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Referendum: un No per l'avvenire della democrazia

2016

gomentazioni ostentate dai fautori della riforma costituzionale vi è una che emerge ripetutamente. Una ragione di ordine superiore che attiene all’esigenza di uniformare la nostra “vecchia” costituzione repubblicana al mondo, ai suoi inediti orizzonti, alle tendenze della globalizzazione: «nel 1947, quando la Costituzione fu approvata [...] non si era neppure avviata la globalizzazione. Oggi governi e parlamenti nazionali debbono rispettare standard sovranazionali»1. Una argomentazione, quanto mai pregnante, che colloca il processo di revisione costituzionale italiano all’interno di uno scenario che trascende la dimensione nazionale, connettendolo alle tendenze globali. Ma a cosa si allude quando si parla di globalizzazione? E chi ha fissato gli «standard sovranazionali» ai quali oggi governi e parlamenti sono tenuti a piegarsi? Si tratta di fatali tendenze della storia o siamo piuttosto in presenza di una costruzione ideologica fomentata in questi anni dal mutamento dei rapporti di...

osservatorio REFERENDUM: UN NO PER L’AVVENIRE DELLA DEMOCRAZIA Claudio De Fiores Una riforma che ha origini lontane: la Trilateral e il craxismo. Maastricht, la riforma del titolo V e il referendum del 2006. La lettera Draghi-Trichet e il pareggio di bilancio in Costituzione. La riforma delle costituzioni come risposta alla crisi economica. La riforma Boschi: perché votare No! Tra le tante e contraddittorie argomentazioni ostentate dai fautori della riforma costituzionale vi è una che emerge ripetutamente. Una ragione di ordine superiore che attiene all’esigenza di uniformare la nostra “vecchia” costituzione repubblicana al mondo, ai suoi inediti orizzonti, alle tendenze della globalizzazione: «nel 1947, quando la Costituzione fu approvata […] non si era neppure avviata la globalizzazione. Oggi governi e parlamenti nazionali debbono rispettare standard sovranazionali»1. Una argomentazione, quanto mai pregnante, che colloca il processo di revisione costituzionale italiano all’interno di uno scenario che trascende la dimensione nazionale, connettendolo alle tendenze globali. Ma a cosa si allude quando si parla di globalizzazione? E chi ha fissato gli «standard sovranazionali» ai quali oggi governi e parlamenti sono tenuti a pie- garsi? Si tratta di fatali tendenze della storia o siamo piuttosto in presenza di una costruzione ideologica fomentata in questi anni dal mutamento dei rapporti di forza e dalle nuove forme di dominio sul mondo? Provare a rispondere, in poche pagine, a questi interrogativi non è agevole. Anche perché ci troviamo in presenza di tendenze che non nascono con la riforma Boschi-Renzi-Verdini, ma che affondano la loro origine nel secolo scorso. Ciò che è però immediatamente evidente è l’intento ideologico che ne è alla base: arginare le pretese del costituzionalismo democratico che, a partire dagli anni Sessanta, avevano fatto da detonatore alla costruzione degli ordinamenti democratici e alla diffusione dei diritti sociali. La Trilateral e le riforme craxiane Le mobilitazioni operaie e studen- tesche diffusesi (seppure con diversa intensità) in tutto l’Occidente, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, avevano determinato un «eccesso di democrazia» e un «sovraccarico di partecipazione» che i paesi a capitalismo maturo non erano più in grado di sopportare. Di qui l’esigenza, teorizzata dal pensiero conservatore, di iniettare nel sistema «una certa dose di apatia e di disimpegno». E tutto ciò al preminente fine di favorire una rapida riemersione delle élites e consentire per questa via al sistema di «funzionare efficacemente»2. È questa la premessa di fondo posta alla base del Rapporto della Trilateral del 1975. Ed è da qui che è venuto scaturendo il bisogno, ideologicamente indotto, di «fare della governabilità della democrazia una questione vitale e davvero impellente per le società della Trilaterale»3: l’unica soluzione in grado di consentire alla società di funzionare e risolvere i Claudio De Fiores guasti prodotti dal «subbuglio politico»4 degli anni Sessanta, additato non a caso dal Rapporto come il principale responsabile del sovvertimento istituzionale e sociale che aveva «condotto alla