INDICE
1° cap.
Genesi e introduzione;
2° cap.
Precedenti ideali;
3° cap.
Guerra rivoluzionaria;
4° cap.
Fascio e Fascismo delle origini;
5° cap.
Fascismo e Socialismo in lotta.
6° cap.
L’anno Millenovecentoventuno.
7° cap.
Marcia su Roma.
CAP. I
GENESI E INTRODUZIONE
Non cerchiamo troppo lontano le origini del fascismo. Lasciamo in pace i
“precursori”, si chiamino essi Giovanni dalle Bande Nere o Gian Galeazzo
Visconti o Giulio Cesare. Se proprio vogliamo rifarci indietro, guardiamo
tutta la storia italiana, in quanto rivela certe qualità e attitudini e tendenze del
nostro popolo, masse o individui; guardiamo un po’ di più il XIX secolo, cioè
il Risorgimento, con il suo sforzo di dare all’Italia coscienza piena di azione e
di creare lo Stato unitario, con la sua potente aspirazione ad un presente e ad
una avvenire pari al passato, con il suo giobertismo e il mito del “primato” o
della sua “missione”, con i suoi elementi di socialismo nazionale, con il
potente lievito idealistico del suo Mazzini, con il suo garibaldinismo e
volontarismo. Ancora di più, guardiamo le forme istituzionali, i gruppi
sociali, i pensieri, gli ideali, che tennero il campo, eredità ormai logora del
passato o formazione nuova.
CAP. II
PRECEDENTI IDEALI
E’ di quel periodo una certa ascesa della grande massa del popolo italiano. I
progressi dell’economia, la grande industria, il risveglio agricolo, lo sviluppo
dei centri urbani, le agitazioni a sfondo sociale, la stessa emigrazione,
determinano o accompagnano questa ascesa, che è economica e intellettuale
più che veramente politica, ma che appunto per questo comincia a
determinare uno squilibrio fra l’Italia di fatto e l’Italia di diritto, fra “paese” e
Stato o governo. Non bisogna dimenticare, a questo proposito, il movimento
socialista, che disciplina, inquadra, anima una parte di queste masse e, pur
mentre le spinge contro la nazione e lo Stato, in realtà unificandole,
togliendole al chiuso della vita locale, comunicando loro qualche passione e
interesse politico, le predispone più che non fossero a sentirsi parte della
nazione e dello Stato; e poi, impone nuovi problemi ai ceti dirigenti, immette
un nuovo rivolo di pensiero nella corrente idealmente povera della cultura
italiana, concorre al discredito di ormai invecchiate ideologie
ottantanovesche, come l’astratta “libertà” e il repubblicanesimo dei
repubblicani, ancora fermo alla parola, a certe parole, di Giuseppe Mazzini.
Col nuovo secolo, nuovi e più generali e visibili progressi, con relative
decadenze: rafforzamento, insieme, di borghesia, e di proletariato; maggiore
ricchezza e benessere, più alti pensieri e più insoddisfazione dello stato
presente della vita italiana, più reazione tanto al socialismo quanto al vecchio
Stato liberale e parlamentare e ai ristretti gruppi politici che lo
impersonavano, più consapevole sforzo di rinnovare, più ambizioni e
speranze per la nazione. E’ il tempo che si tenta ravvivare lo stanco
liberalismo, con un ritorno alle sue origini, cioè a Cavour, in vista di un
rafforzamento dello Stato, di una politica estera a più lontani obiettivi, di
maggiore slancio da comunicare alla nazione: tentativi legati al nome di
Giovanni Borelli, buon seminatore di entusiasmi e di ideali fra i giovani, se
anche povero di capacità realizzatrici.
E’ il tempo della democrazia cristiana che sorge contro il clericalismo e
socialismo, cioè contro la democrazia materialista e classista, col proposito di
elevare, sì, le plebi, ma anche temperare con lo spirito cristiano i contrasti
sociali, immettere una corrente di religiosità nel movimento proletario,
combattere la mentalità giacobina e massonica della democrazia. Un secolo
prima si era cercato di conciliare cattolicesimo e liberalismo; ora,
cattolicesimo e democrazia.
Pure contro il socialismo, tendente al riformismo, un movimento sindacalista
che ha teorici e giornali (“Avanguardia socialista”, “Divenire sociale”,
“Pagine Libere”). Suoi centri sono le zone di più evoluto o irrequieto
proletariato industriale e agricolo, specialmente la bassa padana e il ferrarese,
che nel primo decennio del secolo diventano zona di grandi e classici
scioperi. Esso vuole essere un socialismo più socialista, cioè più radicale,
antidemocratico o volto ad una nuova democrazia, antiparlamentare e
fautore dell’azione diretta, credente nella virtù delle minoranze. Si propone
di liberare le organizzazioni operaie dalle ideologie dei partiti, comunicar ad
esse vero impulso rivoluzionario, ispirar la persuasione che il loro avvenire
era nelle loro mani: “filosofia della volontà”, “idealismo rivoluzionario”, si
disse. E anche filosofia dell’azione, fede nella virtù dell’azione. Un po’ Sorel,
un po’ Bergson, che vedeva il mondo animato da uno slancio vitale, da una
forza creativa immanente che opera senza legge. Confida, questo
sindacalismo, nel proletariato: ma ritiene necessario anche un potenziamento
della borghesia, per creare più propizie condizioni alla nuova società dei
lavoratori. Quindi non esclude imprese coloniali, non esclude la guerra, cui
riconosce certa virtù creatrice. E guarda la nazione con altri occhi che non,
fino allora, i socialisti di stampo marxista. Vuol anzi trarre il ceto operaio dal
chiuso della sua categoria e farlo capace di ascendere alla nazione. Breve la
vita del sindacalismo italiano. Attorno al 1910, esso, logorato dalla sua stessa
frenetica sciopero mania, messo fuori dalle file del socialismo, si sbanda: ma
qualcosa di esso rivive poi in altre forme, in combinazione con altre idee e
altri movimenti politici.
Proprio in questi stessi anni, prendeva corpo, come attività pratica, dopo che
da circa un decennio volteggiava in aria come sentimento e anche come
dottrina o semidottrina, il nazionalismo. Esso si oppone all’egualitarismo
della democrazia politica, afferma la nazione e la sua individualità di fronte
ai vari internazionalismi socialista massonico affarista clericale, aspira a ridar
autorità e finalità etiche allo Stato contro partiti, parlamento, burocrazia. E
chiede una seria politica coloniale, una seria politica dell’emigrazione, perché
questa non si risolva in impoverimento della nazione. Altra cosa dal
sindacalismo rivoluzionario, che nasceva, sia pur volgendogli contro i denti,
dal socialismo. Ma, fra essi, anche affinità notevoli: che è fatto propriamente
italiano, laddove in Francia le due dottrine rimasero ben distinte e il
nazionalismo fu nettamente conservatore. Egualmente, antidemocrazia e
antiparlamentarismo, antipacifismo e antiumanitarismo. Rappresentava, il
movimento nazionalista, la nuova rinnovata coscienza del valore della
borghesia produttiva: ma non era estranea ad esso l’idea di creare i sindacati
operai e portarli a collaborar nella nazione, e organizzar questa come una
società di produttori, necessariamente solidali.
