osservatorio
REFERENDUM: UN NO
PER L’AVVENIRE DELLA DEMOCRAZIA
Claudio De Fiores
Una riforma che ha origini lontane: la Trilateral e il craxismo.
Maastricht, la riforma del titolo V e il referendum del 2006.
La lettera Draghi-Trichet e il pareggio di bilancio in Costituzione.
La riforma delle costituzioni come risposta alla crisi economica.
La riforma Boschi: perché votare No!
Tra le tante e contraddittorie argomentazioni ostentate dai fautori della riforma costituzionale vi è
una che emerge ripetutamente.
Una ragione di ordine superiore
che attiene all’esigenza di uniformare la nostra “vecchia” costituzione repubblicana al mondo, ai
suoi inediti orizzonti, alle tendenze della globalizzazione: «nel 1947,
quando la Costituzione fu approvata […] non si era neppure avviata la globalizzazione. Oggi governi e parlamenti nazionali debbono rispettare standard sovranazionali»1.
Una argomentazione, quanto mai pregnante, che colloca il processo di revisione costituzionale
italiano all’interno di uno scenario
che trascende la dimensione
nazionale, connettendolo alle tendenze globali. Ma a cosa si allude
quando si parla di globalizzazione?
E chi ha fissato gli «standard
sovranazionali» ai quali oggi governi e parlamenti sono tenuti a pie-
garsi? Si tratta di fatali tendenze
della storia o siamo piuttosto in presenza di una costruzione ideologica
fomentata in questi anni dal mutamento dei rapporti di forza e dalle
nuove forme di dominio sul mondo?
Provare a rispondere, in poche
pagine, a questi interrogativi non è
agevole. Anche perché ci troviamo in
presenza di tendenze che non
nascono con la riforma Boschi-Renzi-Verdini, ma che affondano la loro
origine nel secolo scorso. Ciò che è
però immediatamente evidente è
l’intento ideologico che ne è alla base:
arginare le pretese del costituzionalismo democratico che, a partire dagli
anni Sessanta, avevano fatto da detonatore alla costruzione degli ordinamenti democratici e alla diffusione dei diritti sociali.
La Trilateral
e le riforme craxiane
Le mobilitazioni operaie e studen-
tesche diffusesi (seppure con diversa intensità) in tutto l’Occidente, a cavallo tra gli anni Sessanta
e Settanta, avevano determinato
un «eccesso di democrazia» e un
«sovraccarico di partecipazione»
che i paesi a capitalismo maturo
non erano più in grado di sopportare. Di qui l’esigenza, teorizzata dal
pensiero conservatore, di iniettare
nel sistema «una certa dose di apatia e di disimpegno». E tutto ciò al
preminente fine di favorire una rapida riemersione delle élites e consentire per questa via al sistema di
«funzionare efficacemente»2.
È questa la premessa di fondo posta alla base del Rapporto
della Trilateral del 1975. Ed è da
qui che è venuto scaturendo il
bisogno, ideologicamente indotto,
di «fare della governabilità della
democrazia una questione vitale e
davvero impellente per le società
della Trilaterale»3: l’unica soluzione in grado di consentire alla società di funzionare e risolvere i
Claudio De Fiores
guasti prodotti dal «subbuglio politico»4 degli anni Sessanta, additato non a caso dal Rapporto come il
principale responsabile del sovvertimento istituzionale e sociale che aveva «condotto alla delegittimazione
dell’autorità in genere ed alla perdita di fiducia nella leadership»5.
Le ragioni sottese all’istituzione della Commissione Trilaterale
sono quindi evidenti e così anche i
suoi obiettivi di fondo: espungere il
conflitto sociale dalla dimensione politica e provare, per questa via, a porre un argine alla «espansione democratica della partecipazione e dell’impegno politico [che] ha generato
un “sovraccarico” sul governo»6.
Le conseguenze del pronunciamento della Trilateral non si faranno attendere. A cavallo fra gli
anni settanta e gli anni ottanta, con
la vittoria prima della Thatcher nel
Regno Unito (1979) e poi di Reagan
negli Usa (1980), la reazione capitalista torna prepotentemente in
campo in tutto l’Occidente. Gli assetti democratici degli Stati europei
entrano progressivamente in crisi.
