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GIOACCHINO VOLPE

INDICE 1° cap. Genesi e introduzione; 2° cap. Precedenti ideali; 3° cap. Guerra rivoluzionaria; 4° cap. Fascio e Fascismo delle origini; 5° cap. Fascismo e Socialismo in lotta. 6° cap. L’anno Millenovecentoventuno. 7° cap. Marcia su Roma. CAP. I GENESI E INTRODUZIONE Non cerchiamo troppo lontano le origini del fascismo. Lasciamo in pace i “precursori”, si chiamino essi Giovanni dalle Bande Nere o Gian Galeazzo Visconti o Giulio Cesare. Se proprio vogliamo rifarci indietro, guardiamo tutta la storia italiana, in quanto rivela certe qualità e attitudini e tendenze del nostro popolo, masse o individui; guardiamo un po’ di più il XIX secolo, cioè il Risorgimento, con il suo sforzo di dare all’Italia coscienza piena di azione e di creare lo Stato unitario, con la sua potente aspirazione ad un presente e ad una avvenire pari al passato, con il suo giobertismo e il mito del “primato” o della sua “missione”, con i suoi elementi di socialismo nazionale, con il potente lievito idealistico del suo Mazzini, con il suo garibaldinismo e volontarismo. Ancora di più, guardiamo le forme istituzionali, i gruppi sociali, i pensieri, gli ideali, che tennero il campo, eredità ormai logora del passato o formazione nuova. CAP. II PRECEDENTI IDEALI E’ di quel periodo una certa ascesa della grande massa del popolo italiano. I progressi dell’economia, la grande industria, il risveglio agricolo, lo sviluppo dei centri urbani, le agitazioni a sfondo sociale, la stessa emigrazione, determinano o accompagnano questa ascesa, che è economica e intellettuale più che veramente politica, ma che appunto per questo comincia a determinare uno squilibrio fra l’Italia di fatto e l’Italia di diritto, fra “paese” e Stato o governo. Non bisogna dimenticare, a questo proposito, il movimento socialista, che disciplina, inquadra, anima una parte di queste masse e, pur mentre le spinge contro la nazione e lo Stato, in realtà unificandole, togliendole al chiuso della vita locale, comunicando loro qualche passione e interesse politico, le predispone più che non fossero a sentirsi parte della nazione e dello Stato; e poi, impone nuovi problemi ai ceti dirigenti, immette un nuovo rivolo di pensiero nella corrente idealmente povera della cultura italiana, concorre al discredito di ormai invecchiate ideologie ottantanovesche, come l’astratta “libertà” e il repubblicanesimo dei repubblicani, ancora fermo alla parola, a certe parole, di Giuseppe Mazzini. Col nuovo secolo, nuovi e più generali e visibili progressi, con relative decadenze: rafforzamento, insieme, di borghesia, e di proletariato; maggiore ricchezza e benessere, più alti pensieri e più insoddisfazione dello stato presente della vita italiana, più reazione tanto al socialismo quanto al vecchio Stato liberale e parlamentare e ai ristretti gruppi politici che lo impersonavano, più consapevole sforzo di rinnovare, più ambizioni e speranze per la nazione. E’ il tempo che si tenta ravvivare lo stanco liberalismo, con un ritorno alle sue origini, cioè a Cavour, in vista di un rafforzamento dello Stato, di una politica estera a più lontani obiettivi, di maggiore slancio da comunicare alla nazione: tentativi legati al nome di Giovanni Borelli, buon seminatore di entusiasmi e di ideali fra i giovani, se anche povero di capacità realizzatrici. E’ il tempo della democrazia cristiana che sorge contro il clericalismo e socialismo, cioè contro la democrazia materialista e classista, col proposito di elevare, sì, le plebi, ma anche temperare con lo spirito cristiano i contrasti sociali, immettere una corrente di religiosità nel movimento proletario, combattere la mentalità giacobina e massonica della democrazia. Un secolo prima si era cercato di conciliare cattolicesimo e liberalismo; ora, cattolicesimo e democrazia. Pure contro il socialismo, tendente al riformismo, un movimento sindacalista che ha teorici e giornali (“Avanguardia socialista”, “Divenire sociale”, “Pagine Libere”). Suoi centri sono le zone di più evoluto o irrequieto proletariato industriale e agricolo, specialmente la bassa padana e il ferrarese, che nel primo decennio del secolo diventano zona di grandi e classici scioperi. Esso vuole essere un socialismo più socialista, cioè più radicale, antidemocratico o volto ad una nuova democrazia, antiparlamentare e fautore dell’azione diretta, credente nella virtù delle minoranze. Si propone di liberare le organizzazioni operaie dalle ideologie dei partiti, comunicar ad esse vero impulso rivoluzionario, ispirar la persuasione che il loro avvenire era nelle loro mani: “filosofia della volontà”, “idealismo rivoluzionario”, si disse. E anche filosofia dell’azione, fede nella virtù dell’azione. Un po’ Sorel, un po’ Bergson, che vedeva il mondo animato da uno slancio vitale, da una forza creativa immanente che opera senza legge. Confida, questo sindacalismo, nel proletariato: ma ritiene necessario anche un potenziamento della borghesia, per creare più propizie condizioni alla nuova società dei lavoratori. Quindi non esclude imprese coloniali, non esclude la guerra, cui riconosce certa virtù creatrice. E guarda la nazione con altri occhi che non, fino allora, i socialisti di stampo marxista. Vuol anzi trarre il ceto operaio dal chiuso della sua categoria e farlo capace di ascendere alla nazione. Breve la vita del sindacalismo italiano. Attorno al 1910, esso, logorato dalla sua stessa frenetica sciopero mania, messo fuori dalle file del socialismo, si sbanda: ma qualcosa di esso rivive poi in altre forme, in combinazione con altre idee e altri movimenti politici. Proprio in questi stessi anni, prendeva corpo, come attività pratica, dopo che da circa un decennio volteggiava in aria come sentimento e anche come dottrina o semidottrina, il nazionalismo. Esso si oppone all’egualitarismo della democrazia politica, afferma la nazione e la sua individualità di fronte ai vari internazionalismi socialista massonico affarista clericale, aspira a ridar autorità e finalità etiche allo Stato contro partiti, parlamento, burocrazia. E chiede una seria politica coloniale, una seria politica dell’emigrazione, perché questa non si risolva in impoverimento della nazione. Altra cosa dal sindacalismo rivoluzionario, che nasceva, sia pur volgendogli contro i denti, dal socialismo. Ma, fra essi, anche affinità notevoli: che è fatto propriamente italiano, laddove in Francia le due dottrine rimasero ben distinte e il nazionalismo fu nettamente conservatore. Egualmente, antidemocrazia e antiparlamentarismo, antipacifismo e antiumanitarismo. Rappresentava, il movimento nazionalista, la nuova rinnovata coscienza del valore della borghesia produttiva: ma non era estranea ad esso l’idea di creare i sindacati operai e portarli a collaborar nella nazione, e organizzar questa come una società di produttori, necessariamente solidali. Solidarietà: non a scopo di mera conservazione, come altri la predicava sibbene a scopo di potenza e di impero. Di qui certo presentimento, specialmente in taluni nazionalisti, di aver coi sindacalisti della strada da far insieme. “Il loro punto di partenza è sotto un certo punto di vista il nostro. E’ la prima dottrina sincera e di forza sorta dal nemico”, scriveva nel 1909 Enrico Corradini, salutando il sorgere del “Tricolore”, che era un piccolo giornale nazionalista o “imperialista” del gruppo torinese, diretto da Mario Viana, il quale voleva anche esso “liberare il mondo operaio dalla tirannide demagogica democratica e socialista, per poi averlo alleato nella grande impresa della nazione imperialista”; voleva potenziar borghesia e proletariato e portarli ad intendersi direttamente e collaborare ai fini della nazione. “Se di fronte ad una borghesia ricca si leva un proletariato unito e rivoluzionario, la società capitalistica raggiungerà la sua perfezione storica”. Linguaggio classista, ma tendenza a inquadrare, equilibrare, pareggiare, superare le classi nella nazione, concepita come organismo vivente, produttore di ricchezza, operatore di storia del mondo. Insomma, movimenti diversi, in parte cozzanti, in parte convergenti, contrari al socialismo in quanto dottrina, ma non in quanto problemi sociali e del lavoro; contrari alla democrazia politica, ma in vista di più sostanziosa democrazia; contrari al quel certo modo di governare che si disse giolittismo, fatto di transazioni, accomodamenti, gretto empirismo, corruzione elettorale, contaminazione di affari e politica, disconoscimento dei valori ideali. Comunque, sentimento più elevato della vita fede viva nelle forze creatrici dello spirito, contrapposti al materialismo storico. Da ogni parte, impulsi innovatori di varia intensità e natura, che traevano alimento dalla persuasione che la nazione fosse ormai migliore del suo governo, che i suoi ceti dirigenti fossero esauriti, che bisognasse mutar uomini e modi di governare. Tale persuasione agiva come un fermento rivoluzionario. E, poiché diffusa fra gente di ogni partito, così creava certa solidarietà e possibilità di azione comune, indipendentemente dai partiti stessi, in vista di scopi che trascendevano i particolari scopi dei singoli partiti. CAP. III GUERRA RIVOLUZIONARIA Venne cosi il 1914. Provocata da altri, la guerra europea fu subito afferrata come una bandiera, oltre che da manipoli più battaglieri dell’irredentismo, da quanti erano all’opposizione dell'Italia “borghese" o falsamente “liberali” o parlamentare o giolittiana. Cominciò la crisi per l'intervento o la neutralità: che volle dire ulteriore corrosione di partiti, ognuno dei quali ebbe i suoi interventisti e i suoi neutralisti. Anche il partito socialista. Mussolini, direttore dell’”Avanti", sdegnoso di affiancarsi ai riformisti, a repubblicani, a democratici, a massoni interventisti, fiducioso forse di trovare nell’opposizione socialista e popolari alla guerra una piattaforma rivoluzionaria, rimase, in un primo momento, col partito e per la neutralità. Ma, quando vide che la neutralità lo accomunava alla parte più conservatrice della borghesia italiana; che la guerra, assai più della pace, portava nelle sue pieghe elementi di rivoluzione, che la neutralità avrebbe tagliato fuori dall'azione e dalla storia il partito socialista e le masse da esso guidate, passò all'interventismo: che, naturalmente, significava Italia cioè accettazione piena dei valori nazionali. Forse sperava di trascinarsi dietro partito e masse. Non gli riuscì. Ma pure, molti “compagni” lo seguirono. E i fasci di azione rivoluzionaria che egli fondò in principio dell'anno 1915, composti dei più accesi elementi di sinistra, rappresentarono anche l’interventismo socialista: allargarono le braccia, aperta già da Bissolati e da altri, nelle ideologie classiste e internazionaliste di quel partito, fornirono nuovi impulsi alla formazione di un socialismo nazionale. Seguirono mesi di aspro travaglio civile. Che non fu in tutto benefica, alla vigilia di un grande sforzo che avrebbe voluto concordia massima di cuori. Ma anche benefica. Quella guerra, che in ogni modo noi avremmo dovuto combattere, assunse un carattere di volontarietà che la elevò, la nobilitò, ne ne accrebbe le possibilità rivoluzionarie. Voluta contro i socialisti e conservatori, prese un contenuto fortemente antisocialista e anticonservatore. Parlamento, parlamentarisino e mondo parlamentare ebbero grave ferita, quando si vide la nazione muoversi fuori e contro la sua legale rappresentanza e indirizzarsi al Re e al suo governo, e il governo farsi forte della nazione per imporsi al parlamento. Vi fu già allora chiara visione, rallegrandosene o dolendosene, che un'era della vita italiana si chiudeva ed un'altra se ne inaugurava: anche nei rapporti interni, oltreché internazionali. Poi, quasi quattro anni di guerra. Tensione di spiriti nazionali, quanto meno in taluni settori, pur mentre il vecchio partito socialista esasperava il suo internazionalismo e si metteva veramente a preparare la sua rivoluzione, sfruttando il malcontento di guerra e attingendo dall'esempio russo nuove certezze; altro logorio di partiti e di ruggruppamenti per classi di ideologie classiste per far posto alla figura del combattente, in cui ci si fondeva borghese e proletario; nobilitato e avvalorato con la morte sul campo, il nuovo ideale di un ceto operaio non più chiuso nel suo egoismo e materialismo, ma capace di sentire la patria (fra i tanti morti Filippio Corridoni, che veniva dal popolo, dal socialismo e sindacalismo rivoluzionario, ed aveva seguito Mussolini); sentimento più vivo, nella borghesia colta, dei problemi del lavoro, cioè un più sostanzioso contenuto sociale immesso nella guerra, ai fini di un'elevazione complessiva della vita nazionale. Si ricordi il gran discutere che, specialmente nel '18 se ne fece, anche in giornali corservatori. Il "Popolo d'Italia", poi, battè e ribattè su l'idea che, per un verso, la classe operaia non poteva ignorare la nazione; per l'altro, il lavoro doveva avere grande parte nella ricostruzione economica, politica e morale della nazione stessa. E Mussolini invitava gli italiani ad andare incontro ai lavoratori reduci dalla trincea, a tener alto in essi il sentimento virile della vittoria, a interessarli alle fortune della patria. Si ebbe così maggiore accettazione di principi sindacali nel nazionalismo e nazionali nel sindacalismo rivoluzionario, che ormai proclamava doversi la patria