Solidarietà: non a scopo di mera conservazione, come altri la predicava
sibbene a scopo di potenza e di impero. Di qui certo presentimento,
specialmente in taluni nazionalisti, di aver coi sindacalisti della strada da far
insieme. “Il loro punto di partenza è sotto un certo punto di vista il nostro. E’
la prima dottrina sincera e di forza sorta dal nemico”, scriveva nel 1909
Enrico Corradini, salutando il sorgere del “Tricolore”, che era un piccolo
giornale nazionalista o “imperialista” del gruppo torinese, diretto da Mario
Viana, il quale voleva anche esso “liberare il mondo operaio dalla tirannide
demagogica democratica e socialista, per poi averlo alleato nella grande
impresa della nazione imperialista”; voleva potenziar borghesia e proletariato
e portarli ad intendersi direttamente e collaborare ai fini della nazione. “Se di
fronte ad una borghesia ricca si leva un proletariato unito e rivoluzionario, la
società capitalistica raggiungerà la sua perfezione storica”. Linguaggio
classista, ma tendenza a inquadrare, equilibrare, pareggiare, superare le classi
nella nazione, concepita come organismo vivente, produttore di ricchezza,
operatore di storia del mondo.
Insomma, movimenti diversi, in parte cozzanti, in parte convergenti, contrari
al socialismo in quanto dottrina, ma non in quanto problemi sociali e del
lavoro; contrari alla democrazia politica, ma in vista di più sostanziosa
democrazia; contrari al quel certo modo di governare che si disse giolittismo,
fatto di transazioni, accomodamenti, gretto empirismo, corruzione elettorale,
contaminazione di affari e politica, disconoscimento dei valori ideali.
Comunque, sentimento più elevato della vita fede viva nelle forze creatrici
dello spirito, contrapposti al materialismo storico. Da ogni parte, impulsi
innovatori di varia intensità e natura, che traevano alimento dalla
persuasione che la nazione fosse ormai migliore del suo governo, che i suoi
ceti dirigenti fossero esauriti, che bisognasse mutar uomini e modi di
governare. Tale persuasione agiva come un fermento rivoluzionario. E,
poiché diffusa fra gente di ogni partito, così creava certa solidarietà e
possibilità di azione comune, indipendentemente dai partiti stessi, in vista di
scopi che trascendevano i particolari scopi dei singoli partiti.
CAP. III
GUERRA RIVOLUZIONARIA
Venne cosi il 1914. Provocata da altri, la guerra europea fu subito afferrata
come una bandiera, oltre che da manipoli più battaglieri dell’irredentismo, da
quanti erano all’opposizione dell'Italia “borghese" o falsamente “liberali” o
parlamentare o giolittiana.
Cominciò la crisi per l'intervento o la neutralità: che volle dire ulteriore
corrosione di partiti, ognuno dei quali ebbe i suoi interventisti e i suoi
neutralisti. Anche il partito socialista. Mussolini, direttore dell’”Avanti",
sdegnoso di affiancarsi ai riformisti, a repubblicani, a democratici, a massoni
interventisti, fiducioso forse di trovare nell’opposizione socialista e popolari
alla guerra una piattaforma rivoluzionaria, rimase, in un primo momento, col
partito e per la neutralità. Ma, quando vide che la neutralità lo accomunava
alla parte più conservatrice della borghesia italiana; che la guerra, assai più
della pace, portava nelle sue pieghe elementi di rivoluzione, che la neutralità
avrebbe tagliato fuori dall'azione e dalla storia il partito socialista e le masse
da esso guidate, passò all'interventismo: che, naturalmente, significava Italia
cioè accettazione piena dei valori nazionali. Forse sperava di trascinarsi dietro
partito e masse. Non gli riuscì. Ma pure, molti “compagni” lo seguirono. E i
fasci di azione rivoluzionaria che egli fondò in principio dell'anno 1915,
composti dei più accesi elementi di sinistra, rappresentarono anche
l’interventismo socialista: allargarono le braccia, aperta già da Bissolati e da
altri, nelle ideologie classiste e internazionaliste di quel partito, fornirono
nuovi impulsi alla formazione di un socialismo nazionale. Seguirono mesi di
aspro travaglio civile.
Che non fu in tutto benefica, alla vigilia di un grande sforzo che avrebbe
voluto concordia massima di cuori. Ma anche benefica. Quella guerra, che in
ogni modo noi avremmo dovuto combattere, assunse un carattere di
volontarietà che la elevò, la nobilitò, ne ne accrebbe le possibilità
rivoluzionarie. Voluta contro i socialisti e conservatori, prese un contenuto
fortemente antisocialista e anticonservatore.
Parlamento, parlamentarisino e mondo parlamentare ebbero grave ferita,
quando si vide la nazione muoversi fuori e contro la sua legale
rappresentanza e indirizzarsi al Re e al suo governo, e il governo farsi forte
della nazione per imporsi al parlamento.
Vi fu già allora chiara visione, rallegrandosene o dolendosene, che un'era
della vita italiana si chiudeva ed un'altra se ne inaugurava: anche nei rapporti
interni, oltreché internazionali. Poi, quasi quattro anni di guerra. Tensione di
spiriti nazionali, quanto meno in taluni settori, pur mentre il vecchio partito
socialista esasperava il suo internazionalismo e si metteva veramente a
preparare la sua rivoluzione, sfruttando il malcontento di guerra e attingendo
dall'esempio russo nuove certezze; altro logorio di partiti e di
ruggruppamenti per classi di ideologie classiste per far posto alla figura del
combattente, in cui ci si fondeva borghese e proletario; nobilitato e avvalorato
con la morte sul campo, il nuovo ideale di un ceto operaio non più chiuso nel
suo egoismo e materialismo, ma capace di sentire la patria (fra i tanti morti
Filippio Corridoni, che veniva dal popolo, dal socialismo e sindacalismo
rivoluzionario, ed aveva seguito Mussolini); sentimento più vivo, nella
borghesia colta, dei problemi del lavoro, cioè un più sostanzioso contenuto
sociale immesso nella guerra, ai fini di un'elevazione complessiva della vita
nazionale. Si ricordi il gran discutere che, specialmente nel '18 se ne fece,
anche in giornali corservatori. Il "Popolo d'Italia", poi, battè e ribattè su l'idea
che, per un verso, la classe operaia non poteva ignorare la nazione; per l'altro,
il lavoro doveva avere grande parte nella ricostruzione economica, politica e
morale della nazione stessa. E Mussolini invitava gli italiani ad andare
incontro ai lavoratori reduci dalla trincea, a tener alto in essi il sentimento
virile della vittoria, a interessarli alle fortune della patria. Si ebbe così
maggiore accettazione di principi sindacali nel nazionalismo e nazionali nel
sindacalismo rivoluzionario, che ormai proclamava doversi la patria
conquistare non negare.