delegittimazione dell’autorità in genere ed alla perdita di fiducia nella leadership»5. Le ragioni sottese all’istituzione della Commissione Trilaterale sono quindi evidenti e così anche i suoi obiettivi di fondo: espungere il conflitto sociale dalla dimensione politica e provare, per questa via, a porre un argine alla «espansione democratica della partecipazione e dell’impegno politico [che] ha generato un “sovraccarico” sul governo»6. Le conseguenze del pronunciamento della Trilateral non si faranno attendere. A cavallo fra gli anni settanta e gli anni ottanta, con la vittoria prima della Thatcher nel Regno Unito (1979) e poi di Reagan negli Usa (1980), la reazione capitalista torna prepotentemente in campo in tutto l’Occidente. Gli assetti democratici degli Stati europei entrano progressivamente in crisi. In Italia, il paese «malato più malato d’Europa»7, bersaglio privilegiato di quest’offensiva diviene la Costituzione repubblicana. Inizia a delinearsi, su queste inedite basi, quello che sarà uno dei caratteri salienti del revisionismo italiano. Ci si riferisce al rapporto costante, a esso sotteso, tra i desiderata delle grandi istituzioni finanziarie mondiali e le riforme, tra le incalzanti aspirazioni della globalizzazione capitalista e la revisione costituzionale. A fare da apripista a queste 10 tendenze è il volume di Giuliano Amato, Una Repubblica da riformare. L’opera si colloca all’interno di un solco ideologico destinato a mietere notevoli successi soprattutto negli anni successivi. La “democrazia governante” è il leit motiv che sorreggerà l’intero volume, come si evince già dalla sua introduzione significativamente intitolata: Dal caso italiano al capitalismo ingovernabile. La soluzione che viene prospettata spiazza tutte le forze democratiche e in particolare la sinistra. Per Amato una «credibile strategia intesa a recuperare la governabilità del Paese»8 non può che portare al presidenzialismo. Con la pubblicazione di Una Repubblica da riformare il revisionismo irrompe con forza per la prima volta nel dibattito politico in Italia uscendo definitivamente da quella che era stata, fino a quel momento, la sua originaria «condizione di semi-clandestinità»9. Ed è da quelle pagine che è destinata a trarre forza e legittimazione culturale la “grande riforma” lanciata dal segretario del Partito socialista Bettino Craxi contro «la difficile governabilità, il dominio della lentocrazia […] la intempestività dei processi decisionali»10. Da Maastricht al referendum del 2016 Il sistema craxiano di potere è condannato a tramontare rapidamente, ma non anche la stagione del revisionismo regressivo, destinato negli anni successivi a radicarsi ulte- riormente. L’invocazione del potere costituente da parte del presidente Cossiga e la sua smania di “picconare” la Costituzione saranno la prima tappa. Ma a facilitare queste tendenze sarà soprattutto la decomposizione del quadro politico favorita nei primi anni Novanta dall’inchiesta di Tangentopoli e dall’introduzione del sistema maggioritario. Per coprire il vuoto lasciato dai partiti di massa si ricorre all’impiego di inedite risorse politiche e simboliche, alle quali vengono riconosciute (soprattutto dal sistema mediatico) vere e proprie capacità taumaturgiche: la semplificazione politica, la democrazia governante, la retorica del capo. La riforma della Carta del ‘48 è oramai all’ordine del giorno nell’agenda politica del Paese. Tra il 1993 e il 1997 si registreranno ben tre tentativi organici di modifica della seconda parte della Costituzione: la Commissione Iotti-De Mita (19931994); il Comitato Speroni (1994); la Bicamerale D’Alema (1997). Tutti falliti. Sono questi gli anni in cui il primato del mercato in economia si combina, sul piano politico, all’affermazione della cultura plebiscitaria e al disprezzo della mediazione politica. A tal punto che finanche il patto costituente del 1947 tenderà progressivamente ad assumere nel senso comune i deplorevoli connotati di un “patto partitocratico”, la dimostrazione più significativa della mentalità “consociativa” dei vecchi partiti di massa. La riforma del titolo V della Costituzione, voluta dal centrosi- 11 nistra a partire dalla fine degli anni Novanta, si colloca esattamente in questo solco. Due i suoi principali cardini. Da