle che se anche il nostro sole morisse o diventasse
una nova noi non avremmo fine. Lur, Candra, Thragan, Kah, Mu, Atlantide: queste sono
le civiltà che ho conosciuto, scomparse totalmente come tra ventimila anni o poco più
scomparirà anche questa civiltà. Eppure, qui o in altre galassie, la razza umana
sopravviverà e vivrà per sempre.» (Fredric Brown 2007, Lo Scrittore delle Stelle, p. 197)
In millenni di vita chi scrive ha visto nascere e crollare nazioni ed inabissarsi continenti, continuando
tuttavia a veder sopravvivere il genere umano. Così come Lin Carter, prosecutore dell’universo
Lovecraftiano soprattutto tramite The Thing in the Pit, pubblicato per la prima volta in Lost Worlds
nel 1980: la narrazione riprende i passi da ciò che accadde a seguito dello scontro fra T’yog e
Ghatanothoa. Zanthu, gran sacerdote del culto di Ythogtha, intende a tutti i costi opporsi al culto della
mostruosa divinità pietrificatrice, quindi incappa in un pericolosissimo e difficilissimo rituale che,
però, sente di dover compiere. Quindi si dirige in un tempio segreto nelle profondità della terra dove
evoca una creatura orripilante e vermiforne che, tuttavia, gli fornirà le ultime informazioni necessarie
a far sì che il suo dio possa essere evocato: risvegliato Ythogtha tuttavia, un cataclisma si abbatte sul
continente, e Mu finisce con l’inabissarsi. Non ha ricevuto particolare seguito o successo come
racconto, anzi, parrebbe aver fatto storcere il naso a molti dei seguaci dell’universo lovecraftiano ed
ashtoniano.
In termini di divulgazione scientifica invece, ben prima della pubblicazione di Lin Carter,
incappiamo in un fenomeno contemporaneo e piuttosto affine all’atteggiamento mentale di Lovecraft:
due celebri nomi nel campo della fantascienza, Willy Ley e Lyon Sprague de Camp, avrebbero
introdotto un punto di vista in totale opposizione a quello che fu il grandissimo successo avuto da
Charles Fort e dal suo Libro dei Dannati, pubblicato nel 1919. Basti dire a riguardo che con “dannati”
si sarebbe inteso riferirsi a tutti quei fenomeni fondamentalmente inspiegabili e sin troppo scomodi
per la scienza ufficiale di cui, da buon collezionista qual era, raccolse testimonianze sino a mettere
per iscritto un’opera decisiva a tal riguardo. Nella sua disamina troviamo ovviamente tutti gli elementi
che diverranno propri della fantarcheologia: OOPART, l’idea dell’influsso alieno sulla terra, e così
via. Lovecraft in una lettera a Willis Conover del 18 Luglio 1936, sottolineerà con particolare enfasi
il fatto che molti dei personaggi dell’epoca – fra cui Charles Fort, James Churchward, Donnelly e
così via – fossero o «degli autentici falsari» oppure «dei fanatici autoconvinti.» Alla luce di ciò «i
saggi di Ley e de Camp si distinsero, oltre che per la qualità della prosa, sempre scorrevole e godibile,
per il rigoroso approccio storico e scientifico nei confronti degli argomenti affrontati.» (Ciardi 2017,
pp. 71-91) Nel 1952 avrebbero quindi dato alle stampe Lands Beyond: A Fascinating Expedition into
Unknown Lands il cui primo capitolo sarebbe stato proprio dedicato ad Atlantide, con qualche
doveroso accenno al lavoro di Churchward:
«Fu poi la volta di James Churchward, un esile anglo-americano dall’aria spettrale che,
nel 1926, quando ormai aveva superato la settantina, fece la sua comparsa nel mondo
delle lettere, dando alle stampe The Lost Continent of Mu (“Il continente perduto di Mu”),
cui fecero seguito parecchi altri libri sullo stesso argomento. Il Churchward si faceva
chiamare “colonnello” e pretendeva d’aver percorso in lungo e in largo l’America
Centrale (dove uan volta era stato assalito da un serpente volante!) e l’Asia. Partendo
dalle fandonie del Le Plongeon e dello Schliemann, egli affermò d’aver letto le “tavolette
Naacal” in India o nel Tibet, e fantasticò di due continenti perduti: Atlantide
nell’Atlantico e Mu nel Pacifico, sconcertando gli “atlantisti” della generazione
precedente per l’insolito uso fatto del nome Mu.» (Sprague de Camp – Willy Ley 1962,
Le Terre Leggendarie, pp. 17-18)
Di certo Hutin non si sarebbe potuto dire particolarmente entusiasta di questo genere di constatazione,
soprattutto partendo dal presupposto che avrebbe totalmente contrastato l’ipotesi di una completa e
totale mistificazione da parte del Colonnello. L’importanza di questo lavoro è tuttavia da ricercarsi
nel tentativo di chiarimento mirato ad una divulgazione pulita da parte di due specialisti del campo:
scrittori di fantascienza si, mistificatori ed entusiasti, assolutamente no. Le potenzialità che avrebbe
la fantasia infatti vengono deturpate da parte di chi tenti di vedere qualcosa anche se quel qualcosa
non c’è affatto: ci si limitasse a lasciare al mondo della narrativa le pseudoscienze, di certo molte
sarebbero le idee e generosamente ricchi i risultati. Basti pensare al mondo cinematografico ed a tutta
quella serie di scrittori di thriller-archeologici che hanno sfruttato misteriose scoperte per crearvi
sopra qualcosa di unico: certo, s’intende coloro che si fossero mossi in buona fede. Un contemporaneo
James Rollins molto più recentemente, nel 2001 per l’esattezza, avrebbe riportato a galla il mito di
Mu tramite la figura di uno dei due protagonisti dell’Ultima Eclissi: Karen Grace, ricercatrice ed
antropologa canadese affascinata dal mondo della Micronesia, cosciente di essere nientemeno che la
bisnipote di James Churchward. Il romanzo si colloca all’alba di un’eclissi a seguito della quale la
terra sarebbe tremata lungo tutta la cintura del fuoco: isole sarebbero sprofondate mentre altre
sarebbero venute a galla, proprio come i monumenti Yonagumi, scoperti casualmente nel 1986
durante una comunissima immersione al largo delle coste meridionali del Giappone. La singolare
conformazione delle piramidi sottomarine suggerì un’architettura estremamente simile alle piramidi
a gradoni Maya: motivo per cui Rollins le sfrutta come luogo di ritrovamento, da parte della studiosa
e della sua amica nonché specialista mondiale in intelligenze artificiali, di tracce di una scrittura
antichissima molto simile al rongorongo. Oggi ovviamente il mistero è stato svelato: la
conformazione è dovuta a fenomeni geomorfologici dovuti anche alla degradazione meteorica; negli
anni del ritrovamento invece la struttura architettonica colpì a tal punto le masse da valerle il nome
di Atlantide del Giappone. Ovviamente il resto del romanzo sarà incentrato sulla lotta contro il tempo
per decifrare i glifi e scoprire cosa accadde veramente nel Pacifico: Karen è fortemente convinta
dell’innocenza del celebre bisnonno, e cercherà con tutte le sue forze di provare che fosse nel giusto
quando ipotizzava che le ultime vestigia dell’antichissima Mu fossero le Isole del Pacifico.