conquistare non negare. E poi, elevazione economica e morale attraverso attività civili e belliche, di elementi popolari e piccolo-borghesi che poi, nello sforzo di rimaner su le posizioni raggiunte e di affermarsi anche nel campo politico, avrebbero operato come energico fermento rivoluzionario, al seguito di quella qualunque dottrina o ideologia che fosse apparsa più corrispondente a quello scopo. E ulteriore discredito di vecchi gruppi dirigenti. La guerra, coronata in ultimo dalla vittoria diede gloria ai combattenti, ma non la diede al parlamento, al governo, ad una parte notevole della borghesia, che apparvero o impari ai grandi eventi, o tiepidi di fronte agli ideali della guerra o troppo comodamente profittatori. Sia giusto o ingiusto questo giudizio: ma fu sincero e si mutò in sentimento operoso. All'eroismo dei soldati, prodighi del loro sangue, si contrapponeva in netto contrasto, specialmente dai gruppi più accesi dell'interventismo e dai soldati stessi, la debolezza del governo, le chiacchiere di Montecitorio che al governo dava più impaccio che aiuto, gli equivoci atteggiamenti di certa grossa e grassa borghesia dedita agli affari e troppo abituatasi a guardar la guerra dall'angolo visuale degli affari. Il vecchio antiparlamentarismo, fatto un po' di immaginazione, un po' di giusti motivi attinti dalla realtà, fu grandemente alimentato. Aggiungi un altro fatto importante: nuovo esperimento sul fronte di guerra, dopo che sulle piazze nei mesi della neutralità, del valore decisivo delle minoranze energiche, dei nuclei disposti a tutto. Guerra di masse, si, quella che si combatteva. Ma più essa progrediva, e e più creava la persuasione che bisognasse affidarsi alla volontà e alle iniziativa degli individui e dei piccoli gruppi selezionati: “Credo urgente introdurre sempre più decisamente l'elemento qualitativo in questa enorme guerra quantitativa”; mutare la guerra “da fatica e sacrificio di masse rassegnate, in guerra da guerrieri consapevoli pronti a tutto”. Ponete una volontà d'acciaio contro una massa, e voi riuscirete a sgretolare la massa. Bisogna trovar nello spirito un punto d'appoggio. Non è fatale che la guerra sia massa, inerzia, numero, quantità. Valorizzare l'individuo. Così scriveva Mussolini, dopo l'impresa di Rizzo, giugno '18: impresa possibile, “perchè è stata tentata, perchè esisteva la volontà di tentare”. E chiedeva ai governanti un grano di follia, di “intelligente e razionale follia”. Certo Mussolini faceva assai prò di queste lezioni dell'esperienza, per quando, abbandonato il vecchio sogno di una rivoluzione di masse, ne tenterà una di minoranze, di “guerrieri consapevoli e pronti a tutto”. CAP. IV FASCIO E FASCISMO DELLE ORIGINI Chi non vede in tutti questi fatti, illuminati dalla esperienza del poi; chi non vede in nuce, nei suoi elementi essenziali, il fascismo, le passioni e interessi che poi hanno dato impulso al fascismo? Il quale apparve, in un angolo della agitata ribalta italiana, nel marzo 1919, come piccolo raggruppamento di vecchi interventisti, specialmente della sinistra rivoluzionaria, di uomini cioè che più degli altri, con più speranze e illusioni, con ardore quasi da neofiti, con rigetto di quasi il loro passato, si erano impegnati nella battaglia per l’intervento, avevano battuto su la nota di una guerra sempre più vasta risoluta intransigente contro nemici esterni, e seguitato a mantenere viva l’idea della “guerra rivoluzionaria”, l’attesa di una trasformazione anche sociale della vita italiana. Ora, nella stanchezza del dopoguerra, nella irritazione di tutti e contro tutti e contro tutto, nelle delusioni interne e internazionali cresciute su la rovina di tante speranze, nel disorientamento mentale seguito al logorio di tanti “princìpi”, nello sbandamento degli interventisti che rompevano ogni solidarietà, nella ricompensa del vecchio neutralismo armato di ironia e di sarcasmo, nella nuova baldanza del partito socialista animato da spirito di rivalse e da velleità rivoluzionarie a base di “dittatura del proletariato”; ora, quegli interventisti degli antichi Fasci rivoluzionari si raccolgono a difesa della guerra combattuta, delle memorie e dei valori della guerra, dei frutti sperati se non raccolti della guerra. Difesa contro i socialisti, accaniti contro la guerra fatta, come già contro la guerra da fare; contro quanti, per antica opposizione all’intervento o per stanchezza e pentimento, voltavano le spalle alla guerra e si dimostravano disposti a ogni transazione dentro e fuori i confini; contro il governo che pareva male amministrasse il patrimonio della vittoria e troppo debolmente tenesse testa sia ai nemici interni, sia agli alleati. Difendendo la guerra, essi, che avevano più o meno rotto i ponti con il loro passato più antico, difendevano il più recente passato, il passato di guerra. A questo si attaccavano come naufraghi ad un rottame. Molti raggruppamenti di resistenza e di propaganda patriottica, antisocialista, antitedesca, irredentista, adriatica, ecc., erano allora disseminati in tutta Italia, formatisi specialmente dopo Caporetto o dopo la vittoria, di fronte a nuovi pericoli minaccianti: unioni, leghe, Fasci, ecc. Si aggiunse ora il Fascio di combattimento milanese, che nacque il 23 Marzo 1919. Fascio che è certo da ricollegare a quelli mussoliniani del 1915 e che poi sempre più fu visto nella sua ideale continuità con questi ultimi, ma che ora si presentò come cosa nuova. E Mussolini tenne chiaramente a distinguere da quei fasci rivoluzionari gli attuali Fasci di combattimento. Non erano neanche questi un partito, pur in un momento in cui i partiti vecchi e nuovi si davano un gran da fare per ricomporsi, aggiornarsi, buttar giù dei programmi. Era piuttosto “l'antipartito”. Non una organizzazione di propaganda, ma di combattimento, destinata a volgersi tanto contro il misoneismo di destra quanto contro le velleità distruttive del comunismo di sinistra. Non una dottrina repubblicana democratica conservatrice nazionalista, ma “una sintesi di tutte le negazioni e di tutte le affermazioni”. Nei Fasci “si danno spontaneamente convegno tutti coloro che soffrono il disagio delle vecchie categorie, delle vecchie mentalità. Il fascismo, mentre neppure rinnega tutti i partiti, li completa.”