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Tiranni, eroi e burocrati.
Costanti e varianti
nella rappresentazione letteraria
della scuola.
Marina Polacco
1. Sorvegliare o educare
In un testo scritto nel 1914 e pubblicato nel 1919 (non a caso a
cavallo della traumatica esperienza della Grande Guerra, prima prova
generale delle istituzioni di massa novecentesche), Giovanni Papini
invita in maniera provocatoria a smantellare il sistema scolastico
(Chiudiamo le scuole è infatti il titolo dell’intervento), sostenendone la
totale e irredimibile negatività. Anche se il testo è da leggere all’insegna
del gusto tipicamente avanguardista per la provocazione e rientra nella
condanna rivolta contro tutti i luoghi-simbolo della cultura del passato
(musei e biblioteche in primis), vi sono comunque dei punti che
meritano di essere considerati con molta attenzione:
Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti
uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese,
Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri,
Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni
irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto – contro la
morte – contro lo straniero – contro il disordine – contro la
solitudine – contro tutto ciò che impaurisce l’uomo abbandonato a
se stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come
bastioni e trincee alla sua tremebondaggine. Vi sono sinistri
magazzini di uomini cattivi – in città e in campagna e sulle rive
del mare – davanti a’ quali non si passa senza terrore. Lì sono
condannati al buio, alla fame, al suicidio, all’immobilità,
all’abbrutimento, alla pazzia, migliaia e milioni di uomini […] Ma
per costoro c’è almeno la ragione della difesa contro la possibilità
di ritorni offensivi verso qualcun di noialtri. Ma cosa hanno mai
fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovinetti e i giovanotti che dai sei
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/ November 2015)
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
fino ai dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni chiudete
tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro
corpo e magagnare il loro cervello? […] Non venite fuori colla
grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà,
l’educazione dello spirito, l’avanzamento del sapere… Noi
sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuori
dalle scuole, e che le scuole intristiscono gli animi invece di
sollevarli e che le scoperte della scienza non son nate
dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria
disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano
stati a scuola o non v’insegnavano. Sappiamo ugualmente e con la
stessa certezza che la scuola, essendo per sua necessità formale e
tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e
a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e
riforme intellettuali. […] Essa non è, per sua natura, una creazione,
un’opera spirituale ma un semplice organismo e strumento
pratico. Non inventa le conoscenze ma si vanta di trasmetterle. E
non adempie bene neppure a quest’ultimo ufficio – perché le
trasmette male o trasmettendole impedisce il più delle volte,
disseccando e storcendo i cervelli ricevitori, il formarsi di altre
conoscenze nuove e migliori. Le scuole, dunque, non sono altro
che reclusori per minorenni istituti per soddisfare a bisogni pratici
e prettamente borghesi.1
Con qualche decennio di anticipo rispetto alla enunciazione delle
celebri tesi foucaultiane (Sorvegliare e punire è del 1975) Papini inserisce
la scuola nel novero delle istituzioni totali («casamenti di grandi
superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi»),
create dalla società borghese per tenere sotto controllo ogni forma di
devianza (malattia, morte, delitto) e per difendersi dal nemico interno
(matti, criminali) o esterno (lo straniero). La motivazione progressista
(la necessità di educare le giovani generazioni, di coltivarne lo spirito,
di far progredire il sapere) non è che una mistificazione: la scuola
intristisce gli animi, non porta ad alcun avanzamento delle conoscenze,
pietrifica ogni reale curiosità, congela qualsiasi reale desiderio di
sapere in un’arida trasmissione di nozioni. È insomma, in tutto e per
tutto, un reclusorio per minorenni, creato con uno scopo biecamente
pratico: venire incontro ai bisogni di controllo della società borghese.
Per i genitori è in gioco in primo luogo la necessità di piazzare fuori
casa i figliuoli che danno noia, in secondo luogo l’esigenza di avere a
disposizione un percorso prestabilito per istradare gli stessi sulla via
della carriera e del lavoro; per lo stato, si tratta di avere a disposizione
persone mediocremente formate da impiegare negli uffici pubblici di
1
2
Papini 1992: 4.
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
ogni grado; per gli insegnanti, di usufruire di una professione comoda
(con tre mesi di vacanza all’anno – Papini è il primo a usare questo
argomento in funzione dispregiativa nei confronti della categoria), e
magari di poter sfogare le proprie frustrazioni vessando sadicamente i
malcapitati
studenti.
All’interno
dell’istituzione
scolastica
l’insegnamento non può che essere una sterile e meccanica
trasmissione di nozioni. La scuola pretende di insegnare quello che non
si può insegnare: «la pittura nelle accademie; il gusto nelle scuole di
lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia, la pedagogia nei corsi
normali, la musica nei conservatori» (ibid.: 6). Insegna male, perché
insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità,
senza tenere conto delle «infinite diversità d’ingegno, di razza, di
provenienza sociale, di età, di bisogni». Immobilizza lo spirito,
obbligato a «ripetere invece che a cercare, […] a imparare con metodi
imbecilli moltissime cose inutili» (ibid.), per arrivare all’«annegamento
sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero
degli uniformi programmi». Instupidisce non solo i ragazzi, ma anche i
maestri: «ripeti e ripeti anni dopo anni le medesime cose, diventano
assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio […].
Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuotati, seccati, angariati,
scoraggiati che muovon le loro membra ufficiali e governative soltanto
quando si tratta di aver qualche lira di più tutti i mesi!» ( ibid.).
