DIRITTO PENALE ECONOMICO
EUROPEO ED INTERNAZIONALE:
RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE
E NORMATIVA.
2014/3
In evidenza in questo numero:
Il principio del ne bis in idem e la “materia penale”
Prof. Stefano Manacorda
Straordinario di Diritto penale
Seconda Università degli Studi di Napoli
stefano.manacorda@unina2.it
Hanno collaborato a questo numero:
dott. Marco Colacurci
dott. Donato Vozza
dott. Costantino Grasso
Il diritto penale economico europeo ed internazionale.
Rassegna di diritto e giurisprudenza.
2014/3
INDICE
IL PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM E LA “MATERIA PENALE”
1. Applicazione interna della sentenza CEDU Grande
Stevens: per il Consiglio di Stato i procedimenti davanti
alla Consob sono “procedimenti sanzionatori lato sensu
penali” (Consiglio di Stato, ordinanze del 02/10/2014, n.
07567/2014 e n. 07567/2014 reg. ric.).
p. 3
2. L’art. 11 c.p. sul rinnovamento del giudizio tra
applicazione e non applicazione: l’accordo internazionale
quale linea di demarcazione dei confini (Cass. pen., sez. I,
sent. n. 29664, ud. 12/06/2014, dep. 08/07/2014).
p. 4
3. A margine del caso Parmalat la Cassazione, incidenter
tantum, interviene in materia di difetto di giurisdizione e
rispetto del principio del ne bis in idem interno (Cass.
pen., Sez V, sent. n. 32352, ud. 07/03/2014 – dep.
22/07/2014).
p. 6
4. Confisca di prevenzione antimafia e ne bis in idem in
materia penale: prevenzione non equivale a punizione e
pericolosità non equivale a medesimo fatto (Cass. pen.,
sez. VI, sent. n. 32715, ud. 16/07/2014, dep. 23/07/2014).
p. 9
5. Rinviata alla Cour de Cassation una question prioritaire de
constitutionnalité in materia di délit d’initiés per violazione
del ne bis in idem (Francia: Tribunal correctionel de Paris,
03/10/2014).
p. 11
6. Divieto di un secondo processo e “stesso reato” nella
giurisprudenza
penale
svizzera:
“il
principio
dell’identità semplice” alla luce degli orientamenti
europei (Confederazione elvetica: Tribunale penale
federale, Corte dei reclami penali, A. c. Ministero
pubblico della Confederazione, 22/10/2014, BB.2014.71).
p. 13
7. La Convenzione EDU non garantisce il ne bis in idem nelle
procedure estradizionali e di espulsione (Corte EDU,
ric. n. 140/10, Trabelsi c. Belgio, 4 settembre 2014 – rettifica
ex art. 81 Reg. Corte, 7 settembre 2014; Corte EDU, ric. n.
58363/10, M.E. c. Danimarca, 8 luglio 2014, con ricorso alla
Grande Camera pendente).
p. 15
8. Ne bis in idem internazionale anticipato: La decisione di
non luogo a procedere preclude ex art. 54 CAAS un
giudizio penale de eadem re in un diverso Stato membro
dell’Unione (Corte di Giustizia dell’Unione europea,
Quarta sezione, domanda di pronuncia pregiudiziale
proposta dal Tribunale di Fermo, 5.06.2014, M., C-398/12).
p. 16
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ALTRE NOTIZIE
9. Reati fiscali e associazione a delinquere transnazionale:
ammissibile il sequestro per equivalente del profitto
presente nel patrimonio delle persone giuridiche (Cass.
pen. Sez. II, sent. n. 28960 del 26/06/2014).
p. 19
10. Abolitio criminis di “matrice europea” in materia
ambientale: la Cassazione annulla senza rinvio una
sentenza di condanna per mancato rispetto dell'A.I.A
(Cass. pen., Sez. III, sent. n. 40532 dell’11/6/2014).
p. 21
11. Dichiarata inammissibile la questione di legittimità
costituzionale relativa al diritto delle vittime di citare
gli enti e le persone giuridiche per ottenere in sede
penale il risarcimento del danno (Corte Cost., sent. n.
218/2014 del 18/07/2014).
p. 22
12. È comunitariamente illegittima l’imposizione delle
vincite da giochi d’azzardo ottenute all’estero se quelle
ottenute all’interno dello Stato sono assoggettate ad un
diverso regime fiscale (Corte di Giustizia dell’Unione
europea, Terza Sezione, sentenza, Blanco, C-344/13,
Fabretti, C-367/13, contro Agenzia delle Entrate –
Direzione Provinciale I di Roma – Ufficio Controlli,
22/10/2014).
p. 24
13. Circa la portata degli obblighi di verifica ai sensi della
Direttiva 2005/60/CE, relativa alla prevenzione dell'uso
del sistema finanziario a scopo di riciclaggio (Corte di
Giustizia dell’Unione europea, domande di pronuncia
pregiudiziale proposte dall’Audiencia Provincial de
Barcelona, 13.05.2014, Safe Interenvios, S.A. / Liberbank, S.A.,
e altri, C-235/14)
p. 27
14. Raccolta di scommesse sportive: il rinvio dei giudici di
legittimità e di merito (Corte di Giustizia dell’Unione
europea, domande di pronuncia pregiudiziale proposte
nell’ambito dei procedimenti penali a carico di Proia, C214/14; Biolzi, C-213/14; De Ciantis, C-212/14; Di Adamo, C211/14; Tomassi, C-210/14).
p.30
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1. Applicazione interna della sentenza CEDU Grande Stevens:
per il Consiglio di Stato i procedimenti davanti alla Consob
sono “procedimenti sanzionatori lato sensu penali”
(Consiglio di Stato, ordinanze del 02/10/2014, n. 07567/2014 e n.
07567/2014 reg. ric.).
Due ordinanze del Consiglio di Stato (Sezione VI) in sede giurisdizionale,
adottate in data 2 ottobre 2014 nell’ambito dei processi Banca Profilo SpA c.
Consob e Arepo BP SpA c. Consob, costituiscono un’attuazione in fase
discendente della ben nota sentenza Corte EDU Grande Stevens e altri c. Italia. Il
Consiglio di Stato, in riforma dell’ordinanza del giudice di prime cure, ha
accolto “l’istanza cautelare presentata in primo grado, relativamente
all’obbligo della Consob di adeguare il proprio regolamento sanzionatorio per
le sanzioni “penali” alla sentenza CEDU su menzionata”. Il giudice
amministrativo ha ritenuto:
• sussistente “il pregiudizio grave e irreparabile, nella sfera dei destinatari,
già per la difformità del regolamento sanzionatorio applicato nei
procedimenti sanzionatori “lato sensu penali” che li riguardano, la cui la
pendenza comprova l’attualità dell’interesse”;
• “che, al fine della effettività della tutela giurisdizionale cautelare, non è
necessario attendere la piena vulnerazione con la eventuale emanazione di
sanzioni, per ipotesi viziate perché adottate sulla base di regolamento
illegittimo, anche nell’interesse della stessa Autorità emanante”;
• “la particolarità della controversia, avendo nella specie la sentenza CEDU
n. 18640 del 4 marzo 2014 riguardato proprio il regolamento sanzionatorio
Consob – ritenuto violativo dell’art. 6 CEDU sotto vari profili, quali, tra gli
altri, la mancanza del contraddittorio e la mancata pubblicità del
procedimento – e che sussiste il dovere di adeguarsi alle sentenze CEDU
(tra varie, si veda Corte Costituzionale n.113 del 7 aprile 2011)”.
Se le decisioni in commento mirano ad imporre alla Consob un adeguamento
del “binario amministrativo”, esse hanno inevitabili riflessi – sino a nuove
modifiche per effetto del regolamento UE n. 596/2014 e della Direttiva
2014/57/UE relativi agli abusi di mercato – anche sul rapporto tra “binario
amministrativo” e “binario penale”, confermando, sia pure in sede cautelare, la
tesi circa la ‘natura penale’ del procedimento Consob.
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2. L’art. 11 c.p. sul rinnovamento del giudizio tra applicazione
e non applicazione: l’accordo internazionale quale linea di
demarcazione dei confini (Cass. pen., sez. I, sent. n. 29664, ud.
12/06/2014, dep. 08/07/2014).
