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Centro studi longobardi. Convegni 3 LIUTPRANDO re dei longobardi Centro studi longobardi. Convegni 3 Liutprando re dei longobardi Centro studi longobardi. Convegni 3 LIUTPRANDO re dei longobardi Atti del Terzo convegno internazionale di studio (Pavia, Gazzada Schianno, 3-8 maggio 2018) a cura di Gabriele Archetti FONDAZIONE CENTR O ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOE VO SPOLETO Centro studi longobardi. Convegni 3 collana diretta da Gabriele Archetti Consiglio scientifico Centro studi longobardi Claudio Azzara (Presidente), Cesare Alzati, Giuliana Albini, Gabriele Archetti, Ezio Barbieri Xavier Barral I Altet, Angelo Baronio, Nicola Busino, Paolo Chiesa, Alfio Cortonesi Pietro Dalena, Massimo De Paoli, Paolo De Vingo, Rosalba Di Meglio, Alessandro Di Muro Carlo Ebanista, Bruno Figliuolo, Germana Gandino, Simona Gavinelli, Robertino Ghiringhelli Roberto Greci, Emilio Martín Gutiérrez, Florian Hartmann, Wolfgang Huschner Ewald Kislinger, Antonio Iacobini, Rosa Maria Lucifora, Paolo Molinari, Massimo Montanari Simona Moretti, Elda Morlicchio, Emanuele Piazza, Walter Pohl, Marina Righetti, Elena Riva Marcello Rotili, Maria Soler Sala, Lucinia Speciale, Francesca Stroppa, Andrea Tilatti Carmelina Urso, Giorgio Vespignagni, Giovanni Vitolo Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo Massimiliano Bassetti, Enrico Menestò Il Consiglio scientifico, direttamente e tramite studiosi esterni dei diversi settori, italiani e stranieri, ha sottoposto il presente volume alla procedura di peer review prevista dalle norme internazionali per le pubblicazioni scientifiche. © 2022 by Centro studi longobardi, Milano © 2022 by Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto Isbn 978-88-6809-326-6 Progetto grafico e realizzazione Orione, cultura, lavoro e comunicazione / Brescia Tommaso Indelli Università degli Studi di Salerno Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento tra VI e VIII secolo La presente indagine mira a ricostruire l’organizzazione del sistema giudiziario del ducato longobardo di Benevento tra VI e VIII secolo, cercando di individuare gli organi preposti alla funzione giurisdizionale, la loro struttura interna, monocratica o collegiale, le sfere di competenza per materia e territorio e, infine, l’esistenza di un’eventuale gerarchia tra gli stessi, elemento indispensabile per dirimere potenziali conflitti di attribuzione o decidere eventuali impugnazioni giudiziarie. L’indagine, tuttavia, si scontra con la difficoltà di reperire idoneo materiale documentario, riferibile all’arco cronologico in esame, tale da offrire sufficienti elementi di analisi. Le fonti documentarie disponibili sono poche e quelle autentiche risalgono tutte all’VIII secolo, pertanto si cercherà, sfruttando anche gli elementi desumibili dalla lettura dell’editto longobardo, che trovava applicazione anche nel ducato di Benevento, di ricostruire, per quanto possibile, la struttura di tale organizzazione1. È necessario premettere che le procedure di amministrazione della giustizia e di composizione dei conflitti giuridici applicate tra VI e VIII secolo, nel ducato di Benevento, non furono molto differenti da quelle rinvenibili nel regnum Langobardorum2. Sia nel ducato di Benevento che nel regno, l’amministrazione della giustizia – dovere Formalmente, nel Mezzogiorno longobardo, ogni atto conclusivo di un procedimento giudiziario prendeva il nome di iudicatum, iudicium, praeceptum iudicati, iudicatum definitionis. I documenti processuali (giudicati) da un punto di vista documentale, costituiscono atti giuridici con una natura doppia, a metà tra un verbale del processo e una vera e propria sentenza, per quanto attiene il contenuto della decisione del giudice, riportato all’interno del documento. Sono in tutto 28 le notitiae iudicati pervenute dal regnum Langobardorum tra VII e VIII secolo, suddivise tra il regno, il ducato di Spoleto e il ducato di Benevento. La prima testimonianza documentale di un processo svoltosi nel ducato di Benevento è un giudicato del 742. Sul punto, Codice diplomatico longobardo, a cura di H. Zielinski, Roma 2003 (Fonti per la storia d’Italia, IV/2), p. 54. 1 2 T. INDELLI, Tecniche di amministrazione della giustizia nel Mezzogiorno longobardo tra norma e prassi (VI-XI sec.), «Schola Salernitana», Annali (2017), X-X (2017), pp. 71-80. 1 Tommaso Indelli sacro del re e dei suoi ufficiali – si inseriva in un quadro molto diverso da quello degli ordinamenti giuridici attuali, basati sul principio della preminenza del “diritto scritto” e della subordinazione dei giudici alla legge3. L’editto longobardo, infatti, non aveva le pretese di completezza ed esaustività dei codici legislativi odierni, parte di un sistema che ha collocato, dogmaticamente, la legge scritta, al vertice dell’ordinamento, e la consuetudine ai margini, circoscrivendo, entro limiti ben precisi, l’applicabilità di forme alternative di giustizia che non fossero basate sull’asettica applicazione della norma codificata ai rapporti sociali4. Il duca, quando giudicava in prima persona, i gastaldi e gli altri ufficiali, quando giudicavano in sede periferica, si servivano di criteri giuridici di diversa origine e contenuto quali l’applicazione della normativa scritta, l’aequitas, la consuetudo loci – spesso modificativa della normativa edittale, in mancanza di una rigida gerarchia tra le fonti – e la convenientia, cioè la transazione promossa dal giudice tra le parti, al fine di trovare un accordo che consentisse una soluzione concordata della lite, evitando l’imposizione autoritaria di una pronuncia giudiziale5. Neppure durante il governo di Liutprando (712-744), nonostante l’energica politica di ingerenza militare nel Mezzogiorno perseguita dal re – in attuazione di un progetto più ampio di consolidamento della sua autorità a spese dell’aristocrazia ducale –, sono rinvenibili mutamenti significativi nelle procedure giudiziarie, rispetto al resto del regno6. Vero è che Liutprando, più di altri suoi predecessori, fu molto attivo nel campo giuridico, sia attraverso l’ema3 M. LUPOI, Alle radici del mondo giuridico europeo. Saggio storico-comparativo, Roma 1994, pp. 31-44. Negli ordinamenti attuali il margine di discrezionalità dei giudici, nella formulazione dei loro giudizi, è molto ristretto. Ad esempio, in molti ordinamenti contemporanei, i giudici possono ricorrere al “giudizio equitativo” solo in ambito civile (e non penale), e solo quando le parti lo richiedano espressamente per controversie non eccedenti un dato ammontare e riguardanti diritti di natura economico-patrimoniale. L. SOLIDORO MARUOTTI, Tra morale e diritto. Gli itinerari dell’aequitas. Lezioni, Torino 2013, pp. 165-175. 4 Sull’applicazione di questi criteri, nella prassi processuale del ducato di Benevento, si considerino anche gli esempi citati più avanti. Nel caso di convenientia, la disciplina edittale era generalmente derogata o, comunque, disapplicata, perché l’accordo tra le parti era ispirato a principi equitativi di “giustizia comune”, strettamente connessi alla particolarità della fattispecie giuridica, e la soluzione della lite prescindeva da un richiamo espresso a una disciplina generale contenuta nell’editto che, al limite, poteva anche mancare. Sulla convenientia nell’editto longobardo, LIUTPRANDO, cap. 8, Astolfo, cap. 16, in Le leggi dei longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara, S. Gasparri, Roma 2005, pp. 142, 288. 5 6 L.A. BERTO, S. V., Liutprando, re dei Longobardi, in Dizionario biografico degli italiani, 59, Roma 2002, pp. 65-85; T. INDELLI, Langobardìa. I longobardi in Italia (VI-XI sec.), Padova 2013, pp. 74-80. Per una “visione d’insieme” del regno di Liutprando, PAOLO DIACONO, Storia dei longobardi, a cura di L. Capo, Milano 1992, VI, 22-58, pp. 344-364. Sulla Longobardia meridionale e sui rapporti con il regno longobardo si veda anche C. AZZARA, I longobardi, Bologna 2015, pp. 95-106. 