Per quanto chiaramente mosso dal f u r o r demistificatorio e
distruttivo tipico dell’avanguardismo futurista, il testo di Papini
rappresenta una specie di controcanto ideale alla posizione apologetica
incarnata da Cuore (basti pensare alla rappresentazione degli scolari
come un piccolo e agguerrito esercito in marcia verso il progresso che il
padre propone a Enrico in uno dei suoi interventi 2) e ci permette di
mettere in luce l’esistenza di una duplice e contrapposta prospettiva di
giudizio che ha segnato fin dall’inizio la rappresentazione
dell’universo scolastico. Basta saggiare appena la ricca letteratura
dedicata alla scuola a partire dalla seconda metà dell’Ottocento per
accorgersi infatti che l’istituzione scolastica è fin dall’inizio oggetto di
sguardi e giudizi contrastanti. Al di sotto di queste opposte prospettive
di giudizio è latente una contraddizione che spesso rimane taciuta: la
2
«Pensa, la mattina quando esci, che in quello stesso momento, nella
tua stessa città, altri trentamila ragazzi vanno come te a chiudersi per tre ore
in una stanza a studiare. […] Se questo movimento cessasse, l’umanità ri cadrebbe nella barbarie, questo movimento è il progresso, la speranza, la glo ria del mondo. – Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito. I
tuoi libri son le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è
la terra intera, e la vittoria è la civiltà umana. Non essere un soldato codardo,
Enrico mio» (De Amicis 2012: 14).
3
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
scuola moderna in quanto istituzione si basa su una costrizione (è
obbligatoria, non è voluta per scelta), ma è una costrizione che
l’individuo è chiamato non solo a fare propria, ma anche a far
diventare oggetto di desiderio e rivendicazione di diritto; è
un’istituzione totale (uno spazio chiuso in cui individui diversi sono
costretti a una disciplina, cioè a convivere nel rispetto di regole, spazi e
orari ben determinati, sottoposti a un’autorità che ne determina e
controlla il comportamento) il cui compito però – a differenza di altre
istituzioni simili (caserme e carceri in primo luogo) – non si dichiara
repressivo e punitivo, ma al contrario si propone come momento
essenziale di crescita e di formazione. Detto in altri termini, la valenza
negativa di un carcere è auto-evidente e assodata; che anche la scuola
partecipi delle stesse caratteristiche e che dunque vada rifiutata in toto
o quanto meno ripensata in maniera radicale (e comunque eversiva) è
invece un’argomentazione sviluppata e acquisita esplicitamente solo in
ambito avanguardista-rivoluzionario, dai futuristi ai movimenti di
contestazione sessantottini; del resto non bisogna dimenticare che
proprio la scuola è uno dei campi d’azione privilegiati da qualsiasi
regime totalitario per garantirsi il controllo delle coscienze individuali
e per plasmare i cittadini della società ideale futura.
La rappresentazione della scuola nella letteratura è percorsa da
questa contraddizione: luogo di maturazione personale e sociale, ma
anche scenario di una guerra senza quartiere, di una lotta sordida tra
compagni, e tra alunni e professori; strumento di repressione e di
abbrutimento delle intelligenze (se non di ‘educazione’ delle masse
all’ideologia dominante) o opportunità di promozione e di riscatto;
prigione dalla quale professori e alunni vorrebbero disperatamente
evadere, o isola ‘edenica’ contrapposta alla negatività esterna, utopia di
una microsocietà alternativa, all’insegna di una diversa e più autentica
formalizzazione dei rapporti; istituzione da abbattere, perché emblema
del sistema di potere e di oppressione vincente, o estremo baluardo di
civiltà rispetto all’imperativo del desiderio nelle società del tardo
capitalismo. Nel corso del breve percorso che proporremo cercheremo
di illustrare, sia pure schematicamente, alcune delle possibili modalità
in cui queste due prospettive si realizzano testualmente, tra fughe
romanzesche, rappresentazioni mimetiche e apologhi epidittici.
2. Cattivi maestri e burattini in fuga
La letteratura scolastica italiana comincia con un peana e con una
fuga: da una parte Cuore, e l’esaltazione della funzione insostituibile
svolta dalla scuola nel neonato stato unitario, dall’altra Pinocchio, la cui
4
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
trama si svolge proprio nello spazio aperto dalla decisione di non
andare a scuola e di seguire invece l’incanto dei pifferi che invitano al
gioco e al divertimento. Le avventure del burattino iniziano nel
momento in cui egli si lascia incantare dal richiamo del teatro delle
marionette, invece di andare a scuola con la casacca e l’abbecedario
amorevolmente comprati da Geppetto: «E rimase lì perplesso. A ogni
modo, bisognava prendere una risoluzione: o a scuola, o a sentire i
pifferi. - Oggi andrò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a
scuola c’è sempre tempo» 3. Nel corso del romanzo, tutte le volte che
Pinocchio si pente delle sue malefatte e prova a diventare un bravo
bambino, viene subito rispedito a scuola, ma immancabilmente il
fascino dell’evasione, del divertimento, dell’azzardo lo riprendono e lo
riportano sulla cattiva strada. Fino all’episodio risolutivo del paese dei
balocchi, facile allegoria dei piaceri e dei pericoli della scelta anarchica
a discapito delle regole e dei vincoli del vivere civile: scegliere il paese
dei balocchi significa scegliere – in ultima analisi – l’autodistruzione,
perché dietro l’utopia del piacere fine a stesso c’è lo spettro della
disumanizzazione (la trasformazione in somaro) e della morte.
Portavoce e incarnazione del principio di piacere è Lucignolo, doppio
di Pinocchio che però ha messo da parte le oscillazioni e i ripensamenti
del burattino, e dichiara senza mezzi termini che la bellezza del Paese
dei balocchi consiste in primo luogo nell’assenza di scuole, libri,
maestri. Il Paese dei balocchi è il paese più salubre che esista, perché
non si studia mai:
Dove vuoi trovare un paese più salubre per noialtri ragazzi? Lì
non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In
quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola:
e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica.
Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo
gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come
piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi
civili!
- Ma come si passano le giornate nel Paese dei Balocchi?
- Si passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera.
[…]
- Ma dunque tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci
sono punte scuole?...
- Neanche l’ombra.
- E nemmeno maestri?
- Nemmeno uno.
- E non c’è mai l’obbligo di studiare?
3
Collodi 2006: 30.
5
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
- Mai, mai, mai! (ibid.: 170).
La scuola è il mondo del dover essere, scelta faticosa e contro
natura che può essere frutto solo di un imperativo della coscienza e del
sopravvenire del principio di dovere. È una costrizione che deve essere
scelta liberamente, ma pur sempre una costrizione: perché i ragazzi che
non vanno a scuola, come ammonisce il grillo parlante, prima o poi
finiscono male, in galera e al cimitero. Lo spazio dell’avventura si apre
sempre a partire dal rifiuto di questa costrizione: i piccoli protagonisti
delle avventure d’ogni tempo (da Pippi Calzelunghe a Kamo, da Gian
Burrasca a Tom Sawyer, dalla giovane protagonista del Gatto dagli
occhiali d’oro alla compagnia di amici di Stand by me) fuggono da una
dimensione scolastica a volte solo ottusamente costrittiva (si pensi alla
scena esilarante in cui Pippi decide di andare a scuola e si trova alle
prese con astrusi e inutili problemi di matematica e con altrettanto
astruse e incomprensibili lettere dell’alfabeto, ai quali oppone sorniona
la sua voglia di libertà al di fuori di ogni rigido formalismo – chiede
notizia dei personaggi dei problemi come se fossero persone reali, esce
dai limiti del foglio e comincia a disegnare sul pavimento il suo cavallo
in scala reale, così come esce dai confine della spiegazione standard
della maestra, pur ‘brava e paziente’, per chiedere tutt’altro, seguendo
l’estro bizzarro della fantasia e della curiosità), a volte ferocemente
discriminante (perché costringe il giovane Chris sotto il marchio
infamante del padre ubriacone e del fratello teppista, senza arrivare a
sospettarne neanche lontanamente la lealtà, il coraggio, la voglia di
apprendere; o schiaccia la piccola Leila nello stereotipo della ragazzina
cicciona e disagiata, proveniente dalla scuola peggiore del circondario e
dunque naturalmente incapace di apprendere e stare alle regole). Quasi
sempre si tratta di una evasione a tempo determinato: tutti sanno fin
troppo bene che la vita vera dovrà per forza passare attraverso la
rinuncia al tempo dell’avventura e il rientro nell’ordine scolastico,
proprio come Pinocchio, sopravvissuto all’euforia mortale del paese
dei balocchi, intraprende il suo conclusivo – e questa volta definitivo –
percorso di redenzione. Ma tutti sanno anche che la vera bellezza è
altrove, nella fuga dalla scuola e da tutto ciò che essa incarna: il
racconto esalta e mitizza questa dimensione sacrificata nel momento
stesso in cui ribadisce la necessità del sacrificio.
Al di fuori di questa dialettica estremamente efficace, che
permette di proporre il fascino dell’avventura e della violazione delle
regole all’interno di una cornice rassicurante che quasi sempre si
chiude con un ritorno (più o meno felice) all’ordine, senza mettere di
fatto in discussione la gerarchia dei valori (Chris riuscirà a proseguire
6
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
gli studi e a laurearsi in legge, Il gatto dagli occhiali d’oro si conclude con
il trionfo scolastico di Leila), rimangono quei testi più inquietanti, in
cui la violenza fisiologica e la conflittualità insita strutturalmente nel
sistema scolastico non sono elusi ma divengono essi stessi oggetto di
racconto: il romance euforico dell’avventura implode come romance
disforico dell’orrore. Bambinate di Stephen King racconta il duello
mortale tra la signorina Sidley (attempata zitella che ha dedicato tutta
la sua vita alla scuola e gode della fama di insegnante modello) e
Robert, un alunno refrattario ai suoi tentativi di controllo e di
disciplinamento (mostruosa creatura che si è impadronita del vero
Robert, o banale ragazzino irriverente che un’immaginazione sempre
più turbata e patologica le dipinge come tale?), che si conclude con un
massacro: la donna uccide Robert e subito dopo altri dodici compagni
di classe nel tentativo di difendersi dalle misteriose creature diaboliche
che stanno infestando la terra, prima di uccidersi lei stessa durante un
programma psichiatrico di recupero per alienati mentali. E sempre con
un massacro si apre Il sopravvissuto (2005) di Antonio Scurati:
nell’atmosfera immobile e afosa di un borgo esistente solo come scalo
merci nella bassa Padana, Vitaliano Caccia, alunno ripetente ammesso
per il rotto della cuffia all’esame di maturità, si presenta davanti alla
commissione solo per uccidere con calma ferocia i suoi professori, in
una scena dagli effetti volutamente splatter, proposta al rallentatore
senza risparmiare al lettore organi maciullati e sangue sprizzante
ovunque. Si tratta di una esplosione – simbolica e reale – di violenza
che denuncia il costo e il rischio di un sacrificio che può anche non
funzionare e trasformarsi in un incubo perturbante: il rifiuto della
costrizione implicita nell’istituzione scolastica non prende la strada
della fuga e dell’avventura, bensì della furia distruttiva e omicida.
