Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
LA DOPPIA LENTE PETRONIO ATTRAVERSO FELLINI, OVVERO FELLINI ATTRAVERSO PETRONIO di Nicola Pace In generale è sempre atto difficilissimo, al limite delle capacità di qualsiasi critico, sia letterario che cinematografico, valutare le trasposizioni filmiche dei grandi testi letterari del passato, soprattutto quando un lasso temporale così vasto si frapponga tra testo e film, soprattutto quando l’opera trasposta si consegni al presente in uno stato dolorosamente mutilo, per cui non ci è dato capire come iniziasse e come finisse, e come si articolasse nel suo sviluppo. La necessità per il regista di presentare una storia che parli al presente, che comunichi un messaggio o un’emozione forte rende discutibile, se non risibile, un’operazione filologica, filologica in senso lato, che presenti la vicenda narrata dall’autore antico nella sua interezza e perfettamente calata nella storia del tempo, con tutti i dettagli forniti dalla ricerca storica e archeologica, e per di più animata dallo stesso spirito dell’autore antico. Se allo spettatore dei giorni d’oggi piace confrontarsi con la diversità, di costumi, di usi, di vestiti, di ambienti, di mentalità, è altresì vero che gli piace cogliere il messaggio o l’emozione trasmessa dal film in modo immediato, senza il presupposto di conoscenze storiche e letterarie, senza l’aggravio della comprensione di quella profonda interrelazione che un letterato vissuto duemila anni fa aveva con il suo mondo e con la sua, spesso sommersa e a noi ignota, cultura. Pertanto la cosiddetta fedeltà, la rigorosa adesione all’originale, non può essere invocata dalla critica come criterio per valutare la validità del film. Per un’opera come il Satyricon, che, al di là della piacevolezza di una prima lettura, risulta estremamente complessa sia a livello formale, per l’alternanza di versi e prosa (il cosiddetto prosimetro) e per la varietà di registri linguistici, sia a livello di contenuto, per la densità di riferimenti intertestuali, spesso parodistici, la resa filmica comporta, per qualsiasi regista, la 18 Nicola Pace necessaria rinuncia a molti aspetti del testo. Ad esempio, come si può pretendere, come hanno fatto taluni, che il prosimetro petroniano venga reso dall’alternanza di recitazione e canto? L’idea in sé non sarebbe assurda, se non si tenesse in conto il fatto che della musica romana di età imperiale, che non era una mera imitazione della musica greca, non possiamo farci un’idea neppure approssimativa, per mancanza di testi musicali, per cui qualsiasi tentativo di legare il testo a una melodia genericamente evocativa del mondo antico, se non moderna, cadrebbe immancabilmente nel ridicolo.1 Ancor più insensata la richiesta di rendere le molte parodie di Petronio: una resa fedele non verrebbe mai capita dal pubblico2 (del resto alcuni riferimenti non sono stati individuati in modo univoco neppure dai filologi classici3), 1 SEGAL 1971, p. 56. Il critico statunitense si chiedeva perché Fellini non avesse introdotto nel Satyricon quel genere di interludio musicale che chiude così brillantemente 8 / . La latinista Roberta Strati, in STRATI 2000, pp. 92-93, ravvisa una funziona analoga a quella del prosimetro nell’alternarsi di dialoghi in italiano e in latino del film di Fellini, che crea «effetti di straniamento nella fisionomia linguistica (e più in generale fonica) del film». Se certamente uno scarto tra componente razionale (dialoghi in italiano) e componente fonico-musicale, priva di significato per la stragrande maggioranza del pubblico (dialoghi in latino, ma anche in tante altre lingue più o meno esotiche), si crea nel film, esso non mira a riprodurre il «poliglottismo degli stili» di Petronio: lo scarto stilistico-ritmico determinato dagli inserti poetici come lo scarto tra i diversi registri linguistici nella Cena di Trimalchione rimane confinato all’interno di un messaggio razionale, con cui Petronio sperimenta la varietà delle modalità di narrazione così come la varietà della rappresentazione linguistica delle diverse realtà sociali, mentre Fellini vuole con i dialoghi latini far sentire la distanza, incommensurabile, tra il nostro mondo e quello dei romani antichi, per cui il loro linguaggio è al di là di ogni comunicazione razionale, di ogni umana comprensione. 2 Di questo si rendeva bene conto Fellini, quando, parlando con Dario Zanelli, in ZANELLI 1969, p. 43, diceva: «Non voglio fare neanche Petronio, d’altra parte: come potrei mettere in satira un mondo che non conosco? La satira ha un senso solo se applicata al mondo che si ha davanti. Si può fare della satira sui marziani?». 3 Basti pensare ai due grandi intermezzi poetici recitati da Eumolpo, la Presa di Troia (Troiae halosis, PETR. 89; 65 versi) e la Guerra civile (Bellum civile, 119-124, 1; 295 versi), che per molti critici intendono parodiare rispettivamente la poesia di Seneca (le tragedie) e quella di Lucano. Ma già uno studioso esperto come John P. Sullivan, che nella sua monografia sul Satyricon (SULLIVAN 1977) si sofferma a lungo sulla parodia in Petronio, osserva che, se la Presa di Troia può ben considerarsi parodia delle tragedie senecane (pp. 184-185: contro l’ipotesi che parodiasse l’Iliacon di Lucano o la Halosis Ilii dell’imperatore Nerone), la Guerra civile è invece un tentativo serio di rielaborare l’epica storica secondo il modello virgiliano, in modo da sollecitare un confronto con Lucano (p. 169). Ancor più convincente è, a mio avviso, la posizione di Roger Beck, in BECK 1979, pp. 1 2 La doppia lente 19 mentre una doppia trasposizione della parodia, dall’antico al moderno e dalla letteratura al cinema, per cui il regista verrebbe a fare il verso a film specifici o a generi filmici, come gli “spaghetti western”, porterebbe o a effetti ridicoli o ad allontanare ancora di più dal mondo antico lo spettatore.4 Venendo poi a Fellini, non solo si rendeva conto della difficoltà della resa cinematografica di un’opera letteraria, ma addirittura ne riconosceva, nel modo estremo, paradossale, che gli era solito, l’impossibilità. In Fare un film,5 proprio in riferimento al Satyricon, diceva: Ogni opera d’arte vive nella dimensione in cui è stata concepita e nella quale si è espressa; trasferirla, trasportarla dal linguaggio originario a un altro differente, significa cancellarla, negarla. Quando il cinema ricorre a un testo letterario, il risultato, nel migliore dei casi, sarà sempre e soltanto una trasposizione di tipo illustrativo che con l’originale conserva coincidenze semplicemente anagrafiche: la storia, le situazioni, i personaggi, insomma tutta una serie di materiali, pretesti, occasioni che l’osservazione quotidiana della realtà e la lettura dei giornali, ad esempio, sono in grado di fornire con una ricchezza e un’immediatezza ben più generose e stimolanti.6 239-253, che, rifacendosi a WALSH 1970, p. 95, ha voluto mostrare come con questi mediocri intermezzi poetici Petronio non volesse fare il verso a poeti contemporanei, ma caratterizzare il personaggio Eumolpo come poeta di mediocre talento. 4 Cfr. SEGAL 1971, p. 56: «And what of Petronius’ literary parodies? There were numerous cinematic possibilities ranging from DeMille epic to spaghetti western. It is difficult to explain why this approach seemed incompatible to the man who directed Lo sceicco bianco». 5 FELLINI 19932, p. 100. 6 Lo stesso concetto si trova espresso, a proposito della più volte propostagli trasposizione in cinema della Divina Commedia, anche in FELLINI 20042, pp. 23-24: «Un’opera d’arte nasce in una sua unica espressione; trovo mostruose, ridicole, aberranti queste trasposizioni. Le mie preferenze vanno in genere a soggetti originali scritti per il cinema. Io credo che il cinema non abbia bisogno di letteratura, ma ha bisogno soltanto di autori cinematografici, cioè di gente che si esprima attraverso i ritmi, le cadenze, che sono particolari del cinema. Il cinema è un’arte autonoma che non ha bisogno di trasposizioni su un piano che, nel migliore dei casi, sarà sempre e soltanto illustrativo. Ogni opera d’arte vive nella dimensione in cui è stata concepita e nella quale si è espressa. Che cosa si prende da un libro? Delle situazioni. Ma le situazioni, di per sé, non hanno alcun significato. È il sentimento con cui queste vengono espresse che conta, la fantasia, l’atmosfera, la luce: in definitiva l’interpretazione di quei fatti. Ora l’interpretazione letteraria di quei fatti non ha nulla a che fare con l’interpretazione cinematografica di quei fatti stessi. Sono due modi di esprimersi completamente diversi». 20 Nicola Pace Questa sua posizione è motivata dall’importanza che ha per lui l’immagine rispetto al dialogo: l’immagine, sottolinea subito dopo, è più in grado di evocare il sogno, mentre il dialogo permette di seguire razionalmente la vicenda; il film muto, basato tutto sulle immagini, ha «una potente seduzione evocativa che lo rende più vero del film parlato proprio perché è più vicino alle immagini del sogno, che sono sempre più vive e reali di tutto ciò che vediamo e tocchiamo».7 Questa funzione subalterna del dialogo rende il rapporto con l’opera letteraria quanto mai problematico: il regista attraverso le immagini trasmette al suo pubblico più la sua esperienza onirica che non il mondo in cui è vissuto lo scrittore o il suo modo di pensare. In diverse occasioni Fellini ha sottolineato questo concetto, in riferimento al Satyricon:8 la 7 La subordinazione del dialogo e della trama alle immagini è dovuta ad un atto creativo in cui il regista «pensa in immagini». Cfr. FELLINI 2003, p. 23: «Vede, non penso in termini di dialogo e trama: penso quasi esclusivamente in immagini, e queste spiegano perché la faccia e il corpo di un attore per me sono più importanti della trama. Quando la scena è stata costruita e funziona drammaticamente, le parole non hanno più importanza». 