Geografia giuridica dei confini*
di Giuseppe Campesi**
A legal geography of borders. By adopting the perspective of law and geography, this article
explores the new morphology of borders and places a special emphasis on the role of law in
redefining their spatiality. In particular, it identifies three main geo-strategies along which the
contemporary border regime is organized, namely, the geo-strategy of nodes, zones and walls.
In describing the new legal geography of borders, the article also highlights how the transformations and shifts of the classic Westphalian border regime have impacted on some of the main
categories through which borders are legally framed. More specifically, this contribution focuses
on jurisdiction, which traditionally represents the convergence point of the complex relationship
between territory, sovereignty, and rights.
[Geography of law – Borders – Territory – Jurisdiction – Migration]
1. Introduzione
Uno dei luoghi comuni della letteratura sul controllo delle migrazioni indesiderate è che queste stiano destabilizzando il classico regime confinario
vestfaliano, mettendo in crisi l’idea che il confine possa essere rappresentato
come una linea o barriera che identifica e protegge la sovranità nazionale1.
Sotto ogni profilo, le pratiche di controllo dei confini sono profondamente
mutate rispetto al passato. Sono mutati gli attori convolti, dato che le agenzie
statali agiscono nel quadro di un complesso reticolo di relazioni transnazionali tra agenzie governative e non governative diverse, ma soprattutto sono
mutate le funzioni che il controllo dei confini svolge e i luoghi in cui esso si
svolge, la sua geografia.
Ispirata dalle intuizioni di Balibar (2002), la letteratura ha insistito molto
sull’idea della ubiquità, o smaterializzazione del confine, per sottolineare
come la tradizionale morfologia lineare dei confini non coincida più con la
geografia del controllo della mobilità umana. In questo contributo cercherò
di andare oltre i limiti di tale letteratura, suggerendo che sia necessario esplorare con maggiore precisione la nuova morfologia dei confini, identificando
il ruolo che il diritto ha avuto nel ridefinire la loro proiezione spaziale.
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First submission 10 January 2022; accepted: 22 January 2022
degli Studi di Bari, giuseppe.campesi@uniba.it
1 Per una descrizione del modello vestfaliano classico di controllo dei confini e della sua
crisi, si veda Zaiotti (2012).
** Università
Sociologia del diritto, n. 3, 2021 (ISSN 0390-0851, ISSN-e 1972-5760)
Cercherò, in breve, di ricostruire la geografia giuridica dei confini nel mondo
contemporaneo.
Dal mio punto di vista, adottare un approccio geografico giuridico offre
un duplice vantaggio. Consente, da un lato, di apprezzare la dimensione prettamente giuridica dei confini, identificando alcuni degli espedienti tecnicogiuridici attraverso cui la concezione lineare del confine è destabilizzata e
nuove morfologie sono prodotte. Consente, dall’altro, di evidenziare come
le trasformazioni e gli scivolamenti del regime confinario retroagiscono sulle
categorie giuridiche attraverso cui pensiamo e descriviamo i confini, in particolare quella di giurisdizione, che tradizionalmente rappresenta il punto di
caduta del complesso rapporto tra territorio, sovranità e diritti.
L’articolo è organizzato come segue. Nel secondo paragrafo cercherò di
tracciare alcuni dei fondamenti metodologici di un approccio geografico giuridico, sottolineando la necessità di tenere presente la ricorsività del rapporto
tra spazio e diritto. Il terzo paragrafo servirà a inquadrare in prospettiva storica e critica il rapporto tra confini, territorio e diritto, illustrando in particolare la crisi del regime confinario vestfaliano. Nel quarto paragrafo abbozzerò una geografia giuridica dei confini, descrivendo quelle che considero le
tre principali geo-strategie del regime confinario contemporaneo: la geo-strategia dei nodi, delle zone e dei muri. Tale descrizione sarà fatta illustrando le
innovazioni giuridiche che sono state necessarie a produrle e ne garantiscono
il funzionamento. A mo’ di conclusione, nell’ultimo paragrafo offrirò qualche spunto di riflessione sull’impatto che la trasformazione dei confini sta
avendo sulla categoria giuridica di giurisdizione.
2. Geografia del diritto
Sebbene ci siano stati molti giuristi con una spiccata sensibilità geografica, un autentico dialogo interdisciplinare ha faticato ad emergere. Temendo
forse di contaminarsi e perdere purezza, la scienza giuridica ha tradizionalmente difficoltà a relazionarsi con tutto ciò che si situa al suo esterno. Per
questo la geografia è rimasta a lungo largamente invisibile ai giuristi, i quali
hanno continuato a lavorare come se le loro categorie fossero prive di un
qualsiasi ancoraggio materiale nel mondo. A dispetto della “originaria necessità del luogo” (Irti 2001: 3) tipica del diritto, la scienza giuridica è rimasta a lungo anti-geografica (Bennett & Layard 2015: 407).
Gli studiosi che per primi hanno cercato di esplorare l’intersezione tra
spazio e diritto hanno generalmente separato le due dimensioni in ambiti analitici distinti (Butler 2009: 315). Ad esempio, precursori della geografia del
16
diritto come Wigmore (1928) hanno spiegato l’evoluzione degli ordini normativi attribuendo forza causale a determinanti geografiche, come clima e
morfologia territoriale, scivolando tuttavia nel determinismo geografico, se
non nel vero e proprio razzismo.
Per altro verso, molti studiosi hanno enfatizzato la capacità del diritto di
imprimersi sullo spazio, condizionando la geografia umana (Blank e RosenZvi 2010). Insediamenti, mobilità, sfruttamento delle risorse sono determinati dalla differenziazione giuridica degli ambiti spaziali. Del resto, è facile
constatare come molte branche del diritto includano disposizioni che regolano l’utilizzo dello spazio. Ad un livello di maggiore astrazione, la geografia
del diritto scopriva qualcosa che era patrimonio della teoria del diritto continentale almeno da Schmitt in poi, vale a dire che il fondamento stesso del
diritto ha a che fare con l’ordinamento dello spazio2.
Per quanto più feconda, anche quest’ultima prospettiva rischia una impasse riduzionistica, continuando a guardare a spazio e diritto come ad entità
separate. Mentre i geografi riducono il diritto a variabile esterna al mondo
materiale, il cui impatto sulla geografia umana è suscettibile di essere misurato3, i giuristi finiscono per sopravvalutare la capacità del diritto di imprimersi sullo spazio, concependo quest’ultimo come una superfice piana o un
vuoto contenitore4.
Lavorando a partire dalla teoria dello spazio di Lefebvre ([1974]2018), la
geografia giuridica contemporanea ha cercato di mettere in luce la ricorsività
del rapporto tra spazio e diritto, evidenziando come “le istituzioni giuridiche
strutturino e incidano sulla geografia della vita sociale e come quest’ultima
incida a sua volta sul diritto” (Blomley & Clark 1990: 434). Diritto e spazio
non sono più viste come entità a-priori autonome, l’una appartenente al
mondo ideale delle astrazioni e l’altra a quello fisico della vita materiale
(Blomley 2008: 161; Butler 2009: 315). Se è vero infatti che il diritto offre il
vocabolario attraverso cui l’ordine spaziale è prodotto, è anche vero che lo
spazio in sé stesso è un potente strumento di ordinamento. In questo senso il
diritto plasma e ordina lo spazio, ma la regolazione giuridica dello spazio è
a sua volta fortemente influenzata dalla maniera in cui gli individui e le collettività esperiscono e utilizzano lo spazio (Blomley & Clark 1990: 441).
Dimensione ideale e materiale sono dunque intrecciate (Delaney 2014: 98).
Da un lato il diritto è un cruciale strumento di ordinamento spaziale delle
condotte. Attraverso l’incorporazione di categorie geografiche, esso
2
Il riferimento è ovviamente a Schmitt ([1974]1991).