. Quindi, neppure troppi contatti o alleanze, se non momentanee, con altri partiti: che anzi, i fascisti erano guardati dai democratici in sospetto perchè parevano inclinar al nazionalismo o addirittura all'imperialismo; dai nazionalisti, perchè intinti di qualche pece societaria e alieni da quell'”imperialismo” a volte un po' troppo chilometrico, al quale contrapponevano un più complesso “espansionismo”; dai conservatori, perchè proclamavano alto di voler trattare duramente le grosse ricchezze, e parlavan di confische di sopraprofitti, di forti tasse sull'eredità, di rivoluzione ecc. Viceversa, elementi democratici, nazionalisti, conservatori, liberali, ma tutti più o meno, passati attraverso l'interventismo e la guerra, venivano alla spicciolata ad alimentare i Fasci, che in pochi mesi crebbero assai di numero, specialmente nella città dell'alta Italia, da Trieste a Genova, a Torino. E il Fascismo si definì “movimento delle forze rivoluzionarie interventiste, aperto agli italiani di tutte le fedi e di tutte le classi produttive, in vista di una nuova battaglia, necessaria a dar valore alla guerra e alla vittoria”. Dunque, ”rivoluzione” anche qui: solo che rivoluzione non russa, ma italiana, quella stessa rivoluzione che era cominciata nelle giornate di maggio 1915, era proseguita negli anni '15-'18 e attendeva ora il suo svolgimento per opera degli interventisti e combattenti, di quanti avevano fatto la guerra con spirito di volontari. Ora non era più in questione la neutralità o l'intervento: ma esistevano sempre i raggruppamenti già formatisi attorno alle due tesi. Grave e profondo era stato, nel '15, quel contrasto; decisiva, quella determinazione che aveva trionfato. E le conseguenze erano ancora in sviluppo. Sarebbero state in sviluppo per generazioni: “bisogna preparare nuovamente armi di ferro, armati di ferro, e picchiare senza pietà”. Così Mussolini il 19 Luglio '19. Quali gli obiettivi precisi di questa nuova guerra, non appariva troppo chiaro; e forse non erano ben visibili neanche agli occhi dei combattenti stessi. Tanto che già allora, e poi per un pezzo, si diede motivo agli avversari (Piero Gobetti) di spiegare il fascismo con la mancanza di ideali e miti animatori, dopo scaduti quelli del Risorgimento, e di condannarlo come estraneo alla cultura politica. Che era un confondere filosofia e dottrina con la vita e la storia, la quale marcia anche sotto la spinta di sentimenti e passioni. E sentimenti e passioni non sono poi anche essi, rudimentalmente, o non sono destinati a concretarsi in pensiero, via via che l'azione si svolge e gli uomini acquistano consapevolezza di quella stessa realtà che essi promuovono? Si, certo, nel giovane fascismo le negazioni erano più energiche delle affermazioni. Ma, nella lotta al socialismo come dottrina e partito, alla “democrazia” politica, al regime parlamentare che in quel tempo faceva le maggiori e peggiori sue prove, al liberalismo come si impersonava in questa parte della classe di governo, all'elezionismo ed elettoralismo, all'astratto “cittadino” e suoi diritti; in qualche lotta, appariva chiaro, fra l'altro e innanzi tutto, l'orientamento del moto fascista verso un'organizzazione politica basata su una rappresentanza organica, per classi o professioni o interessi. Che non era poi idea di soli fascisti o filofascisti, ma, da tempo e ancor in quei mesi, anche di socialisti e popolari; e veniva presa in qualche considerazione anche da uomini che venivano dal liberalismo e confidavano in un risveglio liberale, veramente liberale, come Antonio Anzillotti, e da studiosi seri di diritto pubblico, come il Romano, vòlti ai problemi dello stato moderno e relativa ”crisi”. E fuori d'Italia, non meno che in Italia. Anzi, qualche idea e suggestione era venuta fuori, specialmente di Francia, come già in Francia erano venute idee e suggestioni al vecchio sindacalismo rivoluzionario italiano. Era una specie di reazione alla “politica”. Si parlava di democrazia diretta, cioè di partecipazione dei gruppi produttori organizzati alla gestione della cosa pubblica. La guerra aveva promosso questa concezione sindacalista, screditando per un verso la “politica”, i partiti, tante ideologie ottocentesche, lo stato burocratico e accentratore, per un altro, dando forza e consistenza alle aristocrazie di produttori, ai gruppi industriali e bancari, alle maestranze organizzate ecc. E aveva anche mostrato o dato la riprova delle utilità di una stretta collaborazione fra operai e imprenditori, ai fini della produzione e della lotta internazionale, nella quale le distinzioni e i contrasti di classe non avevano nessun valore ed esistevano solo nazioni, e il danno o vantaggio del proletariato e viceversa. Si trattava ora di trarre il frutto di queste esperienze vive; di suggellare nel campo politico-istituzionale quel che era una realtà di fatto. E in un modo o in un altro, molti vi si applicavano, con proposte o progetti di costituzione sindacale del parlamento: come, in quel 1919, la Confederazione generale del lavoro, sotto la spinta di Rinaldo Rigola, e l'on. Tovini, popolare. A non paralre dei nazionalisti, specialmente dei più vicini e affini a Corradini; o anche di D'annunzio, che nel '20 redasse la sua “Carta del Carnaro”. Non meno, naturalmente, i fascisti, dei quali molti usciti dal sindacalismo. Anzi, essi andavano ancora più in là. Ai progetti Rigola e Tovini, altri. Ma, più che di idee, il contrasto loro con socialisti e popolari era di stato d'animo. C'era, nei fascisti e nei loro piani di ricostruzione, quell'indefinibile elemento espresso dalle parole “guerra”, “vittoria”, “combattenti”, che era assente o troppo blandamente presente negli altri. E c'era poi, specialmente nel capo del fascismo, più libertà e spregiudicatezza mentale, più disposizione ad accettar da tutte le parti, più vero spirito rivoluzionario, più capacità di passare ai fatti, più dinamismo. E il fascismo delle origini era, per tre quarti, Mussolini. Vera stoffa di condottiero, quest'uomo, come già si era intravisto quando battagliava nel partito socialista e poi al tempo dei Fasci d'azione rivoluzionaria e durante la guerra, quando la sua figura si era cominciata a imporre anche fuori dal cerchio dei partigiani e seguaci e a delineare come il capo ideale dell'italia in guerra, in contrapposizione ai tardi e accomodanti uomini del governo. Scioltosi dal socialismo, in cui non si era mai trovato veramente a suo agio, per insofferenza di troppa gente, di troppo dottrinarismo, di troppa organizzazione, di troppo condominio, ora pareva che avesse trovato il campo di azione propriamente suo. Aveva rinnegato i vecchi compagni: e la passione polemica contro di loro era non ultimo movente della sua presente battaglia. Ma non rinnegati tuti i vecchi ideali. Anzi, poiché li aveva arricchiti, purificati, resili accettabili ad uomini di parti diverse, adeguati ai tempi, si considerava fedele a quegli ideali più che non lo fossero gli altri, rimasti attaccati al vecchio scoglio. Il suo era un socialismo senza partito, senza filosofia materialistica, lotta di classe, internazionalismo. Tendeva l'orecchio, per avvertire le