8 Cfr. l’intervista di Alberto Moravia in “Vogue Italia”, giugno 1969, in ZANELLI 1969, p. 69: «Per esprimerlo [scil. il senso di estraneità] ho voluto prima di tutto eliminare quello che di solito si chiama storia. Cioè, in fondo, l’idea che il mondo antico sia ‘realmente’ esistito. Dunque l’atmosfera non sarà storica ma onirica. Il mondo antico forse non è mai esistito; ma non c’è dubbio che ce lo siamo sognato. Dei sogni, il Satyricon dovrebbe avere la trasparenza enigmatica, la chiarezza indecifrabile». Cfr. anche l’intervista di Gianluigi Rondi, in “Gioia” (riportato in una cartella stampa conservata presso la Fondazione Fellini a Rimini, p. 6): «D. Ma l’aneddoto, il racconto, come si svolgeranno? R. Come in un’immensa favola, senza nessi logici. Il romanzo ci è giunto a frammenti, il racconto sarà solo a frammenti, con l’alogicità dei sogni, colmo di vuoti improvvisi. Fai conto un mosaico dissepolto, cui manchino molti tasselli, un rudere di scavo, scoperto a mezzi (sic). E quanto a tono, quanto a stile, per carità, nessun sapore avventuroso, picaresco: un clima magico, invece. Quel poco del romanzo che ho conservato l’ho fuso insieme a un’infinità di miti, tolto al leggendario più ghiotto di Roma antica. Saranno quei miti, quelle storie favolose, quelle leggende arrivate a noi attraverso i secoli che faranno da tessuto connettivo al film. Guai pensare che io possa realizzare un film realista. Le pietre di Roma non mi dicono niente. Le ho ricostruite tutte in teatro. Le ho ricostruite proprio perché non sembrino vere, perché sembrino uscite da un sogno, da una realtà quasi innaturale». Si veda anche quanto disse Fellini a Dario Zanelli nel giugno del 1968, in ZANELLI 1969, p. 21: «Non è certo un film storico quello che voglio fare; né mi propongo di ricostruire con devota fedeltà gli usi e costumi dell’antica Roma. Ciò che mi interessa è tentar di evocare medianicamente, come sempre fa l’artista, un mondo sconosciuto di duemila anni or sono, un mondo che non è più». Molto significativa è anche la testimonianza di Bernardino Zapponi, che elaborò la sceneggiatura con Fellini tra il giugno e La doppia lente 21 volontà cioè di ricostruire «non un’epoca storica, filologicamente ricostruibile sui documenti, positivisticamente accertata, ma una grande galassia onirica, affondata nel buio, fra lo sfavillio di schegge fluttuanti, galleggianti fino a noi».9 Ma, ci chiediamo noi, è proprio vero che nel filtrare le vicende del Satyricon attraverso la sua originalissima fantasia e il suo particolare concetto di mondo antico, un mondo alieno, estraneo, equivalente a quello fantascientifico di Marte, è proprio vero che Fellini non ha tenuto in nessun conto né la storia romana in cui è vissuto Petronio né il sentimento e la fantasia con cui Petronio ha espresso le vicende del suo romanzo? I classicisti hanno dato risposte molto diverse a questa domanda. Possiamo ricordare la posizione di un celebre studioso del teatro antico, il newyorkese Erich Segal, che oltre a essere professore di lettere classiche, è stato anche sceneggiatore e autore di romanzi “best seller”, come Love Story. Segal scrisse nel 1971 un articolo sulla rivista statunitense “Diacritics”,10 in cui pesantemente criticava Fellini, e non per l’incapacità di capire Petronio e il suo mondo, ma per la dichiarata volontà di tradirne lo spirito: perché, si chiedeva, il regista ha preso un’opera che cantava il carpe diem e ne ha fatto un film che gracchiava il memento mori?11 Perché un’opera così gioiosa, caratterizzata dall’ilarità e dalla ricerca disinibita del sesso è stata trasformata in un film morboso e privo di gioia, i cui personaggi, in particolare Trimalchione, «non amano la vita, ma sono terrorizzati dalla morte»?12 I perso- l’agosto del 1968, ZAPPONI 1969, pp. 83-84: «Niente erudizione, avevamo stabilito; nessuna ricostruzione storica; odio degli aggettivi che solitamente il libro di Petronio stimola: picaresco, allusivo, sarcastico, moderno, scenografico. Il romanzo doveva essere l’avvio per un viaggio irreale come quello di Gordon Pym, o come certe avventure marine di Conrad e di Verne. Si andava a tentoni, cercando di scorgere cosa appariva dietro un promontorio, che cosa significassero certe luci lontane, come vivevano gli abitanti d’una lingua di terra desolata come la Luna. I romani, quelli della Storia, bisognava cacciarli nel fondo, a fare da confuso coro, perché non disturbassero con la loro identità troppo compromessa nei mille film in costume […]. Film psichedelico, fantascienza storica, viaggio nel tempo, mondo planetario, fuori d’ogni logica e ritmo odierni». 9 FELLINI 20042, pp. 136-137. 10 SEGAL 1971. 11 Ivi, p. 56: «What need be asked is why Fellini so misrepresented Petronius, why, in fact, he took a work that sang carpe diem and made a film that croaked memento mori. Why the morbidity, the pervasive joylessness?». 12 Ivi, p. 57: «For example: to him, the Cena Trimalchionis is about death. He specifically told his make-up artist to paint Trimalchio like a mummy. The entire orgy is joy- 22 Nicola Pace naggi del film, in questo rifiuto della gioia di vivere e della gioia del sesso, sono per Segal tutti sostanzialmente cristiani, in quanto Fellini è nel suo intimo legato alla Chiesa Cattolica e non può comprendere la mentalità pagana così bene rappresentata da Petronio.13 Diametralmente opposto è il giudizio del classicista che collaborò con Fellini come consulente per la lingua latina, Luca Canali, allora docente di Letteratura latina all’Università di Pisa, ma anche romanziere e poeta; Canali, con cui ho avuto un interessante colloquio a Roma nel gennaio 2007, colloquio pubblicato qui di seguito, in realtà contribuì al film non solo nella veste accademica di esperto di latino: egli passò tutto il periodo della lavorazione del film sul set come consulente per il mondo antico, a evitare che venissero commessi errori di carattere storico. Già questo fatto, mai dichiarato da Fellini nelle sue numerose interviste, ci fa capire come la conclamata volontà di non fare nessuna ricostruzione storica, di presentare una favola, un sogno che con il vero mondo romano non avesse nulla a che fare, debba essere presa con la dovuta cautela. Ma torniamo al giudizio di Canali sulla fedeltà di Fellini allo spirito di Petronio. In un dibattito apparso sull’“Espresso” del 23 febbraio 1969, un dibattito cui parteciparono, oltre a Fellini e a Canali, il professore di Storia romana Santo Mazzarino, gli scrittori Gabriele Baldini e Bernardino Zapponi, e il giornalista del “Times” Peter Nichols,14 Canali sostenne la profonda congenialità di Fellini con Petronio e con il mondo di Petronio: «c’è, in Petronio» precisava «un senso profondo di malinconia, di tristezza, il presentimento della morte, del disfacimento, della catastrofe di un mondo less, although, paradoxically, Fellini is here the most faithful to the actual words of Petronius. The banqueters are ugly, frightened, grotesque, haunted (Fellini actually took people from insane asylums for some scenes). His Trimalchio is not in love with life, he is in terror of death». 13 Ibid.: «Why then does Fellini have no Christians? But he does. They are all Christian, of course. Encolpius, Trimalchio, all of them. At least to Fellini. The pagan mentality so vividly portrayed by Petronius is incomprehensible to a man of whom it has aptly been said, ‘Fellini left the Church, but the Church has never left him’». Devo dire per inciso che questa critica di Segal, nella sua grossolanità, mi ricorda la critica mossa al Casanova, sempre da un altro statunitense, anche se non uno studioso, il produttore della “Universal”, stupefatto che Fellini avesse reso il protagonista del film «strano, distante, spettrale»; nel tentativo di far cambiare idea al regista, gli diceva: «Casanova is life! È vita. Casanova è la forza, il coraggio, la fiducia. He is the joy of living. Understand, Feffy? Perché ne hai fatto uno zombie?» (FELLINI 20042, p. 161). 