Si veda ad esempio Wije (1990).
4 Si prendano, ad esempio, le considerazioni sulla “potenza dell’artificialità” sviluppate da
Irti (2001: 59) a partire dalla teoria giuridica del territorio di Kelsen.
3
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determina la maniera in cui lo spazio viene percepito e vissuto dagli individui. Dall’altro lato, le pratiche sociali di utilizzo dello spazio retroagiscono
sulle categorie giuridiche, stimolando a loro volta la trasformazione o l’incorporazione di nuovi concetti spaziali. Per dare conto di tale reciproca costitutività del giuridico e dello spaziale, alcuni studiosi hanno proposto l’utilizzo di neologismi come splices (Blomley 2008) o nuove formulazioni concettuali come nomic setting (Delaney 2010).L’idea è che sia necessario mettere in luce l’intreccio di dimensione materiale e simbolica che sta alla base
delle categorie giuridiche che regolano l’uso dello spazio nel mondo contemporaneo.
Il confine è certamente una di tali categorie, essendo al contempo il riflesso di pratiche specifiche di organizzazione dello spazio e di attribuzione
di significato giuridico allo spazio (Delaney et al. 2001: XVIII). Adottare un
approccio geografico giuridico nello studio dei confini consente di metterli
in discussione tanto quale categoria geografica che quale categoria giuridica,
relativizzando in questo modo l’apparente stabilità delle strutture topo-giuridiche da essi costituite. In particolare, è possibile mettere in luce il ruolo che
il diritto gioca nel determinare la funzione e la morfologia dei confini, ma
anche come alla loro evoluzione corrisponda una parallela destabilizzazione
delle tradizionali categorie giuridiche attraverso cui i confini sono rappresentati e immaginati.
3. Confini, territorio e diritto
Secondo Simmel ([1905]1998: 531), “il limite [die Grenze] non è un fatto
spaziale con effetti sociologici, ma è un fatto sociologico che si forma spazialmente”. La definizione del sociologo tedesco pone l’accento sulla dimensione artificiale dei confini, suggerendo che questi siano una forma spaziale
di ordinamento delle relazioni umane. Il rapporto tra spazio e ordinamento è
al centro anche della teoria del nomos di Schmitt ([1974]1991), secondo il
quale, com’è noto, l’ordinamento giuridico si fonda sul primordiale atto di
ordinamento e partizione dello spazio. Similmente Benveniste ([1969]2001:
295) segnala come l’etimologia della parola diritto derivi dal latino rectus e
si riferisca alla linea che solca lo spazio, che “determina non solo una regione
spaziale, un territorio, manche una regola, cioè una norma da seguire per
rimanere nel giusto” (Zanini 1997: 29).
Lo spazio non va tuttavia solo misurato e ordinato, va anche segnato. Il
confine deve essere reso visibile attraverso dei segni che lo individuino. La
semiotica del confine è consustanziale alla sua ontologia. Dato che non
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esistono confini naturali, il confine deve essere “performato” quotidianamente (Zanini 1997: 39). Per sussistere il confine ha bisogno del sostegno di
narrative che attribuiscano significati ai luoghi, costruendo una distinzione
tra l’interno e l’esterno, il sé e l’altro. In questo senso, “un confine non esiste
solo nell’area di confine, ma si manifesta in molte istituzioni come educazione, i media, la narrative, la storia, cerimonie, spettacoli, eccetera” (Paasi
1998: 76).
Quanto detto suggerisce che i confini vadano visti come istituzioni discrete, fisse e rigidamente dicotomiche il cui compito è quello di identificare
una sfera sociale, identitaria e politica ripiegata su sé stessa. Una concezione
simile è ad esempio al centro dell’immaginario geopolitico moderno (Agnew
1994), che tipicamente rappresenta i confini come il principale marcatore
territoriale della sovranità, ciò che identifica la sfera di non ingerenza all’interno della quale lo stato esercita il suo autonomo potere su persone e cose
(Giddens 1983: 120). I confini sono i segni della giurisdizione domestica e
al contempo le linee difensive dell’integrità territoriale dello stato (VaughanWilliams 2009: 2, 3). In questo senso, la principale funzione che è stata loro
assegnata è quella di ridurre la violenza internazionale, al punto che i principi
dell’integrità territoriale e dell’inviolabilità dei confini statali sono elevati a
norme fondamentali del moderno ordine internazionale (Zacher 2001).
La funzione di separazione e protezione svolta dai confini si riflette
nell’etimologia dei concetti di “frontiera” e “confine”. Secondo Febvre, in
francese il significato originario del concetto di frontière si riferisce alla linea
del fronte dell’esercito schierato in battaglia. Si fa ricorso invece a fins, termine derivato dal latino fines, per riferirsi all’idea della linea di separazione,
sia essa politica meno (Febvre 1928). Secondo Khan, inoltre, gli antichi concetti germanici di umfrieden e Umfriedung (recintare e recinto) ancora recano le tracce della loro inseparabile unità con il concetto di pace (Frieden),
un “ponte etimologico” che si è perso in molte lingue (Khan 2012: 229).
Per quanto possa apparirci naturale e scontata, in realtà l’idea di una sovranità interamente rinchiusa all’interno dei suoi confini territoriali è il riflesso dell’immaginario geografico prodotto dalla moderna teoria politica e
giuridica, che ha sostenuto il processo di centralizzazione e territorializzazione del potere realizzato dallo stato moderno (Mann 1984).
Tale processo ha soppiantato le precedenti forme di spazialità politica e
giuridica, organizzate non tanto in funzione del territorio occupato dalle comunità umane, quanto piuttosto a partire dalla catena di relazioni personali
che uniscono i membri del gruppo (Kratochwil 1986: 29; Marchetti 2001:
101; Ford 1999: 845). Un simile modello di spazialità ammetteva il sovrapporsi di diverse sfere di autorità sul medesimo territorio e, anche quando le
19
comunità avevano bisogno di identificare dei margini per differenziarsi da
altre forme di civilizzazione, la frontiera non aveva il carattere lineare e continuo che le attribuiamo oggi. Più che delimitare, le frontiere delle civiltà premoderne segnavano lo spazio di autolimitazione dei gruppi umani, divisi da
porzioni di territorio sottratte al dominio esclusivo di una qualche autorità
anche in ragione della carenza delle capacità infrastrutturali necessarie ad
esercitare controllo su mari, foreste, deserti o altri ambienti ostili (Giddens
1983: 50; Kratochwil 1986: 36).
La nascita della moderna idea lineare di confine è il portato dell’affermarsi di una concezione “orizzontale” del potere che porta il territorio al
centro del pensiero politico e giuridico (Ford 1999; Moore 2015). Secondo
tale concezione, l’esercizio dell’autorità sugli individui è mediato dal controllo dello spazio su cui gli individui si trovano. In ragione di ciò, le unità
politico-amministrative cominciano ad essere descritte come forme di potere
che esercitano controllo esclusivo sul territorio, un controllo che non prevede
più sovrapposizioni o spazi vuoti. La linea di confine “sanziona giuridicamente la chiusura territoriale dello Stato moderno e lo delimita spazialmente
in quanto soggetto sovrano” (Di Martino 2010: 91).
Sebbene possano identificarsi diverse prospettive sul legame tra sovranità
e territorio, inteso ora come elemento, oggetto, o infine ambito della sovranità statuale5, è interessante notare come il tema dei confini venga invariabilmente ridotto dalla scienza giuridica ad una appendice del rapporto sovranità-territorio (Marchetti 2001: 53). Il confine è ciò che demarca la giurisdizione sovrana, identificandola e al contempo separandola dalle forme equivalenti di potere esercitate su altre porzioni di territorio da altre autorità sovrane. Tale è ad esempio la concezione del confine tipica della scienza giusinternazionalistica moderna, una concezione che trova un preciso riflesso
nell’art. 1 della Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati
(1934), dove l’elemento essenziale della statualità è appunto l’esercizio di
controllo effettivo su un territorio “definito”, delimitato, e sulla popolazione
ivi stanziata.