Con la sentenza in epigrafe i giudici di legittimità hanno cassato la decisione
con la quale la Corte d’Assise di Trieste, in data 9 novembre 2012, ha dichiarato
non doversi procedere nei confronti di un cittadino montenegrino imputato di
omicidio volontario aggravato, essendo questi già stato condannato dal
Tribunale di Podgorica, in data 30 dicembre 2009, alla pena di anni 14 di
detenzione già, peraltro, interamente espiata.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del Procuratore Generale presso la
Corte di appello di Trieste il quale ha evidenziato – a differenza di quanto
asserito dalla Corte territoriale – che nel giudizio de quo non è applicabile né
l’art. 50 CDFUE né l’art. 54 CAAS. La condanna, infatti, è stata emessa in
Montenegro, paese che non ha sottoscritto il trattato di adesione all'Unione
Europea e che non fa parte dell’Area Schengen. Il Procuratore Generale,
tuttavia, ha comunque sottolineato – come precisano i giudici di legittimità – la
sussistenza dell’“obbligo di computare, ai fini delle durata della pena da
eseguire dopo la rinnovazione del giudizio, il periodo di privazione della
libertà sofferto all'estero”, in base all’art. 138 c.p.
Seguendo il ragionamento dell’organo dell’accusa e confermando l’indirizzo
giurisprudenziale di legittimità in materia (Cass., sez. VI, sent. n. 44830 del
22/09/2004), la Corte di Cassazione ha stabilito che “il processo celebrato
all’estero nei confronti del cittadino ovvero, come nel caso de quo, di imputato
straniero, “non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti,
in quanto nell’ordinamento giuridico italiano non vige il principio del ne bis
in idem internazionale, prevedendo l’art. 11 c.p. comma 1 la rinnovazione del
giudizio nei casi indicati dall’art. 6 c.p.”.
Seppure la Corte di Cassazione conferma, in linea con la sentenza della Corte
Costituzionale n. 58 del 1997, che il ne bis in idem è “un principio tendenziale cui
si ispira oggi l'ordinamento internazionale, e risponde del resto a evidenti
ragioni di garanzia del singolo di fronte alle concorrenti potestà punitive degli
Stati” e “che si assiste effettivamente ad una evoluzione legislativa che va nel
senso di riconoscere efficacia preclusiva ad una sentenza straniera che abbia
irrevocabilmente giudicato di un reato commesso in Italia da un cittadino
straniero (…), ciò non significa ancora che per effetto di tale evoluzione
normativa il principio ne bis in idem possa considerarsi, rispetto alle sentenze
straniere, come principio generale di diritto riconducibile alla categoria delle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto, oggetto di
ricezione automatica ai sensi dell'art. 10 Cost.”. Dunque, resta ferma
“l’irrilevanza del bis in idem internazionale con riguardo a sentenza penale
deliberata in un paese, quale il Montenegro, che non è ancora membro
dell'Unione Europea né quindi contraente del Trattato di Schengen”.
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In definitiva, la Corte ribadisce l’orientamento in materia (Cass. pen., sez. I,
sent. n. 20464, ud. 05/04/2013 - dep. 13/05/2013), secondo cui "un processo
celebrato nei confronti di cittadino straniero in uno Stato con cui non
vigono accordi idonei a derogare alla disciplina dell'art. 11 c.p. non preclude
la rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti, non essendo il
principio del ne bis in idem principio generale del diritto internazionale, come
tale applicabile nell'ordinamento interno”
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3. A margine del caso Parmalat la Cassazione, incidenter
tantum, interviene in materia di difetto di giurisdizione e
rispetto del principio del ne bis in idem (Cass. pen. Sez V,
sent. n. 32352, ud. 07/03/2014 – dep. 22/07/2014).
La sentenza in questione rappresenta la conclusione di uno dei tronconi
d'indagine relativi al noto caso Parmalat cui si è giunti a seguito dei ricorsi
proposti avverso la sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Bologna. Tra i
molteplici profili di diritto affrontati dalla sentenza, rilevante appare ciò che la
Quinta Sezione statuisce rigettando due dei motivi riguardanti questioni di rito
che coinvolgono profili di natura sovranazionale.
Il primo motivo di ricorso concerne tanto il supposto difetto di giurisdizione
del giudice italiano in relazione agli illeciti delle società del gruppo Parmalat
aventi sede all'estero quanto la impropria applicazione della legge italiana –
una volta confermata la sussistenza della giurisdizione italiana – a società
estere.
Il ricorrente deduceva che non rileverebbe il rapporto di collegamento – o
correlazione – delle società estere con quelle italiane, posto che ognuna di esse
è dotata di autonomia soggettiva e patrimoniale, e che in materia varrebbe il
principio sancito dall'art. 9 lg. fall., e dall'art. 3 co. 1 del regolamento CE
1346/2000, in base al quale la competenza ad aprire la procedura concorsuale
spetta al giudice del luogo nel quale l'impresa ha il centro principale dei propri
interessi (che di norma coincide con la sua sede principale); inoltre, la legge
applicabile dovrebbe essere quella straniera in virtù dei principi di legalità e
territorialità, ai sensi degli articoli 25 Cost. e 7 Cedu. Consequenzialmente
veniva richiesto al giudice di legittimità di proporre questione pregiudiziale in
interpretazione alla Corte di Giustizia dell'UE.
La Cassazione, nel ritenere tale motivo infondato in entrambe le sue
censure, e così nel respingere le richieste del ricorrente, evidenzia la
scorrettezza logica del ragionamento alla base del motivo del ricorso. “Esso,
invero, svolge il tema dell’individuazione del giudice investito della
competenza – interna o giurisdizionale – a conoscere della responsabilità
penale, utilizzando i parametri normativi dettati per individuare il giudice
della procedura concorsuale, quasi che il primo, nel verificare la propria
competenza, fosse legittimato a sindacare quella del secondo. Così invece non
è, dato che la dichiarazione di fallimento, una volta che abbia acquistato il
carattere della irrevocabilità, costituisce un dato definitivo e vincolante sul
quale non possono più sorgere questioni non collegate alla produzione
formale della prova della sua giuridica esistenza (…) (Sez. Un., n. 19601 del 69
28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398)”. Essendo la dichiarazione elemento costitutivo
del reato di bancarotta, per condotte realizzate prima della dichiarazione, la
fattispecie criminosa si considera perfezionata nel tempo e nel luogo in cui la
sentenza di fallimento è pronunciata (nel caso di specie era stato il Tribunale
di Parma ad emettere sentenza, Tribunale che poi aveva conosciuto della
questione penale).
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Da ciò discende anche l'infondatezza della seconda censura, dato che, ex art. 6
c.p., è punito secondo la legge italiana chi commette un reato nel territorio
dello Stato senza che rilevino le censure avanzate dal ricorrente né l’improprio
parallelo con la normativa in materia di diritto privato internazionale (art. 25
della legge 31 maggio 1995, n. 218). Sul punto la Corte rileva che “Neppure può
condividersi l’aggettivazione di «paradossale», riferita dal ricorrente all’ipotesi
di applicazione del diritto penale italiano a una società estera che abbia
sempre operato all’estero; si tratta, invero, di giudicare la condotta di
amministratori di società estere cui l’ipotesi accusatoria attribuisce il concorso
nella consumazione di reati commessi in Italia: ora attraverso il contributo alla
determinazione dell’evento, come è nel caso della bancarotta impropria di cui
all’art. 223, comma 2, nn. 1) e 2) legge fall.; ora rendendosi partecipi delle
distrazioni ai danni delle società italiane cadute in dissesto, come è nel caso
delle molteplici ipotesi contestate di bancarotta fraudolenta patrimoniale; ora
con la falsificazione delle scritture contabili, ostativa della ricostruzione del
movimento degli affari e del patrimonio delle società da parte degli organi
della procedura concorsuale. Consequenzialmente, ne deriva l'irrilevanza del
quesito relativo alla questione pregiudiziale riguardante l'interpretazione
dell'art. 4 TUE”, peraltro – si noti – scarsamente conferente rispetto alla
questione sollevata.
Il secondo motivo cui dedicare attenzione concerne la supposta inosservanza
dell'art. 649 c.p.p. nel giudizio a quo, dato che i ricorrenti sarebbero già stati
sottoposti, per i medesimi fatti storici, a procedimento penale per i reati di
aggiotaggio, fraudolenta certificazione di bilanci e ostacolo alle funzioni di
vigilanza, venendo in rilievo, in particolare, il procedimento definito dalla Sez.