2 Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento nazione di 153 capitoli integrativi dell’editto rotariano, sia attraverso la promulgazione di una disciplina molto severa riguardante tutti gli organi di governo del regno, compresi quelli giudiziari, che furono pienamente subordinati all’autorità del sovrano7. L’unico mutamento di rilievo riscontrabile nell’VIII secolo, nell’amministrazione giudiziaria del ducato, rispetto all’epoca precedente, non può che ricollegarsi agli eventi del 774, quando Arechi II (758-787), duca di Benevento e genero di re Desiderio (756-774), si proclamò princeps Langobardorum, dopo il crollo militare del regnum, a causa dell’invasione franca. Da quel momento, scomparsa la figura del re, il princeps divenne il supremo referente giuridico per l’amministrazione della giustizia in tutto il Mezzogiorno longobardo e il suo tribunale divenne l’organo supremo d’appello per tutto il principato, non essendo più possibili ingerenze da parte del sovrano. Il princeps, tra l’altro, godeva di un potere di intervento e di avocazione giudiziaria generale, già prerogativa dei duchi, su tutti i suoi sottoposti, consolidato da una prassi inveterata, più che da una specifica norma scritta8. Passando, ora, ad un esame più analitico dell’organizzazione degli uffici giudiziari del ducato di Benevento, tra VI e VIII secolo, bisogna iniziare col dire che, in essa, non è possibile riscontrare alcun rispetto per il principio “moderno” della separazione delle funzioni pubbliche. Gli ufficiali preposti all’amministrazione della giustizia erano tenuti anche a svolgere incombenze di natura diversa, senza alcun criterio di demarcazione netta delle competenze e a discapito di ogni professionalità, il che impedisce di qualificarli sia come “giudici”, in senso tecnico-professionale, sia come veri e propri “esperti di diritto”. Queste particolarità del sistema giudiziario beneventano erano già riscontrabili nella burocrazia romana tardoimperiale e nell’ordinamento del regnum Langobardorum; inoltre, le procedure di designazione degli ufficiali giudiziari, dinastiche o, comunque, “politiche”, erano estranee all’applicazione di qualsiasi criterio meritocratico9. Questo Il re promulgò la sua normativa nell’arco di molti anni (713-735), scaglionando le norme in 15 gruppi, ciascuno con un proprio preambolo. Dalla legislazione liutprandina, spesso pervasa anche di afflato religioso cristiano, emerge il profondo mutamento, in atto nel regno longobardo, riguardo alla natura del potere e della funzione del re, sempre più assimilato a un “imperatore”, anziché a un re tribale. Liutprando riveste un’importanza fondamentale nella storia del regno longobardo, sia sotto il profilo giuridico, sia sotto il profilo amministrativo e militare. Sotto il suo governo il regno raggiunse la massima espansione e potenza anche grazie alle campagne militari condotte contro i riottosi duchi di Spoleto e Benevento che furono costretti a sottomettersi alla sovranità del re. AZZARA, I longobardi, pp. 70 sgg.; INDELLI, Langobardìa, pp. 38 sgg. 7 8 T. INDELLI, Arechi II. Un principe longobardo tra due città, Salerno 2011, pp. 30-35. Ad esempio, i magistri militum e i duces, funzionari militari al comando delle truppe stanziate in città e delle milizie limitanee, esercitavano la giurisdizione sui soldati al loro comando, nelle cause penali e civili in cui 9 3 Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli particolare assetto istituzionale, d’altronde, era lo specchio dell’universo concettuale e semantico del tempo, dal momento che iurisdictio nell’alto medioevo indicava il complesso delle potestà inerenti al potere pubblico e non solo la funzione giurisdizionale in senso stretto. La bona, recta iurisdictio indicava il corretto esercizio del potere e il facere iurisdictionem poteva intendersi non solo nel senso di “amministrare la giustizia”, ma piuttosto in quello di “governare”, “amministrare la cosa pubblica”10. L’assetto generale dell’amministrazione giudiziaria del Mezzogiorno longobardo iniziò a mutare solo alla fine del IX secolo, quando si verificò, per cause non del tutto chiare, un processo di progressiva “professionalizzazione” della figura del giudicante, con la formazione di un complesso di organi, in genere monocratici, retti da personale culturalmente preparato, e distinti, nell’esercizio delle proprie incombenze, da tutti gli altri uffici dell’amministrazione principesca11. Nell’ordinamento del regno longobardo, tralasciando il re, titolare della somma potestà giudiziaria12, furono soprattutto duchi e gastaldi a rappresentare il perno dell’impalcatura giudiziaria, tanto che anche l’editto si riferì a loro, sempre più spesso, con l’appellativo di iudices, e ai rispettivi distretti con quello di iudiciariae, sottolineandone l’importante funzione istituzionale. Nel campo giurisdizionale, accanto ai duchi e ai gastaldi, operavano erano imputati o convenuti. Sul punto, F. GORIA, La giustizia nell’impero romano d’Oriente: organizzazione giudiziaria, in La giustizia nell’alto medioevo (secoli V-VIII), Spoleto, 7-13 aprile 1994, I, Spoleto 1995 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XLII), pp. 259-230. Sul significato del termine iurisdictio, nel lessico medievale, si vedano, E. BUZIO, Il concetto di “iustitia” nella legislazione longobarda, «Rivista di storia del diritto italiano», 13 (1940), pp. 541-555; P. COSTA, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano 1969, pp. 13-23. 10 A partire dal IX-X secolo, nel Mezzogiorno longobardo fece la sua comparsa il giudice monocratico (iudex) membro di una categoria di veri e propri “professionisti del diritto”, di cui, però, si ignorano luoghi e modalità di preparazione e formazione tecnica. Gli iudices, uomini ben alfabetizzati e di buone conoscenze giuridiche, in genere giudicavano a palazzo, nella sede del potere centrale, su appello o in prima istanza, e da soli, cioè senza essere coadiuvati da adsessores. Spesso il principe longobardo presenziava ai dibattimenti, ma non interveniva nel processo, lasciando al giudice monocratico il compimento di tutti gli atti processuali fino alla pronuncia della sentenza, di cui si redigeva “processo verbale”. In ogni caso, non c’erano criteri di competenza particolarmente rigidi, per materia e territorio, tali da non poter essere, in molte circostanze, derogati. Sullo iudex, cfr. P. DELOGU, La giustizia nell’Italia meridionale, in La giustizia nell’alto medioevo, pp. 257-308. 11 Il re longobardo aveva competenza giurisdizionale generale, in primo e secondo grado di giudizio, associata a un altrettanto generale potere di avocazione, al proprio tribunale, di ogni caso giudiziario che, secondo la sua insindacabile volontà, meritasse di essere trattato direttamente a palazzo, per l’importanza della materia trattata o delle persone coinvolte. Ovviamente, il re poteva svolgere anche funzioni di volontaria giurisdizione, di assistenza e collaborazione al compimento di alcuni atti giuridici da parte di privati, come la manumissio in pans o in votum regis, cioè l’affrancamento di un servo fatto alla presenza del re. Si veda sul punto, ROTARI, cap. 163, in Le leggi, pp. 48 sgg. Per la manumissio in pans, ROTARI, cap. 224, in Le leggi, pp. 68 sgg. 12 4 Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento anche ufficiali minori come sculdasci e decani, le cui competenze, però, sfuggono a una precisa classificazione13. Quest’articolazione burocratica, salvo differenze marginali, è riscontrabile anche nel ducato di Benevento, anche se, al vertice, data la particolare condizione di autonomia politica della compagine, c’era il duca14. Nel testo dei giudicati, il duca era designato Ogni gastaldato del regno si ripartiva in circoscrizioni amministrative minori, le centene e i decanati, con a capo funzionari di grado inferiore ai gastaldi, detti sculdasci e decani. Tuttavia, in base a quanto emerge dalla legislazione regia, vigente anche nel ducato beneventano, gli sculdasci e i decani si occupavano, ciascuno nell’ambito della propria circoscrizione di competenza, di amministrare i beni del patrimonio regio e incamerarne le entrate, di amministrare la giustizia e di reprimere i reati, facendo riferimento al gastaldo. Se la residenza del gastaldo e della sua corte era, generalmente, la città capoluogo del gastaldato, il centro di queste circoscrizioni amministrative minori doveva essere più piccolo, anche un insediamento rurale, come un villaggio o un borgo. Altro compito fondamentale degli sculdasci e dei decani era di effettuare l’arruolamento delle truppe, nella propria circoscrizione di competenza. Le circoscrizioni amministrative, cui erano a capo sculdasci e decani, non erano soltanto ripartizioni del territorio a fini di leva, ma anche a fini civili, di amministrazione della giustizia e riscossione dei tributi. A quanto risulta da alcune disposizioni edittali, inoltre, gli sculdasci, nell’esercizio delle loro competenze giurisdizionali, erano gerarchicamente subordinati ai gastaldi e ai duchi, gli unici funzionari del regno a essere designati, nell’editto, con il termine di iudices. Lo sculdascio che denegava giustizia immotivatamente, per esempio, era tenuto al pagamento di una multa di 12 solidi, devoluti metà al danneggiato – a causa della denegata giustizia – e metà al suo giudice, ossia al duca o al gastaldo da cui dipendeva. Se lo sculdascio non sapeva pronunciarsi su una data questione giuridica, era tenuto a sollecitare l’intervento dello iudex competente. Se neanche il duca o il gastaldo erano in grado di deliberare sulla questione, la competenza a giudicare era demandata al tribunale regio. Tuttavia, le esatte competenze generali degli sculdasci in materia giudiziaria restano alquanto oscure. Sulle competenze giudiziarie degli sculdasci, LIUTPRANDO, capp. 25-27, in Le leggi, pp. 155 sgg. Sulle competenze giudiziarie di duchi, gastaldi e sculdasci, nell’editto longobardo, C.G. MOR, I gastaldi con potere ducale nell’ordinamento pubblico longobardo, Atti del Primo congresso internazionale di studi longobardi (Spoleto, 27-30 settembre 1951), Spoleto 1952, pp. 409-415. 