Riprendendo una intuizione di Luhmann (1982), si potrebbe sostenere che
nel mondo moderno i confini siano stati essenzialmente concepiti come uno
strumento per mediare i rapporti tra comunità politiche e sociali che, seppure
estranee le une alle altre, nondimeno si riconoscono reciprocamente. In questo il confine funziona come meccanismo per la regolazione dei rapporti tra
sistemi sociali diversi, contribuendo alla nascita di una sorta di “comunità
negativa” (Kratochwil 1986: 33), vale a dire una forma di comunità che ha
5
Oltre a Di Martino (2010), si veda a questo proposito Irti (2001).
20
un accordo su una serie minima di norme per regolare le relazioni reciproche,
ma non si dota di uno scopo politico comune. L’idea della comunità internazionale come comunità negativa si attaglia perfettamente al diritto internazionale classico, il cui obiettivo fondamentale è sempre stato, nelle parole di
Jennings (1963: 2), quello di “delimitare l’esercizio del potere sovrano su
base territoriale”.
Tale concezione del confine come una istituzione sociale discreta, fissa e
rigidamente dicotomica, è divenuta sempre più problematica nel mondo contemporaneo, dove i processi di globalizzazione sembrano aver prodotto uno
“sfondamento” dei confini e una “deformazione” delle tradizionali geometrie
politiche (Galli 2011: 133). A dire il vero, è quasi un luogo comune del dibattito sociologico sulla globalizzazione affermare che quest’ultima abbia
segnato la crisi dei confini statali. In quest’ottica, la geografia degli spazi
globali non può essere più rappresentata cartograficamente, ma solo allegoricamente attraverso il riferimento all’immagine della rete de-territorializzata
del flusso di merci, capitale, informazioni che cinge il globo. Tale rappresentazione è sovente contrapposta a quella del territorio, inteso come dimensione spaziale caratteristica della modernità politica (Brenner 1999).
Gli eventi dei primi due decenni del XXI secolo sembrano tuttavia aver
smentito l’idea che la globalizzazione avrebbe prodotto l’emergere di uno
spazio liscio delle circolazioni, attribuendo una inedita rilevanza ai confini
statali. Nuove minacce, come terrorismo, crimine transnazionale, migrazioni, pandemie, sembrano riattualizzare la funzione difensiva attribuita ai
confini, chiamati a proteggere comunità nazionali sempre più fragili e insicure (Andreas 2003). Come segnala Rumford, tuttavia, uno dei principali
problemi dell’argomento sulla rinascita dei confini è che esso sembra ancorato ad una concezione classica del confine, riproponendo l’idea che il confine funzioni come una barriera posta a difesa del territorio statale dalle minacce esterne (Rumford 2006: 157). Se è vero che i confini non spariscono,
bisogna riconoscere che essi hanno subito profonde trasformazioni e che
l’immaginario geografico politico vestfaliano non è più in grado di rappresentare adeguatamente la realtà dei confini nel mondo contemporaneo. È
possibile intravedere le trasformazioni subite dai confini tanto dal sul piano
delle loro funzioni, che della loro morfologia.
Sotto il primo profilo, i confini sembrano aver perso il loro preminente
ruolo di strumento di definizione simbolica della sovranità e protezione
dell’indipendenza territoriale degli stati, per assumere una prevalente funzione di governo delle circolazioni (Simmons 2019: 5). Essi facilitano gli
scambi, mediano le interazioni economiche e sociali tra luoghi diversi, sono,
in definitiva, un elemento cruciale della infrastruttura tecnica che rende
21
possibile la mobilità internazionale di merci e persone (Walters 2006a: 143145; Amilhat Szary & Giraut 2015: 31; Spijkerboer 2018: 454). Nelle parole
di Mezzadra e Neilson ([2013]2014: 18), i confini “giocano un ruolo chiave
nel produrre i tempi e gli spazi del capitalismo globale”, articolando differentemente la mobilità di merci, capitali, persone attraverso lo spazio.
Ancora una volta le metafore spaziali della teoria dei sistemi di Luhmann
(1982) ci vengono in soccorso. In quest’ottica, si potrebbe sostenere che il
processo di globalizzazione rappresenta un salto di qualità nel processo di
differenziazione e segmentazione spaziale che muta il significato e la funzione svolta dai confini. Questi sembrano infatti riarticolarsi attorno a forme
di differenziazione che non dividono più il mondo in unità politiche omologhe e chiuse, ciò che Luhmann definisce il “mondo degli Stati” (Staatenwelt), bensì in base a processi e funzioni sociali. Ai confini territoriali costruiti e sostenuti dagli stati si sovrappongono in sostanza confini sistemici
che differenziano le forme e i processi di regolazione delle sfere della vita
sociale (Gesellschaftswelt), dando di conseguenza luogo a differenti “regimi
di mobilità”.
Parlando di regimi di mobilità riprendo qui un concetto utilizzato da Shamir (2005) per riferirmi all’idea che la funzione preminente assunta dai confini nel mondo contemporaneo sia quella di differenziare i movimenti attraverso lo spazio e gli statuti personali di coloro che lo attraversano (van Houtum & van Naerssen 2002: 126). Altri hanno parlato di “polisemia” del confine (Balibar 2002: 81), o di moltiplicazione dei “regimi di attraversamento”
(Amilhat Szary & Giraut 2015: 13) per riferirsi al medesimo processo di differenziazione dei regimi di mobilità. In sostanza, l’idea è che gli stati liberali
non possano escludersi dai circuiti dell’economia e della mobilità globale,
ma al tempo stesso necessitino di sviluppare strategie che consentano loro di
tenere a distanza o bloccare le mobilità indesiderate o considerate a rischio.
In ragione di ciò i confini funzionano più come dei “filtri” (Walters 2006a:
152; Mau et al. 2015: 194), “membrane” (Franko Aas 2007: 292), o istituzioni “porose” (Tsianos & Karakayali 2010: 374), chiamati ad articolare differenti gradi di apertura e di chiusura a seconda del tipo di circolazione che
si tratta di governare. Essi distribuiscono credenziali di mobilità, accelerando
o facilitando certe forme di circolazione e cercando di immobilizzarne altre
ritenute meno desiderabili.
Tale processo di ridefinizione della funzione dei confini ha un preciso riflesso sulla loro morfologia. Dovendo gerarchizzare, differenziare, articolare
differenti forme di interazione degli individui attraverso lo spazio, i confini
sembrano scomporsi. I confini “non sono più situati al confine, nel senso
geografico-politico-amministrativo del termine. Essi sono di fatto altrove,
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ovunque i controlli selettivi si trovino” (Balibar 2002: 84). Sebbene i territori
nazionali rimangano circoscritti e demarcati dalle tradizionali linee di confine, una molteplicità di regimi confinari taglia trasversalmente la linea di
demarcazione geografica degli stati nazione. Ciò produce, nelle parole di
Sassen, una vera e propria “disaggregazione” territoriale del confine (Sassen
[2007]2008: 210; Sassen 2015: 29).
Ma se, come suggerisce Balibar (2002: 84), i confini non sono più al confine, ciò significa che essi sono ovunque, che sono divenuti entità de-territorializzate? Molti hanno ceduto alla tentazione di rappresentare i confini in
questi termini, enfatizzandone la smaterializzazione (Cuttitta 2015) o virtualizzazione (Amoore 2011). In particolare, più che parlare di confini come
entità geopolitiche, si pone l’accento sulle “pratiche di confine” come strategie di produzione biopolitica di soggettività. I confini eccedono la loro dimensione prettamente geografica, per diventare strumenti mobili della sovranità che si inscrivono sui corpi degli individui (Vaughan-Williams 2009:
134).