V, n. 28932 del 04/05/2011, Tanzi, Rv. 253755. In prima battuta la Corte richiama
le recenti pronunce della Corte Edu nei casi Zolotoukhine c. Russia, del
10/02/2009, e Grande Stevens c. Italia, del 04/03/2014, in materia di rispetto del
principio del ne bis in idem. La Corte si mostra consapevole che il rispetto del
suddetto principio impone una valutazione ancorata ai fatti e non alla
qualificazione giuridica degli stessi, ritenuta troppo restrittiva; tuttavia,
evidenzia come, e questo emerge dalle rispettive sentenze richiamate, la
nozione di condotta si traduca nell'insieme delle circostanze fattuali concrete,
collocate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata ai
fini della condanna. A parere della Corte, ciò comporta che deve
necessariamente valutarsi quali siano i fatti assunti come rilevanti
dall'ordinamento interno ai fini dell'applicazione della sanzione penale, in
ragione dell'interesse protetto. Questa conseguenza discende dal fatto che la
stessa nozione di condotta, pur colta nella sua dimensione fattuale, ha
carattere normativo, in quanto seleziona comportamenti espressivi di un
particolare disvalore. In tal senso la Corte richiama una recente sentenza (Cass.
pen. Sez. II, sent. n. 18376 del 21/03/2013, Cuffaro, Rv. 255837) che ha chiarito
come, ai fini della preclusione connessa al rispetto del principio del ne bis in
idem, l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storiconaturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi
costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, luogo, persona. La Corte,
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posta tale premessa, ne fa applicazione nel caso concreto, ritenendo che non
vi sia corrispondenza, in astratto, tra le fattispecie per le quali i ricorrenti
sono già stati giudicati con la richiamata sentenza n. 28932/2011 – aggiotaggio,
fraudolenta certificazione di bilanci e ostacolo alle funzioni di vigilanza – e le
condotte tipizzate nelle fattispecie oggetto del giudizio, ovvero la
falsificazione dei bilanci, intesa quale elemento costitutivo del delitto previsto
dall’art. 223 co. 2 num. 1) lg. fall., le operazioni dolose causatrici del dissesto ex
art. 223 co. 2 num. 2) lg. fall., e infine le condotte di distrazione di cespiti attivi e
di irregolare tenuta delle scritture contabili.
All’esito di una ricostruzione piuttosto complessa ed articolata degli elementi
costitutivi delle diverse fattispecie di reato oggetto dei due giudizi, i giudici di
legittimità pervengono ad una applicazione delle indicazioni europee in
materia di ne bis in idem che integra e corregge il criterio della corrispondenza
“storico-naturalistica” mediante una normativizzazione dell’idem factum. Si
tratta di una opzione ermeneutica che esclude la preclusione di un secondo
giudizio interno e che necessiterà di ulteriori approfondimenti in sede
scientifica.
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4. Confisca di prevenzione antimafia e ne bis in idem in
materia penale: prevenzione non equivale a punizione e
pericolosità non equivale a medesimo fatto (Cass. pen., sez.
VI, sent. n. 32715, ud. 16/07/2014, dep. 23/07/2014).
La giurisprudenza di legittimità italiana, nella recente decisione in commento,
ha affermato che le misure di prevenzione patrimoniali non hanno natura
sanzionatoria e, pertanto, non rientrano nella materia penale. Tali conclusioni
sono state confortate mediante un richiamo alle principali decisioni adottate
dai giudici di Strasburgo contro l’Italia sulla confisca di prevenzione antimafia
(Raimondo e Prisco). Sulla base di tale statuizione di principio è stato, pertanto,
ritenuto non applicabile il ne bis in idem nell’ambito di un procedimento avente
ad oggetto la confisca di beni rientranti nella disponibilità di un soggetto
sottoposto a misure di prevenzione quale sospettato di appartenenza ad
associazione di stampo mafioso.
Più in dettaglio, la Corte di Cassazione, in primis, ha stabilito che “per la Corte
europea (…) la misura di prevenzione ha una funzione e una natura ben
distinta rispetto a quella della sanzione penale: quest’ultima tende a
sanzionare la violazione di una norma penale (e la sua applicazione è
subordinata all’accertamento di un reato e della colpevolezza dell'imputato), la
misura di prevenzione non presuppone un reato e tende a prevenirne la
commissione da parte di soggetti ritenuti pericolosi”.
Per tale motivo, “la confisca antimafia (…) non ha funzione repressiva, ma
preventiva, volta ad impedire l’uso illecito dei beni colpiti e non può essere
paragonata ad una sanzione penale secondo i tre criteri individuati dalla
stessa Corte per affermare che una misura riveste carattere penale ai fini della
Convenzione”, ovverosia i c.d. criteri Engel. Ne deriva l’inapplicabilità del ne bis
in idem nel procedimento di prevenzione patrimoniale.
In aggiunta, la Corte ha provato a tracciare una distinzione tra fatto e
pericolosità: la “condizione generale” di pericolosità “può essere in parte
desunta da fatti che a loro volta sono qualificati quali illeciti penali o
amministrativi dai singoli legislatori, ma la valutazione di pericolosità è in
rapporto ad un ben più ampio quadro di abitudini di vita, rapporti,
frequentazioni, denunce che evidentemente sfuggono dalla logica del ne bis in
idem elaborata dalla giurisprudenza nazionale come internazionale”. A
differenza di quanto statuito nella “nota recente sentenza Grande Stevens c.
Italia”, in cui è stata operata una comparazione tra i fatti sanzionati dall’illecito
penale e dall’illecito amministrativo, “non ci può essere confronto” – secondo
i giudici di legittimità – tra un “fatto” e una “condizione personale”,
“neppure quando la condizione personale viene ricostruita anche (ma non
solo) sulla base di condotte ed eventi che possono assumere un’autonoma
valenza penale e che come tali possono e devono essere valutati in tale sede”.
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Quanto al presupposto della res judicata, è stato – infine – evidenziato che il ne
bis in idem, in base alla giurisprudenza europea, vige solo “quando il secondo
procedimento applica una sanzione dopo che il procedimento parallelo si è
concluso con decisione irrevocabile. Condizione che non è ravvisabile nel caso
di specie e che quindi appare ostativa all’applicazione comunque del
principio”.
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5. Rinviata alla Cour de Cassation una question prioritaire de
constitutionnalité in materia di délit d’initiés per violazione del
ne bis in idem (Francia: Tribunal correctionel de Paris, 03/10/2014).
Il Tribunal correctionel de Paris (XIème Chambre) ha accolto l’eccezione difensiva
volta a sospendere un procedimento penale per délit d’initiés e a trasmettere la
questione alla Cour de Cassation affinché questa valuti l’eventuale
promovimento di una question prioritaire de constitutionnalité (QPC) per
violazione del principio del ne bis in idem. La vicenda, relativa alla società
aerospaziale EADS (ora Airbus), vede imputate sette persone fisiche e due
società (Lagardère e Daimler) per aver proceduto alla vendita di stock options
tra il 2005 e il 2006 disponendo di informazioni privilegiate sul corso del
titolo.
Con riferimento alla medesima vicenda, nel 2009 la Commission des sanctions de
l’Autorité des marchés financiers aveva escluso che fosse riscontrabile una
violazione della normativa amministrativa in materia, in ragione della
insufficiente specificazione delle informazioni detenute dagli accusati.
L’eccezione difensiva sollevata nel procedimento penale – volta ad impedire
che possa darsi luogo ad un procedimento penale a seguito di un precedente
procedimento amministrativo per gli stessi fatti, peraltro conclusosi con una
decisione negativa in ordine alla responsabilità – menziona espressamente la
sentenza Grande Stevens della Corte EDU.
Il Tribunal correctionnel ha sospeso in data 3 ottobre il procedimento e, nel
rispetto del termine di 8 giorni, ha provveduto provvedere alla trasmissione
della QPC alla Cour de Cassation (M 14-90.042 - Tribunal de grande instance de
Paris, chambre correctionnelle, 3 octobre 2014). Il quesito è stato posto nei
seguenti termini: “il fatto che l’articolo 6 del Codice di procedura penale, così
come interpretato in maniera costante dalla giurisprudenza, conduca al rifiuto
del riconoscimento dell’autorità di cosa giudicata ad una decisione della
Commission des sanctions dell’Autorité des marchés financiers, competente a
pronunciare, laddove ne ricorrano le condizioni, sanzioni sufficientemente
severe per essere considerate assimilabili a sanzioni penali e consideri come
giuridicamente possibili nuove procedimenti per gli stessi fatti dinanzi ad
un tribunal correctionnel dopo che la Commission des sanctions dell’Autorité des
marchés financiers ha escluso la responsabilità dell’accusato, è
in
contraddizione con il principio di uguaglianza di tutti davanti alla legge
(articolo 6 della Déclaration des droits de l’homme) ed all’affermazione secondo
cui solo «pene strettamente ed evidentemente necessarie» devono essere
previste dalla legge (articolo 8 della Déclaration des droits de l’homme), da cui
discende l’inserimento nella norma costituzionale della regola del non bis in
idem?”.
Si ricordi che l’articolo 6 c.p.p. ha il seguente tenore letterale: “L'azione penale
per l’applicazione della pena si estingue per la morte dell’imputato, la
prescrizione, l’amnistia, l’abrogazione della legge penale e la cosa giudicata
(…)”.
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La Cour de Cassation opererà un filtro e, se riterrà sodisfatte le condizioni
imposte dalla legge, rinvierà la questione al Conseil constitutionnel, il quale
potrà eventualmente pronunciarsi nel senso della incostituzionalità della
norma.