una parte l’introduzione, con la L. cost. n. 1/1999, dell’elezione diretta dei presidenti di Regione. Dall’altra la significativa apertura del testo costituzionale all’ideologia del mercato (L. cost. n. 3/2001): introduzione del principio di sussidiarietà orizzontale (in coerenza con quanto previsto dal Trattato di Maastricht); trattamento privilegiato per le regioni economicamente più forti (cd. federalismo asimmetrico ex art. 116); previsione degli standard “essenziali” di prestazione nella tutela dei diritti civili e sociali. Disposizione, quest’ultima, contenuta all’art. 117 (lett. m) e destinata a compromettere gravemente la pretesa di ogni cittadino di essere trattato in egual modo in ogni parte del territorio della Repubblica (in coerenza con quanto sancito dall’art. 3 della Costituzione). La riforma del titolo V era stata voluta al preminente fine di sottrarre alle destre il monopolio della questione costituzionale. Giocare d’anticipo – si disse – avrebbe consentito al centrosinistra di “governare” il revisionismo costituzionale arginando le proposte “eversive” della destra. Una previsione destinata a essere immediatamente smentita. In quello stesso anno, il governo Berlusconi, uscito vittorioso dalle elezioni, annuncia la sua intenzione di procedere a una ampia e articolata riforma della seconda parte della Costituzione: «una neces- sità conseguente alla globalizzazione, alla fine della Guerra fredda, all’avanzamento del processo di integrazione europea»11. Di qui il varo di una (ipotesi di) riforma, ancora una volta imperniata, sulla concentrazione del potere politico nelle mani del governo (cd. premierato assoluto) e sulla rottura dei vincoli di solidarietà sociale all’interno del Paese (cd. devolution). Se la riforma costituzionale delle destre non entrerà mai in vigore lo si deve al voto contrario dei cittadini italiani (61,9%) nel referendum costituzionale svoltosi nel giugno 2006. Il pareggio di bilancio in Costituzione Ma il più incisivo salto di qualità nella storia del revisionismo italiano si ebbe con l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione. Una riforma anch’essa ispirata alle ragioni della globalizzazione neoliberista ed espressamente sollecitata attraverso la “Lettera dei due governatori” (5 agosto 2011)12. Furono infatti proprio Jean-Claude Trichet (presidente della Bce) e Mario Draghi (presidente della Banca d’Italia) a spingere il governo italiano a procedere – a fronte dell’incalzare di una crisi finanziaria senza precedenti – alla stesura di un sostanzioso “pacchetto di riforme”, ritenute indispensabili per realizzare «condizioni di bilancio sostenibili». La lettera Draghi-Trichet non fu pertanto solamente un minuzioso programma osservatorio di demolizione delle garanzie sociali dei lavoratori (privatizzazioni su larga scala; adeguamento dei salari e delle «condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende»; controriforma del sistema pensionistico e della P.A. con «riduzione significativa dei costi del pubblico impiego e … stipendi»). Ma anche un raffinato trattato di riformismo costituzionale: pareggio di bilancio, riforme strutturali, superamento delle Province. Si arrivò così al governo Monti che avrebbe riformato (con il consenso di oltre i 2/3 del Parlamento) l’art. 81 e introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio. Una riforma destinata a compromettere gravemente la dimensione democratico-sociale della Costituzione, il cui impianto – ci ricorda il giudice costituzionale – «non esclude ovviamente l’ipotesi di un disavanzo» (sent. n. 1/1966). E ciò per una ragione evidente: uno Stato “rigorista”, strangolato dai vincoli di bilancio e dalle ossessioni contabili, non sarà mai nelle condizioni di intervenire efficacemente sulle diseguaglianze per «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» (art. 3.2 Cost.). Jp Morgan Con l’aggravarsi della crisi economica la questione della riforma costituzionale torna prepotentemente alla ribalta. A sancire l’esistenza di un nesso inestricabile tra crisi e riforme (la riforma delle costituzioni come risposta alla crisi economi- Claudio De Fiores ca) sarebbero state ancora una volta le istituzioni della finanza mondiale e le grandi banche d’affari. Da nota emanata dalla Jp Morgan il 28 maggio 