L’unico antidoto per non concludere il nostro percorso su una simile
devastazione è l’umorismo di un grande maestro e narratore, Gianni
Rodari, che elude la potenziale violenza grazie alla consueta
trasfigurazione umoristica. In uno dei testi raccolti in Novelle fatte a
macchine (1973), Il professor Terribilis e la morte di Giulio Cesare, il
professor Terribilis entra in classe più alto del solito, come gli succede
sempre in occasioni del genere, e comincia a interrogare senza pietà le
malcapitate vittime per far confessare loro tutti i dettagli sull’uccisione
di Giulio Cesare. Gli studenti tremano di fronte al professore aguzzino
che giganteggia (in senso metaforico e reale) su di loro; l’aula si
trasforma in un’aula giudiziaria o, ancora peggio, in una stanza della
tortura (con tanto di genitori presi in ostaggio e secchiate d’acqua
gelida e salata in faccia), l’interrogazione in un rito sadico e gratuito.
Ma quando la classe compatta si attesta sulla versione delle
ventiquattro pugnalate scatenando nel professore la tempesta del
7
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
dubbio, ecco che lo studente dal cuore d’oro propone un viaggio nel
tempo per andare a constatare la verità di persona, aprendo così la
strada al percorso comico-fantastico, tra senatori romani e turisti
giapponesi in visita nell’antica Roma, archiviando con surreale
leggerezza lo scontro iniziale.
3. Nella fossa dei leoni
Quando il racconto non prende la via della dissimulazione o della
fuga romanzesca, la rappresentazione realistica offre uno spaccato
impietoso della vita scolastica: una guerra senza quartiere, che vede
tutti contro tutti, senza soluzione di continuità nel corso dei decenni,
da De Amicis e Starnone. La ricorrenza degli stessi topoi è quasi
impressionante (lo stesso Starnone citando alcuni testi di fine Ottocento
lo sottolinea con amaro stupore). Se nell’ottica didascalica e militante di
Cuore De Amicis può esaltare la funzione e il ruolo degli insegnanti
invitando il giovane Enrico a venerare e ad amare i suoi maestri («Ama
il tuo maestro, perché appartiene a quella grande famiglia di
cinquantamila insegnanti elementari, sparsi per tutta Italia, i quali sono
come i padri intellettuali dei milioni di ragazzi che crescono con te; i
lavoratori mal riconosciuti e mal ricompensati, che preparano al nostro
paese un popolo migliore del presente» 4), ben diversa è la galleria di
ritratti che si dipana lungo il corso dell’apprendistato del maestro Ratti
n e l Romanzo di un maestro e nelle novelle minori. Basta del resto
scorrere una bellissima novella di Matilde Serao, Scuola Normale
Femminile, per trovare già perfettamente delineati alcuni dei tipi
destinati a lunga fortuna: il professore che gode nell’incutere timore
alle sue allieve («Il prete salì sulla cattedra: era piccolotto e grasso, con
una faccia rotonda e liscia di antico romano gaudente, con un par di
occhi bianchi ferocissimi, che non fissavano nessuno e facevano terrore.
La mano era bianca, pienotta, con le unghie rosee, come quelle di una
donna: vestiva di corto, molto accurato. Si fermò a rovistare tra le sue
carte: a leggere nel registro, sentendo e assaporando lo spavento che
incuteva in quei poveri sorci, con cui felinamente si divertiva a
giuocare»5) e pretende la lezione a memoria, facendo appello ai
programmi, cioè a una insindacabile e misteriosa autorità superiore,
per coprire ignoranza e disinteresse:
Perché non sono un pappagallo, io, da imparare tutto un brano
del Passavanti a memoria.
4
5
8
De Amicis 2012: 280.
Serao 1985: 155.
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
Così vogliono i programmi.
Quello che ha fatto i programmi era dunque un pappagallo. E
poi scusi, professore, io non so chi sia questo signor Passavanti e
in che epoca sia vissuto e che abbia scritto. Se mi favorisce queste
spiegazioni, io imparerò il brano (ibid.: 156);
il professore dalla «intelligenza più versatile che profonda» (ibid.:
158) che si ritiene sprecato a insegnare e disprezza il suo incarico
ritenendosi adatto e ben più alti compiti; il professore che si lascia
sopraffare dalla classe perché non è in grado di mantenere la disciplina.
Senza parlare degli odi, delle rivalità, della strenua guerra per bande
che serpeggia nella classe, tra alunne disciplinate e studiose e alunne
irriverenti, tra signorine e popolane, cittadine e campagnole, civette e
timorate. Da parte loro, visti ex cathedra, gli alunni sono una banda di
canaglie che non aspettano altro che l’occasione per umiliare e
martirizzare gli insegnanti:
L’Ex granatiere lo guardò con gli occhi tanto larghi. E poi gli
domandò, con aria di sincero stupore: - I ragazzi?... Ma son la più
iniqua genia che il Padre Eterno abbia messo al mondo. Come?... E
tu avresti un’altra idea? […] Bugiardi tutti, intanto, come galli, e
doppi… Ma che doppi! In ogni ragazzo c’è una nidiata di
malfattori. […] Delle birbe alte quattro palmi che mi scrissero delle
lettere anonime piene d’infamie! Di quelli che mi contraffacevano
gli attestati di lode, che pareva si fossero esercitati dieci anni a
fabbricare biglietti falsi! Ce n’ho avuto uno che s’è divertito un
anno a rifare il movimento che faccio io, così, con la spalla destra,
e sotto i miei occhi, cento volte al giorno, senza ridere mai una
volta, per non darmi il pretesto di sbatterlo fuori. 6
Se sono di estrazione umile riproducono la violenza e la miseria
dell’ambiente di appartenenza, se provengono dalla piccola e media
borghesia sono già presi da vane civetterie o fiere di vanità (prestigio
sociale, sogni di gloria e di ricchezza, alterigia di classe) e si sentono
superiori agli insegnanti stessi, contestandone l’autorità. Alle spalle dei
ragazzi, le famiglie incombono con pari malevolenza, a volte solo
vagamente dissimulata, a volte dichiarata esplicitamente (del resto già
n e l Romanzo di un maestro De Amicis sottolinea il contrasto tra
l’esaltazione retorica del ruolo affidato agli insegnanti e il disprezzo
sociale di cui è oggetto la categoria). Lungi dal sostenere l’operato
educativo della scuola, i genitori sono sempre pronti a intervenire
criticando un compito di troppo, una punizione troppo severa, una
6
De Amicis 2007: 369.