Si deve ritenere che il giudice non abbia ritenuto direttamente violata la
CEDU, giacché in tal caso avrebbe dovuto procedere a rilevare ex officio la
question de conventionnalité e rimuovere direttamente il contrasto con la CEDU
senza rinviare al Conseil Constitutionnel. Ciò non pregiudica, tuttavia, la
possibilità che la Cour de Cassation si riservi questa prerogativa, addivenendo
ad una diversa ricostruzione, come, del pari, non è escluso che la Cour de
Cassation, non rivenendo alcun fumus di incostituzionalità risolva in via
ermeneutica – per es. tramite un’interpretazione adeguatrice – il contrasto
denunciato dal giudice).
Si segnala altresì che il Conseil d’Etat francese ha già trasmesso una QPC al
Conseil constitutionnel in data 23 luglio 2014 a proposito del procedimento della
Cour de discipline budgétaire et financière (C.D.B.F), tra l’altro per valutare la
violazione del principio del ne bis in idem tra sanzioni penali ed amministrative.
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giurisprudenza penale svizzera: “il principio dell’identità
semplice”
alla
luce
degli
orientamenti
europei
(Confederazione elvetica: Tribunale penale federale, Corte
dei reclami penali, A. c. Ministero pubblico della
Confederazione, 22/08/2014, BB.2014.71).
La sentenza resa dalle autorità giudiziarie svizzere è degna di nota in quanto
offre l’occasione per osservare, dal punto di vista comparato, i riflessi che
l’orientamento giurisprudenziale delle Corti europee in tema di ne bis in idem
ha determinato sull’interpretazione e l’applicazione delle disposizioni interne
agli ordinamenti europei.
Nella vicenda all’attenzione della Corte dei reclami penali è stato, difatti,
oggetto di interpretazione l’art. 11 c.p.p., norma che, nell’ambito dei principi
fondamentali del diritto processuale penale svizzero, contempla il “divieto di
un secondo procedimento penale”. Il tenore letterale della disposizione è il
seguente: “1. Chi è stato condannato o assolto in Svizzera con decisione passata
in giudicato non può essere nuovamente perseguito per lo stesso reato. 2. Sono
fatte salve la riapertura dei procedimenti per cui è stato deciso l’abbandono
oppure il non luogo, nonché la revisione”.
Limitando l’analisi ai profili giuridici, occorre evidenziare che la Corte dei
reclami penali ha interpretato, in linea con i precedenti giurisprudenziali, i
presupposti applicativi del principio del ne bis in idem, ovverosia la
“decisione passata in giudicato” e lo “stesso reato”.
Quanto ai lineamenti del presupposto della res judicata, l’art. 11 c.p.p., secondo
l’orientamento seguito dalle autorità elvetiche, si applica qualora sussista una
sentenza passata in giudicato pronunciata all’esito di un “giudizio di merito”.
Peraltro, un decreto di non luogo a procedere passato in giudicato equivale ad
una sentenza di proscioglimento, eccetto le ipotesi di riapertura del
procedimento previste dall’art. 323 cpv. 1 c.p.p.
In ordine all’altro requisito dell’idem factum, la Corte ha affermato che “il
principio ne bis in idem vale solo se reato ed autore sono identici”. In
particolare, l’identità può basarsi, secondo i giudici svizzeri, sul principio della
doppia identità o della identità semplice. “Nel primo caso, si parte dal
presupposto che un reato è già stato giudicato solo se i fatti in questione sono
già stati oggetto del primo procedimento e se essi sono stati considerati nella
stessa maniera dal punto di vista del diritto o perlomeno avrebbero potuto
esserlo (…). Nel secondo caso, l’identità si riferisce invece unicamente al
complesso di fatti giudicati, e non alla qualifica giuridica alla quale tali fatti
sono stati sussunti dall’istanza precedente. In altre parole, l’identità di
procedimento è definita, oltre che dall’identità dell’imputato, dal confronto tra
il complesso delle circostanze che è già stato (o che avrebbe potuto essere)
accertato, sotto il profilo fattuale e giuridico, nell’ambito del procedimento
precedente (…)”. Date le premesse sulla dicotomia tra il principio della doppia
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Il diritto penale economico europeo ed internazionale.
Rassegna di diritto e giurisprudenza.
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identità (equivalente, nella terminologia penalistica italiana, alla nozione
normativa) e dell’identità semplice (corrispondente alla nozione storiconaturalistica), i giudici penali svizzeri – seguendo il principio dell’identità
semplice – hanno operato un richiamo decisivo alla giurisprudenza del
Tribunale federale e alla giurisprudenza europea, mettendo in evidenza che la
Corte europea dei diritti dell’uomo, “chinatasi sulla problematica”, nel noto
caso Zolotukhin c. Russia, “ha optato per il principio dell’identità semplice”,
“approccio che va di pari passo con il concetto sviluppato dalla Corte di
giustizia dell’Unione europea per quanto riguarda l’art. 54 CAAS (…)”
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Il diritto penale economico europeo ed internazionale.
Rassegna di diritto e giurisprudenza.
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7. La Convenzione EDU non garantisce il ne bis in idem nelle
procedure estradizionali e di espulsione (Corte EDU, ric. n.
140/10, Trabelsi c. Belgio, 4 settembre 2014 – rettifica ex art. 81
Reg. Corte, 7 settembre 2014; Corte EDU, ric. n. 58363/10, M.E.
c. Danimarca, 8 luglio 2014, con ricorso alla Grande Camera
pendente.
Due recenti decisioni della Corte europea hanno escluso l’applicabilità ratione
materiae del ne bis in idem di fonte convenzionale nell’ambito delle procedure
estradizionali e di espulsione.
Nella pronuncia resa nel caso Trabelsi c. Belgio la Corte europea ha sostenuto
che l’art. 4 Prot. n. 7 CEDU non garantisce la tutela del ne bis in idem nei
rapporti tra Stati, ma solo nell’ambito della medesima giurisdizione. Di
conseguenza, è stato rigettato – ratione materiae – il motivo di ricorso con il
quale è stato invocato la violazione del ne bis in idem nell’ambito di una
procedura estradizionale tra Belgio e Stati Uniti.
Nel caso M.E. c. Danimarca, per cui pende attualmente un ricorso dinanzi alla
Grande Camera, la Corte europea si è pronunciata in relazione all’esecuzione
di un ordine di espulsione da parte delle autorità danesi verso la Siria. In tale
caso, è stata prospettata dal ricorrente la violazione del ne bis in idem sulla
base dell’art. 3 CEDU, dal momento che – in caso di rimpatrio – il soggetto
sarebbe stato perseguito di nuovo per lo stesso fatto. La Corte, rigettando la
doglianza, ha ritenuto – in particolare – che le autorità danesi non avrebbero
dovuto conoscere il fatto che il soggetto rischiava un bis in idem in Siria. D’altra
parte, il rispetto del principio del ne bis in idem non dà luogo ad una
questione ex art. 3 CEDU, ma ex art. 4 Protocollo n. 7 CEDU, il cui ambito di
applicazione è, tuttavia, limitato al divieto di un secondo giudizio
nell’ambito dello stesso Stato (§ 59).
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Il diritto penale economico europeo ed internazionale.
Rassegna di diritto e giurisprudenza.
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8. Ne bis in idem internazionale anticipato: la decisione di non
luogo a procedere preclude ex art. 54 CAAS un giudizio
penale de eadem re in un diverso Stato membro dell’Unione
(Corte di Giustizia dell’Unione europea, Quarta sezione,
domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale
di Fermo, 5.06.2014, M., C-398/12).
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, confermando le conclusioni rese
dall’Avvocato Generale Eleanor Sharpston in data 6.02.2014 nella causa
C‑398/12, M., ha risolto la questione pregiudiziale proposta dal Tribunale di
Fermo (Italia) in ordine all’interpretazione dell’art. 54 CAAS, giungendo alla
conclusione che tale norma deve essere interpretata nel senso che “una
decisione di non luogo a procedere che osta, nello Stato contraente in cui tale
decisione è stata emessa, a un nuovo procedimento penale per i medesimi fatti
contro la stessa persona che ha beneficiato di detta decisione, salvo
sopravvenienza di nuovi elementi a carico di quest’ultima, deve essere
considerata una decisione che reca una sentenza definitiva, ai sensi di tale
articolo, e che preclude pertanto un nuovo procedimento contro la stessa
persona per i medesimi fatti in un altro Stato contraente”.