E poi, elevazione economica e morale attraverso attività civili e belliche, di
elementi popolari e piccolo-borghesi che poi, nello sforzo di rimaner su le
posizioni raggiunte e di affermarsi anche nel campo politico, avrebbero
operato come energico fermento rivoluzionario, al seguito di quella
qualunque dottrina o ideologia che fosse apparsa più corrispondente a quello
scopo. E ulteriore discredito di vecchi gruppi dirigenti.
La guerra, coronata in ultimo dalla vittoria diede gloria ai combattenti, ma
non la diede al parlamento, al governo, ad una parte notevole della
borghesia, che apparvero o impari ai grandi eventi, o tiepidi di fronte agli
ideali della guerra o troppo comodamente profittatori. Sia giusto o ingiusto
questo giudizio: ma fu sincero e si mutò in sentimento operoso. All'eroismo
dei soldati, prodighi del loro sangue, si contrapponeva in netto contrasto,
specialmente dai gruppi più accesi dell'interventismo e dai soldati stessi, la
debolezza del governo, le chiacchiere di Montecitorio che al governo dava
più impaccio che aiuto, gli equivoci atteggiamenti di certa grossa e grassa
borghesia dedita agli affari e troppo abituatasi a guardar la guerra dall'angolo
visuale degli affari. Il vecchio antiparlamentarismo, fatto un po' di
immaginazione, un po' di giusti motivi attinti dalla realtà, fu grandemente
alimentato. Aggiungi un altro fatto importante: nuovo esperimento sul fronte
di guerra, dopo che sulle piazze nei mesi della neutralità, del valore decisivo
delle minoranze energiche, dei nuclei disposti a tutto. Guerra di masse, si,
quella che si combatteva.
Ma più essa progrediva, e e più creava la persuasione che bisognasse affidarsi
alla volontà e alle iniziativa degli individui e dei piccoli gruppi selezionati:
“Credo urgente introdurre sempre più decisamente l'elemento qualitativo in
questa enorme guerra quantitativa”; mutare la guerra “da fatica e sacrificio di
masse rassegnate, in guerra da guerrieri consapevoli pronti a tutto”. Ponete
una volontà d'acciaio contro una massa, e voi riuscirete a sgretolare la massa.
Bisogna trovar nello spirito un punto d'appoggio. Non è fatale che la guerra
sia massa, inerzia, numero, quantità. Valorizzare l'individuo. Così scriveva
Mussolini, dopo l'impresa di Rizzo, giugno '18: impresa possibile, “perchè è
stata tentata, perchè esisteva la volontà di tentare”. E chiedeva ai governanti
un grano di follia, di “intelligente e razionale follia”. Certo Mussolini faceva
assai prò di queste lezioni dell'esperienza, per quando, abbandonato il
vecchio sogno di una rivoluzione di masse, ne tenterà una di minoranze, di
“guerrieri consapevoli e pronti a tutto”.
CAP. IV
FASCIO E FASCISMO DELLE ORIGINI
Chi non vede in tutti questi fatti, illuminati dalla esperienza del poi; chi non
vede in nuce, nei suoi elementi essenziali, il fascismo, le passioni e interessi
che poi hanno dato impulso al fascismo? Il quale apparve, in un angolo della
agitata ribalta italiana, nel marzo 1919, come piccolo raggruppamento di
vecchi interventisti, specialmente della sinistra rivoluzionaria, di uomini cioè
che più degli altri, con più speranze e illusioni, con ardore quasi da neofiti,
con rigetto di quasi il loro passato, si erano impegnati nella battaglia per
l’intervento, avevano battuto su la nota di una guerra sempre più vasta
risoluta intransigente contro nemici esterni, e seguitato a mantenere viva
l’idea della “guerra rivoluzionaria”, l’attesa di una trasformazione anche
sociale della vita italiana.
Ora, nella stanchezza del dopoguerra, nella irritazione di tutti e contro tutti e
contro tutto, nelle delusioni interne e internazionali cresciute su la rovina di
tante speranze, nel disorientamento mentale seguito al logorio di tanti
“princìpi”, nello sbandamento degli interventisti che rompevano ogni
solidarietà, nella ricompensa del vecchio neutralismo armato di ironia e di
sarcasmo, nella nuova baldanza del partito socialista animato da spirito di
rivalse e da velleità rivoluzionarie a base di “dittatura del proletariato”; ora,
quegli interventisti degli antichi Fasci rivoluzionari si raccolgono a difesa
della guerra combattuta, delle memorie e dei valori della guerra, dei frutti
sperati se non raccolti della guerra.
Difesa contro i socialisti, accaniti contro la guerra fatta, come già contro la
guerra da fare; contro quanti, per antica opposizione all’intervento o per
stanchezza e pentimento, voltavano le spalle alla guerra e si dimostravano
disposti a ogni transazione dentro e fuori i confini; contro il governo che
pareva male amministrasse il patrimonio della vittoria e troppo debolmente
tenesse testa sia ai nemici interni, sia agli alleati. Difendendo la guerra, essi,
che avevano più o meno rotto i ponti con il loro passato più antico,
difendevano il più recente passato, il passato di guerra. A questo si
attaccavano come naufraghi ad un rottame.
Molti raggruppamenti di resistenza e di propaganda patriottica,
antisocialista, antitedesca, irredentista, adriatica, ecc., erano allora disseminati
in tutta Italia, formatisi specialmente dopo Caporetto o dopo la vittoria, di
fronte a nuovi pericoli minaccianti: unioni, leghe, Fasci, ecc. Si aggiunse ora il
Fascio di combattimento milanese, che nacque il 23 Marzo 1919. Fascio che è
certo da ricollegare a quelli mussoliniani del 1915 e che poi sempre più fu
visto nella sua ideale continuità con questi ultimi, ma che ora si presentò
come cosa nuova.
E Mussolini tenne chiaramente a distinguere da quei fasci rivoluzionari gli
attuali Fasci di combattimento. Non erano neanche questi un partito, pur in
un momento in cui i partiti vecchi e nuovi si davano un gran da fare per
ricomporsi, aggiornarsi, buttar giù dei programmi. Era piuttosto
“l'antipartito”. Non una organizzazione di propaganda, ma di
combattimento, destinata a volgersi tanto contro il misoneismo di destra
quanto contro le velleità distruttive del comunismo di sinistra. Non una
dottrina repubblicana democratica conservatrice nazionalista, ma “una sintesi
di tutte le negazioni e di tutte le affermazioni”. Nei Fasci “si danno
spontaneamente convegno tutti coloro che soffrono il disagio delle vecchie
categorie, delle vecchie mentalità. Il fascismo, mentre neppure rinnega tutti i
partiti, li completa.”.
Quindi, neppure troppi contatti o alleanze, se non momentanee, con altri
partiti: che anzi, i fascisti erano guardati dai democratici in sospetto perchè
parevano inclinar al nazionalismo o addirittura all'imperialismo; dai
nazionalisti, perchè intinti di qualche pece societaria e alieni da
quell'”imperialismo” a volte un po' troppo chilometrico, al quale
contrapponevano un più complesso “espansionismo”; dai conservatori,
perchè proclamavano alto di voler trattare duramente le grosse ricchezze, e
parlavan di confische di sopraprofitti, di forti tasse sull'eredità, di rivoluzione
ecc.