9
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
richiesta a loro parere eccessiva di materiale didattico – entrando
spesso nel merito delle scelte pedagogiche compiute dall’insegnante,
pur senza avere alcuna competenza per farlo. Sul versante opposto le
cose non vanno certo meglio: superiori ottusi e incompetenti, direttori
tirannici che terrorizzano i loro insegnanti, ispettori che piombano
improvvisamente dall’alto a controllare e giudicare realtà a loro ignote,
colleghi in perenne rivalità per accaparrarsi favori o privilegi
inconsistenti, mansioni burocratiche di bizantina inutilità (il rogo di
registri, verbali, piani di lavoro malamente compilati, o per contro
l’ossessiva diligenza compilatoria sono altri due topoi di grande
fortuna). Stretti, neanche tanto metaforicamente, tra l’incudine della
guerra in classe e il martello delle vessazioni che provengono dall’alto,
i professori si trovano a lavorare come se fossero perennemente nella
fossa dei leoni:
Che ti devo dire. Io vado avanti a tranquillanti. Mi sono già
sgocciolata mezza boccetta. Mi sembra di entrare al Colosseo con i
leoni. Mi sembra di morire ogni giorni. Lo sai che gli insegnanti
sono i più soggetti a crisi di panico, a depressioni, a rischio di
quella cosa lì, come la chiamano? Ah, sì, burn-out, se non mi
sbaglio. Si bruciano come i fiammiferi e non si riaccendono più.
Perdono convinzione e incamerano paura.7
Ancora non si chiamava burn-out, ma la situazione rappresentata in
una novella di Massimo Bontempelli (raccolta nel volume Socrate
moderno, 1908), «Equus asinus», è identica. Il professor Gabba, dopo
anni di dignitoso insegnamento, subisce un affronto che lo distrugge: il
preside rimanda indietro un alunno che egli avrebbe voluto allontanare
dalla classe, con una frase ingiuriosa nei suoi confronti («Va’ a dire a
quell’asino del tuo professore che ti riaccetti in iscuola», ibid.: 73). Da
quel momento in poi stare in classe diventa per lui un supplizio, in un
parossistico e crescente delirio di persecuzione: vede ovunque risate di
scherno, insulti, commenti malevoli, fino alla derisione conclusiva (un
graffito enorme sulla parete dietro la lavagna che lo raffigura in mezzo
agli allievi con una enorme testa d’asino) che lo spinge a una scenata
isterica nei confronti del direttore, portandolo all’esaurimento nervoso,
all’abbandono della scuola e infine alla morte. Non a caso il titolo della
raccolta, nella quale compaiono anche altre novelle di ambientazione
scolastica è ‘Socrate moderno’: quali sembianze può assumere Socrate
(il maestro per eccellenza, colui che meglio di chiunque altro è stato in
grado di suscitare nei suoi discepoli il desiderio di sapere) nella società
7
10
Lodoli 2013: 88.
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
moderna? E, soprattutto, si può mai immaginare una vaga parentela tra
la veneranda figura del maestro filosofo e le misere figurine di
insegnanti reali che dovrebbero rappresentarne la reincarnazione
moderna? Poveri, troppo umani professori, stretti tra l’obbligo di
tenere fede a un ruolo – per lo meno sulla carta – di grande delicatezza
e la meschinità ordinaria delle loro vite assolutamente normali:
Quelli che di questi tempi, con gli scrutini, non fanno che
interrogare e interrogare. Quelli che tanto non serve a niente.
Quelli che lo sciopero è solo una perdita di tempo. Quelli che chi
sciopera crea disagio solo ai colleghi. Quelli che fate come volete
basta che non mi fate tornare di pomeriggio un’altra volta. Quelli
che per quello che ci dànno. Quelli che io, con questi studenti qua,
posso concedere al massimo un cinque. Quelli che io dà tutti sei,
mica voglio tornare a fare il recupero. Quelli che ma questi sono
bestie, cosa gli vuoi dare? Quelli che la scuola sarebbe così bella se
solo non ci fossero i ragazzi. […] Quelli che, con questi giovani,
che si presentano col cappellino in testa, e il chewing-gum in
bocca. Quelli che io fra dieci giorni sarò in settimana bianca. Quelli
che a me mi mancano solo due anni per la pensione. Quelli che a
me ne mancavano tre ma mi hanno fregato. Quelli che lasciano la
macchina alla stazione, sennò lo stipendio se ne va via per la
benzina. Quelli che io sono un professore serio, i miei voti vanno
dal due al cinque. Quelli che ma com’è che le colleghe so’
diventate tutte racchie? Quelli che in questa cazzo di scuola non
c’è manco una saponetta.8
4. «Un regno di libertà e felicità»
Ma in quasi tutti i testi, o per lo meno in molti dei testi che
abbiamo velocemente attraversato, c’è sempre un «ma». Nonostante
tutto, nonostante la negatività apparentemente paralizzante delle
condizioni oggettive, la necessità e la bellezza della scuola vengono
comunque ribadite. A volte questo «ma» non cambia la modalità
narrativa del testo, come nel caso del racconto lungo della Serao, Scuola
Normale Superiore, vero e proprio archetipo di tanta letteratura
scolastica successiva. Tra i vari professori che sfilano nelle pagine del
racconto troviamo anche, quasi alla fine, l’anziano professore «tutto
contorto dall’artrite, tutto ravvolto nelle sue lane», che tuttavia
conserva ancora la mente lucida e la voglia indefessa di insegnare,
cosicché, proprio quando nessuno se lo aspetta, il miracolo della
lezione perfetta si compie ancora una volta, illuminando l’aula fino a
8
Onofri 2000: 50.
