Indice
Introduzione p. 2
Capitolo I p. 5
Genesi del mito p. 6
Genesi dell’opera p. 9
Voici donc une tragédie dont le sujet est pris d’Euripide.. (e Seneca) p. 12
Une juste à qui à manqué la grâce ? p. 15
Capitolo II p. 19
Cenni storici p. 19
Accenni di teologia giansenista p. 21
Racine e il Giansenismo p. 24
Capitolo III p. 27
L’eroe tragico p. 30
La coscienza del tragico p. 31
Fedra, tra Pascal e Racine p. 34
Il suicidio, o della rivolta p. 39
Capitolo IV p. 43
Il destino nella Phèdre p. 44
À la fatalité comment me dérober ? p. 48
« Io reputo che tutto sia bene » p. 51
Conclusioni p. 57
Bibliografia p. 60
0.0
J’ai voulu , devant vous exposant mes remords,
Par un chemin plus lent descendre chez les morts
J’ai pris, j’ai fait couleur dans mes brûlantes veines
Un poisson que Médée apporta dans Athènes.
(…)
Elle expire, seigneur.
Muore.
Fedra muore.
Si suicida.
Marguerite Yourcenar in, Feux, scrive – c’est à cause de lui qu’elle est morte ; c’est à cause d’elle qu’il n’a pas vécu ; il ne lui doit que la mort ; elle lui doit les sursauts d’une inextinguible agonie -.
M. Yourcenar, Feux, Paris, Gallimard, 1974, p. 27
Ma non è di questo che vogliamo parlare, non è il binomio di cause e conseguenze che voglio mettere a fuoco, non è per un uomo né a causa di un uomo che Fedra muore. Ippolito è una scusa, un escamotage un po’ cortese per coprire quella che è una personalità a sé stante, autonoma, indipendente che non sceglie di morire per un amore non corrisposto, o per delle colpe non compiute, bensì la sua scelta è la totale affermazione della sua persona, si avvicina alla fine con una consapevolezza sempre crescente: Fedra vede, percepisce, esperisce emotivamente la realtà e quanto essa sia mutevole, paradossalmente variegata. Fedra sa che le cose non sono tutte bianche o tutte nere, che non esiste la completezza senza la totalità. Eccolo il tragico paradosso. Non può vivere in un mondo preconfezionato, in una dimensione prestabilita e peraltro strutturata su menzogne e inganni, sulla legittimazione di qualcosa che altrimenti non lo sarebbe.
Fedra è figlia del sole.. non sa conformarsi alla regola.
Figlia, sorella, cugina di creature sovversive, ha nel sangue, come un’eredità scomoda, la ribellione.
Non muore per amore, sarebbe banale e superficiale un epilogo tanto scontato, degno di un romanzetto rosa; senza dubbio non era nelle corde di Racine.
Lei è rivincita. Ippolito è la scusa.
Fedra ha la piena percezione dell’entità della decisione presa, sa cosa sta facendo, non è così avventata da togliersi la vita per amore.
Perfettamente consapevoli che trattando di Fedra si sa dove si comincia ma non dove si finisce, ci avventuriamo in questo labirinto di richiami senza tempo di cui lei è sovrana indiscussa. Un luogo dove tutto è presente e assente nello stesso istante, il punto esatto in cui i fili di tutti i destini si sono annodati in una stretta letale.
La “cretese” è un personaggio che ha iniziato ad affascinare da quando ha visto la luce e tutt’ora continua a farlo, forse, addirittura, con maggiore intensità. Ha esercitato, nel tempo, un’attrazione magnetica irresistibile sia sugli esperti in campo letterario sia sui semplici fruitori dell’opera.
Ci s’interroga spesso sulla natura della seduzione che da sempre l’accompagna. Inutile dire che ancora non è stata trovata una risposta.
Si può certamente affermare che parte del merito è dovuta alla capacità compositiva di Racine, più volte, lungo il nostro percorso, ci soffermeremo a considerare quanto, la sua opera, sia un’opera aperta. Il drammaturgo francese, infatti, dissemina lungo il dispiegarsi delle vicenda elementi la cui lettura non si presenta a senso unico, lasciando, così, la tragedia, aperta ad un’interpretazione soggettiva. La rosa delle possibili letture date alla Phèdre è infatti decisamente variegata.
La morte di Fedra, o meglio, il suo suicidio lascia il pubblico interdetto, indeciso tra l’inevitabile impulso di condanna verso la nostra eroina, che affonda le sue radici in secoli d’influssi cattolici e nella morale antica, anch’essa estremamente critica verso un simile gesto; e un’invadente e pervasiva pulsione alla compassione, la cui entità varia in base alla capacità empatica di ciascuno di noi. Comune a tutti, è la sensazione di aver assistito a qualcosa che non avrebbe dovuto essere. Fedra ci lascia in bilico.
Un precario equilibrio che è l’unico possibile: non la si può condannare, ma non la si può nemmeno assolvere.
Fedra lascia senza fiato e senza risposte.
Si rimane senza parole perché non c’è nulla da aggiungere, nulla da recriminare, nulla da considerare. Quello che la segue è il silenzio. Il silenzio dell’ordine ristabilito. Il silenzio di un mondo abbandonato dalla vita, dall’impulso dionisiaco portatore di cambiamento.
Si è garantita l’immortalità: “la luminosa”, come scrive d’Annunzio, sarà indimenticabile.
Non si cura delle faccende del mondo, lei è divinamente umana, lei è l’umanità.. l’assoluta umanità. Non Ippolito e non Teseo come varie teorie hanno suggerito, bensì è lei la sola su cui grava il pensante fardello dell’ESSERE umano, con tutte le sue contraddizioni, perché la vita è contraddizione.
Fedra è quindi la vita.
La sua morte è un inno alla vita.
Quello che con questo lavoro si cercherà di mettere in luce è proprio quanto la sua dipartita dal mondo dei vivi, paradossalmente, sia in realtà una vittoria, una dichiarazione di amore sconfinato, per la vita.
Il rifiuto di vivere una vita a metà, fatta di menzogne e compromessi, è ribellione.
Uccidersi per questo, è rivoluzione.
Questa ricerca si presenta tutt’altro che lineare, nella sua specificità il suicidio è un punto nevralgico verso cui convergono numerose analisi letterarie, filosofiche o teologiche che siano. Inoltre esiste poca documentazione di critica letteraria relativa all’argomento specifico del “problema del suicidio” nella Phèdre. Per questo lavoro, quindi, volgeremo lo sguardo anche verso testi di orientamento prettamente filosofico come Le Dieu caché di Lucien Goldmann o Le mythe di Sisyphe, di Albert Camus, senza tralasciare gli studi specifici inerenti alla filosofia del tragico come quelli fatti da Karl Jaspers, György Lukács, René Girard o Friederich Nietzche, perché possano aiutarci a trovare la giusta prospettiva da cui poter osservare e comprendere ciò che sta prendendo forma sulla scena.
Non un suicidio, bensì “IL” suicidio.
I
Le figure del mito vivono molte vite e molte morti, a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati ogni volta ad un solo gesto. Ma in ciascuna di queste vite e di queste morti sono compresenti tutte le altre, e risuonano. Possiamo dire di aver varcato la soglia del mito soltanto quando avvertiamo un'improvvisa coerenza fra incompatibili.
R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia
Come si fa a parlare di Fedra senza correre il rischio d’incorrere in luoghi comuni, in discorsi triti e ritriti, e soprattutto senza rischiare costantemente di dire qualcosa di già detto e quindi sconfinare nella più scontata banalità? Ho scelto quindi un punto specifico: questa tesi verte completamente sul suicidio della “luminosa”. Ma nonostante, e alla luce di, questa considerazione mi sembra doveroso dedicare alla nostra eroina tragica qualche paragrafo focalizzato unicamente sul mito e sul personaggio, due facce della stessa medaglia che non possono, a mio avviso, prescindere l’uno dall’altro. Affrontando lo studio di una figura monolitica come quella di Fedra bisogna procedere per gradi, contemplarla nella sua complessa globalità, “(..) considerare non la tragedia di Fedra, ma quella di Pasifae nata dal Sole e dall’Oceanina, la tragedia della creatura solare fatta preda d’Afrodite nefanda, la tragedia del labirinto.”
G. D’Annunzio, R. Simoni, L’origine e il significato della Fedra D’Annunziana. Una conversazione col poeta, 1909
“I poeti tragici, sappiamo, non inventano miti, li rimodellano. Il mito stesso non ci giunge che attraverso la sua rielaborazione epica, o tragica. Ma all’inizio possiamo immaginare che esistessero rappresentazioni non mitiche, ma culturali, creazioni cioè non di leggende riguardanti dèi o eroi, ma una vera e propria liturgia, un’arte sacra con i suoi differenti momenti e motivi rituali”
N. Fusini, La luminosa. Genealogia di Fedra, Milano, Feltrinelli, 1990, pp. 77-78
Quindi, la “Minoide”, prima di essere la Fedra di Racine è se stessa, sembra paradossale, ma non è stata generata dalla mente di qualche grande scrittore, a differenza di molti altri protagonisti di opere immortali e dalle stesse resi indelebili nella memoria del pubblico. La “luminosa” è immortale di per sé, le sue radici risalgono alla Creta del V secolo a.C., e da allora non è mai scomparsa. Ha subìto metamorfosi, ma ha percorso in tutta la sua estensione la linea del tempo, talvolta rimanendo periferica, talvolta proiettata sulla ribalta, celebrata dai più grandi drammaturghi. Ciò nonostante bisogna prendere come assunto la sua presenza costante nel substrato culturale dell’umanità.
Genesi del mito
Il primo passo in questo intricato labirinto di storie antiche, storie di uomini e dèi, che costituiscono un incredibile arazzo culturale dal misterico fascino, è quello di trovare il capo del filo in cui mi sono imbattuta e seguirlo nella sua interezza. Seguendo le tracce lasciate dalle leggende intrecciate tra le fila della storia, percorreremo a ritroso la linea del tempo alla ricerca dell’identità primitiva e originaria di Fedra.
Il passato della regina Cretese è sempre presente nelle tragedie, sotto forma di echi quasi impercettibili e di frammenti appartenenti ad un altro universo che non sono andati perduti nell’oblio del tempo, ma sono rimasti latenti nel substrato dei testi che si sono succeduti nello scorrere dei secoli perché destinati ad essere colti da animi sensibili.
“Nel nome di Pasifae, nell’invocazione di divinità quali Britomarte, o Dittina , nel ricordo del Minotauro e del labirinto, risuona la vibrazione di un altro mondo. Indistinto, vago nei contorni, e tuttavia denso, depositato nello strato profondo del testo, posa il mito”.
N. Fusini, La luminosa. Genealogia di Fedra, op. cit., p. 79
Scrive Nadia Fusini, e infatti nell’opera vibra un sottotesto i cui echi talvolta raggiungono il livello più superficiale del testo.
Per cogliere questi punti di congiunzione tra presente e passato, bisogna fare un passo indietro. Cercare Fedra, risalire alle sue origini, per trovarla nella ridente e pacifica isola di Creta.
Perché Fedra non si è suicidata per decisione di un drammaturgo, non lo ha fatto per rendere spettacolare la sua tragedia. No, si è suicidata per quello che era o non era, spinta da una pulsione interna, non esterna. Non si tratta di semplice necessità di spettacolarizzazione, quello che oggi sarebbe mero show business. Tutt’altro. La prima cosa che appare evidente ai nostri occhi quando ci si avventura per gli intrecciati sentieri della sua storia è che nulla è a caso.