Viceversa, elementi democratici, nazionalisti, conservatori, liberali, ma tutti
più o meno, passati attraverso l'interventismo e la guerra, venivano alla
spicciolata ad alimentare i Fasci, che in pochi mesi crebbero assai di numero,
specialmente nella città dell'alta Italia, da Trieste a Genova, a Torino. E il
Fascismo si definì “movimento delle forze rivoluzionarie interventiste, aperto
agli italiani di tutte le fedi e di tutte le classi produttive, in vista di una nuova
battaglia, necessaria a dar valore alla guerra e alla vittoria”.
Dunque, ”rivoluzione” anche qui: solo che rivoluzione non russa, ma italiana,
quella stessa rivoluzione che era cominciata nelle giornate di maggio 1915,
era proseguita negli anni '15-'18 e attendeva ora il suo svolgimento per opera
degli interventisti e combattenti, di quanti avevano fatto la guerra con spirito
di volontari. Ora non era più in questione la neutralità o l'intervento: ma
esistevano sempre i raggruppamenti già formatisi attorno alle due tesi. Grave
e profondo era stato, nel '15, quel contrasto; decisiva, quella determinazione
che aveva trionfato. E le conseguenze erano ancora in sviluppo. Sarebbero
state in sviluppo per generazioni: “bisogna preparare nuovamente armi di
ferro, armati di ferro, e picchiare senza pietà”.
Così Mussolini il 19 Luglio '19. Quali gli obiettivi precisi di questa nuova
guerra, non appariva troppo chiaro; e forse non erano ben visibili neanche
agli occhi dei combattenti stessi. Tanto che già allora, e poi per un pezzo, si
diede motivo agli avversari (Piero Gobetti) di spiegare il fascismo con la
mancanza di ideali e miti animatori, dopo scaduti quelli del Risorgimento, e
di condannarlo come estraneo alla cultura politica. Che era un confondere
filosofia e dottrina con la vita e la storia, la quale marcia anche sotto la spinta
di sentimenti e passioni. E sentimenti e passioni non sono poi anche essi,
rudimentalmente, o non sono destinati a concretarsi in pensiero, via via che
l'azione si svolge e gli uomini acquistano consapevolezza di quella stessa
realtà che essi promuovono?
Si, certo, nel giovane fascismo le negazioni erano più energiche delle
affermazioni. Ma, nella lotta al socialismo come dottrina e partito, alla
“democrazia” politica, al regime parlamentare che in quel tempo faceva le
maggiori e peggiori sue prove, al liberalismo come si impersonava in questa
parte della classe di governo, all'elezionismo ed elettoralismo, all'astratto
“cittadino” e suoi diritti; in qualche lotta, appariva chiaro, fra l'altro e innanzi
tutto, l'orientamento del moto fascista verso un'organizzazione politica basata
su una rappresentanza organica, per classi o professioni o interessi. Che non
era poi idea di soli fascisti o filofascisti, ma, da tempo e ancor in quei mesi,
anche di socialisti e popolari; e veniva presa in qualche considerazione anche
da uomini che venivano dal liberalismo e confidavano in un risveglio liberale,
veramente liberale, come Antonio Anzillotti, e da studiosi seri di diritto
pubblico, come il Romano, vòlti ai problemi dello stato moderno e relativa
”crisi”.
E fuori d'Italia, non meno che in Italia. Anzi, qualche idea e suggestione era
venuta fuori, specialmente di Francia, come già in Francia erano venute idee e
suggestioni al vecchio sindacalismo rivoluzionario italiano. Era una specie di
reazione alla “politica”.
Si parlava di democrazia diretta, cioè di partecipazione dei gruppi produttori
organizzati alla gestione della cosa pubblica. La guerra aveva promosso
questa concezione sindacalista, screditando per un verso la “politica”, i
partiti, tante ideologie ottocentesche, lo stato burocratico e accentratore, per
un altro, dando forza e consistenza alle aristocrazie di produttori, ai gruppi
industriali e bancari, alle maestranze organizzate ecc. E aveva anche mostrato
o dato la riprova delle utilità di una stretta collaborazione fra operai e
imprenditori, ai fini della produzione e della lotta internazionale, nella quale
le distinzioni e i contrasti di classe non avevano nessun valore ed esistevano
solo nazioni, e il danno o vantaggio del proletariato e viceversa. Si trattava
ora di trarre il frutto di queste esperienze vive; di suggellare nel campo
politico-istituzionale quel che era una realtà di fatto.
E in un modo o in un altro, molti vi si applicavano, con proposte o progetti di
costituzione sindacale del parlamento: come, in quel 1919, la Confederazione
generale del lavoro, sotto la spinta di Rinaldo Rigola, e l'on. Tovini, popolare.
A non paralre dei nazionalisti, specialmente dei più vicini e affini a Corradini;
o anche di D'annunzio, che nel '20 redasse la sua “Carta del Carnaro”. Non
meno, naturalmente, i fascisti, dei quali molti usciti dal sindacalismo. Anzi,
essi andavano ancora più in là. Ai progetti Rigola e Tovini, altri. Ma, più che
di idee, il contrasto loro con socialisti e popolari era di stato d'animo.
C'era, nei fascisti e nei loro piani di ricostruzione, quell'indefinibile elemento
espresso dalle parole “guerra”, “vittoria”, “combattenti”, che era assente o
troppo blandamente presente negli altri. E c'era poi, specialmente nel capo
del fascismo, più libertà e spregiudicatezza mentale, più disposizione ad
accettar da tutte le parti, più vero spirito rivoluzionario, più capacità di
passare ai fatti, più dinamismo. E il fascismo delle origini era, per tre quarti,
Mussolini. Vera stoffa di condottiero, quest'uomo, come già si era intravisto
quando battagliava nel partito socialista e poi al tempo dei Fasci d'azione
rivoluzionaria e durante la guerra, quando la sua figura si era cominciata a
imporre anche fuori dal cerchio dei partigiani e seguaci e a delineare come il
capo ideale dell'italia in guerra, in contrapposizione ai tardi e accomodanti
uomini del governo.
Scioltosi dal socialismo, in cui non si era mai trovato veramente a suo agio,
per insofferenza di troppa gente, di troppo dottrinarismo, di troppa
organizzazione, di troppo condominio, ora pareva che avesse trovato il
campo di azione propriamente suo. Aveva rinnegato i vecchi compagni: e la
passione polemica contro di loro era non ultimo movente della sua presente
battaglia. Ma non rinnegati tuti i vecchi ideali. Anzi, poiché li aveva arricchiti,
purificati, resili accettabili ad uomini di parti diverse, adeguati ai tempi, si
considerava fedele a quegli ideali più che non lo fossero gli altri, rimasti
attaccati al vecchio scoglio. Il suo era un socialismo senza partito, senza
filosofia materialistica, lotta di classe, internazionalismo. Tendeva l'orecchio,
per avvertire le forze vive della nazione, dovunque esse fossero.