forze vive della nazione, dovunque esse fossero. Ma la sua più viva simpatia andava a quegli operai che, in tempi di mania scioperaiuola e di imperversante materialità, resistevano alla corrente e, pur avendo diritti da conquistare e volontà di conquistarli, rimanevano fermi al loro posto di lavoro, come riconoscendo che il lavorare o non lavorare non era faccenda solo di interesse privato, da sbrigare tra prestatore e datore di lavoro. Significativo il suo appoggio agli operai di Dalmine, che, in lotta con gli industriali, anziché incrociare le braccia o disertare le fabbriche, sbarrano le porte, inalberarono il tricolore e proseguirono per conto loro, proclamando, scopi del loro sciopero, ancor più che non l'interesse proprio, “l'interesse dell'industria italiana e il bene del popolo tutto d'Italia”. “Per essi – disse Mussolini – parla il lavoro, il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere fatica, disperazione, perchè deve diventare orgoglio,creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande, entro e fuori i confini”. Nelle masse, come capacità loro di operare rivoluzioni, poco Mussolini credeva. Ma pure era persuaso che, dopo la guerra, si inaugurava un periodo di “politica delle masse”. Queste masse non si poteva ignorarle, ma si doveva illuminarle, liberarle dal fascino dei miti bolscevici e della tirannia del partito socialista, orientarle verso una democrazia economica e politica. Il vecchio mondo stava per crollare; qualcuno doveva raccoglierne la successione. E chi aveva più diritto di raccoglierla, di coloro che avevano voluto e combattuto la guerra? CAP. V FASCISMO E SOCIALISMO IN LOTTA E tuttavia, per parecchi mesi, il movimento fascista ebbe un cammino difficile e lento. Il 1919 e quasi tutto il 1920 furono pieni di un altro tentativo rivoluzionario, quello dei socialisti. Anche essi credevano esaurito il regime borghese e che le classi lavoratrici dovessero raccoglierne l’eredità: ma come “proletariato” e sotto la bandiera del socialismo. Parvero per alcuni mesi vicini al trionfo, forti come erano, o sembravano, non solo di centinaia di migliaia di iscritti al partito, ma della simpatia e appoggio, palese od occulto, di masse di scontenti: soldati reduci dalla guerra, operai che non avevano fatto la guerra, ma volevano gli alti salari e, perché no?, conquistare per sé le fabbriche; contadini e braccianti e artigiani che appetivano le terre, piccoli borghesi e impiegati e maestri che vivevano il loro quarto d’ora di indisciplina, svogliatezza, follia. Vi erano, nel partito tonalità o tendenze diverse: destra, sinistra, centro. Ma, nel ’19, le differenze parevano ridotte a poco. Egualmente irriconciliabili con la guerra; egualmente ben disposti verso la repubblica socialista dei sovieti e la dittatura del proletariato, come mezzo per istaurare il socialismo, egualmente intransigenti verso il governo della borghesia e contrari a collaborazione con esso, anche se quella borghesia era piuttosto disposta ad accettar la collaborazione dei socialisti e quel governo fu in certo momento rappresentato da Nitti, il ministro che, nel discorso del 9 Luglio ’19, aveva detto “sacre” per lui le aspirazioni ad un elevazione del lavoro e manifestato la sua fiducia che “in definitiva, l’avvenire prossimo serbi una parte sempre più grande alle nuove democrazie del lavoro”. E il ministro Nitti cadde, alla fine del ’19, anche per il voto contrario dei socialisti di destra o “riformisti”: ciò che permise di mantenere ferma ancora per qualche tempo l’unità del partito. Il quale conquistò migliaia di comuni e decine di province, tessé una fitta rete di cooperative, leghe, uffici di collocamento, Camere del lavoro, ebbe un principio di sistema fiscale e giudiziario proprio; taglieggiò proprietari e quasi ridusse a nulla, dove poté, il diritto di proprietà; ispirò occupazioni di terre, come altre ne ispirò il partito popolare o almeno la sua ala sinistra. Questo partito, sorto col proposito di arginare il socialismo, fu poi portato, dallo stesso desiderio di tenergli testa, ad adottarne metodi e tattica, senza troppa ombra anche di socialisti che vedevano nei popolari altrettanti suscitatori e organizzatori di folle e preparatori di vie al socialismo (come Kerensky le aveva preparate a Lenin: cfr. il comunista Gramsci, in “Rivoluzione Liberale”, 2-9 Luglio 1922). Si assisté così ad un discredito crescente dello Stato che, in qualche luogo, addirittura capitolò. Nel settembre del ’20 occupazione delle fabbriche. E pareva la vittoria. Invece, segnò il principio della rovina. Si accentuò in molti settori la resistenza, anche armata. I cittadini cominciarono a provvedere da sé alla loro difesa. I fasci crebbero di numero e di iscritti. Mussolini, che non si sarebbe troppo scandalizzato se gli operai avessero occupato le fabbriche di propria iniziativa, fuori di ogni influenza del partito socialista, come nel ’19 quelli di Dalmine, rimproverò a Giolitti, più che di aver lasciato compiere questa occupazione, di non aver impedito la degenerazione bolscevica e anarcoide del moto, di aver mostrato la impotenza dello Stato. E sempre più insisté sul motivo della collaborazione, necessaria ai fini produttivi; sul motivo dello Stato, che doveva essere forte. Visibilissima ormai, in Mussolini, quest’ultima preoccupazione. Lo Stato non doveva lasciarsi permeare di influenze socialiste, doveva tutelare la libertà delle masse dalle influenze socialiste. Altrimenti, invito ai cittadini, ai fascisti di prepararsi essi, con ogni mezzo, a combattere i piani bolscevichi… Questa azione dei cittadini e fascisti si svolse maggiormente dove maggiore era la pressione delle organizzazioni sociali rosse; ad esempio, nel ferrarese. Qui si ebbero gli inizi di una organizzazione militare dei fascisti. Armati, inquadrati, comandati da ex ufficiali, essi cominciarono ad irraggiar fuori della città e fare rapide incursioni e colpi di mano, a protezione di lavoratori o proprietari minacciati. La tragedia di Palazzo Accursio a Bologna, fine del 1920, con l’uccisione di Giulio Giordani, e quella di Ferrara, dove molti giovani fascisti caddero sotto i colpi delle guardie rosse postesi in agguato nella loggetta del Castello Estense, provocarono incoercibile sdegno, scatenarono la reazione dei cittadini, accrebbero la forza dei Fasci. Poiché ormai questa resistenza, dovunque e comunque si determinasse, sempre più si incanalava verso i Fasci, come il suo naturale alveo: salvo quella che faceva capo, in misura più modesta, al partito nazionalista, che era meno adatto a scendere nelle piazze a maneggiare folle, ma che cominciò anche esso ad aver, nelle città maggiori, qualche nucleo organizzato e armato. Da ora in poi, i