È questo il leitmotiv della sua storia.
Ciò che accade nella tragedia euripidea, senecana, raciniana e cosi via, non è assolutamente un caso. I semi erano già stati gettati allora, e come occulte e fluttuanti vibrazioni hanno percorso i secoli successivi, sottotraccia ma costantemente. Si tratta di marchi identificativi.
Nel passaggio da culto a mito, quindi, è avvenuta una stratificazione mitico-culturale, grazie alla quale nulla è andato perduto, solo sedimentato.
E come un’eco lontana riecheggia la verità, o meglio, la verità di Fedra.
La prima tappa di questo percorso quindi ci porta a Creta, che secondo gli studi è stata una delle aree geografiche in cui si mantenne più a lungo il culto della dea madre,
Divinità femminile venerata, con nomi differenti, tra il paleolitico ed il neolitico nell’aerea mediterranea. Plausibilmente creata dalle società matriarcali come quella Minoica è identificabile con la Madre terra. una dea che non dipendeva da un dio maschio, di cui si serviva solo per procreare. La dea madre raccoglieva in sé tutti gli aspetti del vivere, quindi gli stessi opposti, ed era rappresentata non solo con forme antropomorfe, ma anche fitomorfe e spesso zoomorfe. L’iconografia bovina infatti era molto frequente, ampiamente testimoniata dalla ricorrenza dell’immagine del toro nei monumenti cretesi. In essa coesistevano quindi molteplici identità.
Di lei non si conosce il nome originario, ma l’attributo più ricorrente era pasiphaessa, colei che tutto illumina. Non è certo un caso che, nelle tragedie che vedranno Fedra come eroina tragica, sia indicata Pasifae come madre.
Quando arrivarono gli Achei sull’isola ebbe così inizio lo smembramento degli attributi di Pasifae.
Gli dèi olimpi infatti derivano proprio dalla scissione dei vari aspetti della dea. Presero così forma dee singole, ciascuna delle quali depositaria di una sola delle sfaccettature della dea madre.
Progressivamente inizia a nascere l’Olimpo.
La seconda tappa di questo processo è stata trasferire le capacità generative della Potnia in divinità maschili. Essendo, quella greca, una società patriarcale, non poteva essere tollerato che simili caratteristiche fossero un libero appannaggio di una divinità femminile. L’intero processo di rielaborazione e trasformazione termina con la nascita di “coppie divine legittime” per controllare così le divinità femminili la cui “irrefrenata libertà congenita alla loro natura” minacciava il potere maschile. Questo è il primo grande furto culturale operato dalla civiltà greca, la quale però non si limitò solo a prendere e smembrare, ma anche a rielaborare simboli con una tavola di valori del tutto diversa. In questo scenario di metamorfosi, troviamo finalmente Fedra che, nella cultura Cretese, era rappresentata come una ridente fanciulla che giocava sull’altalena.
La fanciulla che andava sull’altalena, presentava due schemi dinamici: il primo e più immediato è quello della “verticalità ascensionale” che rimanderebbe alla crescita verso l’alto delle piante; il secondo, l’arco del cerchio descritto dal movimento dell’altalena la collega per analogia al ciclo delle stagioni, al ritmo solare; al tempo stesso si può aggiungere un simbolismo erotico all’altalena stessa come oggetto sessuale: la struttura esterna dell’altalena rappresenterebbe l’uomo, la seggiola la donna e l’oscillazione l’unione sessuale. In J. Hani, La fête athénienne de l’aiora et le symbolisme de la balançoire , 1978 Lo studioso Charles Picard
Ch. Picard, Phédre à la balançoire et le symbolisme des pendaisons, in “Revue Archéologique”, n°5, 1928, p.28 è giunto alla brillante intuizione, ovviamente suffragata da studi storico-religiosi ed archeologici, che l’ identità originaria di Fedra fosse quella di un genio agrario minoico. L’arrivo degli Achei trasforma così la natura positiva della “luminosa” . Pausania, infatti, aveva interpretato la corda dell’altalena su cui dondolava Fedra come riferimento simbolico alla morte per impiccagione, impiccagione che, poi, è quella che Euripide nella sua tragedia attribuisce a Fedra, causata da un amore non corrisposto. Si presume infatti che quando gli Achei invasori vennero a contatto con la civiltà matriarcale e con la religiosità della Potnia minoica, incapaci di comprenderne a fondo il significato, si fossero appropriati degli elementi di questa civiltà, svuotandoli però di ogni connotato socio-religioso, o trasformandoli, così da perderne il primitivo valore.
Ecco quindi come Fedra, e tutte le donne della sua stirpe, da figure positive e portatrici di vita diventano delle suicide.
La trasformazione delle figure femminili nel passaggio dal mondo cretese a quello greco è particolarmente significativa; essendo infatti la società greca una società fortemente maschilista, come è già stato sottolineato più volte, ripropone tutte le figure femminili mutuate da Creta e dall’Oriente come creature misteriose e pericolose, profonde conoscitrici della magia, come per esempio Circe e Medea, quest’ultima cugina di Fedra e Arianna.
Colei che aiutò Teseo a sconfiggere il Minotauro e ad uscire vivo dal labirinto. Teseo le promise di portarla con sé a Creta e di sposarla, ma abbandonò la sventurata sull’isola di Nasso, dove trovò la morte anch’essa per impiccagione.
Una fra tutte è la storia di Pasifae.
Si narra, infatti, che folle di gelosia, la moglie di Minosse, per punire l’infedeltà del marito avesse lanciato un incantesimo che condannava tutte le donne possedute dal consorte a morire divorate da scorpioni e serpenti
I serpenti sono animali ctonii associati alla Potnia, signora dell’oltretomba. che uscivano dal suo corpo durante il coito.
Osservando la genealogia di Fedra si nota che, come la maggior parte delle creature discendenti dalla tradizione minoica, essa è collocata dalla tradizione greca in una posizione intermedia tra l’umano e il divino. Ricorrenti unioni esogamiche
Unioni tra dio e uomo presenti nel suo albero genealogico, e le tracce di boomorfismo che connotano la dea madre, Io e Pasifae
da Io e Pasifae nascono rispettivamente dei figli: in Egitto Epafo ed a Creta il Minotauro. rivelano la contiguità tra la religiosità cretese e quella egizia, evidenziando così l’area mediterranea come quella in cui fiorì il culto preellenico della dea madre che riflette in finale i caratteri divini della stirpe di Fedra, ma che, filtrata dalla cultura greca, diventano sintomi di abominio e mostruosità.
Genesi dell’opera
“.. né i mostri, né gli dèi abitano più i cieli o i campi,
ma sono qui, dentro di noi”
André Gide
Come sappiamo, i primi riferimenti a Fedra che troviamo sono quelli di Omero.
Odissea, XI, 321 Il primo che ne trasse un’opera fu Euripide. A seguire incontriamo Ovidio e Seneca, quest’ultimo annovera Fedra tra i massimi traguardi artistici della sua produzione.
La messinscena di Euripide, portando sul palco il rapporto tra divinità e uomo, rimane un evento religioso, mentre la novità di Seneca consiste proprio nel “trasferire la tragedia dal cielo alla terra”
E. Paratore, Introduzione, in Seneca, Tragedie, Roma, Gherardo Casubum 1987, p. XXIII, fondando così il teatro moderno, le cui dinamiche si risolvono nell’animo e nella psiche dei personaggi umani, e non nei disegni divini.
A ben pensarci Racine deve moltissimo al suo predecessore latino.
Nella versione Senecana, nonostante Ippolito rimanga protagonista dell’opera e sia proposto come campione di virtù stoiche, Fedra assume per la prima volta un ruolo significativo all’interno dell’economia dell’opera. Essa è infatti oggetto degli strali di Venere che perseguita lei e la sua stirpe; e la stessa durata della sua presenza all’interno della tragedia assume un valore significativo. Infatti a differenza del lavoro Euripideo, che la presenta più come una comparsa che come un personaggio di rilievo, Fedra, nella versione latina, è presente fino alla conclusione dell’opera, morendo dopo lo stesso Ippolito.
In Francia l’evoluzione del tema di Fedra assume come modelli esclusivamente, o quasi, Seneca ed Euripide. Vediamo crollare il modello religioso o filosofico di un Ippolito casto e martire, in quanto non se ne comprendeva più il senso; inoltre questi inizia gradualmente a perdere consensi in favore di Fedra.
Si ricordano in ordine l’Hippolyte di Garnier (1573), quello di La Pinelière (1634-35) e quelli di Gilbert (1645) e Bidar (1675) . Da questo momento in poi Ippolito amerà Fedra che, non essendo più sposata, non sarà accusata di adulterio e la calunnia sarà attribuita ad un altro personaggio, nel caso di Gilbert, o avrà delle attenuanti per Bidar.
L’unico elemento volto a conservare il suo valore primitivo sarà il mostro marino.
Racine, pur conservando memoria di Gilbert e Bidar, ristabilisce in un certo qual modo i dati originali. Per quanto riguarda Euripide si parla di tre scene: l’”aveu” di Fedra alla nutrice, la denuncia d’Ippolito da parte di Teseo e il “récit” della morte dell’eroe.
Da Seneca ha trattenuto la scena capitale, la dichiarazione di Fedra ad Ippolito, la spada dello stesso poi usata come prova contro di lui, la prigionia di Teseo che ne causa l’assenza
Seneca ne parla in modo più approfondito, Euripide la definisce un viaggio senza scendere nei particolari e Plutarco ne offre una doppia versione e inizialmente lo presenta come il tentativo di Teseo di rapire la figlia di Ade (Racine e Pausania fanno riferimento alla moglie), successi1vamente si orienta verso la fantasiosa ipotesi che un re dell’Epiro si sarebbe chiamato Aïdoneus, la di lui sposa Persefone ed, eccezionalmente, il loro cane Cerbero. e la morte d’Ippolito innocente e reso tale da una Fedra morente.
Come scrive Knight, « une tragédie antique est toujours trop simple de plan, trop démunie d’épisodes, de scènes, pour servir directement de base à une tragédie française »
R.C. Knight, Racine et la Grèce, Paris, Boivin, 1950, pp.337; infatti, alcuni elementi di modernità (tra i quali l’amore che lega Ippolito e Aricia, le conseguenze dirette di questo sentimento e i “progetti” politici) Racine li ha mutuati da Bidar.
Eredità euripidea è ancora la collocazione della scena a Trézène, nella villa di Pitteo, terra materna di Teseo. Scelta controcorrente, questa, perché tutte le altre tragedie hanno seguito l’orientamento senecano di situare l’azione ad Atene. È a Trézène però che nasce la leggenda d’Ippolito: fu infatti il luogo tradizionale del suo supplizio; secondo Euripide è là che Teseo avrebbe inviato il figlio per farlo crescere sotto la tutela di Pitteo. Per riunire poi i personaggi del suo dramma, il poeta greco finge che Teseo sia stato esiliato da Atene con Fedra per purificarsi dal sangue dei Pallantidi che aveva massacrato, lasciando poi la sua sposa a Trézène per andare da solo alla ricerca di riti espiatori.
L’aspetto fondamentale della pièce è che l’amore, al tempo stesso involontario e criminale, ha radici profonde nella storia letteraria. Ma prima di tutto però bisogna chiarire il problema dell’incesto, focalizzare bene di cosa Fedra poteva in realtà essere accusata e come, nel tempo, si sia trasformata la sua colpa.
Ai tempi di Sofocle ed Euripide una vedova poteva sposare il figlio del marito defunto, quindi va da sé che l’incesto non fosse nemmeno lontanamente contemplato tra le accuse pendenti sul capo di Fedra. La sua vera colpa era quella di adulterio.