Ma la sua più viva simpatia andava a quegli operai che, in tempi di mania
scioperaiuola e di imperversante materialità, resistevano alla corrente e, pur
avendo diritti da conquistare e volontà di conquistarli, rimanevano fermi al
loro posto di lavoro, come riconoscendo che il lavorare o non lavorare non
era faccenda solo di interesse privato, da sbrigare tra prestatore e datore di
lavoro. Significativo il suo appoggio agli operai di Dalmine, che, in lotta con
gli industriali, anziché incrociare le braccia o disertare le fabbriche, sbarrano
le porte, inalberarono il tricolore e proseguirono per conto loro, proclamando,
scopi del loro sciopero, ancor più che non l'interesse proprio, “l'interesse
dell'industria italiana e il bene del popolo tutto d'Italia”.
“Per essi – disse Mussolini – parla il lavoro, il lavoro che nelle trincee ha
consacrato il suo diritto a non essere fatica, disperazione, perchè deve
diventare orgoglio,creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e
grande, entro e fuori i confini”.
Nelle masse, come capacità loro di operare rivoluzioni, poco Mussolini
credeva. Ma pure era persuaso che, dopo la guerra, si inaugurava un periodo
di “politica delle masse”. Queste masse non si poteva ignorarle, ma si doveva
illuminarle, liberarle dal fascino dei miti bolscevici e della tirannia del partito
socialista, orientarle verso una democrazia economica e politica. Il vecchio
mondo stava per crollare; qualcuno doveva raccoglierne la successione. E chi
aveva più diritto di raccoglierla, di coloro che avevano voluto e combattuto la
guerra?
CAP. V
FASCISMO E SOCIALISMO IN LOTTA
E tuttavia, per parecchi mesi, il movimento fascista ebbe un cammino difficile
e lento. Il 1919 e quasi tutto il 1920 furono pieni di un altro tentativo
rivoluzionario, quello dei socialisti. Anche essi credevano esaurito il regime
borghese e che le classi lavoratrici dovessero raccoglierne l’eredità: ma come
“proletariato” e sotto la bandiera del socialismo. Parvero per alcuni mesi
vicini al trionfo, forti come erano, o sembravano, non solo di centinaia di
migliaia di iscritti al partito, ma della simpatia e appoggio, palese od occulto,
di masse di scontenti: soldati reduci dalla guerra, operai che non avevano
fatto la guerra, ma volevano gli alti salari e, perché no?, conquistare per sé le
fabbriche; contadini e braccianti e artigiani che appetivano le terre, piccoli
borghesi e impiegati e maestri che vivevano il loro quarto d’ora di
indisciplina, svogliatezza, follia.
Vi erano, nel partito tonalità o tendenze diverse: destra, sinistra, centro. Ma,
nel ’19, le differenze parevano ridotte a poco. Egualmente irriconciliabili con
la guerra; egualmente ben disposti verso la repubblica socialista dei sovieti e
la dittatura del proletariato, come mezzo per istaurare il socialismo,
egualmente intransigenti verso il governo della borghesia e contrari a
collaborazione con esso, anche se quella borghesia era piuttosto disposta ad
accettar la collaborazione dei socialisti e quel governo fu in certo momento
rappresentato da Nitti, il ministro che, nel discorso del 9 Luglio ’19, aveva
detto “sacre” per lui le aspirazioni ad un elevazione del lavoro e manifestato
la sua fiducia che “in definitiva, l’avvenire prossimo serbi una parte sempre
più grande alle nuove democrazie del lavoro”. E il ministro Nitti cadde, alla
fine del ’19, anche per il voto contrario dei socialisti di destra o “riformisti”:
ciò che permise di mantenere ferma ancora per qualche tempo l’unità del
partito.
Il quale conquistò migliaia di comuni e decine di province, tessé una fitta rete
di cooperative, leghe, uffici di collocamento, Camere del lavoro, ebbe un
principio di sistema fiscale e giudiziario proprio; taglieggiò proprietari e
quasi ridusse a nulla, dove poté, il diritto di proprietà; ispirò occupazioni di
terre, come altre ne ispirò il partito popolare o almeno la sua ala sinistra.
Questo partito, sorto col proposito di arginare il socialismo, fu poi portato,
dallo stesso desiderio di tenergli testa, ad adottarne metodi e tattica, senza
troppa ombra anche di socialisti che vedevano nei popolari altrettanti
suscitatori e organizzatori di folle e preparatori di vie al socialismo (come
Kerensky le aveva preparate a Lenin: cfr. il comunista Gramsci, in
“Rivoluzione Liberale”, 2-9 Luglio 1922).
Si assisté così ad un discredito crescente dello Stato che, in qualche luogo,
addirittura capitolò. Nel settembre del ’20 occupazione delle fabbriche. E
pareva la vittoria. Invece, segnò il principio della rovina. Si accentuò in molti
settori la resistenza, anche armata. I cittadini cominciarono a provvedere da
sé alla loro difesa. I fasci crebbero di numero e di iscritti. Mussolini, che non
si sarebbe troppo scandalizzato se gli operai avessero occupato le fabbriche di
propria iniziativa, fuori di ogni influenza del partito socialista, come nel ’19
quelli di Dalmine, rimproverò a Giolitti, più che di aver lasciato compiere
questa occupazione, di non aver impedito la degenerazione bolscevica e
anarcoide del moto, di aver mostrato la impotenza dello Stato. E sempre più
insisté sul motivo della collaborazione, necessaria ai fini produttivi; sul
motivo dello Stato, che doveva essere forte. Visibilissima ormai, in Mussolini,
quest’ultima preoccupazione. Lo Stato non doveva lasciarsi permeare di
influenze socialiste, doveva tutelare la libertà delle masse dalle influenze
socialiste. Altrimenti, invito ai cittadini, ai fascisti di prepararsi essi, con ogni
mezzo, a combattere i piani bolscevichi…
Questa azione dei cittadini e fascisti si svolse maggiormente dove maggiore
era la pressione delle organizzazioni sociali rosse; ad esempio, nel ferrarese.
Qui si ebbero gli inizi di una organizzazione militare dei fascisti. Armati,
inquadrati, comandati da ex ufficiali, essi cominciarono ad irraggiar fuori
della città e fare rapide incursioni e colpi di mano, a protezione di lavoratori
o proprietari minacciati.
La tragedia di Palazzo Accursio a Bologna, fine del 1920, con l’uccisione di
Giulio Giordani, e quella di Ferrara, dove molti giovani fascisti caddero sotto
i colpi delle guardie rosse postesi in agguato nella loggetta del Castello
Estense, provocarono incoercibile sdegno, scatenarono la reazione dei
cittadini, accrebbero la forza dei Fasci. Poiché ormai questa resistenza,
dovunque e comunque si determinasse, sempre più si incanalava verso i
Fasci, come il suo naturale alveo: salvo quella che faceva capo, in misura più
modesta, al partito nazionalista, che era meno adatto a scendere nelle piazze
a maneggiare folle, ma che cominciò anche esso ad aver, nelle città maggiori,
qualche nucleo organizzato e armato.