11
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
pochi minuti prima grigia e spenta: «da quella testa i cui occhi non
vedevano più, da quella mano disfatta, contraffatta, da quel cervello
tanto lucido che nulla poteva vincere, uscì per mezz’ora una
dimostrazione precisa, insistente, continua, sempre più complicante ed
esplicante le formole e le sottoformole del teorema» 9.
Più spesso il ‘ma’ introduce una torsione retorica al testo: dalla
rappresentazione si passa allora all’enfasi parenetica, alla messa in
scena di una convinzione (o di una esortazione) che il lettore è
chiamato a fare propria e condividere. Così il maestro Ratti,
protagonista del Romanzo di un maestro di De Amicis, alla fine del suo
lungo e difficile apprendistato, nonostante tutti gli ostacoli a cui è
andato incontro (incomprensioni con gli studenti e con le famiglie,
meschinità delle istituzioni locali, miserie, rivalità con i colleghi,
difficoltà economiche, peregrinazioni assurde, vessazioni da parte di
direttori e superiori), può comunque riaffermare il suo amore per la
scuola e la sua intenzione di dedicarsi anima e corpo alla missione di
insegnare («Sì, egli apparteneva ad un esercito, e poteva andar altero
d’appartenervi. Quest’esercito aveva dei difetti, ma erano i difetti del
suo paese; era mal armato e mal nutrito, ma ciò tornava più a sua
gloria che a sua vergogna; e c’eran nelle sue file dei soldati inetti e
pusillanimi, come in tutti gli eserciti; ma, nel nome di Dio, c’era anche
una legione d’eroine e d’eroi, davanti ai quali qualunque più nobile
fronte si sarebbe potuta scoprire» 10). Alla fine degli anni Novanta, quasi
a un secolo di distanza, Domenico Starnone dopo aver descritto a
lungo la routine scolastica, si abbandona al sogno di una scuola diversa
– senza banchi, senza cattedra, senza orari rigidi, senza norme
disciplinari anacronistiche – che riesca a fornire ai ragazzi «gli
strumenti per stare al mondo con felice consapevolezza» 11; venuto
meno anche qulla speranza di rinnovamento radicale, vent’anni dopo
Marco Lodoli può comunque ribadire («ma»: «nonostante tutto») la
funzione che la scuola può e deve ancora assolvere. Per quanto
dissimulato nella galleria di ritratti e di aneddoti spesso malinconici, il
messaggio è esplicito, basta scorrere i titoli dei pezzi raccolti in Vento
forte tra i banchi: «Non alziamo bandiera bianca», «Non chiudiamo le
porte al pensiero», «Recuperiamo il pensiero», «Ricominciamo a far
pensare». Lodoli si rivolge ancora a una comunità (per quanto non sia
più l’esercito deamicisiano), invitando esplicitamente gli insegnanti a
prendere posizione, a scrollarsi di dosso lamenti, recriminazioni e
nostalgie e agire:
9
Serao 1985: 170.
De Amicis 2007: 394.
11
Starnone 1998: 161.
10
12
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
La cultura è il tentativo di dare una forma e un ordine al caos.
Per questo studiamo le tabelline e la sintassi, Aristotele e il
sonetto, Dante e Kant e la storia e la chimica e la biologia […] E la
scuola questo deve riprendere a fare, contro la cultura del
desiderio che vive di smanie istantanee, puntiformi e distruttive,
contro chi agita nei ragazzi solo l’emotività, come se la vita fosse
solo sballo, divertimento, notti da inghiottire e giorni da dormire e
corri dove ti porta il cuore. Tutta la pubblicità si muove nella
direzione dei sentimenti più fasulli e ridicoli: la scuola deve
andare nella direzione opposta, verso la ratio e il logos e l’arte dei
nessi e delle consonanze. […] Gli insegnanti devono essere
intellettuali del nostro tempo, non tristi pappagalli spennacchiati
che ripetono la stessa lezione da trent’anni. Insomma, la scuola
deve tornare a essere un luogo dove pulsano l’intelligenza e la
curiosità, non può ridursi a un ospizio di nonni malinconici che
provano invano a tenere a bada torme di nipotini urlanti. 12
Più frequentemente la torsione retorica, in assenza di un orizzonte
politico condivisibile (per quanto minimale), rimane confinata entro i
limiti dell’esperienza individuale, dell’eccezionalità eroica che sfocia –
nuovamente, ma in direzione opposta – nel romance. Lo schema
perfetto ci è offerto da Giovanni Mosca, nel suo Ricordi di scuola (1939).