14 Il dibattito è integralmente riportato da ZANELLI 1969, pp. 57-64. La doppia lente 23 che tuttavia non era affatto in regresso».15 Come ebbe modo di spiegarmi nel nostro colloquio, Canali attribuisce questa tristezza del Satyricon al fatto che Petronio apparteneva a un gruppo politico-sociale sconfitto durante il principato di Nerone (ma già a partire da Caligola), quello dell’aristocrazia romana senatoria, che vedeva sempre più ridotto il suo spazio d’intervento nella politica romana, spazio occupato da una nuova classe di ricchi emergenti, per lo più liberti. Petronio, pur profondamente amareggiato da questo declino dell’aristocrazia, aveva però un atteggiamento ambivalente nei confronti dei parvenus come Trimalchione: se da una parte li guardava con ironia, dall’altra ne era affascinato, e si compiaceva di presentarne i valori e l’esuberanza di carattere. Per Canali, comunque, è indicativo della sostanziale tristezza del Satyricon il discorso che Encolpio fa all’apparire del cadavere di Lica, portato a riva dalle onde dopo il naufragio della sua nave, discorso che sottolinea la vanità degli sforzi e dei progetti umani, e che si conclude con la lapidaria sentenza: si bene calculum ponas, ubique naufragium est («se fai bene i calcoli, non c’è posto dove non ci sia naufragio»).16 È il 15 ZANELLI 1969, p. 62. Riporto integralmente l’intervento di Canali: «Quello che m’interessa di più nel Satyricon e che mi pare possa farne un vero film sulla romanità e su Roma dopo tanto ciarpame e tanta retorica è il fatto che, nonostante il distacco che Fellini dice d’essersi imposto, c’è in lui, non so quanto consapevole, una profonda congenialità con Petronio e con il mondo di Petronio. Nel senso che Petronio avvertiva tutti gli squilibri della vita morale del suo tempo, ma sapeva anche darci la rappresentazione di quella vita in tutti i suoi aspetti, e non soltanto degli aspetti che noi, prigionieri di una terminologia cattolica (e i nostri avi prigionieri d’un moralismo catoniano), chiamiamo vizi. C’è, in Petronio, un senso profondo di malinconia, di tristezza, il presentimento della morte, del disfacimento, della catastrofe di un mondo che tuttavia non era affatto in regresso (la teoria della decadenza imperiale, almeno per quanto riguarda questo periodo, è una distorsione della realtà nella quale sono caduti molti studiosi). È una società che in realtà assomiglia molto alla nostra: c’è una certa diffusione del benessere, una migliore organizzazione delle province (non a caso alcuni imperatori non saranno, non dico romani, ma neppure italiani: come Traiano, per esempio, che era spagnolo); con tutti i suoi limiti è pur sempre una ‘società del benessere’, nella quale cominciano a venir meno molti valori e molte prospettive positive. C’era chi reagiva come Giovenale, in fondo un passatista, un catoniano: che polemizza contro la libertà delle donne, la libertà sessuale, la libertà di andare dove vogliono, di fare viaggi, di parlare di politica, di occuparsi di tutto ciò che desiderano; contro la diffusione e la volgarizzazione della cultura e contro il cosmopolitismo (nel caso specifico l’orientalizzazione o l’ellenizzazione del costume romano). Ma c’erano anche intellettuali che avvertivano l’ambiguità drammatica della loro epoca, nella quale convivevano le condizioni d’un collasso e d’una redenzione». 16 115, 11-17. 24 Nicola Pace discorso che Fellini ha trasposto in una posizione chiave, nella scena della morte di Ascilto, verso la fine del film.17 È a mio avviso significativo il fatto che Fellini, che partecipava al suddetto dibattito, non prese le distanze dalla dichiarazione di Canali sulla congenialità tra l’autore antico e il regista; anzi, nella successiva risposta a Nichols, Fellini si riagganciò al discorso di Canali sulla somiglianza tra la società del benessere degli anni ’60 e quella del primo secolo dell’età volgare, società in cui allo sviluppo economico si accompagnava il venir meno di molti valori e di molte prospettive positive, un’ambiguità drammatica questa profondamente sentita da Petronio. Per Fellini «quella di Petronio è una società al tramonto, alla quale seguirà un’epoca nuova, quella cristiana, con un indirizzo nuovo, un linguaggio assolutamente sconosciuto, che lascia gli uomini in un profondo smarrimento»; e aggiungeva: «Lo stesso smarrimento, forse, la stessa golosità di vivere, la stessa ricerca sgangherata di oggi di fronte alla sensazione che si sta verificando un mutamento molto profondo, al quale la nostra generazione non è preparata».18 Il riconoscimento della profonda analogia tra le due età non poteva non comportare, da parte del regista, il riconoscimento che Petronio fosse stato fine interprete dello smarrimento di 17 Sc. LXXVI, inqq. 1045-1046 (se non diversamente indicato, si fa qui riferimento alla Sceneggiatura audiovisiva del film a cura di Giuseppe Bartesaghi, in questo stesso volume): «Dov’è adesso la tua gioia? La tua prepotenza? Sei in balia dei pesci e delle belve … tu che poco fa ostentavi la tua innocenza guerriera … avanti mortali … ora riempitevi di sogni! Dèi grandi… come giace lontano dalla sua meta …». 18 ZANELLI 1969, pp. 62-63. Riporto integralmente la domanda di Nichols e la risposta di Fellini: «Nichols - Mi sembra allora che in questo senso si possa parlare di ‘fantascienza’: una fantascienza a rovescio, che esplora il passato invece del futuro. Ora vorrei chiedere a Fellini in che rapporto è il suo film con il mondo contemporaneo. Fellini - L’analogia c’è, ma non è stata voluta in modo consapevole. Evidentemente, poiché sono un uomo che vive oggi e che bene o male riassume in sé molte delle contraddizioni profonde della nostra società e della nostra epoca, è inevitabile che nel realizzare questa storia vi abbia inserito, magari inconsapevolmente, degli elementi attuali. Si potrebbe dire per esempio che quella di Petronio è una società al tramonto, alla quale seguirà un’epoca nuova, quella cristiana, con un indirizzo nuovo, un linguaggio assolutamente sconosciuto, che lascia gli uomini in un profondo smarrimento. Lo stesso smarrimento, forse, la stessa golosità di vivere, la stessa ricerca sgangherata di oggi di fronte alla sensazione che si sta verificando un mutamento molto profondo, al quale la nostra generazione non è preparata: onde resta sull’altra riva a guardare delle forme confuse, che oggi possono essere la rivolta dei giovanissimi e tutto ciò che i giovani rappresentano o tendono a rappresentare; e che ieri, per i pagani, potevano essere i primi cristiani». La doppia lente 25 quel mondo, e dunque permeato di quella malinconia e tristezza di cui parlava Canali. A Canali, secondo la testimonianza dello sceneggiatore Bernardino Zapponi, piacquero allora ancora di più delle scene derivate dal romanzo quelle totalmente inventate.19 A lui sembrava del tutto lecito il tentativo «di una libera ricerca fantastica» da parte di Fellini, dal momento che noi ignoriamo «come pensavano realmente, come vivevano, come fornicavano» gli antichi romani.20 Nel nostro colloquio, Canali ricordava con entusiasmo l’episodio del crollo dell’insula Felicles e quello della Villa dei Suicidi come i momenti più alti del film. Indubbiamente quest’ultimo episodio ha un ruolo centrale nel film,21 sospeso in un meraviglioso, fragile equilibrio tra la serenità eterea, extratemporale, della coppia patrizia e la drammaticità del loro suicidio, legata alla storia, al principato di Nerone, un equili19 ZANELLI 1969, p. 42: «Bernardino Zapponi è molto soddisfatto perché al professor Luca Canali, l’ex assistente di Paratore che fa da consulente al regista per la lingua latina, sono piaciute ancor più le parti inventate, nella sceneggiatura del film, che non quelle derivate dal romanzo di Petronio». Anche allo Zanelli Canali dichiarava di trovare «unitaria e perfetta la cifra della sceneggiatura» e «petroniani […] anche gli episodi inventati»: ZANELLI 1969, p. 48. 20 Ivi, p. 48. 21 Anche Peter Ammann, nell’intervista rilasciata a Giovanni Sorge, in SORGE 2004, p. 21, sottolinea la bellezza e l’importanza dell’episodio, così come rievoca la «tranquillità quasi irreale» che pervase il set durante le riprese («Il set era pervaso di una placidità densa e tremenda, Fellini era molto diverso dal Fellini conosciuto, sembrava addirittura una specie di saggio stoico»). La posizione centrale, a mezzo del film, e il profondo valore morale e storico dell’episodio è rilevato da Peter Bondanella, BONDANELLA 1994, p. 267: «La Villa dei Suicidi, […] messa nel mezzo del film, illumina i temi della decadenza e della corruzione che precedono e seguono il corso della trama. Il destino del nobile marito e della moglie che si uccidono pur di non cadere nella mani dei soldati crudeli dell’imperatore, sottolinea la confusione, la perdita di valori e l’instabilità di un mondo privato della struttura e degli ideali repubblicani. I valori dell’antica repubblica sono svaniti, e non esiste luogo, oltre alla tomba, dove un uomo o una donna virtuosi possano rifugiarsi dalla barbarie dei tempi». Alberto Moravia, nella critica del film su “The New York Review of Books” (MORAVIA 1970, ristampato in BONDANELLA 1978, pp. 161-168), aveva ritenuto di individuare nel contrasto tra Trimalchione, che gode in modo volgare e sfrenato delle sue ricchezze, e il nobile suicida, che non solo rifiuta le sue ricchezze ma anche la sua vita, il significato ultimo del film, cioè quello di un bestiale attaccamento alla vita che, in ogni momento, può mutarsi in disgusto, negazione, e desiderio di morte (ivi, p. 167). Sulla genesi dell’episodio, dovuto alla feconda dialettica di idee e fantasie di Fellini e Zapponi, ci illumina lo stesso Zapponi, in ZAPPONI 1969, p. 84, e ZAPPONI 20032, p. 36. 