La questione pregiudiziale è stata sollevata dal giudice italiano nell’ambito di
un’udienza dibattimentale celebrata a seguito di rinvio a giudizio disposto in
Italia per gli stessi fatti (nella specie, la violenza sessuale) già oggetto, in
precedenza, di decisione di non luogo a procedere in Belgio e resa sulla base,
essenzialmente, degli stessi elementi di prova. Con la questione, il giudice,
dunque, chiedeva se la decisione di non luogo a procedere emessa dalle
autorità belghe all’esito di ampia istruttoria e confermata nel giudizio di
cassazione, ma suscettibile, nel diritto nazionale, di essere revocata alla luce di
nuovi fatti o nuove prove a carico dell’interessato, possa costituire una
sentenza definitiva idonea a precludere un secondo procedimento in Italia.
Nell’articolare una risposta al quesito, la Corte di Giustizia ha richiamato i
propri precedenti giurisprudenziali in materia aventi ad oggetto
rispettivamente il tipo di vaglio che deve compiere il giudice penale affinché
una decisione possa considerarsi definitiva e i criteri da prendere in esame per
ritenere estinta l’azione penale ex art. 54 CAAS.
In primo luogo, rievocando l’orientamento accolto nella decisione Miraglia, i
giudici europei hanno evidenziato che, per verificare se una decisione
giudiziaria possa considerarsi definitiva in base all’art. 54 CAAS, “occorre
assicurarsi che tale decisione sia stata pronunciata previa (…) valutazione
nel merito della causa” (§ 28), da ritenersi sussistente, alla luce del precedente
giurisprudenziale van Straaten, anche qualora l’autorità giudiziaria assolva
definitivamente un imputato per insufficienza di prove (§ 29). Ebbene, una
“decisione di non luogo a procedere pronunciata in seguito ad
un’istruttoria nel corso della quale sono stati raccolti ed esaminati diversi
mezzi di prova è stata oggetto di una valutazione nel merito, ai sensi della
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Il diritto penale economico europeo ed internazionale.
Rassegna di diritto e giurisprudenza.
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sentenza Miraglia (…), in quanto contiene una decisione definitiva sul
carattere insufficiente di tali prove ed esclude qualsiasi possibilità che la causa
sia riaperta sulla base del medesimo complesso di indizi” (§ 30).
In secondo luogo, alla luce della sentenza Turanský, occorre che “l’azione
penale de(bba) essere definitivamente estinta, di modo che la decisione in
oggetto, nello Stato contraente in cui è stata adottata, dia luogo alla tutela
conferita dal principio del ne bis in idem”. Orbene, secondo la Corte di Giustizia
tale presupposto deve ritenersi sussistente, nel caso di specie, dal momento che
la decisione di non luogo a procedere pronunciata dalla Corte di Cassazione
belga è passata in giudicato e il procedimento penale può essere riaperto solo
in presenza di nuovo elementi a carico sottoposti al vaglio della Chambre des
mises en accusation (§ 33). Tale ragionamento è stato confermato, d’altra parte,
mediante un richiamo al precedente Bourquain relativo ad una sentenza
pronunciata in contumacia: secondo i giudici europei, “la sola circostanza che
tale procedura penale avrebbe comportato, ai sensi del diritto nazionale, la
riapertura del processo, non esclude, di per sé, che tale sentenza sia
comunque considerata «definitiva», a norma dell’articolo 54 della CAAS” (§
34).
Dopo aver operato un richiamo ai propri precedenti giurisprudenziali, la Corte
di Giustizia interpreta l’art. 54 CAAS – norma di diritto derivato dell’Unione –
alla luce dell’art. 50 CDFUE – norma di diritto primario dell’Unione ex art. 6
TUE: difatti, “poiché il diritto a non essere perseguiti o condannati due volte
per il medesimo reato è sancito anche dall’articolo 50 della Carta, l’articolo
54 della CAAS deve essere interpretato alla luce di quest’ultimo” (§ 35).
Aprendo una prospettiva di “dialogo” con la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo, i giudici eurounitari rilevano che, alla luce delle
Spiegazioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il diritto
garantito dall’art. 50 CDFUE ha “lo stesso significato e la stessa portata”
dell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU: ebbene, in base all’art. 4, paragrafo 2, del
Protocollo n. 7 CEDU, “il principio del ne bis in idem sancito al paragrafo 1 di
tale articolo non impedisce la possibilità di riaprire il processo «se fatti
sopravvenuti o nuove rivelazioni» sono in grado di inficiare la sentenza
intervenuta” (§ 39). A questo riguardo, la Corte richiama il leading case della
Corte europea Zolotoukhine c. Russia del 10 febbraio 2009, evidenziando che,
nella stessa, i giudici di Strasburgo hanno statuito che “l’articolo 4 del
protocollo n. 7 della CEDU «assume rilevanza quando è avviato un nuovo
procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già
passata in giudicato». Per contro, i ricorsi straordinari non possono essere
presi in considerazione quando si tratta di appurare se il procedimento sia
stato definitivamente chiuso. Sebbene questi mezzi giurisdizionali
rappresentino una continuazione del primo procedimento, il carattere
«definitivo» della decisione non può dipendere dal loro esperimento”.
Ebbene, con riferimento al caso de quo, “la possibilità di riaprire l’istruttoria
per sopravvenienza di nuovi elementi a carico, come prevista agli articoli da
246 a 248 del Code d’instruction criminelle, non può pregiudicare il carattere
definitivo della decisione di non luogo a procedere di cui al procedimento
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Il diritto penale economico europeo ed internazionale.
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principale. Sebbene tale possibilità non costituisca un «ricorso straordinario»,
ai sensi della citata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
tuttavia essa implica l’avvio eccezionale, e in base ad elementi probatori
differenti, di un procedimento distinto, piuttosto che la mera continuazione
del procedimento già concluso. Peraltro, considerata la necessità di verificare
l’effettiva novità degli elementi addotti per giustificare una riapertura, un
nuovo procedimento basato su tale possibilità di riapertura, contro la stessa
persona e per i medesimi fatti, può essere avviato unicamente nello Stato
contraente sul cui territorio tale decisione è stata emessa”.
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Il diritto penale economico europeo ed internazionale.
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9. Reati fiscali e associazione a delinquere transnazionale:
ammissibile il sequestro per equivalente del profitto presente
nel patrimonio delle persone giuridiche (Cass. pen., Sez. II,
sent. n. 28960 del 26/06/2014).
La Corte di Cassazione ha stabilito che, in presenza di reati tributari commessi
facendo ricorso ad una associazione a delinquere avente carattere
transnazionale, operando i diversi associati in una pluralità di stati, è possibile
disporre il sequestro preventivo di beni di valore equivalente al profitto
ricavato anche se non di titolarità dei responsabili dell'illecito, ma presenti nel
patrimonio delle persone giuridiche coinvolte ed avvantaggiate dalla frode
fiscale, nonostante questa ultima fattispecie condotte non sia tipizzata
all’interno dell’elenco dei reati presupposto ex artt. 24 e ss. d.lgs. 231/2001,
venendo invece in rilievo il rapporto di strumentalità tra il reato di cui all’art.
416 c.p. e quello di frode fiscale, reato-fine dell’associazione.
Utile la riproposizione dell’iter logico seguito dalla Corte la quale, nel ritenere
infondato il sesto ed ultimo motivo di ricorso – che qualificava come illegittima
la confisca per equivalente in società di cui si sosteneva la totale estraneità al
reato associativo contestato (ma non ai reati-fine, con l’unica eccezione di
quello di carattere fiscale, di cui invece si contestava l’assenza dall’elenco dei
reati presupposto ex artt. 24 e ss. d.lgs. 231/2001) – rileva che “per l'autonomia
del reato associativo rispetto ai reati-fine, il profitto, inteso come l'insieme dei
benefici tratti dall'illecito ed a questo intimamente attinenti, può consistere
(come nella fattispecie) nel complesso dei vantaggi direttamente conseguenti
dall'insieme dei reati-fine, dai quali è del tutto autonomo e la cui esecuzione è
agevolata proprio dall'esistenza di una stabile struttura organizzata e da un
comune progetto delinquenziale (Sez. 3,27.1/17.2.2011, Scaglia, Rv. 249537)”. Per
cui, una volta attestata l’esistenza del rapporto tra profitto e reati-fine, pur
riconoscendosi l’autonomia del reato associativo, in questo caso di natura
transnazionale, può essere allora richiamato il disposto di cui all’art. 11 della
lg. n. 146/2006 (“Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli
delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati
dall'Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001”), che
stabilisce l’obbligatorietà per il giudice di disporre la confisca di somme di
denaro o di beni o di altre utilità di cui il reo ha la disponibilità, anche per
interposta persona fisica o giuridica, nel caso in cui la confisca sulle cose che
costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non sia possibile. Così,
proseguendo il ragionamento della Corte, risulterebbe evidente che quanto
sostenuto nello specifico motivo di ricorso, che denuncia l'illegittimità del
sequestro finalizzato alla confisca e correlato ai reati di fronde fiscale in
quanto questi non sarebbero inclusi nell'elenco degli illeciti penali
richiamati dagli artt. 24 e ss. del d.lgs. n. 231/2001, è irrilevante, a fronte della
constatazione che i reati di frode fiscale rientrano nel programma della
organizzazione criminale transnazionale, la quale ha consentito il verificarsi
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delle frodi fiscali all’interno del nostro stato. “Ne consegue che, per essere la
fattispecie contestata agli indagati riconducibile all'ipotesi di cui alla Legge n.