In Italia, il paese «malato più malato d’Europa»7, bersaglio privilegiato di quest’offensiva diviene la
Costituzione repubblicana.
Inizia a delinearsi, su queste
inedite basi, quello che sarà uno dei
caratteri salienti del revisionismo
italiano. Ci si riferisce al rapporto
costante, a esso sotteso, tra i desiderata delle grandi istituzioni finanziarie mondiali e le riforme, tra
le incalzanti aspirazioni della globalizzazione capitalista e la revisione costituzionale.
A fare da apripista a queste
10
tendenze è il volume di Giuliano
Amato, Una Repubblica da riformare. L’opera si colloca all’interno di un
solco ideologico destinato a mietere
notevoli successi soprattutto negli
anni successivi. La “democrazia governante” è il leit motiv che sorreggerà l’intero volume, come si evince
già dalla sua introduzione significativamente intitolata: Dal caso italiano al capitalismo ingovernabile.
La soluzione che viene prospettata spiazza tutte le forze democratiche e in particolare la sinistra. Per Amato una «credibile strategia intesa a recuperare la governabilità del Paese»8 non può che
portare al presidenzialismo.
Con la pubblicazione di Una
Repubblica da riformare il revisionismo irrompe con forza per la prima volta nel dibattito politico in Italia uscendo definitivamente da
quella che era stata, fino a quel momento, la sua originaria «condizione di semi-clandestinità»9.
Ed è da quelle pagine che è destinata a trarre forza e legittimazione culturale la “grande riforma”
lanciata dal segretario del Partito
socialista Bettino Craxi contro «la
difficile governabilità, il dominio
della lentocrazia […] la intempestività dei processi decisionali»10.
Da Maastricht
al referendum del 2016
Il sistema craxiano di potere è condannato a tramontare rapidamente, ma non anche la stagione del revisionismo regressivo, destinato negli anni successivi a radicarsi ulte-
riormente. L’invocazione del potere
costituente da parte del presidente
Cossiga e la sua smania di “picconare” la Costituzione saranno la prima
tappa. Ma a facilitare queste tendenze sarà soprattutto la decomposizione del quadro politico favorita
nei primi anni Novanta dall’inchiesta di Tangentopoli e dall’introduzione del sistema maggioritario.
Per coprire il vuoto lasciato
dai partiti di massa si ricorre all’impiego di inedite risorse politiche
e simboliche, alle quali vengono riconosciute (soprattutto dal sistema
mediatico) vere e proprie capacità
taumaturgiche: la semplificazione
politica, la democrazia governante,
la retorica del capo.
La riforma della Carta del ‘48
è oramai all’ordine del giorno nell’agenda politica del Paese. Tra il 1993
e il 1997 si registreranno ben tre tentativi organici di modifica della seconda parte della Costituzione: la
Commissione Iotti-De Mita (19931994); il Comitato Speroni (1994); la
Bicamerale D’Alema (1997). Tutti
falliti.
Sono questi gli anni in cui il
primato del mercato in economia si
combina, sul piano politico, all’affermazione della cultura plebiscitaria e al disprezzo della mediazione
politica. A tal punto che finanche il
patto costituente del 1947 tenderà
progressivamente ad assumere nel
senso comune i deplorevoli connotati di un “patto partitocratico”, la dimostrazione più significativa della
mentalità “consociativa” dei vecchi partiti di massa.
La riforma del titolo V della
Costituzione, voluta dal centrosi-
11
nistra a partire dalla fine degli
anni Novanta, si colloca esattamente in questo solco. Due i suoi
principali cardini. Da una parte
l’introduzione, con la L. cost. n.
1/1999, dell’elezione diretta dei
presidenti di Regione. Dall’altra la
significativa apertura del testo costituzionale all’ideologia del mercato (L. cost. n. 3/2001): introduzione del principio di sussidiarietà
orizzontale (in coerenza con quanto previsto dal Trattato di Maastricht); trattamento privilegiato
per le regioni economicamente più
forti (cd. federalismo asimmetrico
ex art. 116); previsione degli standard “essenziali” di prestazione
nella tutela dei diritti civili e sociali. Disposizione, quest’ultima, contenuta all’art. 117 (lett. m) e destinata a compromettere gravemente
la pretesa di ogni cittadino di essere trattato in egual modo in ogni
parte del territorio della Repubblica (in coerenza con quanto sancito
dall’art. 3 della Costituzione).