13 Per quanto duchi e gastaldi esercitassero entrambi competenze giurisdizionali, rimasero ufficiali con origine e struttura molto diverse. L’origine dell’istituto ducale, infatti, nell’esperienza costituzionale della gens longobarda, è da ravvisarsi ben prima dell’occupazione d’Italia, cioè durante la permanenza dei longobardi in Pannonia, come federati dell’impero bizantino. Durante il lungo soggiorno in Pannonia, i capi militari longobardi avrebbero mutuato la denominazione di duca dall’esperienza burocratica e giuridica imperiale. I duchi della burocrazia dell’impero di Costantinopoli, erano, infatti, pubblici ufficiali, aventi essenzialmente funzioni militari, soprattutto di comando delle truppe di presidio presso i confini, stanziate all’interno delle circoscrizioni militari di competenza, i ducati. I circa 35 duchi del regno longobardo furono, anch’essi, essenzialmente, dei capi militari al comando di armate organizzate in fare, cioè in raggruppamenti più vasti, spesso aventi, anche, ma non in maniera esclusiva, una base parentale. Dopo la conquista d’Italia, con la progressiva stabilizzazione del popolo invasore, i duchi longobardi aggiunsero alle loro tradizionali competenze militari, anche funzioni e attribuzioni civili, di carattere tipicamente amministrativo e giurisdizionale, il tutto, ovviamente, nell’ambito dei territori di cui erano riusciti a impossessarsi con la forza delle armi. La carica ducale, pertanto, conservò sempre, nell’ambito dell’organizzazione del regno longobardo, una profonda ambiguità di fondo. Ogni duca, solo dopo il consolidamento delle istituzioni del regno in Italia, poté, a buon diritto, essere definito un pubblico funzionario, nel senso giuridicamente moderno del termine, ma solo entro precisi limiti. I gastaldi, 14 5 Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli con gli altisonanti titoli previsti dal formulario vigente nella sua cancelleria, «vir gloriosissimus summus dux gentis Langobardorum», e in sede processuale svolgeva una molteplicità di compiti: presiedeva il processo, interrogava le parti, portava ordine nel dibattimento e, al termine, sentenziava sulla questione nel merito, apparentemente senza l’assistenza di alcuno15. I giudicati giunti fino a noi documentano soltanto processi che si svolgevano a palazzo, davanti al tribunale ducale, in unico grado di giudizio e senza l’assistenza di consulenti giuridici. Ciò vuol dire che, tra VI e VIII secolo, l’attività giudiziaria di ufficiali diversi dal duca, pur non potendo essere negata in via ipotetica, sulla base dell’editto, non è però supportata da materiale documentario. Dall’analisi dei casi processuali pervenuti emerge, infatti, la profonda discrasia tra il dettato astratto della normativa edittale – riguardante le competenze e attribuzioni giurisdizionali degli ufficiali regi – e l’effettiva possibilità di verificare, in concreto, quanto di essa fosse effettivamente applicato nel ducato di Benevento, dal momento che l’unica autorità a operare, in sede giudiziaria, sembra essere stato sempre e solo il duca, mentre gli altri ufficiali erano ridotti al ruolo di residuali comparse. Secondo quanto documentato dalle notitiae iudicati beneventane, quindi, un’udienza processuale ordinaria si caratterizzava per la presenza del dux, delle parti – che stavano in giudizio personalmente o attraverso propri procuratores – e del notaio che provvedeva alla verbalizzazione degli atti e, infine, alla redazione definitiva del giudicato, su ordine del duca stesso o del referendario di palazzo, secondo quanto prescritto dai formulari vigenti. Le particolarità di questo processo derivavano anche dallo status delle parti che vi erano coinvolte. Le vertenze documentate, infatti, riguardavano enti ecclesiastici o, comunque, potentiores e avevano sempre importanti implicazioni politiche. In questi casi, molto probabilmente, i processi si svolgevano a palazzo e davanti al duca per questioni di opportunità, piuttosto che presso il tribunale periferico del gastaldo locale, la cui giurisdizione era, forse, riservata a cause di secondaria importanza non oggetto di invece, erano veri e propri funzionari, non necessariamente di estrazione sociale aristocratica, nominati dal sovrano e a lui devoti, che amministravano beni e uomini appartenenti alla curtis regia, ovvero al demanio pubblico. Essi avevano alle proprie dipendenze anche altri ufficiali, in genere con competenze di polizia, eccetto gli sculdasci che, talvolta, risolvevano controversie di infima natura economica. I duchi, invece, trasmettevano ereditariamente il proprio ufficio e sovrintendevano alle funzioni amministrative, compresa la giustizia, nei propri ducati. In genere, duchi e gastaldi risiedevano stabilmente in città. Sulle competenze dei duchi e gastaldi, del regno, C.G. MOR, I gastaldi, pp. 409 sgg.; Le leggi, pp. 116-117, note 23 e 31. Sugli sculdasci, ROTARI, capp. 15 e 35, in Le leggi, pp. 20 e 14. 15 6 Per alcuni esempi, si veda più avanti. Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento verbalizzazione, pratica riservata solo ai processi più rilevanti. Salvo una sola testimonianza pervenuta, sulla quale si dirà più avanti, il duca giudicava sempre da solo e mai assistito da adsessores. Infatti, nei giudicati, non è attestata la presenza di gastaldi, sculdasci e altri ufficiali inferiori né come giudici, né come consiliarii del duca, cioè membri di collegi giudiziari aventi funzioni di consulenza e assistenza giuridiche. Pertanto, nel ducato di Benevento, il processo non aveva la struttura del vasto collegio deliberante, ricalcato sul modello classico del placito medievale – definito da Ascheri una sorta di “grande happening” – e riscontrabile, invece, nel regnum Langobardorum16. Il carattere di espediente politico-ideologico della legislazione altomedievale, infatti, si riverberava anche sull’attività giurisdizionale che, secondo la “consueta prassi”, si svolgeva in placiti pubblici in cui, accanto alla partecipazione del magistrato giudicante, eventualmente assistito da altri giudici componenti il collegio, si registrava la presenza di un gran numero di adstantes, in genere ecclesiastici o individui di sesso maschile, in età pubere e di condizione libera, soggetti agli obblighi militari e provvisti, in genere, anche di un minimo di alfabetizzazione. Questa struttura assembleare del processo altomedievale, forse ricalcava l’antica gairethinx, l’assemblea tribale germanica in cui erano dibattute le più importanti questioni della tribù17. Nel resto del regno, questa struttura assembleare del processo e degli organi giudiziari è ben documentata. I gastaldi e i duchi erano assistiti, nelle loro incombenze giudiziarie, da funzionari minori e gerarchicamente subordinati (sculdasci, decani, locopositi) preposti a circoscrizioni inferiori al ducato e al gastaldato. Spesso, dei collegi giudicanti facevano parte anche ecclesiastici, in genere vescovi e abati, e duchi e gastaldi di circoscrizioni contermini a quella dove si svolgeva il processo, ben distinti, però, dal duca o gastaldo che presiedeva effettivamente il dibattimento18. Come si è detto, nulla di tutto ciò è riscontrabile nel ducato di Benevento, salvo una testimonianza marginale, rappresentata da un giudicato del 756. In quell’anno, infatti, in un processo tenuto a palazzo, nella capitale ducale, accanto al duca Liutprando (751-758), è menzionata anche la presenza di Ingilberto, con la qualifica di 16 M. ASCHERI, Introduzione storica al diritto medievale, Torino 2007, p. 103. A. CASTAGNETTI, Giustizia partecipata. ‘Lociservatores’, scabini e astanti nei placiti lucchesi (785-822), «Studi medievali», LVI, 1 (2015), pp. 3-20, 17 18 La composizione collegiale degli organi giudicanti del regnum Langobardorum risulta dalla documentazione processuale. Ad esempio, nel 753, a Rieti, il duca Gisulfo giudicò coadiuvato dal vescovo Teutone e da alcuni gastaldi e sculdasci. Codice diplomatico longobardo, a cura di H. Zielinski, Roma 1986 (Fonti per la storia d’Italia, V), n. 20, pp. 79-83. 