Dal mio punto di vista, tuttavia, l’eccesso di enfasi sull’argomento della
de-territorializzazione dei confini rischia di offuscare la persistente rilevanza
dello spazio quale strumento di controllo sociale e governo delle persone. In
breve, la produzione dello spazio rimane una cruciale strategia politica. Ad
essersi complicate sono le modalità in cui si manifesta (Paasi 1998: 72).
Quello che cercherò di fare nei prossimi paragrafi è esplorare la nuova morfologia dei confini, evidenziando in particolare come il diritto abbia contribuito a trasformare la loro proiezione spaziale e come le trasformazioni, o gli
“scivolamenti” (Shachar 2020), del regime confinario retroagiscano sulle categorie giuridiche, in particolare su quella di giurisdizione.
4. Per una geografia giuridica dei confini
Le strategie di controllo della mobilità umana mettono in discussione la
tradizionale fissità nel tempo e nello spazio del confine. Esso si trasforma,
perde le sembianze di una semplice linea geografica di demarcazione e appare piuttosto come un aggregato sociotecnico fatto di istituzioni, attori, pratiche che funzionano differentemente a seconda delle mobilità che si tratta di
regolare e governare. Tale plasmabilità dei confini ha indotto molti ad enfatizzare la loro ubiquità, tuttavia – come sovente avviene di fronte a cambiamenti che sembrano epocali – è più facile descrivere gli elementi di crisi
piuttosto che individuare i tratti salienti della nuova morfologia dei confini.
Sappiamo che i confini tendono a sganciarsi dai loro tradizionali alvei
23
spaziali, mettendo in crisi la classica concezione vestfaliana di territorialità,
ma non molto altro. È come se essi non avessero più una precisa geografia.
Dal mio punto di vista è al contrario necessario cercare di ricostruire la
geografia del nuovo regime confinario. Sebbene l’idea di una completa deterritorializzazione dei confini possa apparire attraente, occorre riconoscere
che “i confini non sono stati semplicemente ricollocati ovunque. Piuttosto,
essi sono ricostituiti in parallelo con le strategie di controllo in luoghi ben
precisi” (Mounz 2011: 65). In breve, non bisogna perdere di vista la specifica
materialità geografica del confine e riconoscere che de-territorializzazione e
ri-territorializzazione vanno di pari passo nella trasformazione delle pratiche
di controllo della mobilità (Amilhat Szary & Giraut 2015: 6; Scott FitzGerald
2020: 7; Shachar 2020: 8). In particolare, ciò che mi interessa qui è evidenziare come gli stati riescano a ridefinire le loro border capabilities (Sassen
2015: 24), vale a dire la loro capacità tecnica – che è sia giuridica che infrastrutturale – di manipolare la morfologia dei confini trasformando alcune
delle componenti del tradizionale regime confinario vestfaliano in rapporto
al mutamento delle funzioni dei confini.
Per esprimere tale idea della dialettica tra forma e funzione dei confini,
propongo di utilizzare il concetto di “geostrategia”. Tale concetto, che riprendo da Walters (2004) e Browning e Joenniemi (2008), si riferisce all’idea
che la spazialità dei confini possa essere organizzata differentemente a seconda degli obiettivi politici che essi perseguono. Geostrategie diverse implicano dunque approcci differenti al governo della mobilità umana che, a
loro volta, si riflettono in differenti configurazioni spaziali del confine. Tali
approcci possono coesistere e combinarsi, dando luogo a differenti regimi di
gestione della mobilità. Partendo da queste premesse, analizzerò quelle che
mi sembrano le principali geostrategie dell’attuale regime confinario, cercando di segnalare le innovazioni giuridiche che sono state necessarie a produrle e ne garantiscono il funzionamento.
4.1. Nodi
Una delle metafore più sovente utilizzate nel descrivere la trasformazione
dei confini è quella della rete. Da questo punto di vista l’incipiente de-territorializzazione dei confini sarebbe il portato della progressiva sostituzione di
uno spazio dei flussi allo spazio dei territori tipico della modernità. Mettendo
esplicitamente in discussione l’idea dello stato quale “contenitore” esclusivo
dei processi economici e sociali (Axford 2006: 164), l’immaginario della rete
rappresenta una sorta di capovolgimento della tradizionale nozione di spazio
politico (Balibar 2009: 196), dove l’obiettivo della mobilità e della
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circolazione dei fattori produttivi prevale su quello della garanzia di fissità e
chiusura delle unità politiche.
Abbiamo già sottolineato alcuni limiti di tale approccio, soprattutto laddove esso sembra alludere ad una imminente perdita di rilevanza dei confini.
Un’altra debolezza risiede nell’eccesso di enfasi posta sull’idea della de-territorializzazione del confine. Sebbene l’immaginario delle reti consenta di
problematizzare le topologie politiche della modernità, mettendo in discussione il ruolo dei classici confini lineari, è bene sottolineare che la rete delle
comunicazioni globali ha bisogno per sussistere di precisi ancoraggi spaziali.
Le reti, in breve, non esistono in uno spazio puramente de-territorializzato,
ma necessitano per funzionare di una serie di infrastrutture materiali che restano vincolate allo spazio (Brenner, 1999: 64), sebbene secondo logiche di
scala e geografie distinte dalla classica spazialità politica del confine vestfaliano (Axford 2006: 176).
La crescita della mobilità internazionale negli ultimi decenni, almeno fino
all’esplodere della recente pandemia da COVID-19, è stata resa possibile
dalla costruzione di una complessa infrastruttura del trasporto globale (Spijkerboer 2018: 455). Tale infrastruttura è chiamata a facilitare ed accelerare,
laddove possibile, le circolazioni attraverso le frontiere, garantendo al contempo che la sua accessibilità non si trasformi in una fonte di rischio e pericolo. Affinché tale funzione di filtraggio tra circolazioni desiderabili, da agevolare, e circolazioni rischiose da intercettare, ed eventualmente bloccare,
possa essere svolta efficacemente è necessario canalizzare il movimento
verso determinati punti di attraversamento (Simmons 2019: 16). Non sorprende in questo senso che il sistema giuridico dei principali paesi di destinazione si sforzi di identificare con la massima precisione i “punti di attraversamento” ufficiali6, facendo di fatto assumere ai confini le sembianze di
una serie pixelata di punti definiti nel tempo e nello spazio (Guild 2009: 182).
Il confine funziona dunque come un “nodo”, un punto di interconnessione
della rete del trasporto globale attraverso cui viene canalizzata la mobilità
internazionale (Walters 2004: 682). Esso garantisce accesso alla rete internazionale del trasporto globale, ma consente al contempo la gestione delle
mobilità indesiderate creando una serie di punti di controllo diffusi su
L’articolo 5(1) del Regolamento (UE) 2016/399 (cd. Codice delle frontiere Schengen)
stabilisce, ad esempio, che “le frontiere esterne” della UE “possono essere attraversate soltanto ai valichi di frontiera e durante gli orari di apertura stabiliti”. Per valico di frontiera
deve intendersi “ogni valico autorizzato dalle autorità competenti per il passaggio delle frontiere esterne” (art. 2(6), Regolamento (UE) 2016/399). Le autorità di ciascun paese membro
sono obbligate a notificare alla Commissione l’elenco di tutti i loro valichi di frontiera (art.
5(1), Regolamento (UE) 2016/399).