La riforma del titolo V era
stata voluta al preminente fine di
sottrarre alle destre il monopolio
della questione costituzionale.
Giocare d’anticipo – si disse –
avrebbe consentito al centrosinistra di “governare” il revisionismo
costituzionale arginando le proposte “eversive” della destra.
Una previsione destinata a
essere immediatamente smentita.
In quello stesso anno, il governo
Berlusconi, uscito vittorioso dalle
elezioni, annuncia la sua intenzione di procedere a una ampia e articolata riforma della seconda parte della Costituzione: «una neces-
sità conseguente alla globalizzazione, alla fine della Guerra fredda, all’avanzamento del processo
di integrazione europea»11.
Di qui il varo di una (ipotesi
di) riforma, ancora una volta imperniata, sulla concentrazione del
potere politico nelle mani del governo (cd. premierato assoluto) e
sulla rottura dei vincoli di solidarietà sociale all’interno del Paese
(cd. devolution). Se la riforma costituzionale delle destre non entrerà mai in vigore lo si deve al
voto contrario dei cittadini italiani
(61,9%) nel referendum costituzionale svoltosi nel giugno 2006.
Il pareggio di bilancio
in Costituzione
Ma il più incisivo salto di qualità
nella storia del revisionismo italiano si ebbe con l’introduzione del
pareggio di bilancio in Costituzione. Una riforma anch’essa ispirata
alle ragioni della globalizzazione
neoliberista ed espressamente sollecitata attraverso la “Lettera dei
due governatori” (5 agosto 2011)12.
Furono infatti proprio Jean-Claude Trichet (presidente della Bce) e
Mario Draghi (presidente della
Banca d’Italia) a spingere il governo italiano a procedere – a fronte
dell’incalzare di una crisi finanziaria senza precedenti – alla stesura di un sostanzioso “pacchetto di
riforme”, ritenute indispensabili
per realizzare «condizioni di bilancio sostenibili». La lettera Draghi-Trichet non fu pertanto solamente un minuzioso programma
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di demolizione delle garanzie sociali dei lavoratori (privatizzazioni
su larga scala; adeguamento dei
salari e delle «condizioni di lavoro
alle esigenze specifiche delle
aziende»; controriforma del sistema pensionistico e della P.A. con
«riduzione significativa dei costi
del pubblico impiego e … stipendi»). Ma anche un raffinato trattato di riformismo costituzionale: pareggio di bilancio, riforme strutturali, superamento delle Province.
Si arrivò così al governo
Monti che avrebbe riformato (con
il consenso di oltre i 2/3 del Parlamento) l’art. 81 e introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio.
Una riforma destinata a compromettere gravemente la dimensione democratico-sociale della Costituzione, il cui impianto – ci ricorda il giudice costituzionale – «non
esclude ovviamente l’ipotesi di un
disavanzo» (sent. n. 1/1966). E ciò
per una ragione evidente: uno Stato “rigorista”, strangolato dai vincoli di bilancio e dalle ossessioni
contabili, non sarà mai nelle condizioni di intervenire efficacemente sulle diseguaglianze per «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» (art. 3.2 Cost.).
Jp Morgan
Con l’aggravarsi della crisi economica la questione della riforma costituzionale torna prepotentemente
alla ribalta. A sancire l’esistenza di
un nesso inestricabile tra crisi e
riforme (la riforma delle costituzioni come risposta alla crisi economi-
Claudio De Fiores
ca) sarebbero state ancora una volta le istituzioni della finanza mondiale e le grandi banche d’affari.
Da nota emanata dalla Jp
Morgan il 28 maggio 201313, a tale
riguardo, si apprende: «Quando la
crisi è iniziata era diffusa l’idea che
questa avesse limiti intrinseci di natura prettamente economica […] Ma
col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica.
I sistemi politici dei paesi del sud, e
in particolare le loro costituzioni,
adottate in seguito alla caduta del
fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte
a favorire la maggiore integrazione dell’area europea». Si tratta, infatti, di «costituzioni che mostrano
una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». Una sorta di vizio genetico dal
quale la banca d’affari fa discendere
talune fra le più gravi “perversioni”
del costituzionalismo sociale europeo: «Esecutivi deboli nei confronti
dei parlamenti e delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi».