7 Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli «missus domni regis». Le parti in causa erano Maurizio, abate del monastero beneventano di San Benedetto in Xenodochio19, e la monaca Egildi, che rivendicava la proprietà della chiesa di San Nazario in Alife. La sentenza, pronunciata dal duca, secondo le consuete formule di stile – «placuit nobis», «recte nobis comparuit» – diede infine ragione a Maurizio, che esibì un documento comprovante la proprietà cenobiale della chiesa20. Ingilberto che, a quanto risulta, partecipò al giudizio, era un “messo regio” inviato nel ducato da re Astolfo (749-756), per svolgere non si sa bene quale incarico per conto del re. Trovandosi a Benevento, il messo partecipò al processo in veste di consiliarius del duca anche se è possibile che Astolfo lo avesse inviato proprio per partecipare a quel dibattimento. L’unica cosa certa è che la presenza del messo a Benevento coincise con la fine della reggenza della duchessa Scauniperga, madre del duca Liutprando, il cui nome, da quel momento, scomparve dagli atti di governo, a cominciare proprio dal giudicato esaminato21. Il giudicato attesta che il messo non fu l’unico componente del collegio giudicante, perché erano presenti anche il marepahis Giovanni e altri non ben definiti consiglieri, appellati come iudices nostri. Giovanni, contrariamente a Ingilberto, era senza dubbio un funzionario in servizio presso la curia ducis, non un delegato del re e, data la sua funzione, era addetto a mansioni che, ordinariamente, non erano giudiziarie, ma riguardavano l’organizzazione interna del palazzo22. Sull’identità degli altri iudices perMonastero beneventano intramuraneo, cui era annesso uno xenodochio, da cui il nome, probabilmente fondato nel VII secolo, all’epoca del duca Romualdo I (671-687). Sul cenobio, M. IADANZA, Istituzioni ecclesiastiche e aspetti di vita religiosa, in Tra i longobardi del sud. Arechi II e il ducato di Benevento, Atti del convegno internazionale (Benevento, 15-17 maggio 2014), a cura di M. Rotili, Padova 2017, pp. 399-419. 19 Per il giudicato, Codice diplomatico longobardo, a cura di H. Zielinski, Roma 2003 (Fonti per la storia d’Italia, IV/2), n. 43, pp. 140-145. 20 Dopo la deposizione dell’usurpatore Godescalco, nel 742, re Liutprando aveva imposto, a Benevento, come duca, il nipote Gisulfo II. Per consolidare il rapporto di dipendenza tra il duca e Pavia, Liutprando impose a Gisulfo di sposare la pavese Scauniperga, «nobili ortam progenie», come la definisce Paolo Diacono. Della moglie del duca non abbiamo ulteriori dettagli biografici, ma certamente contribuì a mantenere saldi i legami tra il ducato e Pavia anche dopo la morte di Liutprando (744). La lungimiranza del re, infatti, ebbe modo di manifestarsi appieno solo anni dopo quando, morto anche il duca Gisulfo II, nel 751, la duchessa assicurò la pacifica successione al figlio, Liutprando che, non a caso, portava il nome del grande sovrano. Scauniperga evitò la ripetizione di ribellioni come quelle accadute tanti anni prima, nella delicata fase del passaggio di poteri da un duca a un altro. La duchessa assunse la reggenza per il piccolo Liutprando e la mantenne fino al 756, anno in cui il suo nome scompare dalle monete coniate nel ducato e dai documenti. Sul punto, PAOLO DIACONO, Storia, VI, 57, pp. 357-358, p. 360. Sul duca Liutprando, BEDINA, Liutprando, pp. 34 sgg.; INDELLI, Langobardìa, pp. 95 sgg. 21 22 8 Il marepahis, infatti, era un addetto alle “scuderie” ducali, né un giudice, né un giurista. Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento mane il mistero, come sulla specifica attività di consulenza giuridica da essi svolta nel corso del dibattimento, di cui non si fa assolutamente menzione. È molto probabile che l’appellativo generico di “iudices”, utilizzato nel documento, non vada inteso in senso “tecnico”, ma come un modo per indicare alcuni importanti dignitari di corte anche se sprovvisti di specifiche competenze giuridiche23. Si tratta di un uso spesso attestato anche in documenti diversi dai giudicati, in cui l’appellativo “iudex” era utilizzato in modo polisemico e quasi mai per indicare un funzionario preposto all’amministrazione della giustizia, ma riferibile a dignitari di corte in possesso di qualifiche onorifiche, non attributive di reali poteri giudiziari, ma indicative di un elevato status sociale24. Da notare, infine, che né Ingilberto, né Giovanni, né alcuno degli iudices genericamente menzionati nel giudicato, avevano la qualifica di gastaldo o sculdascio, cioè appartenevano a quella categoria di ufficiali ai quali l’editto attribuiva, istituzionalmente, la funzione giudiziaria. Se non è attestata, dalla documentazione processuale, alcuna attività giudiziaria di gastaldi e sculdasci nel ducato, né come presidenti di dibattimenti, né come consiliarii del duca, è però documentata la possibilità che il duca potesse delegare loro incombenze giudiziarie minori, relative a processi che si svolgevano a palazzo e da lui presieduti. In questi casi, la decisione finale spettava sempre al duca, ma gli ufficiali erano tenuti a svolgere incarichi di tipo istruttorio e, in ogni caso, non entravano a far parte di un collegio giudicante, né partecipavano alla pronuncia della sentenza. Ciò è quanto avvenne nel 742, quando il duca Godescalco, chiamato a decidere su una vertenza relativa ad alcuni beni immobili, decise di affidare al gastaldo Crissi e al vestararius Potiune la fase istruttoria del procedimento, dando loro il compito di procedere alla raccolta di elementi probatori. Terminata l’istruttoria, la decisione finale fu pronunciata Come lo iudex noster Aloino, menzionato quale destinatario di un praeceptum concessionis del 751, emanato dal duca Gisulfo II (742-751). Codice diplomatico longobardo, IV/2, Praeceptum concessionis, n. 35, p. 117. 23 Una prassi che, in Italia, persisterà ben oltre l’esperienza longobarda, e persino nella civiltà comunale, come ha sostenuto C. WICKHAM, Sonnambuli verso un nuovo mondo. L’affermazione dei comuni italiani nel XII secolo, Roma 2017, pp. 35-39. Nella documentazione disponibile, attinente al contesto territoriale e politico della Longobardia minore, si rinvengono numerosissimi riferimenti al giudice e all’attività giusdicente, non tutti, però, chiaramente definibili dal punto di vista istituzionale, ad esempio, si pensi a iudex palatii e a iudex sacrii palatii; si trattava di veri e propri giudici operanti a palazzo e collaboratori del duca o di cariche onorifiche? È difficile stabilirlo con assoluta certezza. Regesti dei documenti dell’Italia meridionale 570-899, a cura di J. M. Martin, E. Cuozzo, S. Gasparri, M. Villani, Roma 2002, pp. 158-159: iudex palatii (Praeceptum confirmationis, n. 268, settembre 742, Benevento), 148: iudex sacrii palatii (Praeceptum concessionis, n. 242, ottobre 726, Benevento). 24 9 Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli dal solo duca, a palazzo e senza l’assistenza di alcun collegio giudicante25. Se la delega di incombenze giudiziarie al gastaldo Crissi rientra nelle attribuzioni ordinarie del suo ufficio, quella al vestararius Potiune è impropria e induce a fare una considerazione. Come il processo del 756, in cui è attestata la partecipazione del marepahis Giovanni come consiliarius ducis, così il procedimento in esame dimostra che le incombenze processuali potevano essere delegate dal duca anche a un vestararius, cioè ad un ufficiale adibito a funzioni interne al palazzo e addetto alla persona del sovrano ma che, ordinariamente, non svolgeva incarichi giudiziari, né aveva i poteri connessi26. Ciò dimostra non solo la variabilità delle competenze dei vari uffici, capaci di adattarsi alle necessità del momento, ma anche l’enorme discrezionalità del duca in ogni decisione in questo campo. Più che la preparazione giuridica o il rispetto di intangibili sfere di competenza era la fiducia nutrita dal duca nel singolo funzionario, ossia criteri extragiuridici, a determinare l’affidamento di importanti incarichi in ambito giudiziario27. Se la struttura prevalentemente monocratica dell’organo giudicante contribuiva a differenziare gli uffici giudiziari del ducato da quelli del regno, non mancavano, però, analogie. Anche nel ducato, infatti, non sono documentati organi giudiziari distinti su Regesti, Iudicatum, p. 157, n. 265 (febbraio 742, Benevento). Godescalco fu duca di Benevento (739-742) e fu deposto da re Liutprando, in seguito a un intervento militare nel Mezzogiorno; aveva usurpato il potere ducale dopo la morte del suo predecessore, Gregorio (732-739), già duca di Chiusi e nipote di Liutprando. Probabilmente, la sua elezione irregolare e il fatto che fosse infido, essendosi avvicinato diplomaticamente all’esarca di Ravenna e al papa, spinse Liutprando a intervenire militarmente a Benevento. Nel 742, Godescalco fu assassinato durante una rivolta, mentre tentava di fuggire a Bisanzio, e Liutprando impose suo nipote come successore al ducato, Gisulfo II, cui diede in sposa Scauniperga, nobile longobarda, legata da rapporti di parentela con il sovrano. 