Da ora in poi, i Fasci e le loro squadre operarono in una atmosfera di calorosa
simpatia. E martellarono sempre più energicamente su le organizzazioni
rosse, politiche o economiche, mirando in special modo ai capipartito, ai
capilega, ai propagandisti, alle amministrazioni comunali ecc., insomma allo
stato maggiore, nella persuasione che, caduto esso, tutto l’esercito si sarebbe
sbandato. Realmente, questo sbandamento cominciò. Qualche lega inalberò il
tricolore. Qualche altra, abbandonata dai capi e disfattasi, fu ricostruita su
nuove basi. L’abitudine all’organizzazione c’era: ed essa aiutò anche i fascisti.
Per cui, dove pareva che ci fossero le condizioni più favorevoli per il
socialismo e il sindacato rivoluzionario, qui ci furono egualmente le
condizioni più favorevoli per il nuovo sindacalismo.
CAP. VI
L’ANNO MILLENOVECENTOVENTUNO
MILLENOVECENTOVENTUNO
Anno decisivo e centrale, il 1921.
Rapido dilatarsi del fascismo nella valle del Po e fuori. La sua corrente cresce
anche per l’afflusso del fiumanesimo, cioè dei reduci di Fiume, quasi piccola
società guerriera, che, al principio di quell’anno, cacciati dalla loro città,
traboccano su tutta l’Italia, mescolandosi in parte coi fascisti, portando ad essi
il verbo dannunziano, rappresentato specialmente dalla “Carta del
Quarnaro”. E trovano seguito in particolar modo fra i più rivoluzionari, i più
irrequieti, i più impazienti di quei freni e limiti che Mussolini invece
raccomandava. Si diffondono ora più che mai, anche per il contributo che vi
portano i fiumani, quelle fogge, riti, insegne, gridi di guerra, che fanno del
fascismo una religione. Grande il loro fascino, specialmente pei giovani e
giovanetti, che, cresciuti in un’atmosfera di guerra, vogliono anche essi, ora,
far la loro guerra, concepita come un bel giuoco.
Chi vuol capir la prima vita del fascismo, bisogna che non trascuri questi suoi
aspetti. Esso è, per una parte notevole, opera non di reduci, ma di figli di
reduci, figli di caduti. La loro azione trascende dalla politica e i suoi problemi
ed è, semplicemente, istinto di lotta e di avventura, amore di rischio,
desiderio di azione, qualunque fosse.
Molti dei nuovi seguaci del fascismo erano gente di borghesia. E il fascismo
ne ebbe come una forte spinta a destra. Poteva essere una nuova rotta,
diversa da quella originaria. Ma erano gli elementi migliori della borghesia,
specialmente rurale, piccola e mezzana; specialmente borghesia di nuova e
nuovissima di formazione. E poi, borghesia della coltura. Avevano tutti quasi
fatto la guerra, e non si può dire che si muovessero proprio per interessi di
classe. I più si sentivano equidistanti fra borghesia e proletariato e agivano
sotto l’impulso di sentimenti di più alto e generale valore.
E poi, contemporaneamente o poco dopo, vi fu anche grande immissione di
gente di popolo nel fascismo, in specie nelle campagne. Accanto ai fasci
rurali, anche sindacati aderenti ai Fasci, con elementi che erano stati già
inquadrati, di buona o mala voglia, dal socialismo e che ora, riacquistata la
libertà o persa la fiducia rossa, seguivano quella del tricolore, più
promettente. Riaffiorava il miraggio de “la terra ai contadini”, già fatto
balenare ai fanti durante la guerra: ad esso attirava più che non il
collettivismo. Il Fascio cominciò a farsi quell’anima rurale che non aveva;
Mussolini si orientò verso l’idea di una “democrazia rurale” da creare.
Insomma, contrappeso alla borghesia; contrappeso specialmente agli
“agrari”, che Mussolini, allora, e poi, tenne a ben distinguere dai “rurali”.
Nella primavera del ’21, a Ferrara sorse una camera sindacale del lavoro,
nazionalmente orientata con Rossoni, che già al principio del ’18 aveva
promosso a Milano l’unione italiana del lavoro. Sono, qui e a Trieste, con
Giunta, i primi passi verso un organizzazione nazionale dei lavoratori, di
fronte alla Confederazione generale del lavoro, assai dipendente dal
socialismo, e alla popolare Confederazione italiana dei lavoratori.
Organizzazione apolitica e solo genericamente “nazionale” questa creata dai
Fasci? Così alcuni chiedevano, in omaggio al vecchio sindacalismo. Ma era
un'utopia, buona per i giorni della lotta contro i partiti avversi, non per i
giorni della vittoria. E fu politico anche questo nuovo sindacalismo:
naturalmente, fascista, cioè col pensiero politico del fascismo, che
accomunava lavoratori del braccio e della mente e si proponeva di educare il
senso della patria e della società nazionale sopra la classe, accrescer nella
collettività la capacità dei singoli, non deprimerla.
Il fascismo comincia ora ad apparire come una grande rivoluzione di popolo,
anzi la prima rivoluzione di popolo, un più compiuto Risorgimento. Si
ebbero, in primavera e autunno, convegni e congressi social-fascisti: e misero
capo alle Confederazioni sindacali e ad una Confederazione nazionale delle
corporazioni, che raccoglieva tutte le attività professionali, intellettuali,
manuali, tecniche, che identificano il diritto della loro elevazione morale ed
economica con il dovere dei cittadini verso la nazione. Insomma, si tenta una
organizzazione degli italiani fuori delle classi. Problemi diversi e fin da allora
opposti si assommano, in vista di una sintesi superatrice.
E altro cammino si compié in questo fecondissimo anno 1921. Dicemmo: il
problema dello Stato, sempre più sentito dai fascisti e dal suo capo. E non
solo per il riflesso del disordine civile di quei mesi, in cui la guerriglia
socialfascista imperversava per le vie d'Italia, con caratteri, specialmente da
parte socialista, di selvaggia violenza, ma anche della crescente maturità del
fascismo, vuoi come organizzazione, vuoi come pensiero. Ormai esso
intravedeva non lontana una ascesa al potere.
Nel Marzo, Mussolini proclama che “fra qualche mese”, tutta Italia sarà del
fascismo. Italia e fascismo, una cosa sola: e allora, il fascismo dovrà
“governare la nazione”, governarla con un programma che, quanto ad
organizzazione tecnica amministrativa politica, non si distacca molto da
quello dei socialisti, ma che, viceversa, è saturo di valori morali e tradizionali.
La discussione è aperta sul “Popolo d'italia”; più ancora, su “Gerarchia”, la
nuova rivista di Mussolini, destinata appunto a questo più alto dibattito di
idee. Urgeva chiarire, per i fascisti stessi, tanti problemi posti dal fascismo o
ad essi imposti dallo stesso suo crescere: problemi di organizzazione statale,
di rapporti stato-fascismo, di economia, di politica estera ecc. Anche di
politica estera, che era sempre più diventata uno dei centri dell'interesse
fascista, una delle ragioni d'essere del fascismo, in tanto succedersi di
malanni nostri nel campo dei rapporti internazionali. E' del maggio 1921 una
intervista di Mussolini col “Resto del Carlino” di Bologna, in cui si dichiarava
la volontà ben ferma di inaugurare, finalmente, una politica estera italiana. E
l'intervista riscosse il plauso di un lontano amico dell'italia e caldo
simpatizzante del fascismo, Giorgio Sorel, che riconosceva e deplorava le
“degradanti umiliazioni” imposte al nostro paese dagli alleati, Francia avanti
a tutti.