146 del 2006, articolo 3, comma 1, lettera c), è del tutto legittimo il sequestro,
finalizzato alla confisca per equivalente ex articolo 11 della medesima legge,
anche del profitto dei reati di frode fiscale, (in termini, Sez. 3, 24.2/24.3.2011,
Rossetti, Rv, 249760), sequestro disposto per un valore corrispondente all'intero
ammontare del prodotto, profitto o prezzo del reato nei confronti di ciascun
anche se poi la confisca complessivamente disposta non può eccedere
l'ammontare del profitto (Sez. 2, 9.1/4.2.2014, Clerici, Rv. 2583422).”
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10. Abolitio criminis di “matrice europea” in materia
ambientale: la Cassazione annulla senza rinvio una sentenza
di condanna per mancato rispetto dell'A.I.A (Cass. pen. Sez.
III, sent. n. 40532 dell’11/6/2014).
La Terza Sezione della Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la
sentenza di condanna emanata dal Tribunale di Mantova che aveva
condannato due agricoltori per il mancato rispetto dell'A.I.A.
(Autorizzazione Integrale Ambientale) n. 012092 del 18/10/2007 della Regione
Lombardia nella parte in cui imponeva un periodo di divieto allo scarico di
pollina fresca. Nel far ciò la Corte ha evidenziato come nel caso in questione
dovesse trovare applicazione la disciplina dettata al co. 2 art. 29-quatordecies del
d.lgs. n. 152/2006, così come modificato dall'art. 7 co. 13 del d.lgs. 46/2014,
quest'ultimo attuativo della Direttiva 24.11.2010 n 2010/75/UE “Relativa alle
emissioni
industriali
(prevenzione
e
riduzione
integrate
dell’inquinamento)”.
La direttiva europea è intervenuta definendo i criteri per ricondurre a proporzione le
sanzioni in materia di inquinamento ambientale e tali indicazioni sono state
recepite dal legislatore attraverso la parziale riscrittura del suddetto art. 29quaterdecies che, segnatamente in caso di mancato rispetto di A.I.A., delinea tre
differenti possibili situazioni, per differenti livelli di gravità e differenti
corrispondenti conseguenze sanzionatorie. La Corte, dato l'accertamento di
fatto compiuto dal giudice di merito, ha ritenuto che il caso di specie rientrasse
all'interno del co. 2 del medesimo articolo, il quale stabilisce che “salvo che il
fatto costituisca reato, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.500
euro a 15.000 euro nei confronti di colui che pur essendo in possesso
dell'autorizzazione integrata ambientale non ne osserva le prescrizioni o quelle
imposte dall'autorità competente”, a differenza della precedente disciplina, che
invece sanciva che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, si applica la
sola pena dell'ammenda da 5.000 euro a 26.000 euro nei confronti di colui che
pur essendo in possesso dell'autorizzazione integrata ambientale non ne
osserva le prescrizioni o quelle imposte dall'autorità competente”. Di tal
fatta, per la condotta semplice di mancato rispetto dell'A.I.A. è intervenuta
una abolitio criminis, come riconosce la stessa Corte, dato che la medesima
condotta viene sanzionata adesso soltanto con una sanzione amministrativa.
Per questa ragione la Terza Sezione ha annullato senza rinvio la sentenza del
Tribunale di Mantova in quanto il fatto non è (più) previsto dalla legge come
reato.
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11. Dichiarata inammissibile la questione di legittimità
costituzionale relativa al diritto delle vittime di citare gli enti
e le persone giuridiche per ottenere in sede penale il
risarcimento del danno (Corte Cost., sent. n. 218/2014 del
18/07/2014).
La Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
ordinario di Firenze riguardante l'art. 83 c.p.p. e il d.lgs. 231/2001, con
riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui “non prevedono espressamente e
non permett[o]no che le persone offese e vittime del reato non possano
chiedere direttamente alle persone giuridiche ed agli enti il risarcimento in via
civile e nel processo penale nei loro confronti dei danni subiti e di cui le stesse
persone giuridiche e gli enti siano chiamat[i] a rispondere per il
comportamento dei loro dipendenti”.
La pronuncia della Corte Costituzionale arriva a conclusione una vicenda che
aveva visto una prima proposizione di questione pregiudiziale in
interpretazione da parte del medesimo Tribunale alla Corte di Giustizia
dell'Unione Europea, la quale, con sent. Giovanardi e a. del 12/7/2012, aveva
ritenuto che la disciplina contenuta nel d.lgs. 231/2001 italiano non fosse in
contrasto col diritto dell'Unione, e segnatamente con l'art. 9 della Decisione
quadro 2001/220/GAI in materia di tutela delle vittime da reato, stabilendo che
il suddetto articolo andasse interpretato nel senso che esso non costituisce
impedimento a che “nel contesto di un regime di responsabilità delle persone
giuridiche (...) la vittima del reato non possa chiedere il risarcimento dei danni
direttamente causati dallo stesso, nell’ambito del processo penale, alla persona
giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato”.
Successivamente veniva sollevata questione di legittimità costituzionale, come
si è detto ritenuta inammissibile, per ragioni anzitutto di natura procedurale
(petitum generico e incerto), ma altresì perché l'ordinanza muoveva da un
erroneo presupposto interpretativo, ed è tale ultimo aspetto a meritare
particolare attenzione. La Corte Costituzionale, infatti, contesta
l'interpretazione data dal giudice a quo dell'art. 83 c.p.p. nel momento in cui
vada applicato all'ipotesi di procedimento penale a carico di enti o persone
giuridiche ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. 231/2001 (“all'ente si applicano le
disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili”): se il
giudice di merito ritiene che l'art. 83 c.p.p. ( “(...) l'imputato può essere citato
come responsabile civile per il fatto dei coimputati per il caso in cui venga
prosciolto o sia pronunciata nei suoi confronti sentenza di non luogo a
procedere”) rappresenti una garanzia nei confronti di soggetti coimputati in un
procedimento penale, che dunque possono essere anche enti, la Corte
Costituzionale rileva, invece, che due ragioni ostano a ritenere condivisibili tali
considerazioni. In primo luogo, si respinge la qualificazione dell'ente come
possibile coimputato, in quanto l'illecito ascrivibile all'ente costituisce una
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fattispecie complessa che non coincide col reato commesso dalla persona
fisica, per cui l'ente è eventualmente responsabile di un reato autonomo, e
non può essere ritenuto coimputato in quanto la responsabilità verrebbe
ascritta per un reato strutturalmente diverso da quello ascrivibile alla persona
fisica (si veda Corte Cass. VIa Sez., sent. n. 2251/2011). In secondo luogo, la Corte
evidenzia come l'art. 83 c.p.p. illustri semplicemente il principio per cui un
soggetto non può essere contestualmente chiamato a rispondere per lo
stesso fatto sia come autore sia come responsabile civile per la condotta del
coimputato, e non si traduce in una garanzia per l'imputato. In questo senso
la Corte rileva come gli argomenti individuati dal giudice di merito come cause
dell'impossibilità di citare in giudizio in qualità di responsabile civile l'ente non
abbiano, in realtà, tale capacità.
Resterà da verificare, a fronte di un orientamento giurisprudenziale
consolidato (si veda, ad es., la sent. della Corte di Cass. n. 2251 del 5 ottobre
2010), che nega la possibilità di costituzione di parte civile contro l'ente
imputato, se tali considerazioni offerte dalla Corte Costituzionale possano
rafforzare quella linea di pensiero, sostenuta in dottrina, che ritiene,
all'opposto, necessario doversi riconoscere tale possibilità, sostenendosi, anzi,
che questa sarebbe già consentita dall'assetto complessivo della normativa in
materia.
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Il diritto penale economico europeo ed internazionale.
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12. È comunitariamente illegittima l’imposizione delle vincite
da giochi d’azzardo ottenute all’estero se quelle ottenute
all’interno dello Stato sono assoggettate ad un diverso regime
fiscale (Corte di Giustizia dell’Unione europea, Terza
Sezione, sentenza, Blanco, C-344/13, Fabretti, C-367/13, contro
Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale I di Roma –
Ufficio Controlli, 22/10/2014).