26 Nicola Pace brio questo che ci ricorda quello del suicidio dello stesso Petronio, così come è descritto da Tacito negli Annali.22 Vorrei aggiungere che questi due episodi sono tanto più suggestivi in quanto Fellini ha saputo legare temi a lui congeniali, come quello del crollo e del suicidio,23 a una documentazione non superficiale della storia imperiale. A proposito del crollo dell’insula Felicles, pensiamo all’immagine evocata da Fellini in una delle sue ultime interviste, quella rilasciata a Damian Pettigrew, in Sono un gran bugiardo:24 per lui il modo migliore per celebrare l’inizio del 2001 e la fine del XX secolo, il «secolo raccapricciante», sarebbe stato quello di rappresentare il crollo del Pantheon, dovuto a un potente terremoto: s’immagini la scena: una cavità immensa, tenebrosa, assolutamente vuota e illuminata solo da una lampada sospesa alla cupola di Piranesi, le pareti verde scuro che gocciolano melma, dove regna supremo uno strano, minaccioso silenzio. Quando scocca la mezzanotte, nel nanosecondo del 2001, distruggo il Pantheon con un potente terremoto! Quale modo migliore di finire questo secolo raccapricciante?25 22 TAC. Ann. 16, 19. Riporto il celebre passo, su cui tornerò alla fine della relazione, nella bella traduzione di Camillo Giussani, Cornelio Tacito. Gli Annali, Milano, Mondadori, 1942, pp. 694-695: «Era in quei dì Nerone in Campania; e Petronio, che lo aveva raggiunto a Cuma, fu quivi trattenuto. Non sopportò egli l’indugiare nell’alterna vicenda del timore e della speranza; neppure si decise a togliersi affrettatamente la vita; ma, quasi a capriccio, si fece prima recider le vene, poi richiudere, poi nuovamente aprire, conversando con gli amici senza affettazione di austerità o d’eroismo; né volle da essi gravi discorsi sulla immortalità dell’anima o massime filosofiche, ma poesie leggiere e versi scherzosi. A taluni servi largì regali, ad altri bastonate. Sedette a mensa, e si abbandonò al sonno, perché la morte, sebbene subìta a forza, sembrasse coglierlo a caso. Non inserì nel testamento, come i più dei morenti, adulazioni a Nerone o a Tigellino o ad altro potente qualsiasi, ma anzi vi narrò le brutture del principe, elencandone per nome gli amanti giovinetti e le femmine, e svelando d’ogni amorazzo le aberrazioni; e tutto mandò, suggellato, a Nerone, spezzando poi il sigillo, a che non potesse più tardi essere adoperato a macchinare insidie ad altri». Che la composta morte del dominus della Villa dei Suicidi sembri ispirata da questo passo di Tacito è stato suggerito da GAGETTI 2006, nt. 39 a p. 122. 23 Come non pensare al suicidio di Steiner in La dolce vita? Cfr. KEZICH 2002, p. 279 e SORGE 2004, p. 21. 24 FELLINI 2003, p. 113: «D. Il 2001 si avvicina rapidamente. Sta pensando di celebrare qualcosa? R. Beh, è una data … Cosa pensa che dovrei fare? D. Perché non girare un film nel Pantheon? Non ha mai pensato di filmare in quello spazio fellinesco? R. No, ma ho pensato di ricostruirlo nel Teatro 5. S’immagini la scena …». 25 Nel motivo del crollo, che alla fine si rivela salvifico per il protagonista (Encolpio, abbandonato da Gitone, sta meditando il suicidio: al preparativo per l’impiccagione, pre- La doppia lente 27 L’immagine di una cavità immensa, incombente, vertiginosa, che si sfalda su un mondo di creature miserabili e indifese è proprio quella della scena del crollo dell’insula; ma questa insula mostruosa non è il mero prodotto della fantasia del regista, bensì deriva dalla lettura di un libro di storia romana che, come ci informa Dario Zanelli,26 fu tra le mani di Fellini nel momento della stesura della sceneggiatura, nel giugno del 1968: si tratta di La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero di Jérôme Carcopino.27 Carco- sente nella sceneggiatura, sc. 8, inq. 217 [secondo FELLINI, ZAPPONI 1969, p. 166], Fellini ha sostituito nel film l’immagine della spada, estrema risorsa cui Encolpio guarda nella sua disperazione), può aver inciso anche una drammatica esperienza personale, occorsa durante la Seconda guerra mondiale, e ricordata dal regista in FELLINI 20042, p. 49: mentre un medico militare tedesco gli intimava di raggiungere immediatamente il suo reggimento in Grecia, revocando la lunga serie di convalescenze che gli aveva consentito per tre anni di farla franca, «proprio appena finito di pronunciare ‘züglich’ [scil. parte finale dell’avverbio “unmittelbarunverzüglich”, che significa “immediatamente senza indugio”], scoppiò l’inferno. Gli americani stavano bombardando Bologna, anche l’ospedale venne colpito, e io mi ritrovai a correre come un cavallo, tutto impolverato di calcinacci, senza una scarpa, lungo dei portici riempiti di gente che urlava, piangeva, si buttava in ginocchio tra un ululare di sirene di autoambulanze e la terra che tremava con grandi scossoni. Da quel giorno non ho mai più avuto notizie del mio incartamento militare». La tragedia collettiva del bombardamento aveva così determinato la salvezza privata del regista. 26 Cfr. ZANELLI 1969, p. 21. 27 Il libro del Carcopino, La vie quotidienne à Rome à l’apogée de l’Empire, Paris 1939, fu tradotto in italiano da Eva Omodeo Zona per Laterza (nella collana Biblioteca di cultura moderna) nel 1941. L’edizione utilizzata da Fellini era probabilmente la prima ristampa nella collana Universale Laterza del 1967. Alle pagine di questa ristampa rinviamo nelle citazioni. Al termine del convegno mi è stato segnalato da Emilio Sala un contributo in una rivista online che sottolinea la stessa derivazione della conoscenza dell’insula Felicles dal saggio del Carcopino: BRUNET 2006. La Brunet appoggia la sua tesi su alcuni puntuali riscontri, come la definizione di «grattacielo» data dal CARCOPINO 1967 («l’insula Felicles si levò al di sopra della Roma degli Antonini come un grattacielo», p. 35) e da Fellini («una sorta di grattacielo proletario» in BETTI 1970, p. 42), e la corrispondenza tra la descrizione fatta dal Carcopino di alcuni aspetti dell’architettura e della vita delle insulae e le indicazioni fornite dalla sceneggiatura del film: la descrizione dell’esterno dell’insula, con le tabernae al pianterreno e le pergulae (le logge esterne) e i maeniana (balconi) in CARCOPINO 1967, pp. 38-39, viene ripresa, anche se con una differenza sostanziale, nelle inqq. 179180 e 182 della sc. 6 (FELLINI, ZAPPONI 1969, pp. 163-164: eliminata nella realizzazione filmica), così come la descrizione del mondo brulicante all’interno dell’insula, dei bracieri al centro delle stanze, del sudiciume derivante dall’assenza di fognature in CARCOPINO 1967, pp. 48-50, si ritrova nella sc. 7, inqq. 185-200 (ivi, pp. 164-165). La differenza sostanziale di cui parlavo, non evidenziata dalla Brunet, sta nel fatto che, mentre il Carcopino, nel descrivere l’esterno dell’insula a p. 39, sottolinea la «pittoresca varietà» 28 Nicola Pace pino, uno dei più grandi storici di Roma antica del secolo scorso, ci parla in modo accattivante, nel capitolo sulle case e le vie di Roma, di questo enorme palazzo, il fabbricato di Felicula, che sorgeva a fianco del Pantheon, un prodigio edilizio dell’età degli Antonini annoverato, ancora nel IV secolo, tra le curiosità dell’Urbe.28 Poco più avanti nel capitolo lo storico ci informa di come le insulae di Roma, data la sproporzione tra la base, molto ridotta, e l’altezza vertiginosa, fossero spesso soggette a crolli, incrementati dall’avidità dei costruttori, che risparmiavano sulla resistenza dei muri e sulla qualità dei materiali.29 Come vediamo dunque, in questo episodio del film, si sono felicemente mescolate fantasia e documentazione storica, in un’imdeterminata dall’alternanza di legno e mattoni sapientemente accostati, e dalla presenza di piante rampicanti sulle balaustrate dei balconi e vasi di fiori alle finestre, la sceneggiatura mira piuttosto a rilevare la miseria e lo squallore del casamento: «È un palazzo altissimo, quadrato, tozzo, un po’ sbilenco; con molte finestrine quadrate tutte uguali. Nei piani inferiori, invece di finestre vi sono porte, le quali danno su lunghissimi balconi di legno che corrono lungo tutta la facciata … E qua e là, come fungosità, sporgono casotti di legno, attaccati irregolarmente alla facciata: sembrano insetti aggrappati ad una carogna» (inqq. 179-180: FELLINI, ZAPPONI 1969, p. 163). La Brunet ha d’altra parte finemente rilevato come l’esposizione fatta dallo storico delle condizioni generali disagiate in cui vivevano gli abitanti delle insulae venga da Fellini elaborata e filtrata «attraverso una sorta di passaggio riduttivo dall’universale – le condizioni di vita, che comportano l’evento quotidiano, ripetibile e diffuso – al particolare: la frequenza degli incendi diventa microincendio, la generalizzata mancanza di fognature, un unico uomo che ‘si svuota il ventre’ (inq. 197: ivi, p. 165) come un animale. Così, l’evento generale si concentra nel particolare e al tempo stesso si distribuisce per unità singole, in una sorta di ‘inventario per microeventi’: in una celletta si sviluppa un incendio, in un’altra un uomo defeca, e così via, secondo quella struttura ‘ad alveoli’ tipica dello stile felliniano». Anche nella scena del matrimonio di Lica e Encolpio (sc. 33, ivi, pp. 215-217) la Brunet evidenzia giustamente tutta una serie di rimandi precisi all’opera del Carcopino: nelle inqq. 633-634 (ivi, p. 216) la descrizione del «mantello color zafferano» di Lica, dei «sandali della stessa tinta», del «flammeum, un velo violentemente arancione, quasi fiamma, che nasconde la parte superiore del viso», segue quasi alla lettera quella fatta dal CARCOPINO 1967 a p. 98. Anche il sacrificio del vitello, l’esame delle interiora da parte dell’auspex (ruolo qui tenuto da Trifena), che, assenti nella sceneggiatura, sono stati introdotti nel film, e il responso favorevole dell’auspex (presente nella sceneggiatura; inq. 641: FELLINI, ZAPPONI 1969, p. 217) seguono la descrizione dello storico, ibid. Aggiungo che nella prima versione dell’episodio della Nave di Lica e dell’assassinio dell’imperatore, nell’inq. 640 (ivi, p. 211), si precisa il fatto che, dietro il celebrante, «c’è il gruppo dei testimoni, zitti e compunti: una decina»: il Carcopino aveva scritto (ibid.) che i testimoni, «probabilmente reclutati in numero di dieci tra il gruppo dei congiunti, si limitano, comparse mute, ad apporre il loro sigillo sul contratto di matrimonio». 