Le redini delle ricerche di James Churchward sembra fossero state prese dall’idrologo francese
Louis-Claude Vincent che, nel 1969, avrebbe pubblicato due volumi piuttosto corposi sull’argomento
– Le paradis perdu de Mu – affermando oltretutto che l’inondazione dell’Atlantide del Pacifico
sarebbe avvenuta come conseguenza della rotazione dell’orbita terrestre di 90° a seguito dell’impatto
di un meteorite. Inoltre sembra non siano mancati clamorosi falsi come ad esempio il lavoro di un
certo Tony Earll con il suo Mu Revealed: il nome sarebbe stato l’anagramma di «Not Really».
3.2. L’interesse italiano
Le scoperte del Colonnello James Churchward non tardarono a giungere sulla nostra penisola.
Infatti, con l’arrivo il 26 Novembre 1924 di una corrispondenza newyorkese del Daily Express a
Londra, giunse anche la notizia della scoperta del continente perduto che, il giorno seguente, sarebbe
stata poi pubblicata sullo stesso giornale – Flying machines 10.000 BC, Continent lost in the Pacific,
Wonder Palaces, Garden of Eden under the sea – facendo la sua contemporanea apparizione anche
sul parigino Le Matin – Le Secret de tablettes hindoues, le beceau de l’humanité un vaste continent
tropical sombra dans le Pacifique il y a 13.000 ans. Dans cet empire du Soleil les armées disposaient
déjà de machines aériennes et d’armes à feu. Quello stesso giorno, il 27 Novembre, nell’edizione
pomeridiana del Corriere della Sera, l’articolo stampato avrebbe quindi risposto al titolo di Il
Paradiso Terrestre perduto per sempre nell’Oceano Pacifico. Ovviamente non si può affermare che
in Italia già non esistessero i presupposto per immaginare che una notizia del genere non avrebbe
nutrito un corposo gruppo di appassionati: il fatto che spesso e volentieri la localizzazione del
continente della Lemuria fosse stata considerata intercambiabile con la posizione nel Pacifico –
fondamentalmente questo genere di fonti venivano manipolate e strumentalizzate a seconda di quale
fosse l’ispirazione del momento, dobbiamo infatti ai teosofi il “rapimento” della Lemuria a scopo
esoterico ed occulto – confuse e non poco, portando infatti alla comparsa di articoli come quello di
Arnaldo Cervesato prima su La Vita Internazionale del Maggio 1923, sotto il titolo di Il Mistero
dell’Isola di Pasqua, poi rielaborato e ripreso sulla rivista Italia Marinara, diretta da Achille Starace,
dell’Agosto del 1939, con la medesima testata. Individuiamo poi una ripresa dell’articolo tratto dal
Le Matin del 27 Novembre 1924 nel fascicolo di Maggio-Giugno 1925 della rivista teosofica Gnosi:
Rivista trimestrale di Teosofia, unitamente a quelle che sono informazioni in merito a quelli che
all’epoca furono recenti scavi nel sito dell’attuale San Cuicuilco, ripresi dal The Theosophist inglese
in cui l’anno prima venne pubblicato Recent discoveries in Mexico: le informazioni riportate sono
identiche negli articoli di ambedue gli anni, l’unica differenza sta essenzialmente nel fatto che con la
pubblicazione su Gnosi la scoperta di Churchward viene affiancata a quella di Cuicuilco, iniziando
ad assumere i contorni occultistici ed esoterici nella cui forma si erano già manifestati negli Stati
Uniti l’anno precedente:
«Altre importanti recenti scoperte sono state fatte nel Messico, le quali soverchiano tutte
le opinioni fin’ora stabilite sulla storia della nostra terra sull’antichità delle civiltà
successive e sul loro carattere. I dati forniti dalla Bibbia sull’originale dell’uomo e sulla
distanza che ci separa dalle prove che emergono dal seno della terra, mentre i dati della
Dottrina Secreta vengono di giorno in giorni confermati. Grazie alle ultime scoperte del
Messico l’esistenza dell’Atlantide pare ormai definitivamente provata.» (Gnosi MaggioGiugno 1925, p. 119)
Strano in effetti che la notizia non faccia parte dello scrapbook di Churchward: il numero di ritagli di
articoli raccolti qui e là sull’argomento scavi e scoperte archeologiche nord, meso e sudamericane è
tale da suggerire il dubbio che il viaggio esplorativo in zona da parte di Byron Cummings o sia andato
perso, o non sia stato catalogato dal pronipote, oppure molto banalmente non sia stato considerato
degno di nota dal nostro.