La sentenza in commento si presenta come un ulteriore caso nel quale la Corte
di Giustizia rigetta il tentativo di uno Stato membro, nel caso specifico l’Italia,
di adottare norme restrittive delle libertà di circolazione previste dai trattati
fondandosi sul presupposto – non accolto dalla Corte – che esse siano poste a
tutela di interessi primari ed integrino quindi la nozione di “ordine pubblico”
che giustifica la deroga. Nello specifico, lo Stato italiano asseriva che il
differente regime fiscale applicabile alle vincite dei giochi d’azzardo,
nettamente divergente a seconda che essi fossero realizzati in Italia ovvero
all’estero, era da ritenersi giustificato per la tutela di interessi quali il contrasto
del riciclaggio e della ludopatia. Confermando la linea interpretativa emersa
costantemente nella sua giurisprudenza, la Corte di Giustizia esclude che
l’individuazione di interessi degni di protezione e tutelati penalmente possa
per ciò solo consentire di ritenere fondata la deroga e giunge a concludere che
essa, nel caso di specie, non soddisfa i requisiti richiesti dal trattato.
Più, in dettaglio, nell’ordinamento italiano, l’art. 30 co. 1 del d.P.R n. 600, del 29
settembre 1973, recante disposizioni comuni in materia di accertamento delle
imposte sui redditi prevede che: “(...) le vincite derivanti dalla sorte, da giuochi
di abilità, quelli derivanti da concorsi a premio, da pronostici e da scommesse,
corrisposti dallo Stato, da persone giuridiche pubbliche o private e dai
soggetti indicati nel primo comma dell’articolo 23, sono soggetti a una
ritenuta alla fonte a titolo di imposta (…)”. Tuttavia, tale disposizione non si
applica alle vincite corrisposte da case da gioco italiane.
La Commissione tributaria provinciale di Roma ha ritenuto che, sulla base
della giurisprudenza della Corte, tale diversità di trattamento potrebbe essere
considerata giustificata qualora rientrasse in una disposizione derogatoria
espressa, come l’articolo 52 TFUE cui l’articolo 62 TFUE rinvia, e fosse intesa a
garantire l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sanità pubblica, restando
conforme al principio di proporzionalità e garantendo effettivamente la
realizzazione dell’obiettivo addotto in modo coerente e sistematico. Su tali basi
è stata adita la corte di Giustizia, con la seguente questione pregiudiziale: “se
l’assoggettamento ad obblighi dichiarativi ed impositivi a fini fiscali delle
vincite conseguite presso case da gioco di Paesi membri dell’Unione europea
da persone residenti in Italia, come previsto dall’articolo 67, paragrafo 1, lettera
d), del DPR 917/86, si ponga in contrasto con l’articolo 56 TFUE, oppure se sia
da ritenersi giustificato da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di
sanità pubblica, ai sensi dell’articolo 52 TFUE”.
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In prima battuta, la Corte giunge, senza discostarsi dalla sua consueta linea
interpretativa, ad affermare che “una normativa nazionale come quella in
esame nei procedimenti principali genera una restrizione discriminatoria
della libera prestazione dei servizi, quale garantita dall’articolo 56 TFUE,
nei confronti non soltanto dei prestatori ma anche dei destinatari di tali
servizi” (§33).
In seconda battuta essa ritiene altresì che tale restrizione discriminatoria non
possa essere giustificata. Secondo il giudice del rinvio, la normativa italiana
mirerebbe non tanto a proteggere le case da gioco nazionali, quanto a
scoraggiare le pratiche del riciclaggio e dell’autoriciclaggio di capitali all’estero,
nonché a limitare le fughe all’estero o le introduzioni in Italia di capitali privi
di origini controllabili. Tuttavia, osserva la Corte, “una normativa nazionale
come quella in esame nei procedimenti principali può essere giustificata soltanto
nella misura in cui persegua obiettivi corrispondenti ai motivi di ordine pubblico, di
pubblica sicurezza e di sanità pubblica di cui all’articolo 52 TFUE. Inoltre, occorre
ricordare che le restrizioni imposte dagli Stati membri devono soddisfare i
requisiti di proporzionalità” (§ 39 della sentenza).
Nei parr. 41 e ss. della sentenza sono respinte in dettaglio le motivazioni dello
Stato italiano. “Per quanto riguarda, prima di tutto, gli obiettivi invocati dal
governo italiano, relativi alla prevenzione del riciclaggio di capitali e alla
necessità di limitare le fughe all’estero o le introduzioni in Italia di capitali di
origine incerta, e senza che occorra stabilire se tali obiettivi siano suscettibili di
ricadere nella nozione di ordine pubblico, è sufficiente constatare, anzitutto,
che, come risulta dalla giurisprudenza della Corte, le autorità di uno Stato
membro non possono validamente presumere, in maniera generale e senza
distinzioni, che gli organismi e gli enti stabiliti in un altro Stato membro si dedichino
ad attività criminali”.
“Poi, occorre rilevare che, come evidenziato dalla Commissione europea, il
governo italiano non fornisce la prova del fatto che, quand’anche raggiungano
importi elevati, i proventi della criminalità organizzata in Italia siano stati
realizzati integralmente o prevalentemente all’estero”.
“Per giunta, il fatto di escludere, in via generale, il beneficio di un’esenzione
fiscale risulta sproporzionato, in quanto va al di là di quanto è necessario per
lottare contro il riciclaggio di capitali, essendovi a tal fine altri mezzi a
disposizione degli Stati membri, come la direttiva 2005/60”.
“Infine, non si può escludere che la lotta contro la ludopatia rientri nella tutela
della sanità pubblica e possa, a tale titolo, giustificare una restrizione
discriminatoria della libera prestazione dei servizi. (…) Tuttavia, in circostanze
quali quelle di cui ai procedimenti principali, l’assoggettamento ad imposta, da
parte di uno Stato membro, delle vincite provenienti da case da gioco situate in
altri Stati membri e l’esenzione di vincite siffatte provenienti dalle case da
gioco situate nel territorio di detto Stato non sono idonei a garantire in maniera
coerente la realizzazione dell’obiettivo della lotta contro la ludopatia, dato che una
simile esenzione può incoraggiare i consumatori a partecipare ai giochi
d’azzardo, permettendo loro di beneficiare di questa esenzione”.
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Ne consegue che la discriminazione in esame nei procedimenti principali non
è giustificata ai sensi dell’articolo 52 TFUE e che gli articoli 52 e 56 TFUE
devono essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di uno Stato
membro, la quale assoggetti all’imposta sul reddito le vincite da giochi
d’azzardo realizzate in case da gioco situate in altri Stati membri, ed esoneri
invece dall’imposta suddetta redditi simili allorché provengono da case da
gioco situate nel territorio nazionale di tale Stato.
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13. Circa la portata degli obblighi di verifica ai sensi della
Direttiva 2005/60/CE, relativa alla prevenzione dell'uso del
sistema finanziario a scopo di riciclaggio (Corte di Giustizia
dell’Unione europea, domande di pronuncia pregiudiziale
proposte dall’Audiencia Provincial de Barcelona, 13.05.2014,
Safe Interenvios, S.A. / Liberbank, S.A., e altri, C-235/14).
L’Audiencia Provincial di Barcellona pone alla Corte di Giustizia dell’Unione
europea numerosi quesiti nell’ambito dei procedimenti civili che vedono
contrapposta la società Safe Interenvios a diversi istituti bancari (Liberbank,
Banco de Sabadell e Banco Bilbao Vizcaya Argentaria). I procedimenti da cui
originano le questioni pregiudiziali attengono all’attività della Safe Interenvios,
società dedita all’intermediazione nell’acquisto di valuta straniera dietro il
versamento ad opera del cliente del prezzo corrispondente in euro o in altra
valuta straniera. Le banche convenute nel procedimento principale hanno
fatto valere che gli obblighi prudenziali – imposti dalla Direttiva 2005/60/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, relativa alla
prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi
di attività criminose e di finanziamento del terrorismo (GU L 309, pag. 15) – si
imporrebbero anche nei rapporti con enti creditizi o finanziari, così inibendo o
limitando sensibilmente l’operatività della società Safe Interenvios.
Il giudice spagnolo si rivolge quindi alla Corte del Lussemburgo affinché
chiarisca in via interpretativa la portata effettiva di talune disposizioni della
Direttiva in oggetto.
1. Si chiede anzitutto al giudice eurounitario di chiarire la portata dell’articolo
11, paragrafo 1, della direttiva 2005/60/CE, il quale statuisce una deroga agli
obblighi di adeguata verifica della clientela di cui agli artt. 7 e successivi della
direttiva medesima, escludendo dall'ambito di applicazione della stessa gli enti
e le persone soggetti agli obblighi laddove il cliente sia un ente creditizio o
finanziario soggetto alla presente direttiva, oppure un ente creditizio o
finanziario situato in un paese terzo, che imponga obblighi equivalenti a quelli
previsti dalla presente direttiva e preveda il controllo del rispetto di tali
obblighi.