6
25
entrambi i lati della linea di confine (nei punti di imbarco, di transito o di
destinazione) dove le credenziali di mobilità di ciascun individuo possono
essere continuamente vagliate. Gli stati hanno nel tempo costruito una complessa infrastruttura tecnica e giuridica per implementare efficacemente tale
funzione di filtraggio della mobilità internazionale. Dalle più tradizionali
strategie di controllo basate sul rilascio di documenti di viaggio (Torpey
2000; Neumayer 2006), passando per la pratica di svolgere controlli pre-imbarco tramite ufficiali di collegamento (Guiraudon 2002; Zolberg 2003) o i
medesimi vettori (Baird 2017), sino alle più recenti applicazioni di strumenti
di sorveglianza e profilaggio (Salter 2004; Franko Aas 2011; Carrera e Hernanz 2015), l’obiettivo è quello di garantire un accesso selettivo alla infrastruttura del trasporto globale, consentendo a coloro che presentano adeguate
credenziali di mobilità di raggiungere rapidamente e senza rischi la loro destinazione di viaggio. In quest’ottica la funzione che i confini svolgono è
soprattutto quella di individuare e immobilizzare in anticipo i potenziali fattori di rischio, accelerando la circolazione del resto (Walters 2006b: 197;
Simmons 2019: 16)7.
Tale geostrategia fa del confine un cruciale strumento di regolazione
dell’accesso all’infrastruttura della mobilità internazionale, chiamato a regolare la velocità e la facilità con cui è concesso agli individui di spostarsi.
Sebbene tale funzione venga svolta sempre di più attraverso la raccolta e il
trattamento di dati che stringono in una tenaglia informatica gli individui,
inquadrandoli in categorie di rischio sovente basate su assunzioni concernenti le loro origini etniche o estrazione sociale, il controllo della mobilità
non si svolge solo nello spazio virtuale dei flussi di informazione. Al contrario, esso trova dei cruciali punti di ancoraggio spaziale nei nodi strategici
della rete del trasporto internazionale, dove gli astratti profili di rischio costruiti per via informatica incontrano le persone reali, incidendo sui loro percorsi di mobilità.
7 È ad esempio possibile apprezzare l’impatto che tale infrastruttura di controllo ha avuto
sulla gestione delle circolazioni attraverso le frontiere UE se si considera che a fronte di oltre
64 milioni di cittadini di paesi terzi che nel 2019 hanno fatto ingresso nello spazio Schengen
attraverso uno dei posti di frontiera, sono stati adottati solo 212.000 provvedimenti di respingimento, di cui oltre 145.000 ai posti di frontiera situati lungo i confini terrestri (Frontex
2021), che possono essere raggiunti senza necessariamente ricorrere all’ausilio di un vettore.
Sebbene non esista una stima del numero di persone cui è stato impedito di imbarcarsi verso
la UE, sappiamo che circa un milione e duecentomila richieste di visto, su oltre 13 milioni,
sono state rigettate nel 2019 (EU Lisa 2020).
26
4.2. Zone
Nel corso degli ultimi decenni, i principali paesi di destinazione hanno
sviluppato un complesso apparato di controllo delle frontiere esterne il cui
obiettivo essenziale è quello di impedire che le persone prive delle credenziali necessarie ad accedere all’infrastruttura del trasporto internazionale riescano ad introdursi sul territorio aggirando i valichi di frontiera. Questa è
quella che il Codice delle frontiere Schengen definisce “sorveglianza di frontiera”, il cui principale obiettivo è appunto quello di “impedire alle persone
di eludere le verifiche ai valichi di frontiera o di dissuaderle dal farlo”8. La
geografia della sorveglianza della frontiera sembra richiamare il classico immaginario geopolitico vestfaliano. Essa implica pattugliamenti lungo gli
spazi che si aprono tra i diversi valichi di frontiera9, o appostamenti nei luoghi considerati più sensibili, comunque situati lungo i margini del territorio
statale. Le continuità con il passato sono tuttavia solo apparenti.
L’obiettivo essenziale delle politiche di sorveglianza delle frontiere è infatti quello di limitare gli attraversamenti indesiderati aggirando al contempo
i vincoli giuridici del controllo migratorio e, in particolare, gli obblighi che
discendono dal principio di non-respingimento (Ryan 2010: 35; GammeltoftHansen & Hathaway 2015: 242), che com’è noto rappresenta il più cogente
limite al diritto degli stati di escludere. Tale obiettivo è perseguito implementando una serie di pratiche di controllo che di fatto destabilizzano la tradizionale fissità della linea di confine vestfaliana, producendo nuove configurazioni spaziali. Comunemente ci si riferisce a tali pratiche con l’idea che
il controllo delle migrazioni sia esternalizzato o, meglio, extra-territorializzato.
La letteratura su tali pratiche è ormai vasta, sebbene non sempre i concetti
di esternalizzazione ed extra-territorializzazione siano utilizzati in maniera
consistente (Zaiotti 2016). Il concetto di esternalizzazione sembra infatti riferirsi più alla dimensione “relazionale” del controllo delle migrazioni, indicando la rete di cooperazione transnazionale che consente agli stati di attuare
il controllo migratorio a distanza, delegando tale funzione ad altre agenzie
pubbliche o private. È grazie alla fitta rete di accordi bilaterali o multilaterali
con i paesi vicini che i paesi di destinazione possono proiettare sovranità al
di là del loro territorio (Pijnenburg et al. 2018), in spazi tradizionalmente non
sovrani (come le acque internazionali) o nella sfera di giurisdizione di un
8
9
Art. 1(12), Regolamento (UE) 2016/399.
Art. 1(12), Regolamento (UE) 2016/399.
27
altro stato10. È sempre grazie a tali accordi che, da ultimo, è stato possibile
passare da un modello di controllo basato sulla deterrenza cooperativa (Gammeltoft-Hansen e Hathaway 2015), tipico delle tradizionali strategie di interdizione, ad un modello di “controllo senza contatto” (Moreno-Lax & Giuffré
2019), dove i paesi di destinazione offrono assistenza tecnica e fondi ai paesi
vicini per impedire a migranti e richiedenti asilo di lasciare il loro territorio
(Pijnenburg 2020)11.
Quando si parla di extra-territorializzazione ci si riferisce invece alla manipolazione politico-giuridica dello spazio che accompagna le strategie di
controllo della frontiera. L’efficacia delle politiche di interdizione e respingimento in alto mare si basa ad esempio sull’idea che né il diritto dei rifugiati,
né il diritto internazionale dei diritti umani si applichino laddove una persona
venga intercettata fuori della giurisdizione dello stato di destinazione (Gammeltoft-Hansen 2014: 115), sia perché si cerca di circoscrivere la vigenza di
tali strumenti al territorio degli stati firmatari12, sia perché si ritiene che altri
strumenti di diritto internazionale (come ad esempio il diritto dei mari) prevalgano in tali circostanze13. In altri casi gli stati negano accesso ai diritti
sospendendo strategicamente la sovranità nazionale o creando spazi assoggettati a regimi giuridici differenziati (Neuman 1996). Simili strategie privano di significato giuridico la presenza materiale di migranti e rifugiati,
10 Tutti i principali paesi di destinazione hanno ad esempio adottato aggressive strategie
di interdizione delle migrazioni indesiderate con la certezza di poter sbarcare sul territorio di
paesi terzi compiacenti i migranti intercettati in mare. In alcuni casi, ci si è spinti sino a creare
centri di detenzione offshore in cui trattenere i migranti intercettati nel tentativo di attraversare
la frontiera. Si pensi ad esempio al centro di “accoglienza” per rifugiati creato dagli Stati Uniti
nella base di Guantánamo, in territorio cubano, o alla politica di offshore processing dell’Australia, che ha finanziato per anni strutture detentive sul territorio di Naru o in Papua Nuova
Guinea.