25 Gli uffici pubblici potevano cumularsi nella stessa persona. La carica di vestararius, infatti, poteva essere associata a quella di gastaldo, come avvenne nel caso di Secondo, menzionato in un praeceptum concessionis del 744, emanato da Gisulfo II. Codice diplomatico longobardo, IV/2, pp. 75-78, n. 22: Praeceptum concessionis. 26 27 L’affidamento di mansioni giudiziarie a ufficiali che, ordinariamente, erano preposti a compiti di tutt’altra natura, era frequente anche nella prassi del regno longobardo. Si ricordi, solo per fare un esempio, la nota vertenza tra il vescovo di Siena e il vescovo di Arezzo, riguardo al possesso di alcune chiese ubicate ai confini delle due diocesi, in un contesto territoriale in cui confini civili e religiosi si sovrapponevano caoticamente. Ebbene, la vertenza fu risolta in un giudizio tenuto a San Miniato, nel 715, da una speciale commissione composta da vescovi toscani, appositamente riuniti per esplicita richiesta di Liutprando. Il re era già intervenuto tempo prima, disponendo due inchieste preliminari la cui direzione fu affidata al “maggiordomo” Ambrogio e a un notaio della cancelleria regia, Guntheram. Come è possibile notare, in entrambi i casi le incombenze giudiziarie e la presidenza del collegio giudicante furono affidate, per espresso ordine del re, al maggiordomo di corte e a un notaio, ufficiali ordinariamente non tenuti allo svolgimento di incombenze processuali. Codice diplomatico longobardo, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1929 (Fonti per la storia d’Italia, I), n. 17, pp. 46-51; n. 20, pp. 7784; S. GASPARRI, Voci dai secoli oscuri. Un percorso nelle fonti dell’alto medioevo, Roma 2017, pp. 37-45. 10 Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento base “etnica”, a seconda dell’origo dei litiganti, romana o longobarda, né è attestata la presenza di adsessores romani nei collegi giudicanti, quando fossero coinvolti nei processi individui di estrazione etnica differente. Ciò, invece, era previsto in altri ordinamenti “barbarici” come quello dell’Italia ostrogota28. Anche nei processi svoltisi nel Mezzogiorno, come nel regno, non è documentato l’utilizzo di strumenti probatori ordalici come il duello o lo iudicium aquae – pure previsti e disciplinati dall’editto – anzi, emerge un ruolo decisamente attivo dell’organo giudicante, dotato di una grande discrezionalità decisionale anche nella valutazione delle prove, in genere costituite dal giuramento o dai documenti pubblici o privati29. Nell’organizzazione degli uffici giudiziari del ducato di Benevento, aveva un peso determinante anche l’autonomia politica di cui la compagine godeva nell’ordinamento del regno e ciò, pur senza enfatizzare questa caratteristica, in linea di principio rendeva impossibile o, comunque, molto difficile l’ingerenza regia in campo giudiziario30. Tuttavia, due testimonianze documentali sembrano contraddire questa opinione. La prima, già esaminata, riguarda il processo del 756, a cui presenziò il messo regio Ingilberto; la seconda, invece, riguarda un giudizio tenuto da re Astolfo, in grado d’appello, su una pronuncia di primo grado del duca di Benevento, Liutprando31. Il re, in un anno L. LOSCHIAVO, Oltre la milizia: fisco e civilitas per i goti di Teoderico, in Cittadinanze medievali. Dinamiche di appartenenza a un corpo comunitario, a cura di S. Menzinger, Roma 2018, pp. 3-13. 28 Il termine “ordalia” significa giudizio (Urteil) e sta a indicare il complesso degli strumenti probatori utilizzati nel “processo germanico” per l’accertamento della verità e la risoluzione delle liti giudiziarie. L’ordalia era uno strumento probatorio fondato sul presupposto che la divinità intervenisse, miracolosamente, nella realtà umana, anche alterando l’ordo naturae, assicurando a una delle parti la vittoria nella lite, consentendo alla giustizia di trionfare. Le ordalie contemplate dall’editto longobardo erano tre: il duello, il giuramento – pur con alcune perplessità – e la prova dell’acqua bollente, quest’ultima riservata ai soli servi. Sul giuramento e il duello, ROTARI, capp. 359-366, p. 102 e capp. 164-166, p. 50. Sull’acqua bollente, LIUTPRANDO, cap. 50, in Le leggi, p 166. Per una trattazione organica delle prove ordaliche, F. PATETTA, Le ordalie. Studio di storia del diritto e scienza del diritto applicato, Torino 1908; F. SINATTI D’AMICO, Le prove giudiziarie nel Diritto longobardo, Milano 1968. 29 Almeno in ambito giuridico, l’“autonomia” della Longobardia meridionale andrebbe ridimensionata, apparendo più un mito storiografico, che una realtà storicamente provata. Al limite, se di autonomia si vuol parlare, lo si potrebbe fare solo in riferimento alla situazione creatasi molti anni più tardi, a partire dal 774, quando, caduto il regno longobardo sotto i colpi delle armate franche, il ducato di Benevento, divenuto principato, acquisì un’indipendenza totale da qualsiasi soggezione. L’autonomia del ducato beneventano, pertanto, era più un dato di fatto che di diritto, e affondava le proprie radici nella natura stessa del potere ducale e nelle aspirazioni autonomistiche dei singoli duchi. Sul concetto giuridico di “autonomia” si veda, V. CERULLI-IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino 1997, pp. 10-23. 30 31 La particolare condizione di autonomia politica del ducato, all’interno dell’ordinamento del regno, consisteva soprattutto nel fatto che i gastaldi ducali rispondevano del proprio operato unicamente al dux e non al sovrano, 11 Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli imprecisato, con un praeceptum confirmationis, confermò una convenientia-transazione conclusa, con la mediazione e l’approvazione del duca Liutprando, nel corso di un processo tenuto a Benevento, davanti al suo tribunale. La convenientia promossa da Liutprando, probabilmente, non soddisfaceva gli interessi dei contendenti e uno di essi, Alahis, decise di impugnarla davanti al re, promuovendo un vero e proprio giudizio d’appello, con riesame completo della vertenza, anche nel merito, e la conseguente decisione di conferma della transazione già raggiunta32. Al di là del caso esaminato, era prassi diffusa e ben documentata, ma non assimilabile all’appello, che le parti di un processo già concluso, o solo la parte vincente, richiedessero al re il rilascio di un documento ufficiale che confermava la sentenza di primo grado, senza riesame nel merito della causa33. Molto probabilmente, ciò avveniva perché il giudicato originale era andato smarrito o si temeva di smarrirlo e perché il praeceptum confirmationis regio aveva un valore probatorio più forte rispetto alla sentenza, sebbene quest’ultima – nell’ordinamento del regno e della Longobardia meridionale – non si possa considerare alla stregua di un semplice documento privato34. Un caso del genere è attestato anche nel ducato di Benevento in un giudicato del 745. in quanto amministratori di un demanio che era, a quanto risulta, unicamente ducale. J. M. MARTIN, La Longobardìa meridionale, in Il regno dei longobardi in Italia. Archeologia, società e istituzioni, a cura di S. Gasparri, Spoleto 2004, pp. 329-336. 32 Chronicon Volturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici, I, Roma 1925, I, n. 61, p. 297. L’osservanza di tale prassi anche nel resto del regno, è confermata dal giudicato pronunciato, nel 715, nella controversia tra i vescovi di Arezzo e Siena esaminata sopra. Emessa la sentenza, qualche tempo dopo, un emissario del vescovo di Arezzo, parte vittoriosa del processo, ne chiese conferma al re attraverso il rilascio di un atto pubblico (praeceptum confirmationis) da parte della cancelleria pavese. Il re emanò il praeceptum, senza la necessità di riesaminare, nel merito, il caso già deciso, ma dopo una sommaria inquisitio, condotta da un suo gastaldo; sulla genuinità del praeceptum, però, sussistono molti dubbi. Per il praeceptum, U. PASQUI, Documenti per la storia della città di Arezzo nel Medioevo, I, Firenze 1899, n. 7, pp. 22-35; A. PADOA-SCHIOPPA, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, I, Milano 1967, pp. 136-147. 33 Il giudicato, nel ducato di Benevento, era redatto da un notaio della cancelleria, su ordine diretto del duca o del referendario (cancelliere) di corte, ed era munito del sigillo ufficiale del duca. Era, dunque, un atto pubblico in piena regola, anche se presentava l’aspetto di un verbale d’udienza, con la registrazione, anche in forma diretta, delle dichiarazioni delle parti e del duca, nel corso del processo. Non era un documento assimilabile a un semplice memoratorium, cioè a un atto redatto da un notaio, ai fini di prova, nell’osservanza di particolari formalità (protocollo), nell’interesse di una o di entrambe le parti di un negozio giuridico. Ovviamente, la redazione di memoratoria poteva anche avvenire all’interno del processo, per documentare, a fini esclusivamente probatori e di parte, il procedimento e la pronuncia del giudice. Sulla natura e funzione del memoratorium, G. NICOLAJ, Il documento privato italiano nell’alto medioevo, in Libri e documenti d’Italia: dai longobardi alla rinascita delle città, Atti dell’Associazione italiana dei paleografi e diplomatisti (Cividale del Friuli (Ud), 5-7 ottobre 1994), a cura di C. Scalon, Udine 1996, p. 198. 