In particolare, si specifica il quesito in tre ulteriori questioni.
a. Se, in combinato disposto con l’articolo 7 della direttiva in parola, il
legislatore comunitario abbia voluto stabilire una vera e propria deroga
alla possibilità che gli enti creditizi possano adottare obblighi di
adeguata verifica della clientela quando i clienti siano istituti di
pagamento, a loro volta soggetti al proprio sistema di vigilanza, oppure
una semplice autorizzazione alla deroga.
b. Se, in combinato disposto con l’articolo 5 della summenzionata direttiva
(per effetto del quale: “Per impedire il riciclaggio e il finanziamento del
terrorismo, gli Stati membri possono adottare o mantenere disposizioni
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più rigorose nel settore disciplinato dalla presente direttiva”), il
legislatore nazionale possa trasporre la deroga di cui alla norma citata in
termini diversi dal suo proprio contenuto.
c. Se la deroga di cui all’articolo 11, paragrafo 1, possa essere applicata anche
agli obblighi rafforzati di verifica – previsti dall’art. 13 della direttiva
medesima (per es. sulla base della valutazione del rischio esistente, nelle
situazioni che per loro natura possono presentare un rischio più elevato
di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e comunque nei casi
indicati ai paragrafi 2, 3 e 4 e in altre situazioni che presentano un
elevato rischio di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, e che
soddisfano i criteri tecnici definiti a norma dell'articolo 40,paragrafo 1,
lettera c)) – nelle stesse condizioni in cui si applica agli obblighi di
adeguata verifica.
2. In subordine, qualora la risposta alle questioni precedenti deponga a favore
della possibilità per gli enti creditizi di poter adottare obblighi di adeguata
verifica e obblighi rafforzati di verifica nei confronti degli istituti di pagamento,
si articolano ulteriori, complessi quesiti:
a. Fino a quale limite si estenda la possibilità per gli enti creditizi di vigilare
sull’attività degli istituti di pagamento; se tali enti possano ritenersi
autorizzati, ai sensi della direttiva 2005/60/CE, a vigilare sulle procedure
e sugli obblighi di adeguata verifica applicati a loro volta dagli istituti di
pagamento o se tale potere spetti esclusivamente alle autorità pubbliche
contemplate dalla direttiva 2007/64/CE , nella fattispecie, il Banco de
España.
b. Se l’applicazione di tale potere di adottare misure da parte degli enti
creditizi richieda una giustificazione speciale deducibile dagli atti
dell’istituto di pagamento o se essa possa essere adottata con carattere
generale, per il semplice fatto che l’istituto di pagamento esercita
un’attività a rischio come quella del trasferimento di rimesse verso
l’estero.
c. Qualora si ritenesse necessaria una giustificazione specifica affinché gli
enti creditizi possano adottare obblighi di verifica nei confronti degli
istituti di pagamento:
i.
Quali siano i comportamenti rilevanti cui l’istituto bancario
deve prestare attenzione per adottare obblighi di verifica.
ii.
Se possa ritenersi l’ente creditizio dotato del potere di
valutare, a tal fine, gli obblighi di adeguata verifica applicati
dall’istituto di pagamento nelle sue procedure.
iii.
Se l’uso di questo potere richieda che l’istituto bancario abbia
potuto rilevare nell’operato dell’istituto di pagamento una
condotta tale da destare sospetti di collaborazione nelle
attività di riciclaggio di denaro o di finanziamento del
terrorismo.
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3. Inoltre, qualora si ritenesse che gli enti creditizi possano adottare obblighi
rafforzati di verifica nei confronti degli istituti di pagamento:
a. Se, tra tali obblighi, possa essere ravvisato quello di imporre a
detti istituti la trasmissione dei dati concernenti l’identità di tutti i
clienti da cui provengono i fondi trasferiti, nonché l’identità dei
destinatari.
b. Se sia conforme alla direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla
libera circolazione di tali dati, la circostanza che gli istituti di
pagamento debbano comunicare i dati della propria clientela agli
enti creditizi con i quali sono tenuti a operare e con i quali, nel
contempo, concorrono sul mercato.
Si tratta, com’è evidente, di un caso dalla cui risoluzione discenderanno
rilevantissime conseguenze anche in relazione al versante penalistico e
amministrativistico posto a presidio di tali obblighi e al quale pertanto gli
operatori bancari di tutti gli Stati membri, compresa l’Italia, dovranno prestare
particolare attenzione.
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14. Raccolta di scommesse sportive: il rinvio dei giudici di
legittimità e di merito (Corte di Giustizia dell’Unione
europea, domande di pronuncia pregiudiziale proposte
nell’ambito dei procedimenti penali a carico di Proia, C214/14; Biolzi, C-213/14; De Ciantis, C-212/14; Di Adamo, C-211/14;
Tomassi, C-210/14).
Il contenzioso relativo alla attività di raccolta delle scommesse sportive in Italia
non accenna a diminuire, anche per effetto della nota sentenza della Corte di
giustizia EU, IV Sez., Costa e Cifone, 16 febbraio 2012, cause riunite C-72/10 e C77/101, con la quale i giudici del Lussemburgo avevano dichiarato che “Gli
articoli 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che
vengano applicate sanzioni per l'esercizio di un'attività organizzata di raccolta
di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti
di persone legate ad un operatore che era stato escluso da una gara in
violazione del diritto dell'Unione, anche dopo la nuova gara destinata a
rimediare a tale violazione, qualora quest'ultima gara e la conseguente
attribuzione di nuove concessioni non abbiano effettivamente rimediato
all'illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara”.
In data 25 aprile 2014, nell’ambito dei procedimenti penali a carico di Proia (C214/14), Biolzi (C-213/14), De Ciantis (C-212/14), Di Adamo (C-211/14) e Tomassi (C210/14), la Corte di Cassazione ha sollevato le seguenti questioni pregiudiziali:
• se gli articoli 49 e ss. e 56 e ss. del T.F.U.E., come anche letti dalla sentenza
della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 16/02/2012 nelle cause
riunite C-72/10 e C-77/10, vadano interpretati nel senso che essi ostano a che
venga bandita gara riguardante concessioni di durata inferiore a quelle in
passato rilasciate, laddove detta gara sia stata indetta all’affermato fine di
rimediare alle conseguenze derivanti dall’illegittimità dell’esclusione di un
certo numero di operatori dalle gare precedenti;
• se gli articoli 49 e ss. e 56 e ss. del T.F.U.E. come anche letti dalla suddetta
sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, vadano interpretati
nel senso che essi ostano a che l’esigenza di allineamento temporale delle
scadenze delle concessioni costituisca giustificazione adeguata di una
durata delle concessioni poste in gara ridotta rispetto a quella dei rapporti
concessori in passato attribuiti;
• se gli articoli 49 e ss. e 56 e ss. del T.F.U.E. come anche letti dalla suddetta
sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, vadano interpretati
nel senso che essi ostano ad una previsione di obbligo di cessione a titolo
non oneroso dell’uso dei beni materiali ed immateriali di proprietà che
costituiscono la rete di gestione e di raccolta del gioco in caso di cessazione
dell’attività per scadenza del termine finale della concessione o per effetto
di provvedimenti di decadenza o revoca.
In data 9 dicembre 2013, è stata proposta alla Corte di Giustizia domanda di
pronuncia pregiudiziale dal Tribunale ordinario di Cagliari (Italia) nell’ambito
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del procedimento penale a carico di Mirko Saba (Causa C-652/13). Le questioni
poste sono state le seguenti:
• se gli artt. 49 e segg. e 56 e segg. del TFUE ed i principi affermati dalla Corte
di Giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza 16 febbraio 2012 [cause
riunite C-72/10 e C-77/10], vadano interpretati nel senso che essi ostano a
che vengano poste in gara concessioni di durata inferiore a quelle in
passato rilasciate, laddove la detta gara sia stata bandita al fine di rimediare
alle conseguenze derivanti dall’illegittimità dell’esclusione di un certo
numero di operatori dalle gare;
• se gli artt. 49 e segg. e 56 e segg. del TFUE ed i principi affermati dalla Corte
di Giustizia dell’Unione Europea, nella medesima sentenza 16 febbraio 2012
[cause riunite C-72/10 e C-77/10], vadano interpretati nel senso che essi
ostano a che l’esigenza di riordino del sistema attraverso un allineamento
temporale delle scadenze delle concessioni costituisca giustificazione
causale adeguata di una ridotta durata delle concessioni poste in gara
rispetto alla durata dei rapporti concessori in passato attribuiti.
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