Il diritto romano invece era contrario a tale sorta di unioni, anche se sotto il regime imperiale si annoverano molti casi in cui matrimoni cosiddetti incestuosi furono legittimati. Ragion per cui Seneca, quando parla d’incesto, lascia comunque intuire una speranza.
Al tempo di Racine, il diritto civile ratificava il diritto canonico, che a sua volta si fondava sul diritto romano. Ecco perché la Phèdre raciniana ha ragione d’essere considerata incestuosa. Colpevole o meno di tale misfatto, Fedra, in ogni opera, da quella di Euripide a quella raciniana, prova una vergogna tale da spingerla al suicidio, quindi, nonostante alcuni abbiano voluto vedere nel rifiuto di Fedra verso il suo “crimine” un’attitudine cristiana, risulta evidente che si stia invece parlando di un sentimento semplicemente umano, che non appartiene quindi in particolare a nessuna epoca.
Un’altra scelta su cui vale la pena soffermarsi sono le origini umane di Teseo. Euripide e Seneca fanno del vecchio re il figlio di Nettuno, mentre Racine, seguendo il suggerimento di Plutarco, preferisce Teseo in veste mortale, facendo così di Nettuno il suo protettore.
Per quanto riguarda Ippolito, è stato riproposto il modello dell’incesto, ma il suo personaggio è stato costruito su presupposti diversi rispetto all’antichità. Nel XVII secolo vediamo infatti profilarsi un modello non più votato alla castità e quindi lontano da quelli che erano normali sentimenti umani.
La verginità perenne è segno d’invincibile distacco. La copula, mîxis, è “mescolanza” col mondo. Vergine è il segno isolato e sovrano.
R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Amonia, Milano, Adelphi, 1988, p. 68
Racine rinuncia così alla castità come virtù positiva, rendendo Ippolito capace di amare e facendolo innamorare di Aricia. Quello che fa Racine, in sostanza, è renderlo meno antipatico e distante rispetto alla sensibilità del pubblico. Infatti, come è stato detto all’inizio di questo paragrafo, certi cambiamenti sono stati dettati dal fatto che la società francese contemporanea del nostro drammaturgo non avrebbe compreso la necessità di simili caratteristiche, perché, ovviamente erano cambiati i valori.
Voici donc une tragédie dont le sujet est pris d’Euripide.. (e Seneca)
Lei gettatela in una fossa: sull’empio capo gravi la terra con tutto il suo peso.
Ecco come chiude Seneca il suo dramma. Senza possibilità di riscatto.
Tra Seneca e Racine ci sono molte assonanze. Per quanto l’autore francese abbia voluto nasconderlo, o quantomeno smussarlo, il suo debito nei confronti del drammaturgo romano ha lasciato tracce piuttosto evidenti.
Là dove la tragedia greca presentava dinamismo e profondità di campo, Seneca risponde con bidimensionalità e staticità; ad una luminosità del dettato e una descrizione oggettiva dei sentimenti viene contrapposto eclettismo morale e filosofico, soggettivismo psicologico, sovraccarico di dati reali di segno negativo, una complessità postclassica e barocca; tutto questo garantisce a Seneca un’elevata profondità di analisi e penetrazione psicologica.
Che è in fondo quello che si attribuisce allo stesso Racine.
I motivi morali della Fedra senecana appartengono all’etica stoica: imperturbabilità dinanzi alle disavventure della vita; moderazione nei desideri; disprezzo delle ricchezze e dei beni materiali; caducità del potere e della fortuna; il lathe biosas epicureo; il suicidio come estremo rimedio ai mali dell’esistenza.
Seneca è considerato il fondatore del teatro moderno proprio perché è stato modello di grandi drammaturghi del Cinquecento e Seicento europei; quello che di lui ha affascinato, e continua tutt’ora ad affascinare, sono le “atmosfere infernali, demoniache, raccapriccianti, colorite di sangue”
M. Pagnini, Seneca e il teatro elisabettiano, in “Dioniso”, n° 52, 1981, p. 395 nonché il gusto retorico per la teatralità, l’espressionismo barocco e il particolare macabro.
È chiara la volontà di raffigurare in chiave drammatica l’umana follia in tutte le sue manifestazioni patologiche, in modo da mostrare al pubblico, attraverso vividi exempla, le terribili conseguenze delle passioni eccessive. Per gli stoici, infatti, le passioni erano considerate malattie dell’anima.
Seneca immortala Fedra proprio nel momento di non ritorno, nel momento più critico e tragico della sua intera esistenza. Per bocca della nutrice suggerisce a Fedra di
spegnere la fiamma, perché chi resiste in principio all’amore, ha la salvezza e vittoria; chi alimenta e blandisce il dolce male, non fa più in tempo a liberarsi dal giogo.
Come nell’Ippolito euripideo, anche Seneca propone un dualismo tra due valori: la passione e la castità. Anche se in Seneca l’elemento metafisico è ridotto ad un rimando mitico.
(…) Questa mancata corrispondenza tra umano e divino contribuisce a mettere in evidenza la radicale differenza tra il dualismo euripideo e quello senecano, se infatti quello euripideo è un dualismo ontologico, che mette fisicità e corporeità, eros e castità, sullo stesso piano (ontologicamente negativo perché tali valori caratterizzano in modo univoco i personaggi, dando vita a tipi umani incompleti e mutili) e che non sottende implicazioni morali, quello senecano è un dualismo esclusivamente morale, in cui passione e castità sono valori di segno opposto, messi su piani diversi (la passione è il polo moralmente negativo e la castità quello positivo).
P. Pedrazzini, L’”ombra” di Fedra, la luminosa, Roma, Bulzoni Editore, 2009, p. 105
Questo è lo scarto tra la civiltà greca e quella romana.
Osservata con attenzione, la Fedra senecana lascia trasparire i germi di quello che poi troverà completa realizzazione nel personaggio raciniano.
Pur cedendo alla tentazione, Fedra non appare assolutamente come un personaggio univocamente negativo, ma, come si dirà anche per la protagonista della tragedia di Racine, proprio la sua lacerazione interiore e la profonda umanità la fanno sentire vicina allo spettatore, che si trova di fronte ad un personaggio che cede sì al vitium, ma che è soprattutto profondamente tormentato. La “luminosa” incarna quindi il “luogo psichico in cui si dibatte il conflitto tra coscienza e conoscenza morale , poiché Fedra sa intellettualmente che il suo amore per Ippolito è un nefas, ma non sa moralmente dominarlo. Da qui il vero e proprio scontro mortale tra pulsione e pudore, tra conoscenza impotente del bene e coscienza di un male divenuto irreversibile”.
G.G. Biondi, La Fedra di Seneca…, “(…)dal punto di vista teorico siamo di fronte forse al più senecano dei filosofemi senecani: per vincere il male (…) è necessaria ma non sufficiente la conoscenza del bene, per praticare il quale occorre non solo la volontà ma anche l’esercizio perpetuo”, in AA. VV., Fedras de ayer y de hoy. Tetro, poesia, narrativa y cine ante un mito clàsico, Granada, Eug, 2008, pp. 208-209
La modernità di Fedra è data proprio, da un lato, dalla delicata e ardita fisionomia psicologica e, dall’altro, dal conflitto simmetrico fra colpa e innocenza, esattamente come sarà per l’eroina raciniana nonostante le differenze relative al mutato contesto culturale, morale, religioso e anche psicologico.
Une juste à qui a manqué la grâce?
Alcune considerazioni fatte nel precedente paragrafo portano inevitabilmente, prima di arrivare al cuore di questa tesi, a toccare un tema per certi aspetti ancora controverso, ma, senza dubbio, di capitale importanza.
La domanda che ci poniamo quindi è se l’impotenza di Fedra contro il male faccia o meno di lei una donna giusta a cui è mancata la grazia.
Né il giansenismo né nessun’altra fronda del pensiero cristiano hanno mai sostenuto che Dio potesse ispirare il peccato. Il Dio della predestinazione rifiuta infatti di concedere la forza per resistere alla tentazione che, proveniente dall’esterno, viene permessa ma non certo suscitata.
I versi che i sostenitori dell’interpretazione giansenista citano in favore della loro tesi, curiosamente, sono quelli che Racine ha mutuato dalle sue fonti antiche, e che sia Garnier che Gilbert avevano tradotto nei loro lavori. In verità l’unico elemento che potrebbe dare adito ad ipotizzare nella Phèdre la presenza di elementi di un giansenismo cosciente è la préface.
Da prendere con le dovute riserve perché le prefazioni non erano usanza dell’epoca, si ricordi l’apologia posticcia presentata come quella di Tartuffe. Quando l’autore scrive che vuole rendere Fedra:
(…) peu moins odieuse qu’elle n’est dans les tragédies des anciens où elle se résout d’elle même à accuser Hippolyte.
Chiaramente non si può non considerare la presenza di elementi cristiani, in generale, ed eventuali sfumature di una teologia giansenista. Non si può certo ignorare che Racine sia cresciuto in un ambiente culturale impregnato di cultura cristiana. Ma ciò non fa necessariamente di Fedra un’allegoria del di pensiero giansenista. Come osserva acutamente Knight :
(...) considérée historiquement, Phèdre n’est pas toute d’une pièce; pourtant jamais Racine n’a crée un personnage plus grec. Tout en elle n’est pas dans l’époque de Thésée, ni du temps d’Euripide. Comme Andromaque et Ephigénie il faut la replacer, non dans une Grèce réelle, ni dans la cour de Louis XIV, mais dans le monde que Racine a créé pour elle-
P.Knight, Racine et la Grèce, op. cit., pp 349
Fedra, secondo il pensiero degli antichi, poteva effettivamente contemplare “qualcosa” al di là della morte? Ossia qual è la posizione che Fedra, nello specifico, assume in rapporto alla morte?
Quella di Seneca considera la morte una liberazione. Bisogna comunque dire che mai, nelle tragedie greche, gli eroi hanno temuto supplizi infernali e, implicitamente, sembra che la morte per Fedra fosse un’espiazione più che sufficiente perché, in fondo, la sua calunnia poteva essere letta come un atto di difesa e di legittima vendetta nei confronti di un uomo che le aveva spezzato il cuore. Lo stesso Virgilio riferisce che Enea l’ha incontrata nel regno dei morti. Triste ma senza l’afflizione della sua passione.
Èneide VI 445-51
Paola Pedrazzini, per dare un’idea delle varie posizioni assunte in merito all’argomento, nel suo libro
P. Pedrazzini, L’”ombra” di Fedra, la luminosa, op. cit., p. 124, cita M. Ortiz:
Brisson, con altri, distingue Fedra tragedia da Fedra personaggio; e mentre trova flagrante il giansenismo della tragedia, Fedra gli sembra addirittura anti-giansenista. (…) Thierry-Maulnier, avversissimo alla tesi del giansenismo, vede in Phèdre la più pagana delle tragedie di Racine: “Lungi dal riportarlo al giansenismo, Fedra sembra rizzare sui suoi passi l’ostacolo che, se non ci bada, ne lo allontanerà per sempre” (…) “Il giansenista indietreggia spaventato innanzi alla seduzione e alla minaccia che son nate dalle sue mani” e abbandona il teatro “per aver troppo amato Fedra”. Mauriac dice (…) “Fedra ha trascinato Racine (…) fino alla regioni della predestinazione al vizio e della grazia”. Picard non ammette né destino, né cristianesimo, né giansenismo di Fedra. Truc è anche lui contro l’interpretazione cristiana e giansenista di Fedra.