34 12 Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento In quell’anno, il duca di Benevento, Gisulfo II (742-751), emanò un praeceptum firmitatis iudicati – cioè di conferma di una sentenza pronunciata dal padre, Romualdo II (706-731), in un precedente processo – su richiesta di Zaccaria, abate di Santa Sofia in Ponticello e parte vittoriosa del procedimento35. In questa occasione, fu Gisulfo II, e non il re, a confermare il giudicato emesso anni prima, senza che il caso in esame possa configurarsi, però, come un vero e proprio appello. Infatti, il duca non riesaminò nel merito la questione, ma emanò il praeceptum dopo una cognizione sommaria dei fatti. L’emanazione del praeceptum firmitatis fu forse determinata dalla perdita del giudicato originale da parte dell’abate che, pertanto, richiese un nuovo documento in base al quale far valere i diritti del cenobio36. Tornando al praeceptum confirmationis di Astolfo, esso dimostra come il sovrano potesse intervenire, riesaminando nel merito una questione già affrontata presso il tribunale ducale, anche sulla base di nuove allegazioni delle parti. Ancora più significativo è che le parti del procedimento, non soddisfatte dalla pronuncia del sovrano, nel 766, impugnarono il praeceptum regio davanti al tribunale del nuovo duca di Benevento, Arechi II, in carica dal 75837. Tale prassi dimostra che, molto probabilmente, esisteva nel regno una gerarchia funzionariale giudiziaria molto elastica, visto che una pronuncia regia – Codice diplomatico longobardo, IV/2, n. 25, pp. 86-92. Su Santa Sofia ad Ponticellum, cenobio fondato dal duca Romualdo II, agli inizi dell’VIII secolo, nei sobborghi della città, presso il Vallone Ponticello, affluente del fiume Calore, cfr. L. ESPOSITO, Il culto di santa Sofia matrona nella Benevento longobarda, in Tra i longobardi del sud, pp. 321-335. 35 36 PADOA-SCHIOPPA, Ricerche, pp. 136 sgg. Liutprando riconobbe espressamente il diritto di appello contro le sentenze reputate ingiuste davanti al tribunale regio, imponendo, però, un’importante distinzione. Il re ordinò alle parti di ricorrere, innanzitutto, agli ufficiali locali, duchi e gastaldi, e poi di sottostare alle sentenze da essi emanate, pena il pagamento, al fisco, di una sanzione di 20 solidi. Se le parti di un processo, però, lamentavano un’ingiustizia, il re consentiva l’impugnazione, davanti al tribunale regio, delle sentenze contra legem emesse dai suoi iudices; l’impugnazione della sentenza era consentita anche quando il giudice invece di essersi pronunciato contra legem, si era pronunciato ingiustamente, ma «per arbitrium». La formula per arbitrium, contenuta nella disposizione liutprandina, si è prestata a varie interpretazioni. La più fondata, comunque, rimanderebbe a una decisione giudiziaria su una fattispecie non contemplata espressamente dall’editto e, pertanto, disciplinata dal giudice in via equitativa o con il ricorso a una consuetudine (cawarfida) non recepita nella legislazione edittale. Ovviamente, non è da escludere che la norma facesse riferimento anche a un caso di arbitrato sui generis, affidato, previo accordo tra le parti, anziché ad un privato, al giudice, cui veniva chiesto di giudicare secondo equità, derogando al dettato normativo, anche su una fattispecie edittale. In entrambi i casi, accertato il comportamento illegittimo del giudice, e l’“ingiustizia” della sentenza o del lodo, il magistrato era condannato a una pena di 40 solidi, da devolvere parte al re e parte all’appellante. Sul punto, LIUTPRANDO, cap. 28, in Le leggi, p. 22; PADOA-SCHIOPPA, Rucerche, pp. 150 sgg. 37 13 Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli emessa, cioè, dalla massima autorità giudiziaria – poteva essere impugnata nuovamente davanti ad un tribunale inferiore, in tal caso quello ducale, e anche ad anni di distanza. Probabilmente, nel caso specifico, la decisione di Astolfo fu considerata non più efficace anche in virtù dell’avvenuto mutamento degli equilibri politici perché, nel 766, quando il duca di Benevento, Arechi II, si pronunciò nuovamente sulla questione, Astolfo era morto da dieci anni e al suo posto c’era Desiderio, il padre della moglie Adelperga38. Probabilmente, nell’ordinamento del regnum Langobardorum era ignoto il concetto di res iudicata e le sentenze regie e non si consideravano automaticamente non vincolanti, quando l’autorità che le aveva pronunciate non era più in carica e, quindi, una questione già decisa poteva essere riproposta davanti ad un altro tribunale39. È quello che avvenne nel giugno del 766, quando, nel corso di un nuovo processo sulla questione già decisa da Astolfo, Arechi II promosse tra le parti una nuova convenientia, in base alla quale i beni contesi vennero equamente spartiti tra tutti i litiganti. A garanzia dell’adempimento del patto, si stabilì anche che i trasgressori avrebbero pagato 1000 solidi d’oro, a titolo di penale. La causa fu giudicata dal duca in prima persona e senza l’assistenza di adsessores, a quanto emerge dalla lettura del giudicato40. Arechi II, quindi, decise su una vertenza che si trascinava da decenni e sulla quale erano già intervenute altre pronunce, cosa che non impedì che esse potessero essere continuamente confermate o riformate a seconda delle esigenze delle parti41. 38 AZZARA, I longobardi, pp. 92 sgg. L’assenza del concetto di res iudicata, nell’ordinamento del regnum Langobardorum, è desumibile anche da un altro e ben noto caso giudiziario. Si tratta di un giudicato pronunciato dal re Pertarito (671-688), nella lite tra le curtes regie di Piacenza e Parma, per la delimitazione dei rispettivi confini, al termine di un’inchiesta svolta, su suo ordine, da uno spatarius e un notaio. In sede processuale agirono, quali rappresentanti delle due città, i rispettivi gastaldi, ma la lite fu decisa da Pertarito dopo aver confermato un giudicato emesso, sulla stessa vertenza, dal suo predecessore Arioaldo (626-636). La pronuncia di Arioaldo, quindi, non fu assolutamente tenuta in conto dalle parti che richiesero, al suo successore e molti anni dopo, di pronunciarsi sulla medesima questione. In un primo momento, Pertarito avrebbe voluto risolvere la questione facendo ricorso al duello, ma poi ci ripensò, ricorrendo alla testimonianza giurata, che diede la vittoria a Piacenza. Sul giudicato tra Parma e Piacenza, il primo dei 28 giudicati del regno longobardo pervenutoci, Codice diplomatico longobardo, a cura di C. Brühl, Roma 1973 (Fonti per la storia d’Italia, III/1), n. 6, pp. 21-25. 39 40 Chronicon Volturnense, I, n. 61, p. 297. L’origine della controversia su cui si pronunciò Arechi II, e su cui si erano pronunciati anche il predecessore Liutprando e re Astolfo, si collegava proprio alla politica di ingerenza militare di re Liutprando nel Mezzogiorno longobardo e risaliva all’epoca del duca Gisulfo II, imposto come duca a Benevento, nel 742, dalle milizie di re Liutprando, che aveva deposto con la forza Godescalco. Gisulfo era nipote del re, in quanto figlio della nipote di Liutprando, Gumperga, e del duca di Benevento, Romualdo II (706-731). Dopo la morte di Romualdo, nel 731, il potere fu usurpato da Audelais, ufficiale della cancelleria ducale che, probabilmente, 41 14 Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento Riguardo ai “luoghi” in cui, concretamente, veniva amministrata la giustizia, la documentazione è scarsa. I giudicati, come si è detto, riferiscono di processi svoltisi unicamente alla presenza del duca, quindi a palazzo e nella capitale ducale. Tuttavia, il «sacratissimus Beneventanum palatium», menzionato dai documenti, non può essere considerato l’unica sede possibile di amministrazione della giustizia, se si ammette che anche gli ufficiali inferiori si potevano pronunciare sulle vertenze giudiziarie. Questi, quando giudicavano, molto probabilmente, lo facevano presso le sedi locali in cui abitualmente svolgevano il loro ufficio, ma anche i duchi potevano giudicare in luoghi diversi dal palazzo o dalla capitale ducale. Infatti, in due processi decisi dai duchi Godescalco e Arechi II, il dibattimento si svolse in palatia ubicati in aree periferiche del ducato e, precisamente, nel gualdo di Noceto (742)42 e nella curtis di Montella (762), centri amministrativi collocati in complessi fondiari facenti parte del demanio ducale43. Un altro degli aspetti più problematici