Fasci e le loro squadre operarono in una atmosfera di calorosa simpatia. E martellarono sempre più energicamente su le organizzazioni rosse, politiche o economiche, mirando in special modo ai capipartito, ai capilega, ai propagandisti, alle amministrazioni comunali ecc., insomma allo stato maggiore, nella persuasione che, caduto esso, tutto l’esercito si sarebbe sbandato. Realmente, questo sbandamento cominciò. Qualche lega inalberò il tricolore. Qualche altra, abbandonata dai capi e disfattasi, fu ricostruita su nuove basi. L’abitudine all’organizzazione c’era: ed essa aiutò anche i fascisti. Per cui, dove pareva che ci fossero le condizioni più favorevoli per il socialismo e il sindacato rivoluzionario, qui ci furono egualmente le condizioni più favorevoli per il nuovo sindacalismo. CAP. VI L’ANNO MILLENOVECENTOVENTUNO MILLENOVECENTOVENTUNO Anno decisivo e centrale, il 1921. Rapido dilatarsi del fascismo nella valle del Po e fuori. La sua corrente cresce anche per l’afflusso del fiumanesimo, cioè dei reduci di Fiume, quasi piccola società guerriera, che, al principio di quell’anno, cacciati dalla loro città, traboccano su tutta l’Italia, mescolandosi in parte coi fascisti, portando ad essi il verbo dannunziano, rappresentato specialmente dalla “Carta del Quarnaro”. E trovano seguito in particolar modo fra i più rivoluzionari, i più irrequieti, i più impazienti di quei freni e limiti che Mussolini invece raccomandava. Si diffondono ora più che mai, anche per il contributo che vi portano i fiumani, quelle fogge, riti, insegne, gridi di guerra, che fanno del fascismo una religione. Grande il loro fascino, specialmente pei giovani e giovanetti, che, cresciuti in un’atmosfera di guerra, vogliono anche essi, ora, far la loro guerra, concepita come un bel giuoco. Chi vuol capir la prima vita del fascismo, bisogna che non trascuri questi suoi aspetti. Esso è, per una parte notevole, opera non di reduci, ma di figli di reduci, figli di caduti. La loro azione trascende dalla politica e i suoi problemi ed è, semplicemente, istinto di lotta e di avventura, amore di rischio, desiderio di azione, qualunque fosse. Molti dei nuovi seguaci del fascismo erano gente di borghesia. E il fascismo ne ebbe come una forte spinta a destra. Poteva essere una nuova rotta, diversa da quella originaria. Ma erano gli elementi migliori della borghesia, specialmente rurale, piccola e mezzana; specialmente borghesia di nuova e nuovissima di formazione. E poi, borghesia della coltura. Avevano tutti quasi fatto la guerra, e non si può dire che si muovessero proprio per interessi di classe. I più si sentivano equidistanti fra borghesia e proletariato e agivano sotto l’impulso di sentimenti di più alto e generale valore. E poi, contemporaneamente o poco dopo, vi fu anche grande immissione di gente di popolo nel fascismo, in specie nelle campagne. Accanto ai fasci rurali, anche sindacati aderenti ai Fasci, con elementi che erano stati già inquadrati, di buona o mala voglia, dal socialismo e che ora, riacquistata la libertà o persa la fiducia rossa, seguivano quella del tricolore, più promettente. Riaffiorava il miraggio de “la terra ai contadini”, già fatto balenare ai fanti durante la guerra: ad esso attirava più che non il collettivismo. Il Fascio cominciò a farsi quell’anima rurale che non aveva; Mussolini si orientò verso l’idea di una “democrazia rurale” da creare. Insomma, contrappeso alla borghesia; contrappeso specialmente agli “agrari”, che Mussolini, allora, e poi, tenne a ben distinguere dai “rurali”. Nella primavera del ’21, a Ferrara sorse una camera sindacale del lavoro, nazionalmente orientata con Rossoni, che già al principio del ’18 aveva promosso a Milano l’unione italiana del lavoro. Sono, qui e a Trieste, con Giunta, i primi passi verso un organizzazione nazionale dei lavoratori, di fronte alla Confederazione generale del lavoro, assai dipendente dal socialismo, e alla popolare Confederazione italiana dei lavoratori. Organizzazione apolitica e solo genericamente “nazionale” questa creata dai Fasci? Così alcuni chiedevano, in omaggio al vecchio sindacalismo. Ma era un'utopia, buona per i giorni della lotta contro i partiti avversi, non per i giorni della vittoria. E fu politico anche questo nuovo sindacalismo: naturalmente, fascista, cioè col pensiero politico del fascismo, che accomunava lavoratori del braccio e della mente e si proponeva di educare il senso della patria e della società nazionale sopra la classe, accrescer nella collettività la capacità dei singoli, non deprimerla. Il fascismo comincia ora ad apparire come una grande rivoluzione di popolo, anzi la prima rivoluzione di popolo, un più compiuto Risorgimento. Si ebbero, in primavera e autunno, convegni e congressi social-fascisti: e misero capo alle Confederazioni sindacali e ad una Confederazione nazionale delle corporazioni, che raccoglieva tutte le attività professionali, intellettuali, manuali, tecniche, che identificano il diritto della loro elevazione morale ed economica con il dovere dei cittadini verso la nazione. Insomma, si tenta una organizzazione degli italiani fuori delle classi. Problemi diversi e fin da allora opposti si assommano, in vista di una sintesi superatrice. E altro cammino si compié in questo fecondissimo anno 1921. Dicemmo: il problema dello Stato, sempre più sentito dai fascisti e dal suo capo. E non solo per il riflesso del disordine civile di quei mesi, in cui la guerriglia socialfascista imperversava per le vie d'Italia, con caratteri, specialmente da parte socialista, di selvaggia violenza, ma anche della crescente maturità del fascismo, vuoi come organizzazione, vuoi come pensiero. Ormai esso intravedeva non lontana una ascesa al potere. Nel Marzo, Mussolini proclama che “fra qualche mese”, tutta Italia sarà del fascismo. Italia e fascismo, una cosa sola: e allora, il fascismo dovrà “governare la nazione”, governarla con un programma che, quanto ad organizzazione tecnica amministrativa politica, non si distacca molto da quello dei socialisti, ma che, viceversa, è saturo di valori morali e tradizionali. La discussione è aperta sul “Popolo d'italia”; più ancora, su “Gerarchia”, la nuova rivista di Mussolini, destinata appunto a questo più alto dibattito di idee. Urgeva chiarire, per i fascisti stessi, tanti problemi posti dal fascismo o ad essi imposti dallo stesso suo crescere: problemi di organizzazione statale, di rapporti stato-fascismo, di economia, di politica estera ecc. Anche di politica estera, che era sempre più diventata uno dei centri dell'interesse fascista, una delle ragioni d'essere del fascismo, in tanto succedersi di malanni nostri nel campo dei rapporti internazionali. E' del maggio 1921 