28 CARCOPINO 1967, p. 35. 29 Ivi, p. 41. La doppia lente 29 magine apocalittica, che, se è assente in Petronio, rende bene l’angoscia in cui dovevano vivere gli abitanti di questi immensi condomini alveari, che ospitavano la maggior parte della popolazione di Roma in età imperiale.30 C’è poi un episodio bellissimo tra quelli totalmente inventati, la lotta di Encolpio con il gladiatore-Minotauro all’interno del Labirinto,31 in cui la fantasia felliniana riprende, in stupefacente consonanza (non rilevata, per quanto mi risulta, da nessuno), un’immagine di fondo, un simbolo essenziale del Satyricon, che determina la struttura di episodi fondamentali del romanzo. In uno stimolante studio del 1981 Paolo Fedeli32 ha interpretato la cena di Trimalchione petroniana sub specie labyrinthi, e non solo perché Encolpio stesso si dichiara, a 73, 1,33 intrappolato in un nuovo genere di labirinto, non solo perché il nome del cuoco di Trimalchione, Dedalo,34 è quello dell’architetto del labirinto cretese, ma soprattutto perché tutta la cena è improntata dalla strategia di Trimalchione di ingannare, sorprendere e fuorviare i commensali.35 Anche nella Graeca urbs all’inizio della parte del romanzo a noi pervenuta e nella nave di Lica Fedeli ravvisa molte caratteristiche di un labirinto.36 Alla luce del significato di prova e iniziazione che il labirinto ha nelle epoche e nelle culture più diverse, Fedeli si chiede se «il continuo vagare di Encolpio in luoghi labirintici» non rappresenti «la condizione necessaria perché, superata la serie di prove, egli sia mondato dalle sue colpe e plachi l’ira divina», arrivando alla necessaria purificazione.37 Se veniamo al film e pensiamo che l’episodio della lotta di Encolpio con il Minotauro si colloca nella Città magica e precede la scena di iniziazione e palingenesi presso la maga Enotea,38 non possiamo non rimanere impres30 Ivi, pp. 32-33: il rapporto tra le domus (le case private, che si sviluppavano in senso orizzontale) e le insulae era di uno a ventisei nella città di Roma. 31 Sc. LVIII, inqq. 785-861. BONDANELLA 1994, p. 263, ritiene l’episodio il più importante tra tutti quelli inventati da Fellini, ma non rileva il rapporto con l’ideaimmagine del labirinto nel romanzo di Petronio. 32 FEDELI 1981. 33 Quid faciamus homines miserrimi et novi generis labyrintho inclusi? 34 PETR. 70, 2. 35 FEDELI 1981, p. 102. 36 Ivi, pp. 110-111. 37 Ivi, pp. 116-117. 38 BONDANELLA 1994, p. 264, mette giustamente in rapporto i due episodi: «Quando Encolpio emerge, confuso ed impotente, da questo sogno, Fellini lo ha preparato (e lo stesso vale per lo spettatore) ad una trasformazione, quella che interviene dopo che è riuscito a fare l’amore con Madre Terra (Enotea)». 30 Nicola Pace sionati dal modo in cui Fellini ha avvertito e rappresentato in tutta la sua evidenza un motivo non facilmente percepibile a una lettura superficiale. Ma torniamo ancora a Luca Canali, e al suo giudizio sulla sostanziale tristezza e malinconia di Petronio. Questa tristezza è secondo lui assorbita da Fellini e sviluppata in un’atmosfera che è fondamentalmente esistenziale e religiosa: «c’è il senso del mistero e della morte, dell’estraneità e dell’incomunicabilità; c’è il senso del divenire».39 È una valutazione che è poi stata ribadita da molti altri, tra cui illustri scrittori e critici cinematografici: ricordiamo quella di Alberto Moravia, che parlava «di un contenuto del film che è, in senso ampio, religioso, nel senso che Fellini, nel momento stesso in cui dà un elegiaco addio al mondo antico, colloca e riconosce in esso, quasi a sua insaputa, tutta la sua nostalgia e i terrori metafisici»;40 così anche Guido Aristarco, ricollegando il Satyricon a La dolce vita, vi leggeva «il lutto del cielo», «l’abbandono degli uomini da parte di Dio», che lascia «il nostro pianeta senza stelle, privato ormai di una religione che possa essere ancora regolatrice di vita», e al tempo stesso un «desiderio religioso e di consolazione» che non è meno intenso in Fellini che in Bergman.41 Indubbiamente nel film ci sono singole scene, come quelle dei sacrifici, ed interi episodi, come quello dell’Ermafrodito, in cui la religio del mondo pagano, la superstizione legata al rito, proietta nello spettatore un senso di stupefatto, angoscioso senso di desolazione, dovuto al senso di abbandono da parte di Dio e insieme alla violenza ferina, insensata, dell’uomo: è infatti una superstizione che a livello di immagini è suggellata sempre dalla violenza, come quella del sangue che cola dalla vittima,42 del colpo di mazza che si abbatte sul vitello,43 dell’aggressione spietata ai guardiani dell’Ermafrodito.44 Che in questa desolazione e smarrimento si possa leggere un autentico desiderio religioso è discutibile; certamente corrisponde a quel 39 40 ZANELLI 1969, p. 48. MORAVIA 1970, p. 165, che ho ritradotto in italiano: «This content is, broadly speaking, religious. In the sense that Fellini, at the very moment that he pronounces an elegiac farewell to antiquity, situates and defines in it, almost despite himself, all of his nostalgia and metaphysical terrors». 41 ARISTARCO 2002, pp. 416-417. 42 Nel sacrificio di un capretto a Venere all’inizio della scena nel lupanare (sc. V, inq. 92), assente in FELLINI, ZAPPONI 1969. 43 Nel sacrificio che avviene durante il matrimonio di Lica e Encolpio, sc. XXXVIII, inqq. 500-504, per cui cfr. nt. 27. 44 Sc. LIV, inqq. 735-742. La doppia lente 31 senso di estraneità e spaesamento che Fellini vedeva nel mondo d’oggi, «un mondo che non crede più e tuttavia ha ancora bisogno di credere».45 Ma, a mio parere, è nella scena di magia verso la fine del film, quella cioè del risanamento di Encolpio ad opera della maga Enotea, che dobbiamo ravvisare il momento di autentica tensione religiosa del film. È una tensione, è necessario sottolineare, che è assolutamente assente in Petronio, dove Enotea c’è sì, ma non è maga, bensì sacerdotessa del dio Priapo; ella, oltre a risultare del tutto inefficace nella cura dell’impotenza di Encolpio, è al centro di una serie di scenette comiche, che irridono la sacralità del culto: tra tutte ricordiamo quella dell’aggressione di Encolpio da parte delle oche sacre a Priapo, resa ancora più spassosa dall’irriverente, parodistica inserzione di esametri dattilici che paragonano la fuga delle oche respinte da Encolpio a quella di celebri mostruosi uccelli del mito cacciati da Eracle o dai figli di Borea.46 È un episodio questo a cui si adatta perfettamente le definizione di Petronio come «maestro del presto» data da Nietzsche in Al di là del bene e del male,47 dove il gioco, la parodia, il brusco passaggio dal serio al faceto, dal sublime al prosaico, dal sacro al profano danno alla narrazione una levità accattivante.48 Nella scena del film invece, come ebbe a dire Fellini stesso in un’intervista a Gianluigi Rondi, non vediamo «nessun sapore avventuroso, picaresco: un clima magico, invece»,49 che del resto ben si adatta al contesto della Città magica, orientale, in cui il regista ha trasformato la grecissima Crotone di Petronio. La Città magica, va detto, evoca subito nel classicista la città magica più famosa della letteratura antica, quella Ipata in Tessaglia centro 45 46 47 ZANELLI 1969, p. 16. PETR. 136, 4-8. NIETZSCHE 1977, p. 36: «A chi infine sarebbe mai consentito di tradurre in tedesco Petronio, il quale, più di qualsiasi grande musicista sino ad oggi, è stato un maestro del presto, con le sue invenzioni, lampi di genio, parole: – che importanza hanno, in definitiva, tutti i pantani del mondo malato e malvagio, e anche del ‘mondo antico’, se si ha, come lui, piedi di vento, moto e respiro di vento, lo scherno liberatore di un vento che guarisce ogni cosa, costringendo ogni cosa a correre!». Nietzsche, in questo aforisma (n. 28 del II capitolo, Lo spirito libero), oltre a Petronio, considerava Machiavelli e Aristofane come autori il cui «tempo» veloce, «ardimentoso e allegro» risultava intraducibile nella pesante lingua tedesca. 48 Che però Petronio non sia solo «der Meister der Presto», ma anche maestro delle Lentoformen, dei rallentati, e possa ben definirsi «signore del Tempo», è finemente dimostrato da Marino Barchiesi nel suo saggio L’orologio di Trimalcione (struttura e tempo narrativo in Petronio), in BARCHIESI 1981, pp. 123 ss. 49 Intervista cit. alla nt. 8. 