Fra il 1934 ed il 1937 la spedizione dei fratelli Bruce e Sheridan Fahnestock nelle Isole del Pacifico
non mancò certamente di alimentare l’immaginario collettivo: nelle Fiji infatti disseppellirono dei
frammenti incisi con dei glifi sconosciuti che sarebbero originariamente appartenuti ad un unico
monolite, facendoli passare alla storia come le Pietre di Ndakunimba. Questa scoperta non c’è dubbio
che riscosse un grandissimo successo, tant’è che se il 19 Ottobre del 1937 sul The News and Observer
compariva la notizia del rientro dei Fahnestock contemporaneamente alla loro misteriosa scoperta, il
4 Novembre dello stesso anno su Stampa Sera ed il Corriere della Sera comparivano titoli
rispettivamente come Un Continente preistorico fra l’America e l’Oceania e Vestigia d’un continente
scomparso nel Pacifico? Il ritrovamento sulle Fiji non avrebbe fatto altro che divenire quell’ulteriore
tassello che, in compagnia delle scoperte sull’Isola di Pasqua, si sarebbe accodato a tutta quella serie
di teorie sulla possibilità che potesse essere esistito un continente proprio lì: dove James Churchward
aveva raccolto parzialmente le prove a sostegno della sua celebre tesi. Com’era possibile che Isole
così tanto distanziate condividessero tali somiglianze fra linguaggio, ritualità ed usanze?
L’iconografia della svastica a cui si fa riferimento in questi articoli compare anche nell’oramai
defunto esploratore come si è evidenziato nel sottocapitolo precedente, in merito alla notizia
comparsa sul Popular Science Monthly del Marzo 1928 sull’ipotesi delle svastiche nordamericane:
chissà che gioia avrebbe provato leggendo della scoperta dei Fahnestock! Riprendendo Cervesato e
l’articolo su Italia Marinara dell’Agosto 1939, è certamente ovvio che facesse riferimento alla
scoperta dei due fratelli:
«La presenza di monumenti così giganteschi in una isola così piccola e l’uso di una
scrittura indipendente da tutti gli altri sistemi noti, hanno fatto pensare ad alcuni autori
che l’Isola di Pasqua fosse – ripeto – l’ultimo vestigio di un continente nel quale si sarebbe
sviluppata una civiltà a sé. Così, recenti notizie giornalistiche segnalano che la spedizione
nordamericana Fahnestock, nella zona del Sud del Pacifico, ha scoperto vestigia che
riconfermano la scomparsa di un Continente che sarebbe esistito in epoche preistoriche
tra l’America e l’Oceani. E’ stato scoperto, tra l’altro, un simbolo avente la forma di una
enorme croce svastica scolpito in una roccia monolitica di circa quaranta tonnellate,
trovata in una delle isole dell’arcipelago Fidji, evidentemente opera di mano umana. Oar,
la fattura di questo lavoro si ricollega con quelle di minori sculture scoperte dalla
spedizione Metraux nell’Isola di Pasqua.» (Arnaldo Cervesato 1939, Il Mistero dell’Isola
di Pasqua, p. 237)
Si accenna poi alla medesima spedizione sull’Isola di Rapa Nui anche negli articoli precedentemente
citati apparsi su Stampa Sera ed il Corriere: il cosmopolita Alfred Métraux, etnologo ed antropologo
di notevole talento, diresse proprio un viaggio esplorativo francese all’Isola di Pasqua fra il 1934 ed
il 1935. Il linguaggio rongorongo, tutt’ora un mistero a causa della scarsissima quantità di
documentazioni che riportino i glifi, venne per l’appunto affiancato al ritrovamento effettuato dai
Fahnestock nelle Fiji in quanto visibilmente molto simile. E’ interessante notare che questo genere di
informazione prenderà talmente tanto piede da portare alla comparsa di un altro articolo il 10 Febbraio
del 1938, sull’edizione pomeridiana del Corriere della Sera:
«[...] La scoperta, che è stata fatta precisamente nell’isola Vanna Lew, una delle tante del
gruppo delle Figi, ha dato origine a due ipotesi. La prima fa pensare ad una civiltà che
abbia dominato in quell’arcipelago e che si sia estinta molti secoli addietro; la seconda,
invece, riguarda l’esistenza di un continente che, abitato da genti progredite, fu inghiottito
per un movimento tellurico, od altro cataclisma, dell’oceano. Questa seconda ipotesi
appare più probabile, oltre che per la morfologia dell’arcipelago e di quelli vicini, anche
per il sopravvivere fra quegli indigeni di una vecchissima leggenda che parla
precisamente di altre genti, di altre civiltà e di una terra inghiottita dal mare.» (Corriere
della Sera, 10 Febbraio 1938)
Ciò che salta immediatamente all’occhio è il modo in cui viene liquidata l’ipotesi banalmente più
semplice, scegliendone una ben più fantasiosa ma che si abbini perfettamente al clima di mistero che
sino a quel momento stava invadendo l’immaginario collettivo: non stupisce infatti se, sempre nel
1938, Giorgio Bottinelli all’interno del suo Fantasie Cosmiche, edito per la prima volta nello stesso
anno e ripubblicato nel 1941, avrebbe parlato piuttosto a lungo di Mu affiancandola ad Atlantide:
«Nell’oceano Pacifico esistevano due grandi continenti: Mu, del quale attualmente non
rimane che l’Isola di Pasqua, ed altro continente, alquanto meno esteso, situato fra le coste
del Giappone e quelle dell’Australia. Varianti di minore importanza presentavano le cose
dell’Europa, dell’Asia e dell’America del Sud. L’Atlantide e Mu erano le regioni dove,
in quei lontanissimi tempi, si svolgeva più intensa l’attività umana. La fertilità del suolo,
le favorevoli condizioni climatiche e l’intelligenza degli abitatori, avevano creata e
sviluppata una fiorente civiltà che si era poi diffusa nelle regioni circostanti. I navigatori
dell’Atlantide avevano raggiunge, ad oriente, le coste dell’Africa, spingendosi fino
all’Egitto e all’Etiopia, ad occidente quelle dell’America; e gli abitanti di Mu avevano
esteso il loro dominio fino al Giappone, alla Cina e all’India.» (Bottinelli 1941, pp. 4748)
Potrebbe essere interessante segnalare anche il fatto che Bottinelli faccia convivere i due continenti
nel medesimo spazio temporale, facendoli poi affondare e scomparire a causa delle medesime
catastrofi naturali. Il rapporto fra i due continenti mitici in effetti subisce una serie di mutamenti in
corso d’opera: se prima di Churchward Atlantide era considerata sottoforma e corrispondente ad una
delle fasce evolutive del nostro mondo e del genere umano, con il nostro avventuriero il continente
platonico diventa una Colonia di Mu, per poi più avanti diventare un’avversaria dell’Isola nel
Pacifico, facendo scaturire tutta quella serie di romanzi come ad esempio Operation Time Search di
Andre Norton, del 1967, all’interno del quale il protagonista contemporaneo finirà indietro nel tempo
e parteciperà ad una guerra fra Mu e Atlantide.