M. Ortiz, Nota, in, J. Racine . Teatro, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 605-607
Arriviamo infine alla teoria a nostro avviso più convincente, quella sostenuta da Lucien Goldmann nel suo celebre saggio Le Dieu caché; a suo parere le tragedie raciniane si sostanziano in tre elementi costitutivi: Dio, l’uomo e il mondo.
Il Dio raciniano è un deus absconditus, spettatore muto delle vicende umane. Il mondo è la realtà piena di passioni e tentazioni ed è fatto dai personaggi comprimari “accomunati dalla mancanza di coscienza e di valore umano”.
L. Goldmann, Il Dio nascosto, Bari, Laterza, 1950, p. 575 L’uomo (nel caso specifico Fedra) è dotato di autenticità e valore umano, e si presenta dilaniato da due necessità impellenti: da una parte quella di vivere nel mondo e di seguire le passioni; dall’altra la necessità morale di evitare il peccato.
In tutte le tragedie raciniane l’uomo ad un certo punto raggiunge la consapevolezza di dover rifiutare il mondo e le sue passioni: il momento più alto del dramma, infatti, è quello in cui l’uomo si relaziona al mondo per l’ultima volta, prima di rifiutarlo togliendosi la vita.
In Phèdre, di fronte alle due necessità, mondana e morale, l’uomo non ne rifiuta subito una, ma vive per un certo periodo nell’illusione di poterle conciliare, finché giunge, dopo un tormentoso percorso, al riconoscimento della necessità di sceglierne una sola e della conseguente inutilità del suo tentativo di vivere nel mondo senza compromessi.
È esattamente in questo momento che sceglie di rifiutare il mondo.
L’unico riferimento che Goldmann considera effettivamente giansenista è il parallelismo tra la posizione di Fedra e quella del gruppo giansenista, ovvero “l’illusion des Amis de Port Royal de pouvoir vivre dans le monde et de s’entendre avec les pouvoirs ecclésiastique et étatiques”.
L. Goldmann, Le Dieu caché, Paris, Gallimard, 1955, p. 420 . Tra l’altro, come quella di Fedra anche questa “illusione arnauldiana sulla possibilità di un compromesso col mondo” crolla “con la ripresa della persecuzione”
Più che altro, secondo Goldmann, Fedra incarna il “chiamato” di Pascal o il “Faust” di Goethe, ossia qualcosa che i giansenisti hanno rinnegato: il peccatore giusto.
Simbolo dell’insofferenza dei limiti e del tentativo di superarli da parte dell’umanità. Inteso come il più nobile dei tentativi dell’uomo. Che corrisponde alla definizione dell’uomo tragico.
La sua analisi è basata sul riconoscimento della presenza di Dio nella tragedia: egli sostenendo che “au XVII° siècle, le chrétien Racine, ne pouvait plus, ou ne pouvait pas encore, représenter le Dieu chrétien et janséniste”.
L. Goldmann, Le Dieu caché, Paris, Gallimard, 1955, p. 352
Tirando quindi le somme di questo rapido excursus, volto più che altro ad avere una panoramica su come l’opera raciniana è stata letta ed interpretata, si giunge alla conclusione che entrambe le posizioni, quella giansenista e quella anti-giansenista, hanno materiale a non finire per supportare le proprie tesi. Più che altro si tratta di una questione di prospettiva: a seconda del punto di vista da cui si analizza l’opera, si raggiunge una specifica conclusione.
Personalmente propendo per una lettura “laica”, scevra da complicazioni religiose.
Ma forse è meglio chiosare questa breve parentesi citando lo stesso Racine che, in una lettera al suo ex maestro Nicole, scrive:
(…) qualora mi domandaste se credo che il teatro sia una cosa santa, se lo ritengo capace di far morire l’uomo vecchio, vi dirò di no, ma vi dirò anche che ci sono cose che non sono sante e che tuttavia sono innocenti. (…) Accontentatevi di stabilire i ranghi nell’altro mondo e non impicciatevi di regolare le ricompense di questo. Da molto tempo lo avete abbandonato: lasciatelo giudicare delle cose che gli appartengono.
J, Racine, Prose, pp.19-20, 29
II
« S’il se vante, je l’abaisse ; s’il s’abaisse, je le vante, et le contredis toujours jusqu’à ce qu’il comprenne qu’il est un monstre incompréhensible »
Pascal, Pensées
Prima di procedere lungo questo percorso bisogna fermarsi un attimo e cercare di comprendere su cosa si basino determinate linee interpretative. Dal momento che, in questa tesi, si sta cercando di fare un lavoro di tipo critico, prima di prendere una posizione per quanto concerne la paternità dei principi teologici di cui è impregnata la Phèdre è necessario che non ci si limiti al solo accenno della teologia Giansenista.
Servono dati per trarre, o meglio, per cercare di trarre delle conclusioni, fermo restando che per quanto riguarda l’opera raciniania, è davvero difficile arrivare a delle conclusioni certe. Al massimo possono prendere corpo interpretazioni plausibili, ma il pensiero di Racine rimane comunque avvolto nel mistero, non è mai a senso unico. Egli potrebbe essere definito una sfinge del ‘600.
Cenni storici
Possiamo datare la nascita del pensiero giansenista tra il 1617 e il 1635. Il movimento aveva in nuce il progetto di una riforma della chiesa cattolica. Tra le opere documentarie dei loro progetti, vengono annoverate un’opera in latino, di Giansenio, l’Augustinus, che è una sorta di compilazione di Sant’Agostino, e l’impronta lasciata da Saint-Cyran sul convento femminile di Port-Royal.
Le date più importanti che costellano la storia del Giansenismo sono il 1638, anno in cui Richelieu fece imprigionare Saint-Cyran, il 1653, anno in cui il papato incrimina il libro di Giansenio e il 1656, anno in cui la Sorbona esclude Arnauld dall’insegnamento.
Nonostante un forte ostracismo da parte di tutte le forze politiche e religiose del periodo, il Giansenismo riesce a perpetuarsi sia grazie all’appoggio delle monache di Port-Royal
Le monache infatti rifiutarono di sottoscrivere la condanna di Giansenio e di firmare il formulario imposto a tal fine dal clero francese nel 1656. Venne fatto radere al suolo nel 1710 da Luigi XIV., sia attraverso i dottori “solitari” dello stesso Port-Royal, tra cui Arnauld e Nicole. Uno dei sostenitori più illustri del convento fu Pascal.
A dire il vero, non c’erano i presupposti affinché questa dottrina rimanesse in un posizione periferica dello strato sociale e fosse soggetta, come è stata, a vere e proprie persecuzioni.
L’ideale dell’uomo giansenista abbracciava pienamente il nuovo modello della Francia di Luigi XIV. Entrambi, infatti, consideravano arretrato e vetusto il precedente ideale eroico: il potere monarchico ed il potenziamento dello stato rendevano totalmente anacronistico l’Io cavalleresco. Quindi si riscontra, su entrambi i fronti, una tendenza al rinnovamento.
Si è trattato, quindi, di un problema di scelte politiche.
Il giansenismo infatti, è l’unico movimento che si è opposto con incredibile vigore al tentativo della chiesa di Roma di diventare una monarchia papale.
L’uomo obbediente che deve rifarsi a Dio, scavalcare quindi l’autorità, critica fortemente l’obbedienza cieca. La ragione, viene proposta quindi come unico mezzo per la salvaguardia dell’autentica fede, in quanto la servitù porta alla superstizione e tutte e due sono la negazione della religione.
P. Bénichou, Morali del « Grand Siècle », Bologna, Il Mulino, 1990, p. 119
Si ergeva quindi contro l’infallibilità del pontefice e, di riflesso, contro il nuovo assolutismo francese.
Ma questo ancora non sembra sufficiente per motivare l’aggressività con cui il Giansenismo è stato contrastato.
La vera minaccia del pensiero giansenista, se così si può dire, era l’attacco al principio di autorità e giustizia.
Pascal, osservando la società umana, nelle Pensées, non poteva non concludere che le variazioni delle leggi e delle consuetudini nei diversi paesi, le loro contraddizioni, l’inconsistenza sotto il profilo della ragione e del diritto, la rendessero soggetta solo al caso.
Il solo principio unitario in questo caos è la forza.
Ne pouvant faire que ce ne qui est juste fût fort on a fait que ce qui est forte fût juste.
B.Pascal, Pensées, Paris, Librairie de la Bibliothèque Nationale, 1876, p. 98
Nelle società umane la cosiddetta giustizia non è altro che la maschera della forza bruta, come negli individui, la virtù non era che il travestimento degli appetiti.
Ma dopo aver ricondotto, attraverso il suddetto ragionamento, l’ordine sociale alla verità, non viene contemplato un movimento concreto verso il cambiamento.
Les hommes n’ayant pu guérir de la mort de la misère de l’ignorance, se son avisés, pour se rendre heureux, de n’y point penser : c’est tout ce qu’ils ont pu inventer pour se consoler de tant maux. Mais c’est une consolation bien misérable, puisqu’elle va, non pas à guérir le mal, mais à le cacher simplement pour un peu de temps, et que, en le cachant, elle fait qu’on ne pense pas à le guérir véritablement.
B. Pascal, Pensées, op. cit., p. 135
Tutto il ragionamento di Pascal si risolve con la sottomissione all’ordine precostituito.
Possiamo concludere quindi, che il Giansenismo, proprio per sua la duplice natura, paralizzata e ribelle, nasce e muore nel suo stesso isolamento, senza proporsi come una minaccia concreta per l’ascesa dell’assolutismo francese.
Accenni di teologia giansenista
Ciò che invece va rilevato, nel Giansenismo, è che esso faceva del rigore il pilastro fondante della sua dottrina: più rigoroso è l’uomo, più si avvicina a Dio.
Dopo il peccato d’Adamo e la caduta, la salvezza dell’uomo poteva scaturire solo da un gratuito favore di Dio e non dallo sforzo umano, altrettanto incapace di ottenere da solo la grazia che di resisterle. Pensare altrimenti equivaleva a mettere l’uomo sullo stesso piano di Dio e a rendere inutili la venuta e le sofferenze di Cristo, attribuendo alla creatura il potere di salvarsi da sola.
P.Bénichou,. Morali del « Grand Siècle », op. cit., p.75
Questa è l’idea di fondo del Giansenismo, connotata da una morale estremamente rigorosa e strenuamente critica nei confronti della degenerazione dei costumi e dei prìncipi del Cristianesimo.
Era in atto un forte scontro teologico con la Compagnia di Gesù, la quale s’ispirava al teologo gesuita Molina. La Compagnia era considerata più accomodante.
Entriamo così in contatto con una dottrina della grazia permeata da una visione particolarmente pessimistica del peccato originale e della caduta che lo ha seguito. È evidente quindi un atteggiamento fortemente accusatorio nei confronti dell’umanità.
La teologia giansenista è destinata a schiacciare ogni forma d’idealismo, anche cristiano, che non si accompagni ad una negazione assoluta dei valori umani, virtù e grandezza, sospettati di scendere a patti con la natura e con l’istinto. L’impatto sociale di questa dottrina si concretizzava in una condanna sociale del nobile e nella disgregazione degli ideali ereditati dal medioevo, mettendo così in conflitto l’idealismo aristocratico con la religione.
Un punto da evidenziare, è la forza con cui il Giansenismo rifiutava ogni tipo di compromesso con il mondo.
Quest’atteggiamento, in un secolo come quello del ‘600 in cui si propugnava la fiducia negli impulsi naturali dell’uomo, si presenta come una voce fuori dal coro.