32 Nicola Pace dei sortilegi, delle metamorfosi della maghe, raccontati dall’altro grande scrittore di romanzo latino, l’Apuleio dell’Asino d’oro: la scena del riso, legata a quella della lotta di Encolpio con il Minotauro, deriva in modo esplicito da un episodio dell’Asino d’oro, ambientato a Ipata e di cui è protagonista Lucio, l’io narrante del romanzo.50 Fellini, quando dichiarava, nel 1968, di voler attingere, per realizzare una composizione più eterogenea del film, ad altri bellissimi testi dell’antichità classica, nominò per primo l’Asino d’oro di Apuleio, dal cui gusto favolistico della metamorfosi si mostrava colpito.51 E in effetti, oltre a riprendere la scena del riso, Fellini ha assorbito e fatto sua la magia della metamorfosi propria dell’Asino d’oro soprattutto nella scena della guarigione di Encolpio nella casupola di Enotea. È una metamorfosi complessa quella che trasforma Encolpio, in quanto non lo muta solo fisicamente, ma anche spiritualmente: oltre a restituirgli la virilità e dignità di uomo, gli ridà la gioia di vivere e la capacità di agire; Encolpio non è più un burattino in preda agli eventi e alle decisioni altrui, ma sceglie con serenità leggera, nella scena finale, di partire per l’Africa.52 La morte di Ascilto, che è inventata da Fellini e Zapponi,53 serve proprio a 50 APUL. Met. 3, 10-11. Il rimando a questo passo delle Metamorfosi (e inoltre a 2, 31) venne fatto con precisione da HIGHET 1970, ristampato in HIGHET 1983, pp. 339-348: nt. 6 a p. 343. È strano che un critico scaltrito come Peter Bondanella, in BONDANELLA 1994, pp. 263-264, prospetti la derivazione dall’Asino d’oro della scena in cui Encolpio è costretto a rivelare la sua impotenza nel tentativo di possedere Arianna («Il ruolo di eroe alla Teseo non si attaglia di certo ad Encolpio, schernito dalla folla quando viene costretto a rivelare la propria impotenza virile nel tentativo di fare l’amore con Arianna. Fellini potrebbe essersi ispirato per questa scena all’Asino d’oro [Libro III] di Apuleio, nel quale Lucio viene costretto ad un finto processo durante la festa dedicata alla divinità del riso»). La scena tratta da Apuleio è invece quella in cui il pubblico, dopo il discorso del Minotauro, esplode in una risata colossale e il proconsole spiega ad Encolpio che è la festa in onore del dio Riso che richiede al suo inizio una burla fatta a danno di uno straniero (sc. LVIII, inqq. 857-862). 51 FELLINI 1969, p. 108: «Ma è mia intenzione fare del film una composizione più eterogenea, attingendo in modo volutamente arbitrario, guidato soltanto dalle scelte della fantasia, materiale episodico da altri bellissimi testi dell’antichità classica: l’Asino d’oro di Apuleio per esempio, con quel suo gusto favolistico delle metamorfosi, dove Lucio, spiando da un buco della serratura sorprende la maga Panfila nell’atto di trasformarsi in un uccello, un gufo, e mette uno stridulo lamento e vola via con tutte le ali aperte». 52 Cfr. l’intervista a Fellini di G. Salachas, in “Télécine” 156 (1969), in FELLINI 1983, pp. 238-239, soprattutto p. 239: «Während des ganzen Films war die Hauptperson immer bereit, sich jederzeit von den Ereignissen bestimmen zu lassen. In diesem Augenblick aber antwortet Encolpius auf die entscheidende Frage, die ihm gestellt wird: ‘Du willst mit uns abfahren?’ mit ‘Ja.’». La doppia lente 33 sottolineare questo passaggio, questa metamorfosi, in quanto Ascilto, il suo inseparabile compagno di avventure, rappresenta la vita vecchia, che lo ha portato a uccidere un uomo e a profanare un tempio.54 La scena di magia è pertanto una sorta di rito misterico, iniziatico, che porta a una nuova vita, e non ci può non ricordare la trasformazione di Lucio da asino in uomo, dovuta all’intervento salvifico della dea egiziana Iside, nell’ultimo libro del romanzo di Apuleio, al termine di una serie di peripezie umilianti, in cui Lucio come asino non poteva disporre della propria libertà. Certo è uno stimolo tra i tanti: la cornice è africana, con l’inquietante apparato della stregoneria nera, e con la caratterizzazione, tipicamente felliniana, di Enotea come una Saraghina, ma, si noti, una Saraghina materna («Mammina» la chiama Encolpio55), che evoca la figura della Magna Mater, della Grande Madre mediterranea, dea della terra e della fertilità. A sottolineare efficacemente questa allusione al culto della Grande Madre è stato Peter Ammann, uno psicologo analista junghiano e regista di Zurigo, che fu assistente volontario di Fellini durante l’intera lavorazione del Satyricon.56 Il culto della dea Cibele, la Magna Mater, era un culto orientale, dell’Asia Minore, importato a Roma molto tempo prima di Petronio, alla fine del III secolo a.C., che appariva ben diverso da quello degli dèi del Pantheon tradizionale, e che prevedeva riti orgiastici e la evirazione dei sacerdoti. 53 Compare già nel Trattamento, in ZANELLI 1969, p. 144, e dunque deve essere stata un’idea di Zapponi, se è vero che il trattamento venne scritto da lui solo (ZAPPONI 20032, p. 25). 54 Cfr. sc. LXX, inq. 1026: «… il colpevole che hai davanti a te ha commesso tradimento! Ha ucciso un uomo! Ha profanato un tempio! E ora è un soldato senza più armi […] chi è che mi ha messo in questo guaio? Io non lo so! Non riesco a capire cosa m’è successo!». 55 Cfr. sc. LXX, inq. 1025. 56 SORGE 2004, pp. 21-22, in particolare p. 21: «Un posto di spicco [scil. nella rappresentazione del femminile] occupa la figura della maga Enotea. Ma quanta differenza tra l’Enotea del Satyricon e la Saraghina di 8 / ! Come un voyeur il giovane Guido sbirciava l’opulenza carnosa della prostituta danzante, e qui si percepisce il rimembrare di Fellini, collegiale, all’incontro traumatico con la sessualità femminile. Mentre la scena della maga Enotea, altrettanto corpulenta, che guarisce l’impotenza di Encolpio, si spinge al di là di ogni morale cattolica e riflette la psicologia della Grande Madre che caratterizzava la cultura mediterranea; con un richiamo inoltre alla prosperosità di certe statuette preistoriche nel loro simboleggiare la fertilità della donna e della terra. Questo gettarsi di Encolpio, verso la fine del film, fra le braccia della maga è a mio parere un’evidente allusione al culto della Grande Madre. Questa religione di provenienza medio-orientale prese piede tra i romani dopo il collasso degli dei greci». 1 2 34 Nicola Pace Vediamo dunque come nella creazione di questa scena confluiscano, al di là di immagini e temi cari a Fellini, stimoli forti dalle religioni “straniere” del mondo antico, che esercitavano un fascino esotico nel mondo romano di età imperiale, dove ormai si andava spegnendo la fede nei culti tradizionali. Fellini ha proiettato nel mondo romano, oltre allo smarrimento, quell’ansia di rinnovamento, quel desiderio di esperienze esistenziali e religiose alternative ed esotiche che vedeva nei giovani del ’68, soprattutto nei da lui tanto amati capelloni e hippies. È dunque sbagliato, alla luce di tutto ciò, parlare di un Fellini criptocristiano, come fa il Segal, un Fellini incapace di trasmettere la gioia di vita del mondo pagano. Si è tra l’altro, a mio avviso, troppo parlato del significato dell’assenza del cristianesimo nel film: quando Gabriele Baldini, nel già ricordato dibattito apparso su “L’Espresso”, dice che «l’assenza del cristianesimo comporta la presenza ossessiva del cristianesimo, perché non c’è niente di più ossessivo di qualcosa che è assente»,57 non tiene in alcun conto questa tensione religiosa della parte finale del film, che è proiettata verso civiltà radicalmente diverse da quella cosiddetta occidentale: è stata ben sottolineata dallo stesso Ammann l’importanza dell’Africa, del viaggio in Africa che conclude il film,58 con quella bellissima scena del giovane nero che ride e parla una lingua sconosciuta, avvitandosi verso la nave in piroette leggere come il vento che sibila e che invita a partire, mentre gli eredi cannibali di Eumolpo consumano il loro sinistro pasto, chini nella loro tetra, greve, avidità sul cadavere bendato del poeta.59 È una scena fondamentale, che si lascia leggere facilmente: da una parte i giovani (il nero danzante, Encolpio e il capitano della nave) che partono verso una nuova terra, belli e leggeri come il vento, sorridenti e distaccati, dall’altra i vecchi cannibali, attaccati al denaro e al possesso, pietrificati nell’espressione, e morti nello sguardo. Non c’è nessuna parodia dell’Eucarestia,60 nessuna allusione 57 58 ZANELLI 1969, p. 59. Il viaggio in Africa è un’invenzione di Fellini-Zapponi, con cui viene modificato intenzionalmente il testo di Petronio, 141, 1 ex Africa navis, ut promiseras, cum pecunia tua et familia non venit («La nave proveniente dall’Africa, come avevi promesso, carica dei tuoi soldi e dei tuoi schiavi, non è arrivata») in «La nave che doveva portare in Africa le merci preziose e gli schiavi, non partirà» (sc. LXXIII, inqq. 1049-1050). 59 SORGE 2004, p. 22. 