11 Il paradigma di tale modello è la cooperazione tra Italia e Libia, avviata a seguito della
stipula del Memorandum di intesa firmato a Roma il 2 febbraio 2017 che rinnova le intese
precedenti alla caduta del regime di Gheddafi.
12 L’esempio più classico qui è quello del governo degli Stati Uniti, secondo cui i migranti
intercettati nel Golfo del Messico e, a partire dal 1994, dirottati verso il centro di accoglienza
creato nella base di Guantánamo, fossero da considerarsi all’esterno della giurisdizione domestica e, di conseguenza, non protetti dalle garanzie che la Costituzione offre a chi si trova
sul territorio statunitense. Tale tesi è stata supportata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, in
una celebre e controversa pronuncia (cfr. US Supreme Court (1993), Sale v. Haitian Centers
Council), 509 U.S. 155
13 Se, ad esempio, i controlli migratori si spingono fino alle acque internazionali o alle
acque territoriali dei paesi vicini, è possibile affermare in principio la responsabilità del paese
vicino ad offrire un porto sicuro per lo sbarco e, di conseguenza, l’accoglienza dei migranti
intercettati. Questa è ad esempio la logica di fondo che ha a lungo guidato le operazioni di
interdizione in alto mare svolte da molti paesi europei (Klein 2014).
28
creando una finzione legale di non-ingresso che consente ai paesi di destinazione di sospendere la vigenza di alcune importanti garanzie giuridiche
all’interno di certe aree del territorio nazionale14.
In genere i giuristi tendono a preferire il concetto di extra-territorializzazione, mentre gli scienziati politici parlano più comunemente di esternalizzazione della frontiera. Bisogna tuttavia riconoscere che la dimensione relazionale e spaziale delle politiche di controllo delle frontiere sono profondamente intrecciate. In ogni caso, l’effetto combinato di tali strategie è quello
di consentire una flessibilizzazione estroversa ed introversa dei confini (Basaran 2008; Menjívar 2014; Shachar 2020). Questa flessibilità, o mobilità dei
confini, che possono essere proiettati verso l’esterno per anticipare il movimento migratorio o, viceversa, ritratti qualora i migranti abbiano comunque
raggiunto il territorio dello stato, destabilizza la classica linearità dei confini,
facendoli somigliare più ad una vasta zona di frontiera di contenimento e
controllo della mobilità umana. Manipolando il rapporto tra territorio, sovranità e diritti gli stati cercano di controllare chi ha accesso, e in quale misura,
ai benefici concessi dal regime giuridico dei rifugiati e dei diritti umani
(Volpp, 2013: 5).
Gli effetti di tale strategia sono noti. Oltre a ridurre grandemente la mobilità di rifugiati e richiedenti asilo15, l’esternalizzazione o extra-territorializzazione dei confini accresce i rischi cui questi si espongono nel tentativo di
attraversare le frontiere (Ilcan 2021). Tali strategie hanno tuttavia l’ulteriore
conseguenza di produrre una sorta di disgiunzione tra sfera dell’esercizio
della sovranità e sfera del godimento dei diritti (Mitsilegas 2015: 19; Shachar
2020: 6). L’esercizio di controllo sulla mobilità dei migranti che si svolge
nelle zone di frontiera sembra non implicare responsabilità giuridiche, di
modo che i paesi di destinazione possono amplificare la loro capacità di
14
Rispondono a tale logica, ad esempio, le procedure accelerate che possono essere utilizzate per rimpatriare chiunque abbia fatto ingresso irregolarmente sul territorio statunitense e
sia stato intercettato entro le 100 miglia dal confine (c.d. expedited removal), o le recenti proposte della UE volte ad istituire procedure accelerate di rimpatrio e di asilo per tutti coloro
che abbiano fatto ingresso irregolare nello spazio europeo e siano stati intercettati e trattenuti
nelle zone di frontiera senza autorizzazione all’ingresso (Campesi 2021). L’esempio più sorprendente resta tuttavia quello della cd. migration zone istituita dall’Australia nel 2001, con
un provvedimento che autorizzava il governo a considerare giuridicamente non presenti tutti
i migranti che avessero raggiunto tale zona facendo ingresso non autorizzato in territorio australiano (Parliament of Australia 2005).
15 Secondo i dati dell’UNHCR, ad esempio, circa l’86% dei 26 milioni di rifugiati era
ospitato nel 2021 in paesi considerati in via di sviluppo, in genere situati nei pressi delle regioni di crisi (cfr. https://www.unhcr.org/figures-at-a-glance.html, ultimo accesso il 17 febbraio 2022).
29
incidere sui diritti degli individui sottraendosi ai vincoli che incontrerebbero
all’interno della loro giurisdizione domestica. Ciò ha indotto alcuni a descrivere tali zone di frontiera come degli spazi di eccezione, o buchi neri del
diritto, dove gli individui sono esposti al potere assoluto della forza pubblica
(Vaughan-Williams 2009: 108; Mann 2018: 348). Una simile lettura rischia
tuttavia di offuscare il ruolo che il diritto gioca nella produzione delle zone
di frontiera (Basaran 2008: 340).
Se è vero infatti che gli stati rendono i loro confini spazialmente flessibili
per aggirare molte delle loro responsabilità giuridiche, tale risultato è prodotto attraverso il diritto o comunque tramite una attiva manipolazione giuridica dello spazio. Le zone di frontiera sono prodotte grazie strumenti di
natura giuridica, come gli accordi di cooperazione con i paesi vicini, o pratiche che muovendosi ai limiti del quadro giuridico esistente, sfruttandone
frammentazione e incertezze interpretative, usano strategicamente il diritto
più che sospenderlo. Sebbene possano dare luogo a situazioni di ridotto accesso, o assenza di diritti (rightlessness), resta nondimeno scorretto qualificare le zone di frontiera come spazi di non diritto (lawlessness) nella misura
in cui esse sono il risultato dell’intrecciarsi di un fitto tessuto di norme giuridiche che ridefinisce costantemente il rapporto tra territorio, sovranità e diritti.
4.3. Muri
In una lettera indirizzata al vicepresidente della Commissione UE e al
Commissario per gli Affari Interni, a seguito dei recenti episodi lungo il confine tra Polonia e Bielorussia, i ministri degli interni di dodici paesi membri16
hanno sottolineato come le tradizionali misure di sorveglianza della frontiera
previste dal Codice delle frontiere Schengen non paiano più adeguate a gestire le situazioni di particolare pressione migratoria. Ciò, in particolare,
quando i paesi terzi “strumentalizzano l’immigrazione illegale per scopi politici”. In quest’ottica, il documento ha invocato una revisione delle regole
esistenti, per consentire ai paesi interessati la costruzione, con il supporto
finanziario della UE, di una “barriera fisica” a protezione dei confini esterni
della UE. La Commissione ha ripetutamente affermato che, sebbene non
esplicitamente vietate dal diritto UE, le barriere fisiche non appaiono ai suoi
occhi un mezzo efficace e proporzionato di controllo dei confini, rifiutandosi
16 Tra i firmatari, Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia,
Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia. Il testo della lettera è consultabile al seguente indirizzo: https://politi.co/34Piij1 (ultimo accesso il 17febbraio 2022).
30
anche in questa circostanza di sposare la proposta avanzata dai dodici ministri degli interni17.