Sembra che a partire dall’interesse nei confronti delle scoperte yucateche, il fascino abbia iniziato
gradualmente a promanare dalle esplorazioni che pian piano stavano aumentando di numero, di
importanza, e di scientificità per certi versi. Questo diffusionismo recalcitrante continuava a farsi
sentire con prepotenza nell’establishment pseudoscientifico dell’epoca tanto in Italia quanto nel resto
del mondo, e se già fra il Settembre e l’Ottobre del 1937 il mitico continente inghiottito dalle acque
del Pacifico entrava nell’immaginario militare italiano grazie a Giuseppe Mormino – Ufficiale
dell’aeronautica e poi collaboratore di vari periodici come Il Messaggero, Il Giornale d’Italia e
Secolo XX –, riportando le gesta fantascientifiche del mitico generale Ramchander e del suo
antichissimo volo dal Ceylon all’India Settentrionale – comparso su Rivista della Cultura Marinara
parlando di Mu in Storia dell’aeronautica dall’antichità ad oggi, riprendendo le informazioni apparse
sul Corriere della Sera del 1924 –, nell’Aprile dell’anno seguente L’Universo avrebbe fatto
nuovamente comparire la terra di Churchward in La Scoperta di un misterioso monolite nell’Isola
Fiji, su L’Universo:
«Le ipotesi affacciate sono due. La prima di una civiltà scomparsa; l’altra di un continente
sprofondato, che nelle tradizioni dell’Isola è chiamato Mu e che in un remoto passato
potrebbe aver riempito questa parte dell’Oceano.» (L’Universo, Aprile 1938)
Lo studio dell’arcipelago delle Fiji e dell’Isola di Pasqua ha quindi pian piano levato le vele in
direzione di un retaggio che le avrebbe fatte passare alla storia come ruderi di un antico continente
andato perduto anche qui, in Italia: le prime per via dei misteriosi petroglifi, la seconda per le sue
immense statue e per l’aura di mistero indissolubilmente vincolata al rongorongo ed all’impossibilità
traduttiva dello stesso.
Scoperta nel 1722 nel giorno di Pasqua dall’esploratore olandese Jacob Roggeven, l’Isola di Rapa
Nui e le sue gigantesche statue, altresì chiamate Moai, hanno rappresentato una sfida per la comunità
scientifica: chi aveva costruito quelle mastodontiche opere? Chi viveva così isolato dal mondo?
Purtroppo la distruttività degli esploratori che giunsero dopo di Roggeven ha lasciato una traccia
indelebile sia per l’eccidio dei nativi, che per la distruzione dei reperti ivi presenti – motivo per cui
le tracce di artefatti o manufatti con incisi i caratteri in rongorongo sono veramente scarsissime.
Sembra tuttavia che una tale scarsità di prove non abbia affatto impedito il proliferare di fantasticherie
che l’avrebbero ricollegata ad un’antica civiltà oramai scomparsa, di cui le civiltà ancora presenti
avrebbero rappresentato l’ultimo retaggio. Se prima si è accennato agli articoli di Arnaldo Cerversato
comparsi la prima volta nel 1923 e poi di nuovo nel 1939, del tutto permeati da questa idealizzazione
dell’Isola di Pasqua in chiave prettamente lemuriana, ora è infatti necessario compiere un parallelismo
con gli studi di Giovanni Descalzo comparsi su Minerva il 15 Luglio del 1942. In Studi Italiani
dell’Isola di Pasqua lo studioso infatti fa riferimento e riporta le indagini di Eugenio C. Branchi,
professore all’Università di San Francisco e celebre per la prima opera di ricerca in lingua italiana
sull’isola suddetta: L’Isola di Pasqua – Impero degli antipodi, pubblicato nel 1934 ed edito
dall’Istituto di cultura italiana si prefigge, infatti, lo scopo di sollevare il velo dalle fantasticherie
legate alla sua storia ed alla leggenda. Il fine del professore è infatti quello di presentare sottoforma
di disamina la serie di sunti, dati ed articoli a lui contemporanee affinché possa presentare l’Isola
«non più sotto un aspetto vago e favoloso, ma come un documentario tanto più prezioso.» (Giovanni
Descalzo 1942, p. 244) Se quindi sin dall’articolo precedente si è accennato alla curiosa scelta di
prendere in considerazione le scoperte sulle Fiji in quanto facenti parte di un antichissimo continente
super-evoluto, ora si azzarda l’ipotesi secondo cui «non forse un continente è scomparso attorno a
Pasqua, ma certo una corona di grandi isole fertili, popolate da una razza bianca intelligente che scelse
per la sua ubicazione e per la sua natura, provvidenziale, l’Isola di Pasqua a sacrario delle sue glorie.»