Dalla nota apprendiamo anche qualcosa in più. Qualcosa che ci
riguarda direttamente: «Il test chiave sarà l’Italia, dove il governo ha
l’opportunità concreta di iniziare
riforme incisive».
Il riferimento è al governo
Letta che, una volta insediatosi
dopo la “non vittoria” del centrosinistra nel 2013, avvierà un articolato processo di revisione della seconda parte della Costituzione. Un
12
progetto di riforme coerenti con lo
«scenario politico, sociale ed economico» del mondo e in grado di «affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale»14.
Il governo Letta e con esso la
sua idea di una “Convenzione” per le
riforme sono destinati rapidamente
a naufragare. Agire in deroga all’art.
138 avrebbe voluto dire allungare a
dismisura i tempi di approvazione
delle riforme. E questo non poteva
essere consentito visto l’incedere della crisi economica. Bisognava fare
velocemente e velocemente intervenire su tutti i gangli sensibili del sistema… anche a costo di puntare su
un nuovo esecutivo. Quello che è accaduto nei mesi successivi è noto:
smantellamento dello Statuto dei lavoratori; verticalizzazione della decisione politica (dalla scuola al governo della Rai); leggi elettorali a
rappresentanza compressa.
Con l’insediamento dell’esecutivo Renzi le riforme costituzionali divengono parte integrante dell’azione
di governo. Ogni rapporto di alterità
tra revisione costituzionale e indirizzo politico viene meno. Dominus incontrastato del processo di riforme è
ora l’esecutivo. Una vera e propria posizione di supremazia destinata a
condizionare ogni fase del procedimento di revisione: dall’iniziativa legislativa all’approvazione della riforma in sede parlamentare. Fino al voto
referendario che, tradendo la sua originaria vocazione costituzionale,
pare avviato a subire una torsione
plebiscitaria senza precedenti.
Ad annunciarlo è stato lo stesso presidente del Consiglio: con il referendum – ha detto Matteo Renzi –
«andiamo a vedere da che parte sta
il popolo su questa riforma, se i cittadini la pensano come coloro che
urlano per il fallimento o per chi
scommette sul futuro dell’Italia»15.
E anche se il presidente Renzi dovesse addivenire a più miti consigli
evitando di esasperare (come è fino
a oggi avvenuto) i suoi toni propagandistici, non per questo la carica
plebiscitaria sottesa al prossimo referendum potrebbe dirsi svanita. La
torsione plebiscitaria è parte integrante di questa riforma. Così come
lo è di tutte le riforme (si pensi a
quella di Berlusconi del 2005) che
vanno a incidere e modificare un numero particolarmente alto di disposizioni costituzionali (in questo caso
41 su 134, quasi un terzo).
Il congegno normativo sotteso
all’art. 138 della Costituzione non
supporta e non sopporta processi di
revisione così estesi e variegati. La
stessa funzione costituzionale del
referendum ne risulterebbe gravemente compromessa, dal momento
che verrebbe impedito ai singoli cittadini di esprimersi coerentemente
sulle specifiche questioni oggetto
della revisione. Essi si troveranno
costretti a votare su una riforma
blindata, confezionata dal governo
e sostenuta dalla sua maggioranza.
Un voto che non consente distinguo
e che porrà inevitabilmente i cittadini di fronte a una scelta netta e
risolutiva: accettare tutto o rifiutare tutto in blocco.
La riforma RenziBoschi-Verdini
Anche sul piano dei contenuti la
riforma Renzi-Boschi-Verdini si
13
pone in assoluta continuità con la
nota della jp Morgan e di questa ne
assume integralmente la premessa
di fondo: costituire governi forti in
grado di imporsi sul parlamento e
sulle regioni.
Non è un caso che la riforma
oltre a mantenere inalterati quelli
che sono i poteri “legislativi” di cui
il governo già oggi dispone (iniziativa legislativa, decretazione d’urgenza, decretazione delegata, questione di fiducia), non esita a conferirgli anche il cd. “voto a data certa”
sui disegni di legge indicati come
«essenziali per l’attuazione del programma di governo» (art. 72). Un
sorta di espediente procedurale che,
blindando i tempi e il confronto parlamentare sui disegni di legge governativi, trasformerebbe fatalmente l’esecutivo nel vero dominus
del procedimento legislativo.