La UE non sembra dunque intenzionata a finanziare la costruzione di barriere lungo le sue frontiere, ciononostante gli anni duemila hanno visto una
significativa crescita del numero di fortificazioni ai confini. I casi più noti
sono naturalmente il big, beautiful wall che divide gli Stati Uniti dal Messico18 e la Security Fence che imprigiona la Cisgiordania, ma secondo i calcoli di alcuni studiosi oltre 25 nuovi muri sono stati eretti dal 2000 in poi
(Hassner & Wittenberg 2015: 165). Secondo un’altra stima, almeno 28 delle
62 barriere costruite lungo i confini dal 1800 ad oggi sono state erette dopo
il 2000 (Carter & Poast 2017: 240). Tali stime differiscono per la diversa
maniera di definire ciò che costituisce un muro o una barriera di confine,
cionondimeno segnalano inequivocabilmente che dopo la fine della guerra
fredda il numero di fortificazioni erette a protezione dei confini è drammaticamente aumentato e, a dispetto dello stigma che sul Vecchio continente continua ad essere associato alla costruzione di barriere e muri, non mancano i
paesi europei che hanno dato un contributo significativo alla proliferazione
di muri19.
Naturalmente la fortificazione dei confini non è una novità dei giorni nostri (Vernon e Zimmermann 2019). La migliore maniera per dimostrare la
capacità di esercitare controllo su una determinata porzione di territorio è
tradizionalmente quella di demarcarlo fisicamente, eventualmente anche fortificandone i margini esterni. In epoca antica, il significato militare delle barriere e delle fortificazioni prevaleva chiaramente su quello politico (Rosière
& Jones 2012: 220), mentre in età moderna i confini politici cominciarono
ad essere definiti legalmente e rappresentati cartograficamente più che demarcati fisicamente. Il residuo significato militare delle barriere erette lungo
17
Si vedano ad esempio le repliche a domande a risposta scritta presentate dal Parlamento
Europeo sul tema, cfr. in particolare: E-003882/2021(1), E-003322/2021(2), E003237/2021(3), E-002261/2021(4) e da ultimo E-005263/2021.
18 Queste le parole utilizzate da Trump quando, all’atto di annunciare la sua candidatura
per la presidenza, promise di completare il tracciato del muro che è stato via via costruito a
partire dagli anni ‘90 lungo alcune sezioni dei 3.200 km del confine terrestre che divide gli
Stati Uniti dal Messico.
19 Le fortificazioni più risalenti nel tempo solo quelle che circondano le enclave spagnole
di Ceuta e Melilla, erette sul finire degli anni ‘90. Da allora hanno costruito barriere lungo i
loro confini anche la Grecia (al confine terrestre con la Turchia), la Bulgaria (al confine terrestre con la Turchia), l’Ungheria (ai confini con Serbia e Croazia) e da ultimo Polonia e
Lituania (lungo i loro confini terrestri con la Bielorussia). Occorre inoltre ricordare che nel
2015 la Macedonia, attualmente non un paese membro della UE, ha eretto una barriera lungo
alcuni tratti del confine terrestre con la Grecia.
31
i confini venne progressivamente annullato dagli sviluppi della tecnologia
bellica. Sebbene il periodo precedente il secondo conflitto mondiale abbia
visto un revival del ricorso a fortificazioni difensive dei confini, nessuna di
queste fu in grado di offrire adeguata protezione dagli attacchi nemici (Vernon & Zimmermann 2019: 7)20 .
Nella seconda metà del XX secolo non sono mancati i casi in cui si è cercata una soluzione a conflitti regionali erigendo muri21, cionondimeno le barriere militari dell’epoca precedente sono sembrate cadere in desuetudine.
Anche il più simbolico dei muri dell’età moderna, il Muro di Berlino, non
aveva una funzione militare ma fondamentalmente di natura poliziesca. Così
come altre barriere erette lungo i confini del blocco sovietico, esso funzionava più che altro come il muro di una prigione. Il suo obiettivo essenziale
era quello di impedire l’emigrazione dalla Germania Est.
Sebbene sia ricorrente il richiamo a metafore belliche per giustificare la
costruzione di nuovi muri, come ad esempio nella lettera dei dodici ministri
degli interni della UE, dove si fa chiaramente riferimento all’immigrazione
come “minaccia ibrida” utilizzata per destabilizzare la UE, la fortificazione
delle frontiere è stata negli ultimi due decenni soprattutto guidata dal desiderio di proteggere le regioni più ricche del mondo dalle migrazioni indesiderate. In quest’ottica è facile prevedere che i muri proliferino soprattutto lungo
le soglie geografiche che dividono regioni fortemente diseguali dal punto di
vista economico22. A differenza che in passato, quando la costruzione di muri
aveva una funzione prevalentemente politico-militare, il processo di fortificazione dei confini è oggi fortemente asimmetrico. I muri servono a tutelare
il privilegio economico (Rosière & Jones 2012: 225; Vernon & Zimmermann
2019: 8; Hassner & Wittenberg 2015: 173), facendo somigliare le regioni più
ricche del mondo a delle autentiche gated communities (van Houtum &
Pijpers 2007).
Molti hanno tuttavia messo in discussione l’efficacia della strategia di fortificazione dei confini. Sebbene non esistano dati che consentano una dettagliata analisi controfattuale, è opinione diffusa che le barriere non riducano
20 Il caso più emblematico è forse quello della linea Maginot, costruita nel 1929 dalla
Francia per prevenire un’invasione militare tedesca.
21 I casi più noti sono forse la Zona demilitarizzata che divide le due Coree dal 1953, la
“Linea Morice” realizzata dalla Francia durante la guerra d’Algeria (1957), la “Linea BarLev” eretta da Israele lungo la sponda orientale del Canale di Suez nel corso della Guerra dei
sei giorni (1967) e la barriera di protezione eretta a Cipro dopo che nel 1974 la Turchia ha
invaso una parte dell’isola.
22 Secondo i calcoli di Hassner & Wittenberg (2015: 170), ad esempio, l’asimmetria del
PIL pro capite è molto più pronunciata nei casi di paesi divisi da barriere che tra paesi che
non hanno barriere lungo i loro confini condivisi.
32
il numero di migranti irregolari presenti nei paesi di destinazione (Hassner
& Wittenberg 2015: 159). L’effetto di breve termine che è possibile ottenere
in una determinata sezione del confine, è largamente controbilanciato dalla
capacità dei migranti di trovare alternative, tra le quali la principale rimane
quella di fare ingresso con un regolare visto per poi trattenersi oltre la sua
naturale scadenza. Sono tuttavia soprattutto gli effetti strategici di lungo termine a rendere svantaggiosa la fortificazione dei confini. Aumentando la difficoltà di un attraversamento indesiderato, i muri incrementano la domanda
di servizi di “facilitazione” stimolando la nascita di una rete organizzata di
smugglers che in definitiva crea nuove minacce sia per la sicurezza degli
stati, che per la sicurezza umana dei migranti (Carter & Poast 2015: 264).
Infine, la costruzione di muri è percepita come un atto ostile dai paesi vicini,
portando sovente ad un indebolimento della cooperazione bilaterale da cui
dipende la capacità dei paesi di destinazione di controllare i flussi transfrontalieri indesiderati (Hassner & Wittenberg 2015: 159).
A fronte di tale apparente inefficacia dei muri, molti hanno insistito sulla
loro valenza simbolica. Muri e barriere hanno una funzione meramente “teatrale”, mettono in scena una forza e un’efficacia che in realtà non sono in
grado di esercitare (Brown [2010]2013: 13). Essi sono parte di uno spettacolo del confine chiamato a riaffermare simbolicamente la capacità dello
stato nazione di rinchiudersi nel suo contenitore territoriale, anche eventualmente erigendo segni visibili della sua sovranità. I nuovi muri hanno dunque
a che fare con il management dell’immagine della frontiera più che con un
autentico controllo dei movimenti transfrontalieri, che vengono solo rallentati e spostati. Essi sono iconografie della sovranità territoriale dello stato che
addirittura sembrano dare luogo ad una sorta di ri-territorializzazione del
confine, rimandando alla sua classica morfologia lineare. Il muro si limita a
demarcare e proteggere l’area su cui lo stato esercita il suo dominio e, in
questo senso, esso non sembra aggiungere nulla dal punto di vista giuridico
all’esistenza del confine (Paz 2017: 616)23.