La quinta C è la mitica classe ingovernabile, che nessun professore è
mai riuscito a domare; fino al momento in cui arriva il supplente fresco
di nomina, e viene immediatamente spedito nella fossa dei leoni. Ma
ecco che avviene il miracolo: grazie a una inezia (la sua abilità nel tirare
con la fionda e abbattere una mosca in volo) il maestro riesce a stupire i
suoi alunni con qualcosa di assolutamente inaspettato, conquistando
così il rispetto e la fiducia della quinta C. Poco più di un aneddoto
divertente, certo, ma la dinamica è comunque significativa: la capacità
di tenere la classe è sempre frutto di una scommessa e di un azzardo,
non ci sono ricette prefabbricate, ma solo il ‘qui e ora’ di una
performance perfetta, che richiede impegno e dedizione totale. Anche in
assenza di un orizzonte politico di riferimento, il singolo insegnante
può diventare il protagonista di un’avventura eccezionale,
trasformando la routine di un mestiere inappagante nel dispiegarsi di
un miracolo. Non si tratta solo di uno schema narrativo: che lo dichiari
o meno, quale insegnante non avrebbe voluto identificarsi con Robin
Williams nella scena finale dell’Attimo fuggente o con la professoressa
Littizzetto nell’episodio conclusivo della serie televisiva Fuori classe?
Come raccontano tra gli ultimi Daniel Pennac nel Diario di scuola
(Chagrin d’école, 2007) ed Eraldo Affinati nel suo Elogio del ripetente
12
Lodoli 2013: 75.
13
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
(2013), un insegnante può distruggerti una volta per sempre, ma può
anche salvarti la vita. Tutto si gioca in una specie di testa a testa
solitario, un duello all’ultimo sangue il cui fine però è esattamente il
contrario dell’annichilimento, perché la posta è in gioco è la
trasformazione delle «derelitte aule» in un «regno di libertà e di
felicità»:
E se dichiarassi adesso, qui, la mia lotta furiosa contro i vostri
padri, la scalata che da anni conduco sui vostri pensieri per
estirpare l’osceno vessillo posto in cima dai vostri papà e dalle
vostre mamme, per piantarne un altro che non sia di nuova
conquista ma di ritrovata indipendenza, la mia figura verrebbe
davvero ridimensionata? Se affermassi che mi sento infinitamente
superiore ai vostri genitori, peccherei forse di presunzione? A tal
punto di ossessione sono giunto, che considero le nostre derelitte
aule come un regno di libertà e di felicità, gli unici luoghi in cui
riuscite a essere liberi, e bellissimi. 13
5. Non conclude
All’inizio della sua fortunatissima riflessione sulla realtà scolastica
(L’ora di lezione, 2014) Massimo Recalcati afferma che la scuola del
nostro tempo non può essere più annoverata tra le istituzioni totali
perché ha perso completamente prestigio simbolico e autorevolezza: lo
stesso processo di ‘evaporazione’ che ha minato l’autorità della figura
paterna ha investito anche la scuola, all’interno del dominio
incontrastato del ‘discorso del capitalista’, il cui unico imperativo è
quello che tende al godimento immediato ed effimero. Alla scuolaEdipo (caratterizzata dall’esasperazione dell’autorità paterna e caduta
sotto i colpi della contestazione ) è seguita la scuola-Narciso, che
annulla la distanza tra genitori e figli, «seguendo l’illusione di un
sapere illimitato e disponibile senza fatica» (Recalcati 2014: 68). A
questa scuola-Narciso bisognerebbe riuscire a contrapporre una scuolaTelemaco, capace di resistere e di insegnare a resistere «all’indisciplina
dell’iperedonismo acefalo che governa la nostra società» (ibid.: 91): «La
resistenza della Scuola consiste oggi nel sostenere il valore traumatico
della Legge della parola in un tempo dove il solo obbligo che sembra
esistere è quello del godimento fine a se stesso, del godimento come
unica forma possibile della Legge» (ibid.). Tuttavia proseguendo nelle
sue argomentazioni l’autore torna a delineare l’opposizione tra due
modalità distinte di concepire l’insegnamento, presentandole
13
14
Onofri 2000: 21.
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
sostanzialmente come metastoriche, una «divisione costituente della
scuola» (del resto proprio Recalcati, nell’introduzione al volume da lui
curato Forme contemporanee del totalitarismo, parla di un «totalitarismo
postideologico», che si realizza di fatto nell’imperativo del desiderio):
da una parte la concezione dell’insegnamento come un travaso
meccanico di nozioni dagli insegnanti agli alunni (che poi questo
travaso sia descritto come un caricamento di files, poco importa, non
cambia la sostanza); dall’altra come gesto socratico, capace di
trasformare gli oggetti del sapere in oggetti del desiderio, in corpi
erotici:
Da una parte è il luogo di un’apertura, dall’altra di una
chiusura del sapere; da una parte genera la meraviglia della
nascita di mondi sconosciuti, dall’altra li sigilla in nozioni che
suscitano solo noia. Da una parte propone la bellezza della radura
che si apre attraverso l’incontro con i corpi erotici del sapere,
dall’altra impone il tedio della burocrazia e di un trantran
mortificante. Da una parte insomma, la tyche e le pulsioni di vita,
dall’altra l’automaton e le pulsioni di morte. […] La scuola vive di
questa divisione permanente senza possibilità di superarla, perché
il suo superamento la renderebbe un’officina autoritaria di
fabbricazione delle menti o il luogo caotico e dispersivo di una
libertà senza limiti e fatalmente inconcludente. In questa divisione
si rivela il compito difficile che attende gli insegnanti: com’è
possibile, nel tempo della ripetizione uniforme e routinaria
imposta dal dispositivo scolastico, non farsi stordire dalla noia,
non lasciarsi consumare da questo stesso dispositivo sapendo
risvegliarsi ogni volta alla bellezza del proprio lavoro? Insomma,
come può un dispositivo di potere non disgiungersi dall’erotica
dell’insegnamento? Senza dispositivo la Scuola non esisterebbe,
sarebbe vuota, ma senza erotica dell’insegnamento la sua esistenza
sarebbe cieca.14
La continuità evidente nella letteratura di ambientazione
scolastica conferma la necessità di fare i conti con questa
contraddizione. A dispetto di ogni laudatio temporis acti, ripercorrere
questo filone narrativo ci mostra che fin dall’inizio i protagonisti della
vita scolastica si sono interrogati sul loro lavoro e hanno sperimentato
la difficoltà di conciliare sperimentazione individuale, investimento
emotivo e controllo burocratico e autoritario; che non è mai esistita
un’età dell’oro in cui l’insegnante era stimato e rispettato dai suoi
alunni, non aveva bisogno di mantenere la disciplina, lavorava nel
14
Recalcati 2014: 94.