una intervista di Mussolini col “Resto del Carlino” di Bologna, in cui si dichiarava la volontà ben ferma di inaugurare, finalmente, una politica estera italiana. E l'intervista riscosse il plauso di un lontano amico dell'italia e caldo simpatizzante del fascismo, Giorgio Sorel, che riconosceva e deplorava le “degradanti umiliazioni” imposte al nostro paese dagli alleati, Francia avanti a tutti. Il dibattito investe anche princìpi generali: che è, del resto, cosa comune a tutti i partiti e corretti, in questo momento di appassionata revisione e precisazione di idee e dottrine, imposta anche dalla presenza e dai progressi del fascismo. Si ricordino le molte discussioni, d'allora nel campo liberale, su giornali e riviste, a cui partecipano uomini destinati più tardi a far adesione piena al fascismo, come Giovanni Gentile. Finora, i fascisti sono stati tutti azione: ma ora sentono il bisogno anche essi di farsi una dottrina, una dottrina che non leghi il loro sviluppo, ma sia norma orientatrice. “Bisogna ampliare le nostre tavole programmatiche, creare la filosofia del fascismo italiano”, dice Mussolini a primavera. Mazzini, che la guerra ha fatto rinascere a nuova vita, ora è sempre più vivo, col suo “pensiero e azione”, col suo idealismo e collaborazionismo, nello spirito del fascismo. Frequenti i richiami a lui. Una lettera di Mussolini a Michele Bianchi addita a divisa del fascismo appunto, il mazziniano “pensiero e azione”. Il fascismo va anche in parlamento, con i suoi primi deputati. E lì, esso prende più stretto contatto con le forze storiche d'Italia, monarchia, papato, Roma, sinonimo di autorità disciplina, forza. Il 21 aprile, Natale di Roma, è proclamato anche festa del fascismo e del lavoro. Finora il fascismo è vissuto con poche radici o con radici alquanto allo scoperto. Ora le nutre e le affonda nella tradizione storica italiana. Qualche incertezza nei confronti con la monarchia, qualche “tendenzialità repubblicana” anche come mezzo polemico per ristabilire una certa distanza con molti elementi conservatori che avevano affiancato i fascisti nel periodo elettorale. Ma presto questa “tendenzialità” è vinta. Si pende verso la monarchia lo stesso atteggiamento che, dopo il 1849, avevano preso molti antichi repubblicani e quasi tutti gli impazienti dell'azione, convinti ormai che la monarchia era o poteva essere una grande forza di realizzazione, capace di creare una unità di spiriti, che altrimenti sarebbe mancata. Procedendo su questa strada, a fine 1921, nel congresso di Roma, il fascismo, “movimento”, diventa “partito”: che vuol dire più unità, ormai urgente, laddove i gregari sono tanto cresciuti; più disciplina e freno alle tendenze autarchiche dei gruppi e capi locali, più individuazione fra i partiti, anche affini e vicini, come i nazionalisti. E i rapporti fra nazionalismo e fascismo vi fu, in quelle settimana, vivo dibattito su giornali fascisti e nazionalistici, con accenti vari, sebbene fondamentalmente concordi: De Vecchi, Marsich, Federzoni, Coppola, Rocco, ecc. Che fossero destinati ad intendersi e forse compenetrarsi, tutti persuasi. Ma sarebbe il fascismo andato verso il nazionalismo, tanto più maturo di pensiero, o il nazionalismo verso il fascismo, tanto più dinamico e armato e pronto all'azione? Il fascismo “partito”, vuol dire anche responsabilità collettiva, un certo distacco suo dalla persona del capo e, nel tempo stesso, elevazione del capo sopra le polemiche quotidiane dei gregari. Egli è già il “DUCE”: una parola che, per primo, Filippo Corridoni aveva pronunciato dal fronte. E' il più sollecito fra i fascisti a voler porre fine all'anarchia dei partiti. Agisce ora da freno, ora da pungolo. Egli è tanto in alto sopra il suo stesso partito, che molti, nelle zone politiche vicine, distinguono Mussolini e fascismo, diffidano ancora del fascismo, hanno fiducia in Mussolini. La storia del fascismo sarebbe difficile a scrivere, se si facesse astrazione dalla singolarissima personalità di quest'uomo, sorto non a caso, in mezzo a questi eventi, ma capace di imprimere un suggello potente su gli eventi stessi. Nel Congresso di Roma di fine 1921, emersero più chiari i fini positivi, quasi programma, per quanto considerato suscettibile di mutazioni e precisazioni: politica estera autonoma, dopo tanta servitù; revisione dei trattati; delle forze produttive interne, anche ai fini di quella autonomia; avvaloramento delle colonie e pacifica espansione mediterranea; svecchiamento e rinvigorimento della rappresentanza diplomatica e consolare; Consigli delle rappresentanze dirette degli interessi e delle competenze; riconoscimento giuridico dei sindacati, partecipi del potere legislativo perchè le masse meglio aderiscano allo Stato; uno Stato forte, autoritario , insieme, agile, ricco di spiritualità ed elasticità. E' necessario constatarlo? Ma qui c'è tutto che poi il fascismo al governo è stato ed ha fatto con una rispondenza e coerenza fra programma e azione quale nessun altro partito politico, giunto al potere, ha mai mostrato. C'erano, in questo fascismo, ormai maturo, elementi del vecchio liberalismo di destra, pensieri di sindacalisti, aspirazioni di nazionalisti. C'era anche del socialismo. socialismo Mussolini ed il fascismo non erano neanche estranei a quel certo ravvivamento relligioso o, quanto meno, riconoscimento generale dell'importanza storica del cattolicesimo e della utilità di un possibile riavvicinamento fra italia e papato, che si era avuto negli ultimi anni. Un articolo di Mussolini su “Gerarchia”, del '22, diceva: “il XIX secolo ha messo su gli altari la materia. Ora ritornano i valori dello spirito, primissimi quelli religiosi”. Insomma, nessuna corrente ideale aveva attraversato e avviato negli ultimi 20 o 30 anni lo spirito italiano che qui non si ritrovasse, negata e pur accolta, cioè superata. Poiché quel che aveva ereditato o assorbito da altri, il fascismo lo riviveva in modo nuovo e suo, in sintesi vivente. Per opera sua, i pensieri diventavano azione, le dottrine si adeguavano alla realtà, diventata anche essa più capace di adeguarsi a quelle dottrine. Tutto passava attraverso il calore di una grande passione, quasi religione, e di uno spirito come Mussolini, che dava unità, chiarezza, rilievo, originalità anche a ciò che era frammentario, nebuloso, utopistico. Opera di creazione per eccellenza. Solo a questa condizione il fascismo e Mussolini poterono riportare vittoria e pretendere l'altissima gloria di impersonare, più di ogni altro partito, l'Italia. CAP. VII MARCIA SU ROMA Divenuto partito, elevatosi come unità morale, disciplina, organizzazione militare, come coscienza di sé e fiducia nelle proprie forze, il fascismo occupa ormai, nel 