(Ivi, p. 245)
Prendere in considerazione il prossimo autore, Peter Kolosimo, significa prima di tutto
contestualizzare il tema che troverà apogeo proprio circa verso la metà del XX secolo: posto che il
fenomeno UFO non nasca dal nulla, l’idea che un’intelligenza extraterrestre esistesse o che altri
pianeti oltre al nostro fossero abitati sono da ritrovarsi già nella cultura greca: «Anassagora (V secolo
a.C.) riteneva che la Luna fosse abitata e che esistessero altri corpi celesti simili al Sole, alla Luna e
alla Terra, Leucippo (V secolo a.C.) e il suo allievo Democrito erano convinti della pluralità dei
mondi, Epicuro (IV-III secolo a.C.) ipotizzava extraterrestri con sembianze non umane.» (Margherita
Hack – Viviano Domenici 2013, C’è qualcuno là fuori?, pp. 4-5) Rinascendo con il contributo di
Giordano Bruno nel XVII secolo per quanto in netto contrasto con la Chiesa e, quindi, ritrovare luce
con Keplero e le sue osservazioni relativamente l’ipotesi che la Luna fosse come la Terra e che i suoi
abitanti, chiamati seleniti, avessero un aspetto diverso dal nostro: differenze sostanziali legate alle
osservazioni fisico-geografiche compiute dall’osservazione del corpo celeste tramite il cannocchiale
galileiano. La teoria dell’esistenza di abitatori della Luna ebbe grandissimi sostenitori fra cui anche
il celebre William Herschel, astronomo che individuò il pianeta Urano nel 1781. Assieme a lui Johann
Hieronymus Schroeter e Franz von Paula Gruithuisen avrebbero poi contribuito ad articolare
l’avanzatissima civiltà dei seleniti individuando sulla nostra Luna tutta quella serie di costruzioni ed
articolati legati ad una piuttosto ovvia traccia di grande civilizzazione. Questo ricco banchetto con
come portata principale la grandissima immaginazione di questi illustri scienziati sarebbe poi stato
ancor più fomentato dal Great Moon Hoax: il 25 Agosto 1835 sul New York Sun apparvero una serie
di articoli a dimostrazione del fatto che fosse stata scoperta una razza di seleniti che sarebbero stati
chiamati Vespertilio-homo, una sorta di ibrido umano-pipistrello individuati niente che meno dal
figlio del celebre William Herschel, John Herschel. Ovviamente l’astronomo inizialmente non ebbe
la minima idea della beffa: poco male, alla fine si sarebbe trattato di un fenomeno di brevissima vita
che avrebbe visto in Richard Adam Locke l’autore della bufala. Questa situazione tuttavia non gettò
particolarmente acqua sul fuoco a quell’immaginario che voleva a tutti i costi trovare vita al di fuori
della terra: Camille Flammarion è un esempio lampante in tal senso, per quanto dal suo punto di vista
ebbe modo di sviluppare in maniera ancor più articolata quelle che furono speculazioni da un lato
avvinte allo spiritismo, e dall’altro alla ricerca di intelligenze extraterrestri. Grande amico di Allan
Kardec – o Hippolyte-Léon-Denizart Rivail – non avrebbe quindi stupito l’uscita nel 1862 di La
pluralité des mondes habités né, nel 1882, del medesimo testo con l’aggiunta di «un capitolo dedicato
all’umanità nell’universo». (Ciardi 2017, p. 22) Il nome del celebre divulgatore compare anche sullo
scrapbook di Churchward in un articolo di non ben identificata origine, ma affiancato al ritaglio
dell’articolo apparso sul Mount Vernon Daily Argus che portava la firma dell’avventuriero britannico:
The Sun is Not a Superheated Body, He Declares – di cui si è già accennato precedentemente. Un
altro passo verso il contesto che avrebbe visto comparire la figura di Peter Kolosimo fu fatto da
Desiderius Papp con il suo Chi vive sulle stelle? dato alle stampe alla vigilia della Seconda Guerra
Mondiale: «un’operazione azzardata che si tradusse in un successo editoriale protrattosi fino alla metà
degli anni Quaranta, con parecchie edizioni anche in Italia». (Hack-Domenici 2013, p. 16) Gli alieni
avrebbero continuato a vivere sulla Luna sino al 20 Luglio 1969: con l’arrivo dell’Uomo sul satellite
a quanto pare lo sguardo dei più si sarebbe dovuto rivolgere a terra, non più verso il cielo. E’
interessante questo passaggio dalla ricerca di una comune provenienza umana da un mitico continente
perduto al fatto di far subentrare in questo genere di narrazioni e/o studi – per così dire – una
componente fantascientifica: tutti fattori che avrebbero per l’appunto fatto nascere quella che viene
definita fantarcheologia. Non si sarebbe più trattato di argomenti inerenti al passato misterioso ma
terreno dell’umanità, ma sarebbe venuto il momento di introdurre un tassello che avrebbe visto negli
extraterrestri i colonizzatori del Pianeta Terra, nonché dei nostri “architetti”. Se si può affermare che
la storia contemporanea degli UFO nacque il 24 Giugno 1947 con la testimonianza di Kenneth Arnold
e dei suoi «flying saucers» avvistati dalle parti del Monte Rainier, allo stesso modo si può classificare
appartenente al medesimo periodo il fenomeno che vide attribuire le proprietà di questi oggetti volanti
non identificati all’interpretazione delle sacre scritture indiane: il comandante Ramchander se ci si fa
caso era già comparso più di una volta a partire dagli articoli sul Corriere della Sera del 1924, quando
parlando della traduzione delle tavolette indù Churchward avrebbe per l’appunto sottolineato le
avanzatissime tecniche, e tecnologie appartenute a questo antichissimo popolo muviano. Degno di
interesse fu poi I Dischi volanti sono atterrati di Leslie e Adamski. Il Capitolo 11 risuona già di una
serie di concetti che ci saranno decisamente familiari:
«Una grande sfera di ferro volerà nell’aria, se la fredda attrazione magnetica della Terra
viene neutralizzata da una forza magnetica che agisce nella direzione opposta. In
apparenza, nulla sorregge quella sfera. Non vi è niente di visibile, niente di tangibile,