Ecco l’autentico avversario del Giansenismo: la società del Seicento.
Negare qualsiasi prolungamento eroico o divino della nostra natura. Questa è la chiave del pensiero giansenista, far risiedere la grandezza dell’uomo nel suo vedersi “miserabile”.
L’uomo è grande solo perché si rende conto della sua miseria, nobile perché si rassegna alla bassezza; Pascal difende la grandezza umana solo per spiegarne l’inquietudine e l’angoscia.
La grandezza scaturisce dalla miseria e la miseria dalla grandezza, l’innalzamento dell’uomo è solo un momento di una dialettica che mira a togliergli l’idea di un reale valore insito nella specie umana non lasciando speranze se non nel salto supremo della grazia.
P. Bénichou, Morali del « Grand Siècle », op. cit., p.89
Un altro punto controverso del pensiero giansenista è quello della conoscenza, fondamento del primato dell’uomo. La dignità umana, secondo il Giansenismo, aspirerebbe ad una conoscenza razionale, che soddisferebbe così le pretese del pensiero. Quest’aspirazione però non può essere soddisfatta, perché non tutto può essere definito e dimostrato dalla ragione; la diretta conseguenza di questa verità è che la ragione assume assiomi non dimostrati, il che ci porta quindi a dedurre che molte delle certezze umane non si fondano sulla ragione.
Pascal allora chiama in causa la capacità intuitiva: unica qualità umana in grado di affermare e produrre qualcosa, indispensabile in quanto fornisce dati alla ragione stessa.
La conoscenza intuitiva quindi, si presenta come una sorta di ripiego della ragione. La conclusione spontanea di questo ragionamento è che le nostre certezze, secondo la dottrina giansenista, derivano dall’ordine delle cose e non dalla ragione.
Con questo ragionamento Pascal non intende negare né la dignità del pensiero, né la certezza della conoscenza, ma le separa irrimediabilmente. Opera così una scissione netta tra il pensiero ideale e la certezza reale; tra la ragione e l’evidenza frappone il vuoto.
L’atto supremo della ragione, sta nel riconoscere l’esistenza di un’infinità di cose che la superano.
Il suo ruolo non è quello di avvicinarci alla conoscenza di Dio, bensì di approfondire l’abisso che separa l’uomo decaduto dalla verità: tra la conoscenza umana e ciò che la sopravanza non lascia altro legame che un passaggio brusco, che solo la grazia può compiere, che condurrà dal regno dell’evidenza naturale a quello dell’evidenza soprannaturale, dall’istinto al senso di Dio.
P. Bénichou, Morali del « Grand Siècle », op. cit., p.91
Scommettere su Dio.
Questo è il senso della teologia giansenista e di Sant’Agostino.
L’uomo deve aspettare che tutto scaturisca dal nulla, perché non può essere altrimenti, in virtù di un atto gratuito nel quale l’uomo non ha parte. Tutta la concupiscenza si risolve in carità e l’oscurità della conoscenza si trasforma in una prova del “Dio nascosto”.
È assoluto il rifiuto dell’esistenza di un valore puramente umano.
Racine e il giansenismo
La finalità di questa brevissima analisi non è quella di etichettare la Phèdre come un’opera giansenista o meno, bensì comprendere in quale misura lo sia.
Infatti, che nell’opera siano parzialmente radicate delle idee gianseniste è un fatto assodato e indiscutibile, ma al di là del discorso prettamente teologico ciò che qui c’interessa dimostrare è quali siano gli elementi del Giansenismo che si riflettono nel teatro raciniano e come vengono utilizzati dal drammaturgo.
Prima fra tutte è la propensione dell’autore di descrivere la vita umana a tinte fosche e ad inserire i personaggi tragici dentro situazioni senza via d’uscita: per loro finirà male qualsiasi sia la soluzione adottata.
Racine, introducendo nella tragedia un amore violento e omicida, assolutamente controcorrente rispetto alle abitudini cortesi, ha interrotto la tradizione di un teatro fondato sui codici cavallereschi.
L’amore cavalleresco, infatti, aveva come carattere dominante la sottomissione, o la devozione, alla persona amata; nelle tragedie di Racine l’amore assume le fattezze di un desiderio possessivo, avido, che considera la persona amata come una preda. Il comportamento più frequente di quest’amore, in cui la smania di possesso si accompagna ad un’insoddisfazione profonda, si concretizza in un’aggressività violenta rivolta all’essere amato appena questi dà segno di volersi allontanare.
La legge psichica fondamentale è il rafforzarsi del desiderio non ricambiato. Questo procedimento è inseparabile da ciò che i raciniani chiamano “gloria”, cioè una vanità che impedisce loro di fare quello che la passione esigerebbe: sottomettersi completamente al “crudele” o alla “crudele” che non li degna di uno sguardo. La non reciprocità non deriva da attrazioni o ripugnanze casuali. L’infelicità del desiderio è predeterminata dall’esperienza degli esseri che abbiamo di fronte. Quanto più sono colmati di doni dal destino e messi in condizione di dominare chi li circonda, e talvolta l’intero universo, tanto meno sopportano l’indifferenza nei loro confronti e tanto più sono turbati e spinti a reagire dal minimo segno d’indifferenza, la vanità trova sempre modo di punire se stessa. Siamo in un universo di giustizia implacabile.
R. Girard, Poesia e religione nel teatro di Racine, in, Jean Racine. Teatro, con saggio introduttivo, cronologia e commento di A. B. Anguissola, Milano, Mondadori, 2009 , p. XV
Il desiderio conferisce all’essere amato il valore assoluto che la vanità vorrebbe riservare a sé stessa. Ma la punizione è sempre in agguato, il desiderio di dominio, infatti, si trasforma in schiavitù.
Quest’attitudine umana è riconosciuta anche da La Rochefaucauld, entrambi puntano ad abbassare l’uomo al livello della natura.
Ciò che infatti caratterizza i personaggi di Racine non è la forza, bensì la forma dell’amore, che è al tempo stesso egoistico, in quanto desidera possedere la persona amata; e nemico di sé stesso perché volto interamente alla catastofe. Affinché l’asservimento dell’eroe sia completo, Racine, come La Rochefaucauld e Pascal, fa si che, insieme alla volontà, anche la ragione e la coscienza soccombano, e che l’eroe s’illuda sui motivi che lo inducono ad agire. Si parla quindi di una duplicità tra conscio ed inconscio che nelle pièces tende ad emergere durante la cosiddetta ripicca amorosa.
Un altro elemento che potrebbe avere attinenze con il giansenismo è lo schiacciante senso di colpa che corrode e distrugge gli eroi tragici. Un sentimento violento può essere giustificato solo se causato da istinti ritenuti mostruosi, bisogna però considerare che, secondo la concezione pessimistica di Racine e di Port-Royal, in fondo, tutti gli istinti in qualche modo lo sono. La connotazione negativa attribuita dal pensiero giansenista all’istinto, legittima a sua volta una severa repressione verso ciò che genera, il che, di riflesso, porta l’uomo ad avere orrore per la sua stessa natura.
Una lettura quantomeno particolare è quella di Charles Mauron, secondo il quale, il Giansenismo di Racine sarebbe in realtà il mascheramento ideologico della nevrosi,
(…) ciò è una delle tante vie di fuga dalla realtà cui può ricorrere l’Io quando si sente schiacciato da un super-Io generatore di soverchianti sensi di colpa. Il giovane Racine, per diventare se stesso e realizzare la propria vocazione di autore teatrale è stato costretto, sempre secondo Mauron, a entrare in conflitto con Port-Royal che condannava a priori la sua creatività letteraria.
A. B. Anguissola, introduzione, Jean Racine. Teatro, Milano, Mondadori, 2009, p. XLVI
Alcuni hanno malignamente imputato il dualismo dell’eroina allo stile di vita del suo autore. Sostenendo quindi che non potendo superare lui stesso le proprie contraddizioni personali, non potevano certo farlo i suoi eroi tragici.
Quello che risulta evidente, è che Racine nelle sue opere fa dei veri e propri collages: una trama stravolta rispetto a quella classica originale, ma con particolari reali rubati all’antico. Un esempio tra tutti è la trasformazione subita dal personaggio di Ippolito che, da misogino e devoto ad Artemide nella tragedia classica, nella pièce raciniana si presenta innamorato e dedito ad Afrodite.
Osservando il successo conseguito dalle sue opere, si può giungere alla conclusione che nell’uomo mutano, col tempo e col variare dei luoghi, gli elementi accidentali, ma l’essenza è identica sempre e ovunque.
Si potrebbe andare avanti pagine e pagine elencando elementi pro e contro una Phèdre prevalentemente giansenista, ma preferiamo concludere questa breve analisi sperando di aver messo in rilievo l’idea che non si può esprimere un giudizio netto e preciso sui lavori raciniani; le sue pièces, nonostante alcuni punti saldi al loro interno, si prestano ad analisi ogni volta diverse.
È questa l’universalità del genio di Racine.
III
“Pallide e vaste figure, tremende solitarie , cupe e desolate, amanti fatali, misteriose condannate alle infamie titaniche. Che sarà di voi? Quali saranno i vostri destini? Dove potranno celarsi i vostri terribili amori? Quali terrori, quali pietà ispirate, quali tristezze immense e stupefatte risvegliate nell’essere umano chiamato a contemplare tanta vergogna e orrore, tanti crimini e tanta sventura. “
Gustave Moreau
È nel V atto che Fedra si suicida. Tutto gira intorno all’impossibilità di trovare un compromesso, qualsiasi interpretazione si voglia dare a quest’opera, qualsiasi visione religiosa vi si voglia leggere, qualsiasi sia la linea interpretativa, il nucleo centrale, e indiscutibile, della tragedia è questa impossibilità al compromesso.
La morte non è dettata né dall’autore, né dal volere degli dèi, né dal caso, dal destino o dalla fortuna; il suicidio di Fedra è inevitabile in quanto unica scelta possibile per una personalità complessa e completa, un personaggio lucido ed autocosciente, un’eroina che lotta strenuamente fino al limite massimo e che, arrivata a tale limite, lo interiorizza, ne prende coscienza e agisce.
Fedra si trova davanti ad un bivio, che è lo stesso davanti al quale si trova l’umanità intera: vivere scegliendo di non vedere, e quindi accettando il compromesso, o smettere di vivere esattamente quando subentra il suddetto compromesso, ossia rifiutarlo, tutelando così la propria integrità morale, privilegiando la verità e rispettando in tal modo la vita in tutta la sua essenza.
Paradossalmente la vittoria risiede esattamente nel suicidio, che non va considerato come una rinuncia alla vita, bensì come un inno alla stessa. Un’esistenza intrisa di menzogna e compromesso non è dignitosa e non merita di essere vissuta. Risulta un simulacro vuoto e misero.
La decisione di Fedra non è sorta da un’irrazionale crisi di sconforto, ma in seguito ad un percorso personale che l’ha vista soccombere nella disperata battaglia per sottrarsi al peccato
D. Dalla Valle, Classicità della “Fedra” di Racine, in atti delle giornate di studio.. , cit., p.253 e che ora le offre due alternative opposte e inconciliabili: seguire la passione e cedere alle lusinghe intramondane, oppure seguire la gloria e fuggire al mondo.
Fedra ha scelto la morte come rifiuto di un mondo nel quale sia impossibile adempiere ai propri doveri evitando il peccato, accostandosi con questa scelta di tragico rifiuto ad altri personaggi dell’opera Raciniana quali Tito e Giunia “qui n’envisagent pas ni pour un seul instant l’idée de vivre de manière satisfaisante dans le monde, parce que la tragédie est intemporelle et le personnage tragique un être parfaitement conscient de l’impossibilité morale du compromis”.