60 BONDANELLA 1994, p. 266: «Nella versione conclusiva del film vediamo Encolpio pronto a partire verso l’esplorazione di nuovi mondi insieme a tutti gli altri giovani che si sono rifiutati di prendere parte a questa orribile parodia dell’Eucarestia Cristiana». La doppia lente 35 al cristianesimo, bensì è evidente l’allusione all’ideologia del ’68, quella del contrasto, molto sentito da Fellini,61 tra il vecchio mondo borghese occidentale, asservito al culto del denaro, privo di fantasia, pronto a divorare se stesso in guerre atomiche, e il mondo dei giovani hippies “figli dei fiori”, protesi verso dimensioni esistenziali e religiose diverse, da coltivare in terre lontane, in India piuttosto che in Africa, liberi dagli schemi della società borghese e pronti ad abbandonare il denaro a favore della fantasia e della poesia. Ora, dopo questa lunga divagazione sulla religiosità del Satyricon, torniamo al rapporto tra Fellini e Petronio. Abbiamo visto le posizioni così diverse di due classicisti, che sono anche scrittori affermati, come Segal e Canali, sulla fedeltà del regista allo spirito dell’autore latino. A mio avviso è giusto scegliere una via di mezzo tra di esse. Si è visto che la tensione religiosa è assente nell’episodio petroniano di Enotea, ma lo stesso vale per tutti gli altri frammenti del Satyricon. Al di là della religiosità, non si lascia cogliere in Petronio un messaggio, etico o filosofico, dietro l’ironia che colpisce tutti i personaggi. Il pensiero di Petronio ci sfugge in modo straordinario, ben più di quello di Fellini in questo film:62 è stato ben evidenziato, da uno studio recente molto penetrante del Satyricon, quello di Gian Biagio Conte,63 come il pensiero di Encolpio, l’io narrante, non coincida con quello dell’autore, come anzi l’autore si distacchi dal protagonista del romanzo e lo metta in ridicolo, nella sua pretesa di intellettuale di ricondurre la realtà agli schemi della letteratura. Ma non è solo Encolpio ad essere oggetto 61 Esagerata è la definizione che Fellini dà del suo film, parlando a Dario Zanelli sulla spiaggia di Focene, nell’accingersi a girare la parte finale, come di «un film molto sfuggente, dal punto di vista ideologico»: ZANELLI 1969, p. 73. Certo la sua indole ironica lo induceva, nel momento più importante del film, a prendere le distanze dal coinvolgimento ideologico: si legga anche il resoconto delle indicazioni fornite al direttore della fotografia Giuseppe Rotunno subito dopo («‘Qui mi occorre un cielo grigio, nuvoloso. Man mano che il film va avanti, sorge il sol dell’avvenire. Ci ha un significato ideologico, capisci?’: e qui gonfia grottescamente la voce, non sai se per canzonare gli altri o se stesso»). Ma che Fellini fosse un «calorosissimo sostenitore degli hippies» e vedesse nel loro modo di vivere, ancor più che nelle loro idee, una salutare contrapposizione alle ideologie nefaste del XX secolo è un fatto indubitabile, testimoniato tra l’altro dal capitolo Viva i capelloni in ZANELLI 1969, pp. 14-15, e dall’intervista con Manlio Cancogni, sempre ivi, soprattutto pp. 25-26. 62 Vedi la definizione di «film molto sfuggente, dal punto di vista ideologico», ricordata alla nt. precedente. 63 CONTE 1997. 36 Nicola Pace dell’ironia di Petronio, lo sono tutti i personaggi, e tra loro il poeta Eumolpo. Eumolpo nel romanzo è la figura del poeta mediocre, autore di due lunghe composizioni in versi, inserite nella narrazione, la Guerra civile e La presa di Troia, che vengono accolte malissimo dal pubblico che le ascolta. Eumolpo è d’altra parte un grandissimo narratore di storie tratte dal suo vissuto, avvincente proprio perché cala in esse il suo scetticismo astuto e opportunistico.64 Eumolpo infatti è un opportunista, un ruffiano, che trae vantaggio dal suo prestigio intellettuale agli occhi di Encolpio per inserirsi nel suo rapporto con Gitone, e prendere il ruolo erotico che prima aveva Ascilto, così come, nell’episodio di Crotone, si arricchisce alle spalle dei cacciatori di eredità spacciandosi per un vecchio facoltoso senza eredi. Ora in Fellini, e questo non è stato, per quanto mi risulta, sottolineato con la necessaria energia, la figura di Eumolpo assume un carattere, un rilievo nella storia molto diversi. Eumolpo è figura di affascinante simpatia, è il poeta che non scende a compromessi, che è pronto a scontrarsi con il ricco ospite Trimalchione, pur di non riconoscergli la paternità di versi che sa essere di Lucrezio. Fellini sosteneva di volersi in questo film estraniare rispetto ai personaggi e agli attori che li interpretavano, e in questo, forse a sua insaputa, restava fedele a Petronio, alla distanza intellettuale che questi frapponeva fra sé e tutti i personaggi del romanzo. Ma con Eumolpo questo processo di estraniamento non avviene: non è un caso che il regista abbia scelto per la parte di Eumolpo l’unico vero grande attore italiano (se consideriamo i personaggi principali), Salvo Randone, che è di una comunicativa e di un’arguzia straordinarie. Non c’è nessuna ironia nei confronti di Eumolpo, anzi possiamo dire che Eumolpo è l’ironia e l’arguzia personificata, che si unisce a uno slancio lirico commovente. Non è casuale che Fellini l’abbia introdotto nella cena di Trimalchione in contrasto con Trimalchione, mentre in Petronio al suo posto troviamo un’altra figura di intellettuale anziano, Agamennone, maestro di retorica, che non ha nessun rilievo nel corso del banchetto e si mostra compiacente e privo di orgoglio nei confronti del padrone di casa. Lo scontro tra il parvenu e il poeta, tra la grettezza, priva di slancio, del ricco ignorante e la dignità e la libertà dell’intellettuale è un’innovazione felliniana quanto mai lontana dallo spirito di Petronio, che presenta gli intellettuali durante la cena come schiacciati dall’esuberanza e dall’iniziativa di Trimalchione. Trimalchione in Petronio è il regista della 64 Cfr. BECK 1979, p. 249. La doppia lente 37 cena, ma anche di tutta l’azione e la conversazione, è l’artefice dei colpi di scena, dei trucchi e mascheramenti delle pietanze. Si può veramente dire che è lui il Dedalo (così, non casualmente, si chiama il suo cuoco65) che ha costruito il labirinto della cena.66 Fellini, come introduce Eumolpo in contrapposizione a Trimalchione e gli dà un forte rilievo intellettuale e morale, così appiattisce, rende opaca la figura del liberto, che resta solo l’arricchito arrogante e ignorante, non ha nessuna giocosa volontà di stupire e rovesciare le aspettative, il suo sguardo “sabbioso”, la sua espressione di sazietà,67 la sua voce monotona denunciano solo grettezza e mancanza di fantasia. A mio avviso questa banalizzazione del personaggio, frutto di una ben precisa scelta ideologica, contribuisce a rendere l’episodio della cena uno dei meno riusciti del film, anche se a livello di immagini è splendido. Qui dove Fellini ha voluto restare più aderente a Petronio nel dialogo, mantenendo grosse porzioni dell’originale, e dando, contro la sua tendenza, pari importanza alla parola rispetto all’immagine,68 non ha d’altra parte voluto rendere la complessità e la vivacità del personaggio principale, attorno al quale ruotano in Petronio tutti i discorsi dei compagni di mensa. Tutti questi meravigliosi discorsi, che costituiscono per temi e linguaggio un unicum della letteratura antica, vengono uniformati da Fellini alla monotonia della voce e dell’espressione di Trimalchione, non hanno smalto, non catturano e divertono lo spettatore, anche perché lo sguardo dei convitati, così fisso e alienato, “manicomiale”, annulla la vivacità delle loro parole.69 65 66 67 70, 2. Cfr. FEDELI 1981, pp. 104 ss. Cfr. LANGMAN 1969, p. 99: «Er Moro [cioè Mario Romagnoli, proprietario del ristorante romano omonimo nel vicolo delle Bollette, chiamato da Fellini a far la parte di Trimalchione] ha un aspetto volgare e sembra molto più massiccio di quanto non sia in realtà. Ha negli occhi un’espressione di sazietà, come se non gli restasse più alcun appetito da soddisfare. Forse era proprio quella espressione che Fellini cercava». 68 Forse Fellini è stato, in questa relativa fedeltà, condizionato dal peso, in termini anche quantitativi, che ha la Cena in rapporto al complesso dei frammenti del Satyricon: il 36%, più di un terzo, del testo a noi rimasto. Se Fellini ha dedicato all’episodio 19 minuti e 50 secondi, dunque circa il 16% della lunghezza del film (questi rapporti sono stati evidenziati da SÜTTERLIN 1996, p. 188), riducendo dunque il suo peso in termini quantitativi, può aver sentito necessario compensare questa riduzione con una maggiore aderenza all’originale. Per il rapporto tra il testo di Petronio e il film di Fellini si veda anche la tabella comparativa di Elisabetta Gagetti in Appendice in questo stesso volume. 