niente di misurabile. Se la fredda corrente magnetica della Terra potesse venire studiata,
misurata e analizzata, prima o poi si riuscirebbe a trovare il modo di produrre forza eguali
e contrarie, che indurrebbero una condizione di imponderabilità in qualunque corpo
solido cui venissero applicate.» (Desmond Leslie – George Adamski 1974, I Dischi
volanti sono atterrati, p. 157)
Le origini del caso Adamski sono da ritrovarsi nell’episodio che vide l’anziano 71enne venire a
contatto con un’intelligenza extraterrestre proveniente da Venere. Instauratosi un contatto, e dato alla
luce il testo di cui un frammento è appena stato riportato, ne sarebbe seguito un altro nel 1955, A
bordo dei dischi volanti all’interno del quale avrebbe parlato dell’esperienza avuta due anni prima:
dei piloti extraterrestri lo avrebbero contatto e lo avrebbero portato nella loro astronave; una volta lì
avrebbe indulto in piacevoli chiacchiere relativamente la filosofia, le scienze, e la loro avanzatissima
tecnologia. Ora, proprio a proposito di tecnologia e capacità psichiche peculiari: sia Adamski che
Leslie si sarebbero dati una risposta piuttosto originale per spiegare il motivo per cui determinati
monumenti sarebbero riusciti ad essere costruiti. Spostare massi giganteschi in epoca preistoria
avrebbe per l’appunto rappresentato una sfida notevole: come non pensare alla telecinesi? Ma
andiamo per gradi: i due utilizzano le conoscenze occulte svelate da Churchward per supportare
l’ipotesi della levitazione. Levitazione che sarebbe stata spiegata al Colonnello britannico dal suo
Rishi ovviamente: questa serie di informazioni sono proprio presenti all’interno del primo volume di
The Cosmic Forces of Mu. Stesso identico discorso sarebbe stato alla base dell’avanzatissima
tecnologia per cui i dischi volanti sarebbero stati in grado di volare ovviamente! Sennò perché
all’interno dei testi sacri indiani si parlerebbe di vimanas e di misteriose armi scintillanti? Gli
OOPARTS – Out of Place Artifacts – avrebbero semplicemente fatto il resto: trovare nel passato
segni dell’arrivo di avanzatissime civiltà aliene avrebbe finito con il conciliare alla perfezione la
motivazione per cui popoli come quello Atlantideo, Lemuriano, o Muviano, avrebbero sviluppato le
capacità tramite cui avrebbero potuto costruire gli imponenti monumenti Maya, Egiziani,
Cambogiani, e così via.
Kolosimo, in Italia, avrebbe proprio incarnato il ruolo di padre fondatore di questa disciplina
parallelamente a Robert Charroux in Francia e W. Raymond Drake in Inghilterra: giornalista
modenese, Pier Domenico Colosimo nacque a Modena il 15 Dicembre 1922 e, studiando e vivendo
per lungo tempo a Bolzano ebbe l’ulteriore possibilità di migliorare la conoscenza delle lingue che
gli avrebbero dunque permesso l’accesso a fonti extra-italiane. Grande appassionato e amante della
fantascienza, scrisse in un’importantissima rivista italiana di astronautica su cui avrebbe sviluppato i
temi in futuro esposti nei suoi numerosissimi libri: in Oltre il Cielo: Missili & razzi troviamo infatti
già un articolo risalente al Novembre 1958 in cui avrebbe affrontato l’argomento dei continenti
perduti, un tema a lui molto caro soprattutto nell’ambito della Terra del Mu – su cui si sarebbe
soffermato a lungo in Terra senza tempo (1964), sulla rivista Pi Kappa – rivista di mistero,
archeologia ed esobiologia, da lui fondata nel 1972, e tramite qualche articolo di contributo
all’interno del Giornale dei Misteri. Non si tirerà certamente indietro dalla sfida UFO contro UFO
ovviamente: con Non è terrestre del 1968 avrebbe per l’appunto ripreso quello che era il popolamento
della Polinesia stando a Churchward, per poi iniziare a domandarsi cosa fossero «le barche luccicanti,
le strane opere di magia, le navi che volavano sulle onde» tramite le quali sarebbe giunta questa
avvenente razza bianca, dai folti capelli biondi e gli occhi azzurri. Ora basti dire che se Kolosimo ha
affrontato l’argomento con “classe”, non si potrebbe dire lo stesso di Augusto Monti e del suo Vita
nello spazio, risalente al 1969: non si sa bene su cosa si sia basato lo studioso, poiché la maggior parte
delle informazioni che fornisce in merito a Churchward ed a Mu sembrano provenire dall’esito
fallimentare di un telefono senza fili. Prima di tutto affermerebbe che il motivo per cui William Niven
si mise a scavare in Messico fosse dovuto al fatto che fosse affascinato dal mistero di Mu:
informazione decisamente sbagliata, soprattutto partendo dal presupposto che l’archeologo scozzese
– e non americano come afferma Monti – avrebbe iniziato a scavare in zona ben prima di conoscere
Churchward e le sue teorie, tutt’altro, oltretutto avrebbe avuto modo di conoscere l’ingegnere
britannico soltanto dopo essere stato contattato dallo stesso a seguito dell’articolo sulla scoperta delle
sue tavolette messicane, poiché l’avventuriero, come già affermato, avrebbe riconosciuto nel
ritrovamento il linguaggio Naacal. Insomma, questo progressivo spostamento dell’origine dei
muviani dalla terra alle stelle avrebbe certamente trovato un larghissimo seguito nonché un gran
successo: un vero peccato, tuttavia, per il fatto che contestualmente all’aumento di fama del
ritrovamento si sarebbe affiancato allo stesso l’iniziale distorsione informativa. Nell’appendice di De
Turris in Libri Maledetti di Bergier, leggiamo un’affermazione piuttosto ambigua:
«[...] egli raccontò di come in India e/o Tibet (non è mai stato troppo preciso, per la verità)
vide una serie di antiche tavolette di argilla incise nei caratteri di una lingua che solo gli
adepti come lui erano in grado d’intendere. Secondo queste Tavole di Naacal, oltre
all’Atlantide un altro continente perduto, Mu, situato nell’Oceano Pacifico, aveva alle
origini determinato la storia della nostra civiltà. Le teorie di Churchward integrano, ma a