Lo stesso si dica per le Regioni. Anche su questo fronte la riforma, oltre a procedere ad un drastico accentramento delle funzioni
normative nelle mani dello Stato,
punta ad accrescere a dismisura il
potere del governo conferendogli l’utilizzo della cd. “clausola di supremazia”: istituto che consente agli
esecutivi di intervenire (attraverso
una legge) per limitare l’autonomia
regionale ogni qual volta «lo richieda la tutela dell’unità …» (art. 117).
Tutto il resto della riforma è
improvvisazione e incoerenza: procedimenti legislativi che anziché
semplificarsi si complicano a dismisura; un bicameralismo, più che
“imperfetto”, informe; un Senato del
quale non si conosce neppure il procedimento di elezione (elezione di-
retta? elezione consiliare?) e confusamente composto da sindaci, consiglieri regionali e illustri uomini
della patria (nominati dal Capo dello Stato); intralci posti all’iniziativa
legislativa popolare, triplicando il
numero delle firme necessario…16.
osservatorio
tarne a compimento il disegno è la
riforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini.
Ecco perché il governo ha deciso di trasformare il referendum nella madre di tutte le battaglie. Ecco
perché siamo chiamati a difendere la
Costituzione repubblicana.
Votare No
Da questo breve excursus sul revisionismo costituzionale possiamo
ricavare tre conclusioni:
1. l’attacco sferrato, nel corso
dell’ultimo ventennio, ai diritti sociali rischia oggi di estendersi ai diritti politici e alle libertà;
2. con modalità differenti rispetto alla Grecia, l’Italia è divenuta in questi anni (in termini gramsciani) il terreno privilegiato di sperimentazione del nuovo sovversivismo delle classi dirigenti;
3. questo accade non perché
l’ordine neoliberista è troppo forte,
ma perché inizia a essere troppo debole. E per difendersi ha bisogno di
alzare muri (contro i migranti), blindare il sistema ricorrendo a leggi
elettorali contraffatte (Italia), “commissariare” la volontà democratica
dei popoli (Grecia).
Le classi dirigenti europee
sono oggi allo sbando. E ai partiti tradizionali, per continuare a governare, non resta che coalizzarsi, erigendo partiti della nazione o dando vita
ad alleanze che fino a poco tempo fa
avremmo giudicato innaturali tra
destra e sinistra (Germania).
È questo il fronte conservatore oggi in azione. E il terreno di sfondamento prescelto in Italia per por-
Note
1) Intervista rilasciata da Sabino Cassese a l’Unità e pubblicata il 23 maggio 2016.
2) M. J. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto
sulla governabilità delle democrazie alla
Commissione trilaterale, Milano, 1977, p.
109.
3) Ivi, p. 25.
4) Ivi, p. 39.
4) Ivi, p. 148.
6) Ibidem.
7) G. Amato, Il potere senza consenso
delle nostre istituzioni [1979], in Id., Una Repubblica da riformare, Bologna, 1980, p. 63.
8) Ivi, p. 194.
9) A. Pizzorusso, Le stagioni della Costituzione,in Commentario Branca-Pizzorusso, Bologna, 1995, p. XLIII.
10) B. Craxi, Relazione al Comitato centrale del Psi, Roma, 29 ottobre 1982 (ora in
Id., Scritti e discorsi, Roma, 1991, p. 34).
11) Vademecum della riforma costituzionale, redatto e distribuito da Forza Italia e
pubblicato su Il Giornale, 21 ottobre 2005.
12) Il testo della lettera è stata integralmente pubblicato su Il Sole-24Ore del
29 settembre 2011.
13) La nota della Jp. Morgan (del 28
maggio 2013), significativamente titolata
The Euro area adjustment: about halfway
there, è rinvenibile nel sito della Banca centrale europea: www.ecb.europa.eu/press/
key/date/2014/html/sp140131.en.html.
14) Relazione introduttiva al D.L. n. 813
del 10 giugno 2013 presentato dal governo
Letta.
15) Dichiarazioni rilasciate il 19 gennaio 2016 dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nell’aula del Senato.
16) Per una più puntuale ricostruzione
dei profili critici della riforma rinvio a C. De
Fiores, Il bicameralismo sgangherato, in il
manifesto, 17 maggio 2016.