L. Goldmann, Le Dieu caché, Paris, Gallimard, 1955, p. 423
Prima di avventurarci verso i complessi percorsi della filosofia del tragico che ci condurranno fino a Pascal e a Jaspers, per poi incontrare Camus e altri pensatori che si sono affacciati sul complesso universo di una coscienza che opta per il suicidio, ci soffermiamo ancora un attimo su quello che avviene nel testo, mostrando come si presenta questo tragico suicidio sulla scena.
Il valore dell’arte scenica è incommensurabile. Il teatro, a nostro avviso, è frutto di una potentissima e ricchissima elaborazione di dati appartenenti a tutte le sfere sensoriali. Forse la più completa tra le arti figurative. Regaliamo quindi al lettore questi pochi versi, secondo noi tra i più belli e significativi dell’intera opera.
(…) J’ai voulu, devant vous exposant mes remords,
Par un chemin plus lent descendre chez le morts.
J’ai pris, j’ai fait couler dans mes brûlantes veines
Un poison que Médée apporta dans Athènes
Dopo che Giasone l’ebbe abbandonata e dopo aver ucciso i figli che da lui aveva avuto, Medea andò ad Atene e sposò Egeo. Quando Teseo, diventato adulto, vi giunse da Trezene, ella tentò di avvelenarlo..
Déjà jusqu’à mon cœur le venin parvenu
Dans ce cœur expirant jette un froid inconnu ;
Déjà je ne vois plus qu’à travers un nuage
Et le ciel, et l’époux que ma présence outrage ;
Et la mort à mes yeux dérobant la clarté
Rend au jour, qu’ils souillaient, toute sa pureté.
J. Racine, Phèdre, Atto V, scena VII, in, Jean Racine. Teatro, Milano, Mondadori, 2009, vv. 1635-40
Nel corso dell’intera tragedia solo pochi e densi versi racchiudono i tormenti e lo strazio della Minoide. Quelli sopra citati rappresentano l’apice del rimorso e dell’urgenza di una confessione e, se il delirio era il codice espressivo della confusione morale di Fedra quando, prima e dopo la rivelazione del suo amore, era dolorosamente in bilico, tra la scelta della vita nel mondo e quella della fuga dalle tentazioni intramondane, ora, nella chiarezza morale della scelta estrema appena compiuta, il codice espressivo di Fedra è la lucidità.
La parola ritrova in extremis una funzione positiva: essa ha il tempo di morire, c’è un accordo, alla fine, tra il suo linguaggio e la sua morte, l’uno e l’altra hanno la stessa misura; come una coltre, una morte lenta scivola in lei, e ancora come una coltre una parola pura, piana e lenta esce da lei; il tempo tragico, questo tempo orrendo che separa l’ordine parlato dall’ordine reale, è sublimato, l’unità della natura restaurata.
R. Barthes, La retorica antica, Milano, Bompiani, 1972, p. 50
È paradossale che, proprio mentre sta per morire, Fedra pronunci un estremo e lucido assolo drammatico in cui confessa di essere stata lei a guardare con desiderio incestuoso Ippolito e di aver assecondato il piano di Œnone calunniandolo per evitare che rivelasse a Teseo la propria “colpa”.
La struttura della scena e la prospettiva riabilitativa con cui Fedra viene presentata al pubblico, pronta a morire per espiare la sua colpa, Racine l’ha mutuata da Seneca; ma mentre l’eroina senecana esprime fino all’ultimo il suo strenuo amore per Ippolito
Amore tanto forte che “la morte le appare dolce, perché le permetterà di seguirlo”., quella raciniana non parla più del suo amore, ma solo di rimorso e pentimento: nella prima il sentimento vince sulla morte, nella seconda la passione è vinta e la morte purifica l’anima contaminata.
L. Cavalli-E. Grandi, il mito di Fedra.., Bologna, Zanichelli, 1911, p. 204
L’eroe tragico
“Credi forse che i grandi delitti e le perfette scelleratezze nascano da una natura comune e non piuttosto da una natura riccamente dotata.. laddove una natura debole non potrà mai produrre nulla di grande né nel bene né nel male?..
(…)Dalle nature più riccamente dotate sorgono tanto coloro che arrecano il maggior male alla comunità e ai singoli, quanto ai loro più grandi benefattori.. da una natura meschina, invece non esce nulla di grande, né per i singoli né per lo stato”.
Platone, La Repubblica
Il personaggio tragico è consapevole della realtà con cui si confronta e del prezzo che egli paga. Questa consapevolezza non è un elemento aggiuntivo, bensì una discriminante essenziale dell’eroe tragico.
Il tragico, infatti, consiste nel sapere, nel rendersi conto della sofferenza e del lutto. È proprio questo il grande retaggio che la cultura greca ci ha trasmesso: soffrire e conoscere.
È un “conoscere” turbato in quanto si rapporta ad una situazione di sofferenza e di contrasto, inoltre la conoscenza tragica può presupporre profondità sinistre e recondite: in riferimento al mondo arcaico-primitivo evocato attraverso il mito e in riferimento a un’articolazione del personaggio tragico che può presentare tratti di inquietante complessità.
V. Di Benedetto, E. Medda, La tragedia sulla scena, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1997, p.364
Non è un caso che ci sia un nesso inscindibile tra consapevolezza e tragicità. Si può parlare infatti, di una consapevolezza problematicizzata.
Ed è proprio questa consapevolezza, nella vita e nella morte, che vogliamo trattare in questa tesi.
La consapevolezza come chiave di lettura della tragedia e di Fedra.
Sembra una parola semplice, spesso è abusata, ma racchiude in sé l’universalità dell’essere, la sua vera essenza. Essere consapevole, quindi cosciente e di riflesso responsabile, non è cosa da poco. Spesso si tende a declinare tale responsabilità.
Aggiungiamo infine un ultimo passaggio per delineare meglio la figura dell’eroe tragico (fino ad ora è stato detto cosa è e a cosa sottende). Prendendo in prestito le parole di Faucault possiamo dire anche cosa non è:
(…) il personaggio tragico trovava la morte con l’oscura verità del giorno, la notte paradossalmente svela, come il giorno più profondo dell’essere. L’uomo tragico è impegnato ad essere portatore della verità, Fedra infatti getta in faccia al sole tutti i segreti della notte. Si comprende quindi come l’eroe tragico a differenza del personaggio barocco dell’età precedente – non possa mai essere folle. E come la follia non possa mai essere intrisa di valori tragici.
M. Faucault, Storia della follia nell’età classica, Biblioteca Universale Rizzoli, 1973, p. 216-17
Fedra quindi non è impazzita. Non è mai stata pazza, neppure quel furor imputato alla passione riesce ad imputarle l’insania mentale.
È disperata, si, ma non folle.
La coscienza del tragico
La coscienza tragica si manifesta nell’arte in forma costante nei secoli che si susseguono, a partire da Omero fino ad oggi.
Ciò che ci preme è rivolgere lo sguardo alla tragedia moderna che vede come protagonisti Shakespeare, Calderòn e, nello specifico, Racine.
Come introduzione al significato del tragico cito un brano di Karl Jaspers, a nostro avviso ottimo punto di partenza:
L’essere ci appare nella frustrazione, nel fallimento. Nel fallimento l’essere non va perduto, ma al contrario si afferma pienamente, interamente. Non esiste tragicità priva di trascendenza. La stessa fierezza di affermare se stesso, pur nella rovina, contrapponendosi al fato e agli dèi, è, in fondo una forma di trascendenza: l’uomo attinge così la sua vera essenza, ritrovando, nella catastrofe il suo autentico io. (…) Bisogna però distinguere la coscienza della fugacità dall’autentica coscienza tragica. Il mondo fenomenico, che sempre tende alla morte, e il carattere della vita come serie di eventi fugaci e transitori, sono contemplati dall’uomo come l’eterno ricorso del divenire, del trapassare e del rinascere. Egli vede se stesso nella natura, come parte della natura. È un mistero che suscita nell’uomo un sacro terrore. Ma questa situazione e questo mistero non li chiameremo tragici. La vera coscienza del tragico non riguarda solo il dolore e la morte, non riguarda solo la fugacità e la transitorietà dell’essere. Perché tutto ciò diventi tragico occorre che l’uomo incominci ad agire. Con la sua azione l’uomo provoca prima il nodo tragico e poi, per inevitabile necessità, la catastrofe. Non è solo la distruzione della vita come pura esistenza, ma il fallire di ogni pura attuazione. È la natura spirituale dell’uomo che fallisce in un numero incalcolabile di possibilità (…). Alla coscienza tragica va unito il principio di anelito alla liberazione. La crudeltà del tragico è il confine entro cui l’uomo non viene accolto spontaneamente nella salvezza universale: al contrario è nell’atto in cui afferma se stesso, scomparendo come esistenza individuale, che egli trova la redenzione liberatrice.
K. Jaspers, Del tragico, Milano, Piccola Enciclopedia, 1952, pp. 27-28
Quindi è proprio l’azione che rende Fedra un’eroina tragica, e non mi riferisco al suicidio, quello, lo vedremo più avanti, non è l’apice della tragedia, bensì lo è il suo preludio.
È l’azione ad essere tragica, non il suo esito.
Quando verità e realtà si scindono, a generare il conflitto è l’anelito comune a restaurare l’unità primitiva.
Il tragico può essere immanente come lotta tra singolo e universale o tra principi ideali che si avvicendano nel corso del tempo; oppure si parla di tragico trascendente riferendosi alla lotta tra uomini e dèi o di dèi tra loro.
K. Jaspers, Del tragico, op. cit. , p.31 Si tratta di lotte tra uomini o lotte all’interno dell’uomo stesso.
La visione tragica della vita si rivela dunque una lotta costante, ma la lotta di per sé non è tragica. Bisogna domandarsi che cosa sia a renderla tragica.
Partendo dal presupposto che la sventura non è l’espiazione di una colpa e non ha nesso col significato della vita, concludiamo che non tutte le cose accadono perché devono o perché sono meritate. Il punto è sempre lo stesso, non si parla di un singolo, i singoli sono vite a sé stanti, eccezionali, più uniche che rare. La chiave di volta che ci conduce anche al perché il mito di Fedra sia immortale, consiste nel fatto che nella tragedia si parla della condizione umana in generale, attraverso il singolo si presenta la moltitudine. È questa la potenza della tragedia. Non rende nessuno esente dalla sorte che narra e la catastrofe è sinonimo della rovinosa caduta dell’uomo,
(…) ma il fatto che l’uomo spinga all’estremo le sue umane possibilità e s’infranga consapevole sotto di esse, costituisce la sua grandezza. È quindi decisivo per la coscienza tragica stabilire per che cosa soffre e in che cosa fallisce l’uomo, di fronte a quali realtà e in che modo sacrifica la propria esistenza. La ricchezza dell’uomo tragico risiede nel fatto che è se stesso tanto nel bene quanto nel male, realizzandosi nel bene e distruggendosi nel male, cadendo sconfitto nell’un caso come nell’altro sotto i colpi dell’assoluto, sia reale che presunto. La sua resistenza, la sua ostinazione, la sua tracotanza lo spingono alla “grandezza” del male. La sua forza di sopportazione, la sua incrollabilità, il suo amore lo innalzano nella sfera del bene. Il poeta vede in lui il portatore di un quid che trascende l’esistenza individuale, di una forza, di un principio, di un carattere, di un demone.