volte entrano anche in conflitto con quelle propugnate dai teosofi: egli, pur non
nominando mai il Manoscritto di Lhasa di Paul Schliemann, cita viceversa le Stanze di
Dzyan.» (Jaques Bergier 1972, I Libri Maledetti, pp. 166-167)
Affermare una cosa del genere è per lo più segno di non aver minimamente aperto The Lost Continent
of Mu: sia nella prima edizione del 1926 che in quella rivisitata del 1931, il Colonnello cita
placidamente Paul Schliemann ed il documento Lhasa, anzi, basa su di esso una grandissima parte
delle sue supposizioni non ponendosi nemmeno remore nell’ipotizzare, anche soltanto per sbaglio,
che possa essere un falso. Ad ogni modo, alieni o non alieni, è innegabile che nell’immaginario
collettivo il continente del Mu sarebbe diventato quel punto di riferimento, di fianco all’Atlantide ed
alla Lemuria, dove far atterrare intelligenze extraterrestri grazie alle quali saremmo venuti a
conoscenza di informazioni e conoscenze senza le quali, apparentemente, l’uomo non sarebbe stato
in grado di costruire ciò che ha costruito e fare ciò che ha fatto. Sia Kolosimo che la moglie, tuttavia,
avrebbero speso parecchio tempo sull’argomento Mu: particolare interessante è che pur essendo stato
Hutin fonte d’informazioni per il divulgatore fantarcheologico italiano, egli non sembra condividere
affatto le considerazioni dello studioso francese in merito al fatto che sia «fuori discussione che tutto
ciò possa trattarsi di una mistificazione, o del prodotto di una invenzione delirante, perché queste
notizie hanno potuto essere confermate attraverso comparazioni metodiche effettuate tra i documenti
studiati dal viaggiatore e quelli contenuti negli archivi della Sede internazionale dell’Ordine
Rosacroce A.M.O.R.C, a San José in California.» (Serge Hutin 1970, Civiltà Misteriose, p. 51)
Ovviamente si spera non sia necessario motivare il perché questa affermazione sia ovviamente
infondata, soprattutto alla luce di tutta la serie di prove fornite a discapito della credibilità di James
Churchward. Certamente il nipote, Jack E. Churchward, ha difeso a spada tratta l’onore del celebre
bisnonno affermando che, semmai avesse avuto sottomano dei falsi, di certo questi non sarebbero
stati creati appositamente da lui ed anzi, che di certo se lo avesse saputo se ne sarebbe dissociato.
Quale la verità? Ciò che sappiamo è che in Italia, Kolosimo ha rappresentato un punto di riferimento
pseudoscientifico sull’argomento in maniera piuttosto proverbiale per quando, ed è da ammetterlo,
ha avuto il giudizio di affermare lui stesso che fosse «un vero peccato che il geniale studioso si sia
poi lasciato trascinare a deduzioni ed ipotesi che non ci permettono di stabilire i limiti fra realtà e
fantasia.» (Peter Kolosimo 2004, Terra senza Tempo, p. 71)
Fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, l’Italia diventa un crogiolo piuttosto omogeneo
di considerazioni più o meno aggiornate su quello che potremmo definire “caso Churchward”,
svelando in maniera piuttosto chiara quello che è un passaggio degno di nota fra la semplice
constatazione dell’origine dell’essere umano, al trasformare la mitica isola in un perfetto piano di
atterraggio per gli alieni provenienti dagli Stati Uniti della seconda metà degli anni ’40. Questa
dialettica fra la pseudoscienza e la scienza sarebbe quindi venuta pian piano a mescolarsi a quello che
sarebbe poi stato l’avvento, soltanto nel dopoguerra, della fantascienza in Italia. Purtroppo la nostra
penisola non ebbe modo di conoscere l’impatto dello sviluppo scientifico ed industriale di paesi come
gli Stati Uniti, motivo per cui nella letteratura italiana del periodo anteguerra prendevano ben più
spazio e piede i racconti storici e d’avventura come quelli che portavano la firma di Emilio Salgari,
preso poi come punto di riferimento e di partenza, assieme a Verne da Manfredo Baccini, Luigi Motta
ed il grande Yambo, o Enrico Novelli. Si sarebbero dovuti attendere gli anni ’50 del XX secolo per
assistere alla penetrazione della fantascienza statunitense pubblicata fra gli anni ’30 e ‘40 in Italia,
soprattutto a partire dall’uscita della rivista Urania e dei Romanzi di Urania nel 1952, editi da
Mondadori e curati da Giorgio Monicelli. Fu infatti sul numero 87 di quest’ultima collana, risalente
al 14 Luglio del 1955, che sarebbe comparso il romanzo di John W. Campbell, The Mightiest
Machine, con come titolo I Figli di Mu: scelta di titolo interessante da parte di Monicelli in effetti, e
punto di partenza piuttosto probabile per scaturire l’ulteriore interesse letterario nei confronti del
fenomeno fantarcheologico incarnato dal Continente di Mu. Nel 1964 era proprio nella nostra
penisola che veniva presentato Atragon o Kaitei Gunkan al Festival Internazionale del Film di
Fantascienza di Trieste: la pellicola sarebbe stata poi effettivamente introdotta nelle sale di proiezione
fra il 1966 ed il 1968, narrando la storia del ritorno agguerrito del sommerso Impero del Mu, pronto
a cercare di dominare il mondo. Nel 1972 poi, sarebbe stato il turno di King Kong – L’Impero dei
Draghi per quanto dell’effettiva figura cinematografica del gigantesco gorilla non ci sarebbe stata
nemmeno l’ombra: il film era infatti incentrato sullo scontro Kaiju fra Gamera e Jiger, di cui il
secondo sarebbe stato un mostro richiamato da un misterioso idolo scoperto fra le rovine delle isole
del Pacifico, proveniente ovviamente dall’Isola di Mu. Il film sarebbe stato trasmesso per la prima
volta in Italia in due puntate nella rubrica Fra Realtà e Fantasia alla RAI, nel format pomeridiano
della tv dei ragazzi: infatti la visione sarebbe stata intervallata da documentari ed interviste a studiosi
che avrebbero tentato di divulgare un po' di affascinanti ricerche nell’ambito dei mitici continenti di
Mu e di Atlantide.