Il dibattito investe anche princìpi generali: che è, del resto, cosa comune a
tutti i partiti e corretti, in questo momento di appassionata revisione e
precisazione di idee e dottrine, imposta anche dalla presenza e dai progressi
del fascismo. Si ricordino le molte discussioni, d'allora nel campo liberale, su
giornali e riviste, a cui partecipano uomini destinati più tardi a far adesione
piena al fascismo, come Giovanni Gentile. Finora, i fascisti sono stati tutti
azione: ma ora sentono il bisogno anche essi di farsi una dottrina, una
dottrina che non leghi il loro sviluppo, ma sia norma orientatrice.
“Bisogna ampliare le nostre tavole programmatiche, creare la filosofia del
fascismo italiano”, dice Mussolini a primavera. Mazzini, che la guerra ha
fatto rinascere a nuova vita, ora è sempre più vivo, col suo “pensiero e
azione”, col suo idealismo e collaborazionismo, nello spirito del fascismo.
Frequenti i richiami a lui. Una lettera di Mussolini a Michele Bianchi addita a
divisa del fascismo appunto, il mazziniano “pensiero e azione”. Il fascismo va
anche in parlamento, con i suoi primi deputati. E lì, esso prende più stretto
contatto con le forze storiche d'Italia, monarchia, papato, Roma, sinonimo di
autorità disciplina, forza.
Il 21 aprile, Natale di Roma, è proclamato anche festa del fascismo e del
lavoro. Finora il fascismo è vissuto con poche radici o con radici alquanto allo
scoperto. Ora le nutre e le affonda nella tradizione storica italiana. Qualche
incertezza nei confronti con la monarchia, qualche “tendenzialità
repubblicana” anche come mezzo polemico per ristabilire una certa distanza
con molti elementi conservatori che avevano affiancato i fascisti nel periodo
elettorale. Ma presto questa “tendenzialità” è vinta. Si pende verso la
monarchia lo stesso atteggiamento che, dopo il 1849, avevano preso molti
antichi repubblicani e quasi tutti gli impazienti dell'azione, convinti ormai
che la monarchia era o poteva essere una grande forza di realizzazione,
capace di creare una unità di spiriti, che altrimenti sarebbe mancata.
Procedendo su questa strada, a fine 1921, nel congresso di Roma, il fascismo,
“movimento”, diventa “partito”: che vuol dire più unità, ormai urgente,
laddove i gregari sono tanto cresciuti; più disciplina e freno alle tendenze
autarchiche dei gruppi e capi locali, più individuazione fra i partiti, anche
affini e vicini, come i nazionalisti.
E i rapporti fra nazionalismo e fascismo vi fu, in quelle settimana, vivo
dibattito su giornali fascisti e nazionalistici, con accenti vari, sebbene
fondamentalmente concordi: De Vecchi, Marsich, Federzoni, Coppola, Rocco,
ecc. Che fossero destinati ad intendersi e forse compenetrarsi, tutti persuasi.
Ma sarebbe il fascismo andato verso il nazionalismo, tanto più maturo di
pensiero, o il nazionalismo verso il fascismo, tanto più dinamico e armato e
pronto all'azione?
Il fascismo “partito”, vuol dire anche responsabilità collettiva, un certo
distacco suo dalla persona del capo e, nel tempo stesso, elevazione del capo
sopra le polemiche quotidiane dei gregari. Egli è già il “DUCE”: una parola
che, per primo, Filippo Corridoni aveva pronunciato dal fronte. E' il più
sollecito fra i fascisti a voler porre fine all'anarchia dei partiti. Agisce ora da
freno, ora da pungolo. Egli è tanto in alto sopra il suo stesso partito, che
molti, nelle zone politiche vicine, distinguono Mussolini e fascismo, diffidano
ancora del fascismo, hanno fiducia in Mussolini. La storia del fascismo
sarebbe difficile a scrivere, se si facesse astrazione dalla singolarissima
personalità di quest'uomo, sorto non a caso, in mezzo a questi eventi, ma
capace di imprimere un suggello potente su gli eventi stessi.
Nel Congresso di Roma di fine 1921, emersero più chiari i fini positivi, quasi
programma, per quanto considerato suscettibile di mutazioni e precisazioni:
politica estera autonoma, dopo tanta servitù; revisione dei trattati; delle forze
produttive interne, anche ai fini di quella autonomia; avvaloramento delle
colonie e pacifica espansione mediterranea; svecchiamento e rinvigorimento
della rappresentanza diplomatica e consolare; Consigli delle rappresentanze
dirette degli interessi e delle competenze; riconoscimento giuridico dei
sindacati, partecipi del potere legislativo perchè le masse meglio aderiscano
allo Stato; uno Stato forte, autoritario , insieme, agile, ricco di spiritualità ed
elasticità.
E' necessario constatarlo? Ma qui c'è tutto che poi il fascismo al governo è
stato ed ha fatto con una rispondenza e coerenza fra programma e azione
quale nessun altro partito politico, giunto al potere, ha mai mostrato. C'erano,
in questo fascismo, ormai maturo, elementi del vecchio liberalismo di destra,
pensieri di sindacalisti, aspirazioni di nazionalisti.
C'era anche del socialismo.
socialismo Mussolini ed il fascismo non erano neanche
estranei a quel certo ravvivamento relligioso o, quanto meno, riconoscimento
generale dell'importanza storica del cattolicesimo e della utilità di un
possibile riavvicinamento fra italia e papato, che si era avuto negli ultimi
anni. Un articolo di Mussolini su “Gerarchia”, del '22, diceva: “il XIX secolo
ha messo su gli altari la materia. Ora ritornano i valori dello spirito,
primissimi quelli religiosi”.
Insomma, nessuna corrente ideale aveva attraversato e avviato negli ultimi 20
o 30 anni lo spirito italiano che qui non si ritrovasse, negata e pur accolta, cioè
superata. Poiché quel che aveva ereditato o assorbito da altri, il fascismo lo
riviveva in modo nuovo e suo, in sintesi vivente. Per opera sua, i pensieri
diventavano azione, le dottrine si adeguavano alla realtà, diventata anche
essa più capace di adeguarsi a quelle dottrine. Tutto passava attraverso il
calore di una grande passione, quasi religione, e di uno spirito come
Mussolini, che dava unità, chiarezza, rilievo, originalità anche a ciò che era
frammentario, nebuloso, utopistico.
Opera di creazione per eccellenza. Solo a questa condizione il fascismo e
Mussolini poterono riportare vittoria e pretendere l'altissima gloria di
impersonare, più di ogni altro partito, l'Italia.
CAP. VII
MARCIA SU ROMA
Divenuto partito, elevatosi come unità morale, disciplina, organizzazione
militare, come coscienza di sé e fiducia nelle proprie forze, il fascismo occupa
ormai, nel 1922, il centro della vita politica italiana, per quello che esso è e per
quello che si sente, si presente che possa essere, dato il suo rapido crescere,
l’energia vitale da cui pareva animato, la forza di proselitismo che
manifestava.