69 Un’eccezione è rappresentata dall’invettiva di Ermerote contro Encolpio, sc. XIII, 38 Nicola Pace Tornando a Eumolpo, a conferma del fatto che Fellini non solo mostri simpatia, ma sembri identificarsi con lui, ricordiamo le parole illuminanti dette a Manlio Cancogni in un’intervista dell’agosto del 1968, in cui rievocava la genesi del film70: … l’anno scorso, trovandomi in clinica, lo rilessi [scil. il Satyricon] nell’ultima edizione, quella di Einaudi, e finalmente ne intesi tutta la genialità. E anche la singolarità di certi personaggi. Eumolpo ad esempio […] Ecco, a me pare un personaggio fondamentale. È un poeta ma che ha molti dubbi sulla sua missione. È un retore e nello stesso tempo un antiretore. È un ruffiano, e tuttavia, quando si tratta di poesia, rivela una dignità […] Anche la sua fine è molto significativa. Scompare, poi riappare in veste di mercante, ha fatto soldi. Una specie di Rimbaud dell’epoca. E quando muore dispone per testamento che gli eredi potranno riscuotere l’eredità solo a patto di mangiare il suo corpo. È una scena formidabile. C’è Eumolpo disteso, e intorno gli eredi che confabulano fra loro concludendo che in fondo la cosa si può fare. Ed Eumolpo ha un ghigno ironico sulla faccia. Mi pare che l’episodio illumini tutta la storia. È come se Eumolpo invece di dire, nutritevi del mio corpo, avesse detto, nutritevi di poesia. E pensi che significato ha un invito del genere in una società come quella … Fellini così ci riconduce alla scena conclusiva, quella bellissima girata sulla spiaggia di Focene di cui abbiamo già parlato. Qui il testamento di Eumolpo ha veramente un profondo valore ironico, soprattutto se poniamo mente al primo testamento del poeta, quello fatto dopo l’episodio della cena, nel poetico dialogo con Encolpio sdraiato nella terra, nell’oscurità ammantata di nebbia: «Ti lascio la poesia, ti lascio le stagioni […] ti lascio il vento, il sole, ti lascio il mare …».71 Dopo quel testamento Eumolpo scompare e riappare non più come poeta, ma, per quanto sempre ironico e brillante, come ricco gaudente, corrotto dal denaro e dalle esigenze del corpo. Il corpo e il denaro lo hanno allontanato dalla poesia; il corpo e il inqq. 279-287 (il passo di PETR. 57, 1 - 58, 14, in cui oggetto dell’invettiva sono Ascilto e Gitone, è molto decurtato nella sceneggiatura – FELLINI, ZAPPONI 1969, sc. 15, inqq. 341-346, p. 181 – e ulteriormente tagliato nel film), che viene affidata alla grande espressività linguistica e mimica di Genius, un sensitivo vecchio amico di Fellini, «guizzante, beffardo, sfrontato», come lo definì Zapponi in ZAPPONI 20032, p. 27. 70 ZANELLI 1969, p. 24. 71 Sc. XXVIII, inqq. 423-424. La doppia lente 39 denaro si identificano, per cui quei cacciatori di eredità che aspirano al suo denaro dovranno mangiare anche il suo corpo.72 Quando dice nel suo secondo testamento «esorto i miei amici a non respingere il mio invito, ma divorino il mio corpo con lo stesso ardore con cui avranno mandato all’inferno la mia anima»,73 parole che sono di Petronio,74 è chiaro che egli chiama ironicamente amici i cacciatori di eredità: i veri amici, come Encolpio e i giovani che partiranno per l’Africa, sono invitati a fuggire dal denaro, e dal suo corpo, e a ereditare le cose che lui ha veramente amato come poeta, quelle che aveva lasciato in eredità nel primo testamento. In questa scena troviamo veramente, mescolato all’ideologia dei figli dei fiori, il messaggio che veniva a Fellini non tanto dal romanzo di Petronio, ma dalla descrizione della vita e della morte di Petronio, così come è raccontata magistralmente da Tacito: Petronio, uomo che era diventato ricchissimo come cortigiano e intimo di Nerone, nelle ore del suo suicidio prolungato (si era tagliato le vene, e poi se le era fasciate), si intratteneva con gli amici non con temi severi, disquisizioni filosofiche, ma con poesie leggere e versi d’amore; e poi si divertì a colpire l’imperatore, colui che lo aveva costretto ad asservire la sua raffinatezza alla sua vita debosciata, raccontando minuziosamente le sue scandalose nefandezze, e spedendo questo resoconto a Nerone stesso.75 È la stessa commistione di amore per la poesia e ironia, anzi sarcasmo, per chi ha soffocato con il denaro lo slancio poetico della sua vita. Eumolpo in Fellini è un po’ l’immagine che si era fatto di Petronio come uomo, e al tempo stesso la proiezione di se stesso, delle sue idee, della sua fantasia, della sua ironia. Abbiamo dunque visto, in questa e in altre scene, come Fellini, nello sforzo di distaccarsi dai personaggi, e da se stesso, veda il mondo romano, e legga il testo di Petronio attraverso il filtro non solo dei suoi sogni, ma anche delle sue idee, che avevano un forte riscontro nella realtà sociale e politica di quegli anni. «È il mondo antico visto coi terrori dell’uomo di oggi» disse in modo emblematico allo Zanelli mentre stava realiz72 Cfr. CONTE 1997, p. 139: «Posta una doppia equazione tra cibo e denaro, e tra denaro e uomo, l’antropofagia diventa per proprietà transitiva l’estrema forma patologica dell’avidità». 73 Sc. LXXIII, inq. 1053. 74 141, 4 his admoneo amicos ne recusent quae iubeo, sed quibus animis devoverint spiritum meum, eisdem etiam corpus consumant. 75 Cfr. nt. 22. 40 Nicola Pace zando le scene conclusive sul mare di Focene.76 Ma in questi terrori e, aggiungiamo, idee dell’uomo di oggi Fellini, da «intuitivo di straordinaria potenza assimilativa», come lo ha efficacemente definito Luca Canali, ha incredibilmente assorbito molti dei terrori dell’uomo romano, così come molte idee e messaggi che gli venivano dal Satyricon e dalla vita stessa di Petronio. 76 ZANELLI 1969, p. 73. La doppia lente 41 ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE ARISTARCO G. 2002, La nostra epoca e il lutto del cielo, in “Cinema Nuovo” 18 (2002), pp. 412-417. BARCHIESI M. 1981, I moderni alla ricerca di Enea; Premessa di Francesco Della Corte, Roma, Bulzoni. BECK R. 1979, Eumolpus poeta, Eumolpus fabulator: a Study of Characterization in the Satyricon, in “Phoenix” 33 (1979), pp. 239-253. BETTI L. 1970, Federico a.C. Disegni per il Satyricon di Federico Fellini, con una Prefazione di O. Del Buono, Milano, Milano Libri Edizioni. BONDANELLA P. 1978, Federico Fellini: Essays in Criticism, Oxford-London-New York, Oxford University Press. BONDANELLA P. 1994, Il cinema di Federico Fellini, con una Introduzione di F. Fellini, Rimini, Guaraldi (ed. or.: The Cinema of Federico Fellini, with a Foreword by F. Fellini, Princeton, Princeton University Press). BRUNET E. 2006, “Tramandare-tradire”: storiografia e senso dell’antico nel Fellini Satyricon (regia di Federico Fellini, Italia-Francia 1969), in “Engramma” 49 (2006): http://www.engramma.it/engramma_revolution/49/049_saggi _brunet.html (ultima visita: 27 agosto 2008). CARCOPINO J. 1967, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero, con una Introduzione di E. Lepore, Roma-Bari, Laterza (ed. or.: La vie quotidienne à Rome à l’apogée de l’Empire, Paris, Hachette, 1939). CONTE G.B. 1997, L’autore nascosto; un’interpretazione del «Satyricon», Bologna, il Mulino. FEDELI P. 1981, Petronio: il viaggio, il labirinto, in “Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici” 6 (1981), pp. 91-117. FELLINI F. 1969, Premessa [a Il trattamento], in ZANELLI (a cura di) 1969, pp. 107-110. FELLINI F. 1983, Satyricon: Drehbuch von F. Fellini in Zusammenarbeit mit B. Zapponi, Zürich, Diogenes. FELLINI F. 19932, Fare un film; Autobiografia di uno spettatore di I. Calvino; con una Nota di L. Betti e una Guida filmografica e bibliografica, Torino, Einaudi (prima ed.: 1980). FELLINI F. 2003, Sono un gran bugiardo. L’ultima confessione del Maestro raccolta da Damian Pettigrew, Roma, Elleu Multimedia (ed. or.: Je suis un grand menteur. Entretien avec Damian Pettigrew, Paris, L’Arche Éditeur, 1994). FELLINI F. 20042, Intervista sul cinema, a cura di G. Grazzini, Roma-Bari, Laterza (prima ed.: 1983). FELLINI F., ZAPPONI B., La sceneggiatura, in ZANELLI (a cura di) 1969, pp. 149273. GAGETTI E. 2006, L’opera di Petronio e «il film che noi vogliamo liberamente trarne», in DE BERTI R. (a cura di), Federico Fellini. Analisi di film: possibili letture, Milano, McGraw-Hill, 2006, pp. 111-124. 42 Nicola Pace HIGHET G. 1970, Whose Satyricon: Petronius’s or Fellini’s?, in “Horizon” 12 (1970), pp. 42-47. HIGHET G. 1983, The Classical Papers of Gilbert Highet, edited by R.J. Ball, New York, Columbia University Press. KEZICH T. 2002, Federico Fellini. La vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2002. LANGMAN B. 1969, Il mio amore con Fellini, in ZANELLI (a cura di) 1969, pp. 91104. MORAVIA A. 1970, Dreaming up Petronius, in “The New York Review of Books” 14 (1970), pp. 40-42. NIETZSCHE F. 1977, Al di là del bene e del male; Nota introduttiva di G. Colli; Versione di F. Masini, Milano, Adelphi (ed. or.: Jenseits von Gut und Böse, Leipzig, C.G. Naumann, 1886). SEGAL E. 1971, Arbitrary Satyricon: Petronius & Fellini, in “Diacritics” 1 (1971), pp. 54-57. SORGE G. 2004, Un analista svizzero a Cinecittà; del Mastorna, del Satyricon e la sua Africa: Peter Ammann racconta, in “Fellini Amarcord: Rivista di studi felliniani” n.s. 1 (2004), pp. 11-22. STRATI R. 2000, Tra ‘Petronio Satyricon’ e Fellini Satyricon (riflessioni intersemiotiche sull’attualizzazione dell’antico), in “Annali dell’Università di Ferrara Sezione Lettere” n.s. 1 (2000), pp. 87-97. SULLIVAN J.P. 1977, Il «Satyricon» di Petronio: uno studio letterario, Firenze, La Nuova Italia (ed. or.: The «Satyricon» of Petronius. A Literary Study, London, Faber and Faber, 1968). SÜTTERLIN A. 1996, Petronius Arbiter und Federico Fellini: ein strukturanalytischer Vergleich, Frankfurt am Main, Peter Lang. WALSH P.G. 1970, The Roman Novel, Cambridge, Cambridge University Press. ZANELLI D. (a cura di) 1969, Fellini Satyricon di Federico Fellini, Bologna, Cappelli, 1969. ZANELLI D. 1969, Dal pianeta Roma, in ZANELLI (a cura di) 1969, pp. 11-79. ZAPPONI B. 1969, Lo strano viaggio, in ZANELLI (a cura di) 1969, pp. 83-88. ZAPPONI B. 20032, Il mio Fellini. Massiccio e sparuto, furente e dolcissimo, vecchio e infantile: l’uomo e il regista nel racconto del suo sceneggiatore, Venezia, Marsilio (prima ed.: 1995).