201313, a tale riguardo, si apprende: «Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questa avesse limiti intrinseci di natura prettamente economica […] Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea». Si tratta, infatti, di «costituzioni che mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». Una sorta di vizio genetico dal quale la banca d’affari fa discendere talune fra le più gravi “perversioni” del costituzionalismo sociale europeo: «Esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti e delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi». Dalla nota apprendiamo anche qualcosa in più. Qualcosa che ci riguarda direttamente: «Il test chiave sarà l’Italia, dove il governo ha l’opportunità concreta di iniziare riforme incisive». Il riferimento è al governo Letta che, una volta insediatosi dopo la “non vittoria” del centrosinistra nel 2013, avvierà un articolato processo di revisione della seconda parte della Costituzione. Un 12 progetto di riforme coerenti con lo «scenario politico, sociale ed economico» del mondo e in grado di «affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale»14. Il governo Letta e con esso la sua idea di una “Convenzione” per le riforme sono destinati rapidamente a naufragare. Agire in deroga all’art. 138 avrebbe voluto dire allungare a dismisura i tempi di approvazione delle riforme. E questo non poteva essere consentito visto l’incedere della crisi economica. Bisognava fare velocemente e velocemente intervenire su tutti i gangli sensibili del sistema… anche a costo di puntare su un nuovo esecutivo. Quello che è accaduto nei mesi successivi è noto: smantellamento dello Statuto dei lavoratori; verticalizzazione della decisione politica (dalla scuola al governo della Rai); leggi elettorali a rappresentanza compressa. Con l’insediamento dell’esecutivo Renzi le riforme costituzionali divengono parte integrante dell’azione di governo. Ogni rapporto di alterità tra revisione costituzionale e indirizzo politico viene meno. Dominus incontrastato del processo di riforme è ora l’esecutivo. Una vera e propria posizione di supremazia destinata a condizionare ogni fase del procedimento di revisione: dall’iniziativa legislativa all’approvazione della riforma in sede parlamentare. Fino al voto referendario che, tradendo la sua originaria vocazione costituzionale, pare avviato a subire una torsione plebiscitaria senza precedenti. Ad annunciarlo è stato lo stesso presidente del Consiglio: con il referendum – ha detto Matteo Renzi – «andiamo a vedere da che parte sta il popolo su questa riforma, se i cittadini la pensano come coloro che urlano per il fallimento o per chi scommette sul futuro dell’Italia»15. E anche se il presidente Renzi dovesse addivenire a più miti consigli evitando di esasperare (come è fino a oggi avvenuto) i suoi toni propagandistici, non per questo la carica plebiscitaria sottesa al prossimo referendum potrebbe dirsi svanita. La torsione plebiscitaria è parte integrante di questa riforma. Così come lo è di tutte le riforme (si pensi a quella di Berlusconi del 2005) che vanno a incidere e modificare un numero particolarmente alto di disposizioni costituzionali (in questo caso 41 su 134, quasi un terzo). Il congegno normativo sotteso all’art. 138 della Costituzione non supporta e non sopporta processi di revisione così estesi e variegati. La stessa funzione costituzionale del referendum ne risulterebbe gravemente compromessa, dal momento che verrebbe impedito ai singoli cittadini di esprimersi coerentemente sulle specifiche questioni oggetto della revisione. Essi si troveranno costretti a votare su una riforma blindata, confezionata dal governo e sostenuta dalla sua maggioranza. Un voto che non consente distinguo e che porrà inevitabilmente i cittadini di fronte a una scelta netta e risolutiva: accettare tutto o rifiutare tutto in blocco. La riforma RenziBoschi-Verdini Anche sul piano dei contenuti la riforma Renzi-Boschi-Verdini si 13 pone in assoluta continuità con la nota della jp Morgan e di questa ne assume integralmente la premessa di fondo: costituire governi forti in grado di imporsi sul parlamento e sulle regioni. Non è un caso che la riforma oltre a mantenere inalterati quelli che sono i poteri “legislativi” di cui il governo già oggi dispone (iniziativa legislativa, decretazione d’urgenza, decretazione delegata, questione di fiducia), non esita a conferirgli anche il cd. “voto a data certa” sui disegni di legge indicati come «essenziali per l’attuazione del programma di governo» (art. 72). Un sorta di espediente procedurale che, blindando i tempi e il confronto parlamentare sui disegni di legge governativi, trasformerebbe fatalmente l’esecutivo nel vero dominus del procedimento legislativo. Lo stesso si dica per le Regioni. Anche su questo fronte la riforma, oltre a procedere ad un drastico accentramento delle funzioni normative nelle mani dello Stato, punta ad accrescere a dismisura il potere del governo conferendogli l’utilizzo della cd. “clausola di supremazia”: istituto che consente agli esecutivi di intervenire (attraverso una legge) per limitare l’autonomia regionale ogni qual volta «lo richieda la tutela dell’unità …» (art. 117). Tutto il resto della riforma è improvvisazione e incoerenza: procedimenti legislativi che anziché semplificarsi si complicano a dismisura; un bicameralismo, più che “imperfetto”, informe; un Senato del quale non si conosce neppure il procedimento di elezione (elezione di- retta? elezione consiliare?) e confusamente composto da sindaci, consiglieri regionali e illustri uomini della patria (nominati dal Capo dello Stato); intralci posti all’iniziativa legislativa popolare, triplicando il numero delle firme necessario…16. osservatorio tarne a compimento il disegno è la riforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini. Ecco perché il governo ha deciso di trasformare il referendum nella madre di tutte le battaglie. Ecco perché siamo chiamati a difendere la Costituzione repubblicana. Votare No Da questo breve excursus sul revisionismo costituzionale possiamo ricavare tre conclusioni: 1. l’attacco sferrato, nel corso dell’ultimo ventennio, ai diritti sociali rischia oggi di estendersi ai diritti politici e alle libertà; 2. con modalità differenti rispetto alla Grecia, l’Italia è divenuta in questi anni (in termini gramsciani) il terreno privilegiato di sperimentazione del nuovo sovversivismo delle classi dirigenti; 3. questo accade non perché l’ordine neoliberista è troppo forte, ma perché inizia a essere troppo debole. E per difendersi ha bisogno di alzare muri (contro i migranti), blindare il sistema ricorrendo a leggi elettorali contraffatte (Italia), “commissariare” la volontà democratica dei popoli (Grecia). Le classi dirigenti europee sono oggi allo sbando. E ai partiti tradizionali, per continuare a governare, non resta che coalizzarsi, erigendo partiti della nazione o dando vita ad alleanze che fino a poco tempo fa avremmo giudicato innaturali tra destra e sinistra (Germania). È questo il fronte conservatore oggi in azione. E il terreno di sfondamento prescelto in Italia per por- Note 1) Intervista rilasciata da Sabino Cassese a l’Unità e pubblicata il 23 maggio 2016. 2) M. J. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Milano, 1977, p. 109. 3) Ivi, p. 25. 4) Ivi, p. 39. 4) Ivi, p. 148. 6) Ibidem. 7) G. Amato, Il potere senza consenso delle nostre istituzioni [1979], in Id., Una Repubblica da riformare, Bologna, 1980, p. 63. 8) Ivi, p. 194. 9) A. Pizzorusso, Le stagioni della Costituzione,in Commentario Branca-Pizzorusso, Bologna, 1995, p. XLIII. 10) B. Craxi, Relazione al Comitato centrale del Psi, Roma, 29 ottobre 1982 (ora in Id., Scritti e discorsi, Roma, 1991, p. 34). 11) Vademecum della riforma costituzionale, redatto e distribuito da Forza Italia e pubblicato su Il Giornale, 21 ottobre 2005. 12) Il testo della lettera è stata integralmente pubblicato su Il Sole-24Ore del 29 settembre 2011. 13) La nota della Jp. Morgan (del 28 maggio 2013), significativamente titolata The Euro area adjustment: about halfway there, è rinvenibile nel sito della Banca centrale europea: www.ecb.europa.eu/press/ key/date/2014/html/sp140131.en.html. 14) Relazione introduttiva al D.L. n. 813 del 10 giugno 2013 presentato dal governo Letta. 15) Dichiarazioni rilasciate il 19 gennaio 2016 dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nell’aula del Senato. 16) Per una più puntuale ricostruzione dei profili critici della riforma rinvio a C. De Fiores, Il bicameralismo sgangherato, in il manifesto, 17 maggio 2016.