Qui non è il caso di rifare la grande cronaca di quei mesi, con le sue rapide
mobilitazioni e adunate, con le sue occupazioni di città e defenestrazioni di
sindaci e consiglieri, con la vittoriosa battaglia data allo sciopero generale tra
il luglio e l’agosto. Insomma, quasi un allenamento, tecnico e morale, a cose
maggiori; un graduale ma ben visibile sostituirsi ai poteri del governo e
impersonare lo Stato. E naturalmente, si rafforza ancora quell’unità
disciplina, organizzazione, coscienza, fiducia.
Laddove il contrario accadeva negli altri campi. Divisi fra la sinistra
bolscevizzante e la destra temperatissima, i popolari. Ventata di tendenze
varie, la cosiddetta democrazia che nel corso del ’22 si quadripartisce. I
socialisti, che già han visto i comunisti staccarsi dal partito, si segmentano in
massimalisti, terzinternazionalisti, centristi. E non bene si intendono il partito
e il gruppo parlamentare che rode il freno, non bene la Confederazione e il
partito: la quale Confederazione, poi, ha opinioni diverse, se parla il
Consiglio direttivo o il Consiglio nazionale.
E tutto questo è, poco o molto, riflesso, conseguenza del fascismo. Ormai non
c’è atteggiamento di partiti, vicenda di gabinetti, manovra parlamentare,
corrente di opinione pubblica, in cui il fascismo non sia idealmente presente e
operante. Solo l’incubo del fascismo, per esempio, fa maturare entro il partito
socialista, dopo tanta intransigenza anche di “riformisti”, idee e propositi di
collaborazione, specialmente per le proprie opera del gruppo parlamentare e
della Confederazione del lavoro.
Sperano, maneggiando qualche leva di governo, di poter meglio difendere le
proprie organizzazioni e combattere il fascismo. E già a fine ’21, il gruppo
parlamentare aveva tentato di far cadere il ministero Bonomi e mandar su un
governo che, reggendosi con l’appoggio dei socialisti, fornisse i mezzi per
questa battaglia antifascista. E ora, a fine luglio, durante una crisi del
gabinetto Facta, Filippo Turati è ricevuto dal Re, è consultato sulla crisi. La
collaborazione, che, anche fuori dal socialismo, molti auguravano, appare in
vista. Ma ormai è troppo tardi. Mussolini poteva anche pensare ad una
grande coalizione di socialisti, popolari, fascisti, i tre partiti di masse,
coalizione in cui il più giovane e ardimentoso dei tre aveva la possibilità di
entrare come primis inter pares.
Ma non aveva nessuna intenzione si assistere, ora specialmente, ad una
ascesa dei socialisti al governo. Vi erano già dei popolari, si sarebbero saldati
i legami fra i due partiti: e naturalmente, in odio al fascismo. Vuol dire che lo
sciopero generale, scoppiato proprio in quei giorni, per ispirazione dell’ala
rivoluzionaria del partito, annullò ogni piano di collaborazione dei socialisti
al governo. In tali condizioni, operando sotto l’assillo di tali contingenze, si
può facilmente pensare che cosa diventasse il parlamento italiano.
Storia lacrimevole!
Vano agitarsi di gruppi e gruppetti che nessuna idea politica muove, nessun
sentimento degli interessi generali, nessun programma, nessuna intenzione di
collaborare, anche se necessità tattiche spingono più gruppi ad allearsi.
Ma sono alleanze occasionali. Ridotti a nulla anche i compiti e diritti della
Corona. Essa è abbassata ad una specie di ufficio di registrazione delle
categoriche indicazione dei partiti. Insomma, estrema degenerazione e
corruzione, riconosciuta e deplorata allora da tutti, anche da non fascisti. Le
conseguenze sono ministeri effimeri, che un piccolo spostamento di pedine
nello scacchiere di Montecitorio rovescia, crisi ministeriali durano settimane;
impotenza di governo; contrapposizione di un governo di fatto a un governo
di diritto e coesistenza loro.
Nell’agosto, stroncato lo sciopero generale, squadre fasciste si
impadroniscono del comune di Milano e distruggono l’”Avanti!”, pagando
tributo di sangue. Dànno battaglia a Savona, a Parma, a Livorno, a Genova,
dove occupano il porto, cittadella dei socialisti e delle loro cooperative;
occupano palazzo San Giorgio. In settembre, adunata dei Fasci della Venezia
Giulia a Udine.
E Mussolini, parlando alle squadre lì raccolte, elevò il pensiero a Roma,
destinata a diventare il “cuore pulsante della sognata Italia imperiale”,
riconobbe chiaramente nella monarchia una forza di continuità e di unità:
“Dobbiamo avere il coraggio di essere monarchici”. Basta demolire la
superstruttursa socialistoide-democratica, alleggerire lo Stato italiano dei
troppi compiti, lasciargli sempre più grande dominio dello spirito. Fra
settembre e ottobre, eventi gravi in Alto Adige. Si trattava di troncare
pericolose velleità autonomistiche, fare rispettare l’Italia e la sua legge. E
anche qui i fascisti subentrano allo Stato: rapida concentrazione di squadre
vicentine, trentine, cremonesi, bresciane, mantovane; irruzione in Bolzano,
occupazione del municipio, ove si inalbera il tricolore e si mette l’effige del re.
28 ottobre: marcia su Roma. La prima fase della rivoluzione era conclusa.
Fine.
Storico (Paganica, Aquila 1876 - Santarcangelo di Romagna, Forlì 1971).
Professore di storia moderna all'Accademia scientifico-letteraria di Milano
(dal 1906), poi nell'università di Roma (1924 -1940).
Diresse fino al 1943 la Scuola di storia moderna e contemporanea .
Direttore della sezione Storia medievale e moderna della Enciclopedia
Italiana (1925-37). Deputato al Parlamento nella XXVII legislatura (1924-29);
membro della Commissione per lo studio delle riforme costituzionali;
segretario generale dell'Accademia d'Italia (1929-34).
Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei (1935-46). Direttore della Rivista
storica italiana. Personalità di rilievo nella storiografia italiana
contemporanea, si dedicò dapprima allo studio del Medioevo e del periodo
comunale; e poi si orientò verso la storia dell'Italia moderna ed il problema
propriamente politico.
La sua opera maggiore sono i 3 volumi di Italia moderna (1943(1943-52).
52)
Altre opere: Francesco Crispi (1928); Guerra, dopoguerra, fascismo (1928);
L'Italia nella Triplice alleanza, 18821882-1915 (1940); L'impresa di Tripoli, 19111911-12
(1946); L'Italia del Risorgimento e l'Europa,
l'Europa in Nuove questioni di storia del
Risorgimento e dell'Unità di Italia , vol. I, 1961; L'Italia com'era (1961); Storici
e maestri (1967); Scritti sul fascismo (raccolta postuma, 1976); Nel regno di
Clio (postumo, 1977).
EDIZIONE IMPAGINATA
XII.I.MMX
http://msdfli.wordpress.com/