Il 1970 sarebbe stato l’anno di uscita del secondo numero del celebre fumetto di Hugo Pratt, Corto
Maltese, comparso sulla rivista Pif Gadget ed il primo della trilogia incentrata attorno a Mu: Il Segreto
di Tristan Bantam avrebbe infatti visto la comparsa dei personaggi del Professor Steiner e del giovane
Tristan, niente che meno che il figlio ed erede di quello che nel fumetto è palesemente James
Churchward, per quanto non sia stato ripreso il suo nome. Il giovanotto cerca infatti aiuto per mettersi
alla ricerca del mitico continente che il padre, prima di lui, aveva cercato per tutta la vita: Hugo Pratt
riporta fedelmente delle vere e proprie tavole estratte da The Lost Continent fo Mu – l’alfabeto ieratico
del mu in particolare, ed alcuni simboli estratti dal Libro dei Morti egiziano –, e Corto Maltese
riconosce in esse i simboli scolpiti «su un grosso masso nel sud del Pacifico», posizionato proprio
all’interno dell’Isola di Pohnpei. Sulla stessa rivista e nello stesso anno sarebbe dunque apparso il
secondo episodio della trilogia, Appuntamento a Bahia, dove i nostri eroi incontrano la sorella del
giovane Tristan che, intanto, affronta sogni che lo proietteranno all’interno dell’Isola di Mu dove
incontrerà Quetzalcoatl. Il teschio di Tezcatlipoca, ciondolo che sarà donato dal dio a Tristan,
consisterà in un potentissimo mezzo tramite cui mettere in contatto il mondo reale ed un’altra
dimensione. Alla fine della storia Morgana, sua sorella, aprirà il baule che il padre le aveva lasciato
in eredità: all’interno troverà una mappa che lo condurrà alle rovine dell’Alto Xingu, ed il diario del
viaggio in questione in cui l’esplorazione racconta di come siano state le Forze Cosmiche a condurlo
sulla soglia di Atlantide e del Mu. Conosceremo l’esito dell’avventura soltanto con il numero
comparso fra il 1988 ed il 1991, in Mu – La città perduta: i nostri eroi infatti giungeranno su di
un’isola misteriosa all’interno della quale una dei protagonisti, Soledad, verrà rapita dai nativi allo
scopo di portare avanti la stirpe della razza bianca che avrebbe sin dalle sue origini popolato Mu,
intanto Corto Maltese ed i suoi affrontano tutta una serie di prove mortali per accedere al passaggio
che, tramite Atlantide, li porterà a Mu. Troviamo un’infinità di riferimenti all’interno del racconto:
dal nome dei personaggi, al fatto che i nostri eroi incontreranno persino una donna dispersa nella
giungla, Tracy Eberhard, nonché grandissima amica di Amelia Earhart, la prima donna ad attraversare
l’Atlantico in volo in solitaria nel 1932, e misteriosamente scomparsa nel 1937; persino un
discendente di San Brandano si sarebbe infine messo sul loro cammino.
Sempre nell’ambito dei fumetti, altri riferimenti sarebbero da individuarsi in Martin Mystère
tramite la presenza di Mu ed Atlantide come due incredibili potenze in lotta l’una con l’altra, persino
in Topolino e l’Enigma di Mu del 1979 tramite l’intervento del Professor Zapotec con le sue ricerche.
Anche in Zagor Atlantide e Mu entrano in competizione nel lontano passato che viene citato, unica
differenza pare trovarsi nel fumetto di Luca Enoch, Gea, in particolare nel numero 5: La Via del Nero,
risalente al 2001. Meno conosciuta come serie di racconti, l’omonima protagonista del fumetto è un
baluardo che si occupa di proteggere il piano materiale dalle emanazioni e dall’ingresso di creature
provenienti da altre dimensioni. Fra di queste si trovano anche i Naga, la civiltà indicata da
Churchward come una sottospecie di sinonimo dei Naacal. All’interno della storia piccole comunità
vengono perseguitate e uccise da un baluardo decaduto, estraendo dai Naga che uccide il terz’occhio:
un gioiello intriso di potenza psichica e molto potente, tramite cui può passare di dimensione in
dimensione. Un’anziana della comunità spiegherà a Gea – lì per proteggerli ovviamente – l’antica
«leggenda umana» all’interno del «primo libro del Mahabharata»:
«E’ tutto dedicato alla razza dei serpenti-naga e ai conflitti che gli antenati dei Bharata, i
primi indo-ariani, ebbero con i nostri avi. Vari re e brahmani furono uccisi dai Naga e
allora il re Janamejaya decise di sterminarli fino all’ultimo in un gigantesco sacrificio dei
serpenti. Una parte dei Naga si salvò; anche tramite un compromesso: i Naga-serpenti si
misero a studiare i Veda, segno di incivilimento, e i figli dei Bharata presero mogli Naga.
Così ci siamo umanizzati, mischiando il nostro sangue con il vostro... le capacità che ci
attribuite appartengono al passato della nostra stirpe. Sono talenti perduti, potenzialità
svanite per sempre, come i muscoli di arti atrofizzati. Ora la nostra unica difesa è la fuga.»
(Luca Enoch 2001, Gea – n°5, pp. 101-103)
Il richiamo alle antiche capacità dell’essere umano ed alle sue potenzialità è qualcosa che risuona in
ogni singolo richiamo letterario che prenda in considerazione il mito della Terra del Mu oppure di
Atlantide. A modo suo è anche un tentativo di trovarsi un posto, di sviluppare la propria individualità
fra guerre fratricide e spargimenti di sangue in nome di non si sa bene cosa. Perché alla fine, l’unica
verità, è che attraverso la disamina della mitologia che ha visto nascere Atlantide, che ha visto
svilupparsi Hyperborea, che ha delineato le tappe evolutive della Lemuria sino a sfiorare le coste
psichiche di Pan: Mu rappresenta proprio ciò che tutti, sotto sotto, stiamo cercando. L’impossibile
che divenga possibile, oppure molto banalmente, chissà, l’ennesimo dei Robert Kenneth Wilson
intento a guardarci con un gran sorriso per poi dire: «Ci siete cascati tutti, vero?»
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