Pur simbolizzando il confine vestfaliano classico, non bisogna dimenticare che i muri del mondo contemporaneo sono parte di un regime confinario
più complesso e articolato il cui obiettivo non è la totale chiusura del confine.
23
Nei pochi casi in cui le corti si sono trovate costrette a valutare la legittimità della costruzione di fortificazioni frontaliere, queste sono state in genere interpretate come una tipica
manifestazione del diritto degli stati di demarcare e proteggere i loro confini. Unica eccezione
è stato il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia sulla Security Fence israeliana, che ha considerato illegittima la barriera solo nella misura in cui essa non seguiva il
tracciato ufficiale del confine tra Israele e Cisgiordania, funzionando come uno strumento di
annessione di fatto (cfr. 2004 ICJ 131).
33
I muri servono senz’altro a dissuadere gli attraversamenti indesiderati aumentando il rischio che essi vengano intercettati (Hassner & Wittenberg
2015: 160), ma certamente non bloccano in senso assoluto il movimento
transfrontaliero, limitandosi piuttosto a creare il tempo e lo spazio necessario
al funzionamento dell’infrastruttura tecnico-giuridica del confine (PallisterWilkins 2016). Molte delle barriere erette lungo i confini negli ultimi anni
servono ad esempio a canalizzare il movimento transfrontaliero verso specifiche zone di attraversamento (come, ad esempio, le transit zones situate
lungo i valichi della barriera che protegge il confine ungherese), dove i migranti sono assoggettati a procedure accelerate e differenziati in base al coefficiente di vulnerabilità. Alla stessa stregua, ciò facilita la raccolta e l’estrazione di dati (consentendo la schedatura e la raccolta di dati biometrici) che
alimenta il funzionamento dei dispositivi di sorveglianza utilizzati per governare la mobilità che attraversa i nodi dell’infrastruttura del trasporto globale. Anziché essere guardati come semplici dispositivi di interruzione delle
circolazioni, i muri vanno dunque interpretati come un elemento della più
complessa architettura di gestione differenziale della mobilità che caratterizza il regime confinario contemporaneo (Brown [2010]2013: 108; Rosière
& Jones 2012: 231).
5. Un nuovo rapporto tra territorio, sovranità e diritto?
La nuova geografia giuridica del confine è il frutto di una destabilizzazione
del regime confinario vestfaliano classico. Una destabilizzazione che gli stati
perseguono allo scopo di controllare chi ha accesso e in quale misura ai diritti
previsti dal regime giuridico dei rifugiati e dei diritti umani, i due principali limiti
alla loro prerogativa altrimenti assoluta di escludere. Tale destabilizzazione è
realizzata manipolando il rapporto tra territorio, sovranità e diritti. In particolare,
la sovranità si proietta o si ritrae strategicamente attraverso lo spazio, sganciandosi dal suo tradizionale ancoraggio territoriale. Contemporaneamente, però, il
regime dei diritti umani resta fortemente territorializzato (Scott FitzGerald 2020;
Shachar 2020). Il successo delle strategie di controllo della mobilità umana si
basa precisamente sull’idea che migranti e richiedenti asilo abbiano accesso ai
diritti solo una volta raggiunto il territorio dei paesi di destinazione, che talvolta
si spingono fino al punto di escindere porzioni del territorio dalla sfera della loro
giurisdizione.
Abbiamo già evidenziato come il problema giuridico dei confini sia tradizionalmente stato ridotto dalla scienza giuridica al problema del rapporto tra sovranità e territorio. In definitiva, per i giuristi il confine è ciò che demarca la
34
giurisdizione sovrana, identificando la porzione di spazio all’interno del quale lo
stato esercita la sua potestà di imperio. Di conseguenza, non c’è da sorprendersi
se prassi che di fatto destabilizzano il rapporto tra territorio, sovranità e diritti
retroagiscano sulla categoria giuridica di giurisdizione, del pari destabilizzandola. Negli ultimi anni, ad esempio, la giurisprudenza di corti nazionali e sovranazionali ha fatto seguire alla mobilità territoriale dei confini un parallelo slittamento della nozione di giurisdizione, elaborando una concezione de-territorializzata di giurisdizione in base alla quale gli obblighi di proteggere sussistono
non appena gli agenti statali esercitano effettivo controllo su un individuo, indipendentemente dal luogo cui ciò avvenga (Gammeltoft-Hansen 2014; Shachar
2020).
La giurisprudenza sulla responsabilità extraterritoriale degli stati sembra suggerire che, almeno nel campo del diritto internazionale, due differenti nozioni di
giurisdizione stiano emergendo (Milanović 2008: 428). Una prima, tipica del
diritto internazionale pubblico, che concepisce il concetto di giurisdizione come
uno strumento per circoscrivere territorialmente l’esercizio dell’autorità sovrana.
Una seconda, tipica del diritto internazionale dei diritti umani, che utilizza il concetto di giurisdizione primariamente quale strumento per proteggere gli individui dalla violenza di stato, indipendentemente se essa sia espressione della pretesa di esercitare pubblici poteri su un territorio o meno. Ma a ben vedere, è la
nozione medesima di sovranità che ne esce trasformata, sganciandosi dal suo
tradizionale ancoraggio territoriale. L’esercizio della sovranità diviene indipendente dal controllo del territorio, centrandosi sulla relazione tra autorità ed individuo, ovunque essa si svolga.
Naturalmente, tale tentativo di espandere la portata dei diritti facendo di fatto
seguire alla de-territorializzazione della sovranità anche una de-territorializzazione del concetto di giurisdizione (Shachar 2020: 16), non avviene senza ostacoli e incertezze. In particolare, la giurisprudenza ha sempre considerato la giurisdizione extraterritoriale come un’eccezione, mentre le corti applicano in genere un test molto severo per valutare se lo stato esercita o meno “controllo effettivo” su una persona al di fuori della sua giurisdizione domestica (Gammeltoft-Hansen 2014)24. Inoltre, il tentativo di de-territorializzare il concetto di giurisdizione non è rimasto senza risposte. Gli stati hanno affinato le loro strategie
di controllo extraterritoriale, evitando ad esempio di entrare in contatto fisico
con i migranti per mezzo di una delega delle classiche attività di interdizione alle
autorità dei paesi terzi (Moreno-Lax & Giuffré 2019). La stessa fortificazione
24 Nella stessa sentenza Hirsi, dove la Corte EDU ha con chiarezza sostenuto che gli obblighi degli stati si estendono ovunque le autorità esercitino controllo su individuo, è comunque ribadito che la giurisdizione rimane “essenzialmente territoriale” (Corte EDU (2012),
Hirsi vs. Italy)
35
dei confini può essere interpretata come una risposta ai tentativi di estendere la
sfera della giurisdizione in materia di diritti umani oltre il territorio statale (Paz
2017). Costruendo muri, i paesi di destinazione esercitano una estrema forma di
controllo senza contatto, dato che la mobilità è impedita dall’inerzia passiva
delle barriere fisiche senza che le autorità abbiano necessità di intervenire attivamente.
Vedremo se i tentativi di estendere gli obblighi di protezione degli stati anche
alle situazioni in cui non via sia contatto fisico tra individuo e autorità avranno
successo (Costello & Mann 2020), di certo alla luce della destabilizzazione del
rapporto tra sovranità, territorio e diritti cristallizzato nel regime confinario vestfaliano classico, una concezione strettamente territoriale di giurisdizione in materia di diritti umani appare sempre meno giustificabile.
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