K.Jaspers, Del tragico, op.cit , pp. 39-39
In questo breve estratto troviamo l’essenza dell’eroe tragico, un uomo al di là del bene e del male. E, a ben guardare, questa descrizione veste perfettamente Fedra: non è né una giusta a cui è mancata la grazia né una semplice e meschina peccatrice.
La “luminosa” è al di là di ogni categoria: immensamente umana con tutte le sue incongruenze e complessità.
Non si tratta quindi di bene o male, semmai di bene e male che coesistono nella stessa coscienza .
Pascal nel suo lavoro ha dipinto un quadro perfetto di quella che è l’interiorità umana. Egli ci rivela la tendenza alla coesistenza delle cose, suggerisce che l’uomo, all’interno di questo disegno, si collochi sempre al centro di un equilibrio perfetto tra due opposti e che, dilaniato fra queste due forze, uguali e opposte, generanti una dicotomia irreversibile, arrivi alla propria distruzione.
Pour Pascal, l’homme est sans doute un être moyen, qui restera, quoi qu’il fasse, au milieu, à égale distance des extrêmes opposés. Mais cette situation, loin d’être un idéal, de lui conférer une supériorité, est au contraire insupportable et tragique. Car le seul lieu naturel (si ce mot a un sens) dans lequel l’homme trouvait le bonheur et le calme, se trouve non pas au milieu, mais aux deux extrêmes à la fois ; or, comme il ne peut rien faire pour approcher ni l’un ni l’autre, il reste – malgré son agitation apparente – dans une immobilité de fait, qui est cependant non pas équilibre, mais tension permanente, mobilité immobile, mouvement qui tend au repos et à la stabilité, et qui déroule, sans jamais progresser dans un effondrement perpétuel.
L. Goldmann, Le Dieu caché, op.cit., p. 229
Fedra, tra Pascal e Racine
Non intendendo addentrarci nelle profondità della filosofia pascaliana, in quanto presupporrebbe avventurarsi lungo un intricato percorso filosofico, estremamente interessante ma che comunque ci porterebbe fuori rotta, tratteremo i punti essenziali del pensiero pascaliano inerenti all’opera raciniana.
Innanzi tutto bisogna chiedersi perché questa sia una tappa obbligata, e ce lo spiega Lucien Goldmann:
(…) Phèdre, qui pose dans toute son ampleur le problème de la vie dans le monde et des raisons nécessaires de son échec, se rapproche le plus de la vision des Pensées. C’est dire que la clef de Phèdre – aussi bien que celle des Pensées – est le paradoxe et l’affirmation de sa valeur humaine (morale dans la tragédie racinienne, théorique et morale dans les Pensées) .
L. Goldmann, Le Dieu caché, op. cit., p.421
Prima di tutto bisogna istituire come premessa fondante il concetto di totalità, che è il valore supremo dell’universo tragico e ciò a cui aspira l’eroe tragico e con esso l’umanità intera. Un altro elemento importante, quello su cui si basa l’azione, è il “rifiuto tragico”, ossia le refus d’un monde dans lequel il est impossible de satisfaire aux devoirs en évitant le péché .
L. Goldmann, Le Dieu caché, op. cit., p.423
Così andiamo direttamente ad incontrare quello che è il paradosso pascaliano:
(…) le refus tragique résulte du fait qu’on ne saurait vivre dans le monde qu’en choisissant entre deux extrêmes qui pour être contraires, ne sont pas moins, également nécessaires et dont chacun se présente avec la même exigence absolue et inéluctable qui s’incarne dans l’idée du Dieu caché et spectateur.
L. Goldmann, Le Dieu caché, op. cit., p.422
Sembra un’istantanea di Fedra.
L’unica soluzione di fronte a questa inadeguatezza è o l’accettazione di vivere nell’illusione o la morte.
Nella tragedia raciniana tutti i personaggi, eccetto Fedra, hanno una coscienza inesistente. Essi, in quanto soddisfatti dal parziale, e ignari perfino del fatto che, nell’universo tragico, l’esistere è esigenza di totalità e, implicitamente, di vita nel paradosso o nel suo rifiuto, scelgono di vivere nella menzogna.
Fedra, nella sua strenua lotta, rivela la sua assoluta umanità. Vorrebbe realizzare l’unione della gloria e della passione, ma purtroppo nel suo percorso incontra uomini mediocri che, invece di supportarla, la ostacolano.
Fedra fa paura perché turba l’ordine precostituito, in quanto portatrice di valori autentici.
Fedra è rivoluzione, incarna la rivolta contro l’ordine precostituito.
La presenza di Fedra rivela l’insufficienza del mondo di fronte alle sue esigenze. Si concretizza quindi un bivio: o accogliere il nuovo ed accettare la trasformazione che porta con sé, così però non sarebbe più stata una tragedia, oppure eliminare l’intruso e continuare a vivere nell’ignoranza, in una realtà incentrata su schemi preesistenti e blindata rispetto a qualsiasi innovazione ed opportunità di crescita e cambiamento.
Viene quindi scelta l’illusione, che è la colpa suprema dell’universo tragico.
Esattamente il riflesso della società contemporanea: la paura del diverso, il rimanere aggrappati alle tradizioni, il non voler sentire le ragioni dell’altro quando invece condivisione e scambio sono le chiavi per un arricchimento sociale senza pari.
Tutto quindi gira intorno al rifiuto di Fedra del compromesso. Sembra quasi che il messaggio, scandito regolarmente, sia quello che, per vivere, è giocoforza rinunciare a quanto è fuori dalla nostra portata e limitarsi a scegliere quanto possiamo raggiungere. Questo pensiero cozza terribilmente con la legge propria dell’incedere di Fedra nel mondo: andare fino in fondo, spingersi fino al limite estremo. Nel tentativo di raggiungere la totalità, la nostra eroina tocca l’estremo degrado, anche il minimo compromesso per lei è inaccettabile.
Fedra, come l’uomo in generale, non accetta la limitazione.
La ricerca di totalità che rispecchia in pieno il pensiero di Pascal, che predilige un modello d’uomo colto, eclettico e dotato di una conoscenza magari non specifica ma senza dubbio varia e complessa rispetto, invece, allo specialista che si concentra su un solo soggetto, magari conoscendolo fin nei minimi dettagli, ma pur sempre limitandosi ad esso.
Il conflitto che dilania Fedra è ben spiegato in queste righe:
L’homme est homme par le fait même qu’il ne peut ni choisir un de ces éléments, ni accepter la rupture de l’antagonisme. Il doit aspirer nécessairement à une synthèse à une vérité absolue, à un bien pur, à une justice vraie et réelle, à une immortalité en même temps de l’âme et du corps, et ainsi de suite sur tous les plans. Mais cette synthèse idéale ne pourra jamais lui être donnée sur terre, elle ne peut venir que d’un être transcendant, Dieu .
L. Goldmann, Le Dieu caché, op. cit., p. 244
E ancora :
(…) l’homme est un être paradoxal, grand et petit qui ne saurait ni renoncer à la recherche de valeurs authentiques et absolues, ni les trouver ou les réaliser dans la vie et dans le monde, aussi il ne saurait-il placer son espérance ailleurs que dans la religion et dans l’existence de Dieu. (…) tout intérêt pour un monde vain et sans Dieu ne saurait être que compromis et déchéance, en langage religieux : péché.
L. Goldmann, Le Dieu caché, op. cit., p. 315
Portato all’estremo il discorso di Pascal significa vedere Dio che non solo nasconde la propria volontà, ma nasconde persino la propria esistenza. La sua esistenza quindi si concretizza esclusivamente come mera speranza.
Mi riferisco alla scommessa sull’esistenza di Dio, se Dio esiste, si ottiene la salvezza, se non esiste, si è vissuti un’esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di finire con la morte.
L’essere si manifesta nel naufragio. Nel naufragio l’essere non è perduto, ma al contrario interamente e nitidamente percepibile. Non vi è tragicità priva di trascendenza. Ancora nella sfida della mera autoaffermazione, che nel declino si contrappone agli dèi e al destino, vi è un trascendere: verso quell’essere che l’uomo è autenticamente e che nel declino si esperisce come tale.
G. Garelli, Filosofie del Tragico, Milano, Mondadori, 2001, p. 94
Che lo si chiami Dio, o semplicemente trascendenza in quanto essenza non specificata, tutto questo non è simbolo di una qualsiasi religiosità rivolta all’esterno, bensì verso l’interno.
La verità, al di là di tutte le interpretazioni possibili, è che essendo una tragedia dell’umanità, pertanto tendente alla totalità, si offre ad un’infinita gamma di letture ed interpretazioni. È l’ansia dell’uomo di trascendere i propri limiti, di andare oltre, come fece Icaro, che lo conduce alla rovina.
Savoir si l’homme est libre commande qu’on sache s’il peut avoir un maître. L’absurdité particulière à ce problème de la liberté lui retire un même temps tout son sens. Car devant Dieu, il y a moins un problème de la liberté qu’un problème du mal. On connaît l’alternative : ou nous sommes pas libres et Dieu tout puissant est responsable du mal. Ou nous sommes libres et responsables mais Dieu n’est pas tout puissant.
A. Camus, Le myte de Sisyphe, Paris, Gallimard, 1942, p. 79
È questo il grande paradosso che suggerisce che l’esistenza di Dio non sia un reale problema dell’uomo, che come unica libertà conosce quella dello spirito e dell’azione.
Nel momento in cui l’uomo assurge a dio del proprio universo, il compromesso viene percepito senza soluzione di continuità come crimine verso la propria persona, la propria integrità e la propria identità. Si può mentire a chiunque ma non a sé stessi. È il più grande tradimento che l’uomo possa compiere contro la propria persona.
Una volta dissipata la cortina di fumo che annebbia e confonde la vista è impossibile far finta di niente, non si può guardare da un’altra parte, perché agire sapendo di andare contro il nostro credo personale significherebbe uccidere sé stessi lasciando il proprio corpo in vita come vuoto simulacro.
Quindi Fedra sceglie di morire. Non perché deve, come è già stato detto in precedenza: non è prevedibile e nemmeno necessario ai fini dello sviluppo della storia.
Fedra si uccide perché non può più accettare un’esistenza fatta di menzogna, è troppo riduttiva.
La conoscenza è una via senza ritorno. Una volta effettuato il salto non si può tornare indietro.
Ecco perché alla domanda su chi muoia veramente nella tragedia la risposta, come altresì potrebbe erroneamente sembrare, non è Fedra, il vero cadavere sulla scena è quello di Teseo
“(…) la vittoria non è di chi resta in vita, ma di chi soccombe. Questi vince nella sconfitta. Il vincitore è il personaggio o l’idea spiritualmente inferiore, che ha riportato una vittoria effimera, o addirittura solo apparente”. K. Jaspers, del tragico, 1952, p.34 che rimane nel mondo accettandone i compromessi.
Il suicidio, o della rivolta
Un silenzio come questo si prepara al silenzio del cuore,
allo stesso modo che una grande opera.
A.Camus
Tutte le interpretazioni si trovano d’accordo su un punto: di fronte al tragico la sconfitta dell’eroe ci manifesta l’intimità profonda dell’essere. Ogni forma di tragicità è intesa al superamento di una situazione iniziale attraverso una catarsi.
Arrivati a questo punto bisogna considerare che non cambia, col variare delle epoche, solo la forma del suicidio: impiccagione per Euripide, con la spada per Seneca e con il veleno per Racine.
Anche il suicidio, quindi, ha una valenza specifica per ogni periodo storico.