15
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
silenzio assoluto, godeva di un trattamento economico adeguato
all’importanza della sua funzione, era appoggiato incondizionatamente
dalle famiglie. Certo, esistono anche delle differenze evidenti, a
cominciare dalla fascia più frequentemente rappresentata: mentre nella
letteratura di fine ottocento il campo d’azione privilegiato è la scuola
elementare (i licei e gli istituti tecnici presentando altre dinamiche, e
comunque rimanendo al di fuori del carattere dirimente
dell’obbligatorietà e dell’apertura di massa), in ambito contemporaneo
l’interesse si sposta decisamente verso la scuola superiore (che
ripropone, oggi, quelle stesse dinamiche di scelta/costrizione – così
come, parallelamente, molti degli stereotipi abbinati alla figura del
maestro passano senza soluzione di continuità a quella del professore).
Altrettanto evidente è lo spostamento di focus nel conflitto tra studenti
e professori/maestri: nella scuola dei racconti ottocenteschi la
questione non riguarda mai il significato o la validità delle singole
discipline, anche perché si tratta quasi sempre di scuola elementare e
dunque c’è poco da scegliere: bisogna in primo luogo imparare a
leggere, scrivere, capire un testo, fare di conto, e nessuno si sognerebbe
di mettere in discussione la necessità di simili rudimenti. Di
conseguenza, il misconoscimento della funzione docente e il suo rifiuto
da parte degli alunni riottosi non passa mai attraverso la confutazione
della disciplina insegnata. Al contrario, lo slittamento sulla fascia
superiore porta in primo piano la questione della legittimazione dei
contenuti: a che serve studiare il latino, la poesia, la storia dell’arte, la
filosofia antica, la chimica, e così via? Che rapporto c’è tra
l’insegnamento di queste discipline e la richiesta effettiva della società
riguardo alla formazione professionale dei giovani?
Tuttavia il dato di fondo rimane la continuità di una
rappresentazione che si colloca all’insegna della contraddizione: tra
scelta e imposizione, tra principio costrittivo e dialogo educativo, tra
riconoscimento formale e misconoscimento economico, tra pathos e
routine, tra vocazione e apprendistato. La persistenza così pervicace
degli stessi topoi nel corso di quasi duecento anni di storia letteraria
forse ci dice qualcosa che non dovremmo sottovalutare. Sono cambiate
tante cose, dai grembiuli ai jeans strappati, dai gessetti alla lavagna
multimediale, ma il nocciolo della pratica didattica è rimasto lo stesso,
l’insegnamento non è stato ancora capovolto (nessuna flipped classroom,
a dispetto dei sostenitori di simili teorie), forse perché, semplicemente,
non è possibile farlo all’interno di questo sistema e di questa
istituzione. Su questa linea la letteratura ci dice qualcosa che non
dovremmo ignorare. Certo, in primo piano deve rimanere la battaglia
concreta da combattere giorno per giorno per cercare di far funzionare
nel migliore dei modi possibili l’istituzione esistente, o per trasformala
16
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
nella direzione che noi riteniamo migliore (perché ci sono idee molto
diverse su quella che dovrebbe essere la scuola ideale). Ma questa
battaglia non si può affrontare senza avere coscienza delle
contraddizioni soggiacenti: la scuola in quanto istituzione ha il suo lato
oscuro e irredimibile, e dunque va considerata sempre con la giusta
dose di sospetto, senza ostinarsi a vedere solo rose e fiori dove ci sono
anche pozzi e pendoli. Si regge su un insieme di pratiche prestabilite
che devono valere per tutti allo stesso modo, ma anche sulla capacità,
sull’impegno, o per contro sulla noncuranza e sul disinteresse di ogni
singolo individuo che vi partecipa. È davvero una palestra di libertà
(una comunità interpretativa, una scuola per la vita – come da sempre
afferma Romano Luperini15), ma anche una eccellente cinghia di
trasmissione per le ideologie dominanti, un perfetto dispositivo di
controllo, una fabbrica di consenso: insegnare significa sempre
barcamenarsi sull’orlo dell’abisso, tra esercizio di libertà e pratica di
asservimento.
15
Solo per rimanere agli interventi più recenti: Luperini 2013.
17
Marina Polacco, Tiranni, eroi e burocrati.
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Pennac, Daniel, Chagrin d’école (2007), trad. it. Diario di scuola, Milano,
Feltrinelli, 2013.
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Santoni Rogiu, Antonio - Santamaita, Saverio, Il professore nella scuola
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Scurati, Antonio, Il sopravvissuto, Milano, Bompiani, 2005.
Serao, Matilde, Scuola Normale femminile, in Il romanzo della fanciulla
(1885), Ed. Francesco Bruni, Liguori, Napoli, 1985.
Starnone, Domenico, Solo se interrogato, Milano, Feltrinelli, 1998.
L’autrice
Marina Polacco
Email: marina.polacco@virgilio.it
18
Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015)
L’articolo
Data invio: 15/05/2015
Data accettazione: 30/09/2015
Data pubblicazione: 30/11/2015
Come citare questo articolo
Cognome, Nome, “Titolo articolo”, L'immaginario politico. Impegno,
resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi,
G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/
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