della presente indagine, è la impossibilità di ricostruire, con sufficiente certezza, l’esistenza di sfere di competenze per materia o territorio tra gli organi giudiziari del ducato. Anche in tal caso, infatti, ci si imbatte nel silenzio e nella contraddittorietà della documentazione. Una cosa è certa: la competenza del duca era “generale”, estesa ad ogni materia e all’intero territorio ducale, com’è dimostrato dalla tipologia di cause trattate davanti al suo tribunale e di cui è pervenuta testimonianza. Invece, riguardo la competenza degli ufficiali inferiori – della cui attività processuale, come si è detto, non c’è perverivestiva la carica di referendarius. Liutprando intervenne nel 732, depose l’usurpatore e affidò il ducato al nipote Gregorio, già duca di Chiusi. Poiché Gisulfo era ancora molto piccolo, fu portato dal re a Pavia, dove rimase, a quanto è dato sapere, fino al 742, quando fu imposto come duca a Benevento dallo stesso Liutprando. Come è noto, una volta imposto a Benevento da re Liutprando, il duca decise di ricompensare i suoi fideles con la concessione di terre confiscate ai sostenitori del suo predecessore, l’usurpatore Godescalco. Tra i fideles di Godescalco c’era anche il cenobio di San Vincenzo al Volturno che, in seguito, intentò causa ai possessori dei fondi, in parte discendenti di chi li aveva ottenuti, al fine di riottenerne la proprietà, chiedendo l’annullamento dei praecepta di Gisulfo perché illegittimi. Sulle vicende connesse al giudicato, PAOLO DIACONO, Storia, VI, 56, p. 359; S. GASPARRI, I duchi longobardi, Roma 1978 (Studi storici, 109), pp. 42-50; INDELLI, Langobardìa, pp. 95 sgg. 42 Il giudicato di Noceto è il primo di quelli pervenuti dal ducato di Benevento. Per i giudicati pronunciati nel gualdo di Noceto e nella curtis di Montella, Codice Diplomatico Longobardo, IV/2, n. 16, pp. 54-59; n. 45, pp. 148-154. Nel fisco ducale confluivano i proventi delle imposte indirette, derivanti dallo sfruttamento delle terre pubbliche, le terre exfundatae abbandonate dai proprietari, e parte dei patrimoni non acquisiti da nessun successore. Si comprende l’utilità politica della disponibilità di un ingente patrimonio da parte dei duchi di Benevento che, in tal modo, potevano procedere a opportune redistribuzioni di rendite e beni, soprattutto immobili, tra i loro fideles. Sul patrimonio ducale e, in seguito, principesco, nella Longobardia meridionale, MARTIN, La Longobardìa, pp. 329 sgg. 43 15 Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli nuto nulla – essa è ricostruibile solo in via ipotetica e attraverso la lettura delle norme dell’editto. I gastaldi e gli sculdasci avevano, probabilmente, competenze illimitate per materia ma non per territorio, perché la loro iurisdictio doveva ritenersi limitata alle iudiciariae, cioè alle circoscrizioni in cui esercitavano, ordinariamente, le loro competenze44. Solo a partire dal X secolo, in epoca molto più tarda, e a seguito dell’emergere della figura dello iudex professionale di cui si è parlato più sopra, nella documentazione giudiziaria del Mezzogiorno longobardo iniziò a emergere un chiaro riferimento alla competenza territoriale dei giudici inferiori. Probabilmente, si trattava sempre di una competenza elastica, duttile, ma attestata da formule chiare rinvenibili nei giudicati – iudex loci, iudex civitatis, iudex de loco – spesso accompagnate dalla specificazione del luogo, borgo o città in cui questi ufficiali esercitavano le loro funzioni45. Nell’VIII secolo, però, non esistevano sfere di competenza inderogabili com’è confermato anche dai giudicati analizzati più sopra, in cui si è visto agire, in sede processuale, ufficiali che, ordinariamente, erano preposti a tutt’altre mansioni46. La derogabilità delle competenze degli organi giudiziari deve essere collegata anche alle specificità procedurali del “processo longobardo” che, come è noto, aveva carattere eminentemente accusatorio e iniziava sempre su impulso della parte interessata a promuoverlo. Ad essa, pertanto, era demandata la “scelta” dell’autorità cui ricorrere che, generalmente, era quella fisicamente più vicina e facilmente raggiungibile, nonostante le prescrizioni edittali imponessero di ricorrere al giudice territorialmente competente47. Anche l’importanza sociale delle parti, soprattutto potentiores laici o enti ecclesiastici, aveva la sua importanza nel determinare la competenza del giudice, come emerge dalla documentazione superstite. I potentiores, infatti, erano quasi sempre giudicati a palazzo o, comunque, dal duca, ma doveva trattarsi di un privilegio “di fatto”, non sanzionato da alcuna norma giuridica, dal momento che, dalla lettura dell’editto, non emerge alcun diritto di “giustizia riservata”, a favore del sovrano o dei duchi, nei confronti di particolari categorie di sudditi. S.M. COLLAVINI, Duchi e società locali nei ducati di Spoleto e Benevento nel secolo VIII, in I longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento, Atti del XVI congresso internazionale di studi sull’alto medioevo (Spoleto, 20-23 ottobre 2002 - Benevento, 24-27 ottobre 2002), Spoleto 2003, pp. 142-160. 44 45 Sul punto, DELOGU, La giustizia, pp. 257 sgg. Ad esempio, il marepahis Giovanni e il vestararius Potiune. Regesti, Iudicatum, p. 157, n. 265 (febbraio 742, Benevento). 46 47 Sulle competenze dei duchi e gastaldi, del regno, Le leggi, pp. 116, 117, note 23 e 31; sugli sculdasci, ROTARI, capp. 15 e 35, in Le leggi, pp. 20, 14. 16 Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento Non risulta attestata per il Mezzogiorno longobardo, quindi, la procedura della reclamatio ad definitivam sententiam, molto diffusa, invece, nella prassi processuale franca, in virtù della quale, i potentes potevano chiedere, in ogni fase del procedimento di primo grado, l’immediato trasferimento del processo – e relative competenze – al tribunale regio48. Probabilmente, l’estrazione sociale delle parti, coinvolte nelle vertenze giudiziarie, poteva indurre il duca ad avocare a palazzo processi già in corso presso sedi locali o a riconoscere alle parti il “privilegio” di adire la giurisdizione ducale, senza aver prima fatto ricorso all’autorità del luogo, obbligo imposto, invece, dall’editto49. La mancanza di una chiara delimitazione delle sfere di competenza giudiziaria e la mancanza di “giurisdizioni speciali” – previste, invece, dagli attuali ordinamenti – era connessa non solo a problemi di opportunità politica, ma anche all’assenza di una chiara ripartizione delle funzioni pubbliche tra organi di governo diversi che è rinvenibile in tutti gli ordinamenti altomedievali. Avveniva perciò spesso che, in sede procedimentale, i duchi di Benevento fossero chiamati a decidere, contemporaneamente, questioni di natura profondamente diversa per materia, interessi, diritti e status delle parti coinvolte, senza che ciò apparisse come qualcosa di anomalo. Queste considerazioni spiegano perché, in alcuni processi, i duchi furono chiamati a pronunciarsi su questioni che avevano un profilo decisamente “ecclesiastico” e che avrebbero dovuto essere demandate, di rigore, all’autorità del tribunale vescovile e decise in applicazione dei canoni ecclesiastici50. Un esempio concreto varrà a far comprendere meglio quanto detto. Si tratta di un giudicato, risalente al 762, che documenta un processo tenuto «in curte Montellari», la curtis di Montella presso Foggia, davanti al duca di Benevento, Arechi II51. Il duca giudicò da solo, senza l’assistenza di consiliarii, come da prassi, in una vertenza tra l’abate del cenobio beneventano di San Benedetto in Xenodochio52, Maurizio, e i rappresentanti di alcune famiglie servili, Celestino, Lupo e Orso, alloggiate sulle terre del monastero, ubicate in località Prata 48 E. CORTESE, Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, in La giustizia nell’alto medioevo, pp. 621-647. 49 Sul punto, LIUTPRANDO, cap. 28, in Le leggi, p. 22. Il fatto che i duchi di Benevento giudicassero vertenze tra istituzioni religiose, applicando i canoni ecclesiastici o derogando agli stessi, non deve meravigliare, perché il duca era il vero e proprio “capo” della Chiesa nel ducato, poiché condizionava le elezioni vescovili o abbaziali, imponeva il suo patronato su tutte le istituzioni ecclesiastiche, concedeva immunità fiscali o giurisdizionali e attribuiva beni economici o altri privilegi. IADANZA, Istituzioni, pp. 400 sgg. 50 17 51 Codice diplomatico longobardo, IV/2, n. 45, pp. 148-154. 52 Per il cenobio di San Benedetto, si veda più sopra. Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli (Avellino). I servi - attraverso i propri rappresentanti - rivendicavano la libertà al cospetto di Arechi, sulla base di alcuni praecepta libertatis emanati dai suoi predecessori – i duchi Godescalco e Gisulfo II – e confermati anche dal duca Liutprando. I praecepta ducali confermavano alcuni affrancamenti disposti a favore dei servi dall’abate Zaccaria, predecessore di Maurizio, e apparentemente validi. Durante il processo, l’abate Maurizio eccepì l’illegittimità dei praecepta, perché non tenevano conto di un analogo atto emanato dal duca di Benevento, Gisulfo I (689706), e da sua madre, Teuderada, molto tempo prima, con cui i servi e le relative terre (condomae) erano stati donati al monastero e che non era stato mai formalmente revocato. Arechi, pertanto, decise sulla base degli argomenti addotti da Maurizio, esaminando personalmente i praecepta, che furono esibiti e letti in giudizio, e nella sentenza negò la libertà ai servi e diede ragione all’abate, applicando il capitolo 59 dell’editto di Liutprando che stabiliva la perenne validità delle donazioni e, in genere, di atti dispositivi di beni del demanio emanati dal re, a meno che non fossero stati espressamente abrogati. Il duca, probabilmente, applicò questa normativa, in via analogica, agli atti dispositivi dei beni del demanio ducale di Gisulfo I e Teuderada. Nel caso specifico, Arechi salvaguardò la validità del praeceptum offertionis di Gisulfo I, ignorato dai suoi successori con i praecepta di affrancamento dei servi. Accanto all’editto, a supporto della sua decisione, Arechi applicò anche alcuni canoni ecclesiastici, risalenti addirittura al IV secolo, emanati nel corso dei concili di Ancira e Nicea e in un sinodo romano tenuto da papa Silvestro (314-335), e altri non ben definiti canones Apostolorum. Il duca prese visione dei canoni e li interpretò, dopo aver consultato alcuni volumi di “diritto canonico”, che lo stesso abate Maurizio aveva portato con sé in giudizio53. I canoni in questione, non indicati in maniera specifica nel testo del giudicato, proibivano l’alienazione di beni della chiesa, pena la deposizione degli ecclesiastici ritenuti responsabili. Nel caso specifico, l’abate Zaccaria, predecessore di Maurizio, pur non alienando, ma affrancando i servi donati al cenobio, aveva pregiudicato l’integrità patrimoniale del monastero di San Benedetto. Si decise, quindi, a favore del monastero e i servi furono confermati nel loro stato, mentre gli atti di affrancamento dei medesimi, considerati illegittimi, furono revocati e i praecepta confirmationis distrutti. Pur di non pre53 Si badi che, nel testo del giudicato, l’indicazione dei canoni applicati è volutamente generica, né si conoscono le specifiche collezioni canoniche che l’abate Maurizio portò, con sé, nel giudizio. Probabilmente, doveva trattarsi della Collectio Dionysiana (VI secolo) o della Collectio Hispana (VII secolo) che, tuttavia, non contengono alcun canone riferibile all’affrancazione dei servi. A. PADOA-SCHIOPPA, Giustizia medievale italiana. Dal regnum ai comuni, Spoleto 2015, pp. 103-115. 18 Liutprando re dei longobardi Ordinamenti giudiziari nel ducato di Benevento giudicare i buoni rapporti con l’abate, il duca di Benevento emanò una sentenza fondata su motivazioni giuridiche alquanto contraddittorie e ingiuste, per consentire al cenobio di continuare a usufruire dell’opera dei servi che lavoravano sulle sue terre54. Invece, sembra proprio che i praecepta fossero formalmente validi ed efficaci, eppure Arechi, appellandosi vagamente alla normativa edittale e a non definibili canoni ecclesiastici, riuscì a revocare i provvedimenti, facendoli apparire illegittimi e pregiudizievoli dell’integrità del patrimonio del monastero, con una decisione che Padoa-Schioppa ha definito «ingiusta e fallace anche in termini di stretto diritto. Appare verosimile che il duca abbia voluto compiacere con la sua decisione l’abate di un importante monastero del suo ducato, in una fase nella quale intendeva rafforzare il proprio potere. E questo con l’aiuto di argomentazioni legali verosimilmente predisposte dallo stesso abate. Viene naturale osservare quanto diverso avrebbe potuto essere il dibattimento se anche gli uomini di Prata, già liberi da anni e ora nuovamente ridotti allo stato servile, avessero potuto disporre di un avvocato a loro difesa, in grado di controbattere le argomentazioni legali del combattivo abate Maurizio»55. Da un punto di vista squisitamente giuridico, la sentenza di Arechi fu un provvedimento ambiguo, perché emanata da un tribunale “laico” su una questione ecclesiastica, applicando norme di un ordinamento, quello canonico, formalmente distinto da quello ducale e, infine, una disposizione dell’editto longobardo – il capitolo 59 – di dubbia riferibilità alla fattispecie concreta56. Nella Longobardia meridionale, casi del genere non erano una novità, ma la prassi e, pertanto, non possono essere considerati “anomalie sistemiche”, com’è dimostrato anche da un altro giudicato, risalente al 76457. Nel marzo di quell’anno, infatti, in un Nella stessa sede, il duca si pronunciò su un’altra questione eccepita da uno dei servi del monastero presente in giudizio, Celestino, che aveva avuto da una donna di condizione libera alcuni figli, violando, così, le norme dell’editto che proibivano tali unioni. Ebbene, Arechi sentenziò che Celestino e la moglie continuassero a servire il cenobio di San Benedetto in xenodochio, mentre la prole che, secondo l’applicazione testuale dell’editto, avrebbe dovuto essere anch’essa serva, perché frutto dell’unione illecita di una libera e di un servo, fu risparmiata dall’applicazione della rigida normativa, per volontà discrezionale del dux longobardo, in applicazione di un principio di aequitas. L’editto, infatti, prevedeva la morte per il servo e la consegna della donna alla sua famiglia perché fosse adeguatamente punita; se la punizione non veniva inflitta entro l’anno, l’arimanna e i figli diventavano servi della curia. Sulle unioni illecite tra liberi e servi, ROTARI, cap. 221, in Le leggi, p. 69; LIUTPRANDO, cap. 24, in Le leggi, p. 154. 54 55 PADOA-SCHIOPPA, Giustizia, p. 103. 56 LIUTPRANDO, cap. 59, in Le Leggi, p. 170. INDELLI, Tecniche, pp. 71 sgg. Anche i predecessori di Arechi II giudicarono, più volte, casi giudiziari vertenti in materia di “diritto ecclesiastico”. Il duca Godescalco, nel 742, giudicò una lite tra l’abate di San Giovanni, Deusdedit, e alcuni servi del cenobio che rivendicavano, sulla base di alcuni atti di affrancazione, la loro libertà. 57 19 Strutture normative liturgiche e religiose Tommaso Indelli processo tenuto a Benevento e a palazzo, Arechi II giudicò, ancora una volta, una controversia avente a oggetto questioni ecclesiastiche. Il duca intervenne in una causa tra chierici che avrebbe dovuto essere demandata, di rigore, al tribunale ecclesiastico – ratione personae et materiae – e, precisamente, tra il vescovo di Benevento, Ermerisso, e l’abate del cenobio di Santa Maria in Luogosano58, Maurizio, rappresentato in giudizio dal rahilpors (consiliarius) Teoderico e dal preposito Teutperto. In tal caso, il duca non applicò l’editto, ma, in base a quanto dichiarato nella sentenza, si conformò a quanto previsto dalla consuetudo loci vigente nel Beneventano che consentiva a un monastero di possedere e gestire, in totale autonomia dalla diocesi e dal vescovo, una chiesa con annesso fonte battesimale. Nel caso specifico, si trattava della chiesa beneventana di San Felice, donata, qualche anno prima, al monastero di Santa Maria dal duca Liutprando e dalla madre Scauniperga. In tal caso, il duca giudicò in materia ecclesiastica, facendosi interprete dei sacri canoni e derogando addirittura alla disciplina da essi dettata contra instituta patrum, applicando la consuetudine del luogo (usus huius nostre provincie) con una decisione improntata alla massima discrezionalità59. Il duca diede ragione all’abate e i servi rimasero nella loro condizione originaria. Nel 746, invece, il duca Gisulfo II, sentenziò nella lite tra Teodoracio, abate del monastero di San Pietro, e il presbitero Benedetto, circa il possesso della chiesa di San Pietro in Quintodecimo (attuale Mirabella Eclano). Il duca decise nel merito secundum precepta canuni, applicando i canoni ecclesiastici, e diede ragione al prete. Per i giudicati si veda, Codice diplomatico longobardo, IV/2, n. 16, pp. 54-59; n. 28, pp. 97-101. Cenobio fondato, a Benevento, dal duca Romualdo I (671-687) e dalla moglie Teuderada. IADANZA, Istituzioni, pp. 405 sgg. 58 Sulla data del giudicato non vi è concordanza. Nel Chronicon Volturnense è datato all’839 e attribuito al principe di Benevento, Sicardo (832-839). Secondo Iadanza, dovrebbe datarsi al 764, cioè all’epoca del ducato arechiano. Anche Zielinski colloca il giudicato nel secolo VIII, attribuendolo ad Arechi II. Codice diplomatico longobardo, IV/2, n. 47, pp. 157-164; Chronicon Volturnense, III, Iudicatum, n. 61, pp. 297-302; IADANZA, Istituzioni, p. 403. 59 20 Liutprando re dei longobardi