1922, il centro della vita politica italiana, per quello che esso è e per quello che si sente, si presente che possa essere, dato il suo rapido crescere, l’energia vitale da cui pareva animato, la forza di proselitismo che manifestava. Qui non è il caso di rifare la grande cronaca di quei mesi, con le sue rapide mobilitazioni e adunate, con le sue occupazioni di città e defenestrazioni di sindaci e consiglieri, con la vittoriosa battaglia data allo sciopero generale tra il luglio e l’agosto. Insomma, quasi un allenamento, tecnico e morale, a cose maggiori; un graduale ma ben visibile sostituirsi ai poteri del governo e impersonare lo Stato. E naturalmente, si rafforza ancora quell’unità disciplina, organizzazione, coscienza, fiducia. Laddove il contrario accadeva negli altri campi. Divisi fra la sinistra bolscevizzante e la destra temperatissima, i popolari. Ventata di tendenze varie, la cosiddetta democrazia che nel corso del ’22 si quadripartisce. I socialisti, che già han visto i comunisti staccarsi dal partito, si segmentano in massimalisti, terzinternazionalisti, centristi. E non bene si intendono il partito e il gruppo parlamentare che rode il freno, non bene la Confederazione e il partito: la quale Confederazione, poi, ha opinioni diverse, se parla il Consiglio direttivo o il Consiglio nazionale. E tutto questo è, poco o molto, riflesso, conseguenza del fascismo. Ormai non c’è atteggiamento di partiti, vicenda di gabinetti, manovra parlamentare, corrente di opinione pubblica, in cui il fascismo non sia idealmente presente e operante. Solo l’incubo del fascismo, per esempio, fa maturare entro il partito socialista, dopo tanta intransigenza anche di “riformisti”, idee e propositi di collaborazione, specialmente per le proprie opera del gruppo parlamentare e della Confederazione del lavoro. Sperano, maneggiando qualche leva di governo, di poter meglio difendere le proprie organizzazioni e combattere il fascismo. E già a fine ’21, il gruppo parlamentare aveva tentato di far cadere il ministero Bonomi e mandar su un governo che, reggendosi con l’appoggio dei socialisti, fornisse i mezzi per questa battaglia antifascista. E ora, a fine luglio, durante una crisi del gabinetto Facta, Filippo Turati è ricevuto dal Re, è consultato sulla crisi. La collaborazione, che, anche fuori dal socialismo, molti auguravano, appare in vista. Ma ormai è troppo tardi. Mussolini poteva anche pensare ad una grande coalizione di socialisti, popolari, fascisti, i tre partiti di masse, coalizione in cui il più giovane e ardimentoso dei tre aveva la possibilità di entrare come primis inter pares. Ma non aveva nessuna intenzione si assistere, ora specialmente, ad una ascesa dei socialisti al governo. Vi erano già dei popolari, si sarebbero saldati i legami fra i due partiti: e naturalmente, in odio al fascismo. Vuol dire che lo sciopero generale, scoppiato proprio in quei giorni, per ispirazione dell’ala rivoluzionaria del partito, annullò ogni piano di collaborazione dei socialisti al governo. In tali condizioni, operando sotto l’assillo di tali contingenze, si può facilmente pensare che cosa diventasse il parlamento italiano. Storia lacrimevole! Vano agitarsi di gruppi e gruppetti che nessuna idea politica muove, nessun sentimento degli interessi generali, nessun programma, nessuna intenzione di collaborare, anche se necessità tattiche spingono più gruppi ad allearsi. Ma sono alleanze occasionali. Ridotti a nulla anche i compiti e diritti della Corona. Essa è abbassata ad una specie di ufficio di registrazione delle categoriche indicazione dei partiti. Insomma, estrema degenerazione e corruzione, riconosciuta e deplorata allora da tutti, anche da non fascisti. Le conseguenze sono ministeri effimeri, che un piccolo spostamento di pedine nello scacchiere di Montecitorio rovescia, crisi ministeriali durano settimane; impotenza di governo; contrapposizione di un governo di fatto a un governo di diritto e coesistenza loro. Nell’agosto, stroncato lo sciopero generale, squadre fasciste si impadroniscono del comune di Milano e distruggono l’”Avanti!”, pagando tributo di sangue. Dànno battaglia a Savona, a Parma, a Livorno, a Genova, dove occupano il porto, cittadella dei socialisti e delle loro cooperative; occupano palazzo San Giorgio. In settembre, adunata dei Fasci della Venezia Giulia a Udine. E Mussolini, parlando alle squadre lì raccolte, elevò il pensiero a Roma, destinata a diventare il “cuore pulsante della sognata Italia imperiale”, riconobbe chiaramente nella monarchia una forza di continuità e di unità: “Dobbiamo avere il coraggio di essere monarchici”. Basta demolire la superstruttursa socialistoide-democratica, alleggerire lo Stato italiano dei troppi compiti, lasciargli sempre più grande dominio dello spirito. Fra settembre e ottobre, eventi gravi in Alto Adige. Si trattava di troncare pericolose velleità autonomistiche, fare rispettare l’Italia e la sua legge. E anche qui i fascisti subentrano allo Stato: rapida concentrazione di squadre vicentine, trentine, cremonesi, bresciane, mantovane; irruzione in Bolzano, occupazione del municipio, ove si inalbera il tricolore e si mette l’effige del re. 28 ottobre: marcia su Roma. La prima fase della rivoluzione era conclusa. Fine. Storico (Paganica, Aquila 1876 - Santarcangelo di Romagna, Forlì 1971). Professore di storia moderna all'Accademia scientifico-letteraria di Milano (dal 1906), poi nell'università di Roma (1924 -1940). Diresse fino al 1943 la Scuola di storia moderna e contemporanea . Direttore della sezione Storia medievale e moderna della Enciclopedia Italiana (1925-37). Deputato al Parlamento nella XXVII legislatura (1924-29); membro della Commissione per lo studio delle riforme costituzionali; segretario generale dell'Accademia d'Italia (1929-34). Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei (1935-46). Direttore della Rivista storica italiana. Personalità di rilievo nella storiografia italiana contemporanea, si dedicò dapprima allo studio del Medioevo e del periodo comunale; e poi si orientò verso la storia dell'Italia moderna ed il problema propriamente politico. La sua opera maggiore sono i 3 volumi di Italia moderna (1943(1943-52). 52) Altre opere: Francesco Crispi (1928); Guerra, dopoguerra, fascismo (1928); L'Italia nella Triplice alleanza, 18821882-1915 (1940); L'impresa di Tripoli, 19111911-12 (1946); L'Italia del Risorgimento e l'Europa, l'Europa in Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell'Unità di Italia , vol. I, 1961; L'Italia com'era (1961); Storici e maestri (1967); Scritti sul fascismo (raccolta postuma, 1976); Nel regno di Clio (postumo, 1977). EDIZIONE IMPAGINATA XII.I.MMX http://msdfli.wordpress.com/