Nella società greca questo gesto è aspramente condannato in quanto estraneo all’imperativo della bella morte
N. Loureaux, Come uccidere tragicamente una donna, Bari, Laterza, 1988, p.52 che deve essere accettata e non cercata. Attraverso la morte di Fedra, in cui coabitano il marchio dell’infamia del suicidio e quello della morte senza spargimento di sangue
La morte senza spargimento di sangue nella società greca la meno virile, ovvero la meno gloriosa tra le morti. , Euripide offre, oltre ad una moderna analisi delle componenti, razionali e irrazionali, del personaggio, un punto di vista diverso sull’impiccagione femminile.
A questo proposito è illuminante, per capire come fosse sconosciuta e non indagata la psicologia femminile, la spiegazione di Ippocrate dell’impiccagione frequente di giovani ragazze – riportata e commentata dalla Loureaux - che la società greca relegava al silenzio e alla dipendenza dall’uomo.
Seneca invece, dopo aver documentato il sintomi del furor di Fedra, ed averla resa un exemplum negativo di chi, seguendo le passioni, sprofonda nell’abisso morale, la fa risalire dallo stesso abisso, in cui l’aveva sprofondata nel corso dell’opera, conferendole un’umanità che la salva.
G. Biondi nell’introduzione di, la Fedra di Seneca tra colpa e innocenza, scrive “ il poeta sembra volerla sottrarre a quell’inferno cui la costringerebbe il filosofo”, in AA. VV., Fedras de ayer y de hoy. Teatro, poesia, narrativa y cine ante un mito clasico, Granada, Eug, 2008, p.64
Il suicidio di Fedra in questo caso oltre ad essere simbolo della mutevolezza della condizione umana, è anche volto a significare
un motus esclusivamente soggettivo e interiore della regina, la quale pur “esternamente” innocente, decide non solo di togliersi la vita , ma anche di confessare il proprio crimine.
Ivi, p.203
Come sottolinea Paola Pedrazzini:
(…) la scelta della spada è indice indiscutibile dei mutati presupposti culturali: la necessità di una morte silenziosa è venuta meno e l’impiccagione, con cui la Fedra euripidea si toglieva la vita, nella Roma di Seneca avrebbe determinato una morte sacrilega privando il suicida del contatto col suolo e Fedra – dopo essere stata umanizzata e purificata dalla drammaturgia senecana – sarebbe entrata nel gruppo degli insepulti.
P. Pedrazzini, L’ombra di Fedra la luminosa, op. cit., p. 302-3
La scelta di Fedra di suicidarsi con la spada, oltre ad essere di stampo stoico, denota la complessità del personaggio e ne sottolinea l’evidente lacerazione interiore.
Arriviamo infine ai tempi di Racine. Il veleno nella società del Settecento era considerato uno strumento nobile rispetto al “laccio” o al “ferro”, e, nel caso specifico, è metafora del veleno che fin dall’inizio consuma il corpo di Fedra.
Anche in questo l’autore francese si richiama al suo vate; riprende infatti da Seneca la struttura della scena e la prospettiva umanizzata, e parzialmente riabilitativa, con cui Fedra viene presentata al pubblico. Ma come già è stato detto in precedenza a differenza dell’eroina senecana che muore parlando del suo amore per Ippolito, quella raciniana ha vinto la sua passione.
Queste sono le differenti morti di Fedra, ma quando si parla si suicidio non si tratta semplicemente di una morte come tante, è atto di volontà che dipende espressamente dal singolo. È l’estremo e ultimo atto fatto dalla coscienza dell’individuo. Pertanto dire che “Fedra muore” è piuttosto semplicistico e riduttivo, “Fedra si uccide” è questo ciò che deve risuonare chiaro nella mente del pubblico, è questo che segna la differenza tra un semplice eroe ed un eroe tragico.
Quando si parla di suicidio, non ci si riferisce ad un fenomeno sociale, non è una tendenza, bensì si tratta solo ed esclusivamente del rapporto tra pensiero individuale e suicidio.
Prende forma nella soggettività del singolo.
Si tratta di una scelta, perché Fedra non doveva necessariamente suicidarsi ai fine della realizzazione delle tragedia. Ha voluto farlo.
Citiamo per ultimo un articolo che mostra come si collocava nell’età classica il suicidio della “luminosa”:
(…) le monde classique n’est pas un monde où l’homme, limité, attaqué par un espace et un temps qui le définissent, vit une perpétuelle tragédie, parce qu’un perpétuel état de contradiction. Le paradoxe de ce monde est que, come il n’y a pas de liberté sans expression de cette liberté, et que cette expression doit être une lutte – qui suppose vainqueurs et vaincus – l’obstacle qui limite l’homme est nécessaire à l’existence de cette liberté. (…) vainqueur ou vaincu, le lutteur est libre. Phèdre n’est cependant pas un être vaincu. Elle exprime ainsi le choix de mourir de sa main ainsi que la nécessité « intime » à cette mort. La reconnaissance de cet héroïsme chez Phèdre est indéniablement indiquée par son suicide: la libre disposition de sa vie est la preuve suprême de sa liberté véritable.
M. Coquillat, Phèdre ou la liberté dans l’acte héroïque, The French Review, No.5, p.861
Ci trova d’accordo nell’identificare in Fedra la reale vincitrice. Non si tratta solo di una “libre disposition de sa vie” (nell’immediato la prima lettura è questa) e non si limita solo alla libertà dell’individuo la sua vittoria. Fedra va oltre. Non avrebbe avuto bisogno di uccidersi per mostrare al mondo la sua autonomia.
Il ritratto perfetto lo presenta D’Annunzio, quando fa pronunciare alla Cretese:
o dea,
tu non hai più potenza.
Spenti sono i tuoi fuochi. Un fuoco bianco
Io porto all’Ade. Ippolito
Io l’ho velato perché l’amo. È mio
Là dove tu non regni. Io vinco.
G. D’Annunzio, Fedra, a cura di P. Gibellini, note di T. Piras, Milano, Mondadori, 2001, Atto III
È più che una vittoria. È una sfida.
Una sfida che Fedra, eroina della trasgressione, lancia contro le divinità olimpiche , nello specifico alle due responsabili della sua vicenda amorosa: Afrodite e Artemide. Fedra desidera ciò che tutti temono e vorrebbero esorcizzare: l’apparizione di Artemide.
Fedra vince la sfida morendo.
La sua morte si configura wagnerianamente come via ascensionale, liberazione dal gorgo delle terrestrità
U. Artioli, Il combattimento invisibile, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp.218-19, e come autentico rito di purificazione.
Come Capaneo e come Evadne, anche Fedra attraverso la morte, che è rifiuto di ogni appello possibile agli dèi, respinti e maledetti, si riscatta, trascinando nel nulla Ippolito, Teseo, la schiava tebana, lo stesso aedo, la poesia, cioè incoronata di cipresso e diventata fedele di Tanato, e unendosi, fuori della dimensione greca e olimpica che l’ha esclusa, ad Ippolito in una tensione all’assoluto e all’infinito in cui amore e morte sono indissolubilmente uniti.
P. Pedrazzini, L’ombra di Fedra la luminosa, op. cit., p.317
Possiamo concludere che alla luce di tutte le metamorfosi di Fedra riproposte nel tempo, lei risulta l’unica incontrastata vincitrice. Attraverso la morte, bene e male, positivo e negativo, vita e morte, in lei, si fondono: si annullano nella sua natura che, come quella della Grande Madre preellenica, tutto comprende.
IV
Le storie non vivono mai solitarie: sono rami di una famiglia, che occorre risalire all’indietro e in avanti. Nell’ebbrezza della traversata marina in groppa al toro bianco, Europa cela in sé, come potenze ancora inavvertite, i destini delle sue nipoti pazze d’amore, Fedra e Arianna, impiccate per vergogna e disperazione. E tra le radici celesti di questo albero di storie troviamo l’errare della giovenca pazza, l’antenata Io, che a sua volta include in sé l’immagine di un’altra giovenca pazza, madre di Fedra e di Arianna: Pasifae, anche lei impiccata per vergogna.
R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia
I miti sono composti di azioni che includono in sé il proprio opposto. L’eroe uccide il mostro, ma in quel gesto si percepisce che è anche vero l’opposto: il mostro uccide l’eroe.
Arrivati a questa schiacciante evidenza, non ci rimane altro che affrontare il discorso sul destino.
Il destino che si presenta come ultima tappa di questo percorso volto a restituire l’originaria potenza al suicidio di Fedra.
L’annullamento è un tratto essenziale del tragico, sebbene non sia un elemento tragico di per sé
L’uomo, che si erige a guida e a ordinatore di tutte le cose, è costretto a prendere coscienza che, nonostante tutti i suoi piani, è soggetto a qualcosa di più grande e di più superiore. Il suo non sapere è la ricettività della sua coscienza tragica per il mistero del cosmo: l’azione tragica obbedisce a un inesorabile volere supremo. Tale volere supremo viene concepito dalla coscienza tragica come “destino”. Ma qualunque cosa sia realmente il destino, esso assume miticamente le forme più svariate: è una maledizione impersonale e anonima, come conseguenza di un delitto che, di generazione in generazione, origina nuovi delitti: maledizione attuata da esseri demoniaci, conosciuta in precedenza dagli dèi, predetta dagli oracoli e affrettata o ritardata dalla nostra condotta.
K. Jaspers, Del tragico, op. cit., p. 73
Che la si chiami Moira, colei che domina sugli dèi, a cui le divinità stesse devono piegarsi, o almeno scendervi a compromessi, oppure Tiche, il caso che tiranneggia a suo capriccio, che viene divinizzata proprio con il nome di Tiche tra i Greci e con quello di Fortuna tra i Romani, altrimenti conosciuta col nome di Provvidenza nel mondo cristiano che, come imperscrutabile volontà divina, opera per la salvezza dell’anima; il supremo governo delle cose terrene si attua attraverso la mediazione dell’agire umano che provoca quanto l’uomo non ha previsto o non vorrebbe che accadesse.
Come Fedra, anche il destino è metamorfico e col mutare delle epoche e delle società assume poteri diversi. Prima di affrontare questo tema quindi, è necessario circoscrivere il nostro specifico campo d’azione.
Inizio pertanto col dare la definizione della parola:
Destin : disposition ou enchaînement des causes secondes ordonné par la providence, qui emporte une nécessité de l’événement. C’est ce que les payens appelloient fatalité, dont ils faisoient une puissance qui étoit même au-dessus de leurs dieux fabuleux. C’est le destin général des hommes d’être sujets à la mort. C’est la destinée des poètes, d’être gueux, d’être mauvais messagers.
A. Furetière, Dictionnaire universel, Paris, Arnout & Reinier Leers, 1690, 3 voll
Così recita un dizionario della lingua francese del 1690.
Il destino nella Phèdre
La tragedia affonda le sue radici in un passato che viene da essa riproposto in una situazione presente, in seno ad una crisi di cui lo spettatore è testimone. Il passato mitico aleggia quindi come presenza costante sulla scena. Non deve assolutamente andare perso nella memoria.
Fedra è la figlia di Minosse e Pasifae, presa tra l’estrema giustizia e la passione.
È dilaniata, quindi, da un conflitto interno che non ha nulla a che vedere con le cosiddette circostanze. Il suo destino è quello di essere combattuta e soffrire di questo dualismo straziante.
Contrariamente a Edipo, tragico re dell’omonima tragedia sofoclea, sa di commettere un crimine e avendo coscienza della sua colpevolezza potenziale, si dichiara colpevole a causa della sua passione.
Gli eroi greci non conoscevano una parola ingombrante come “responsabilità”, e non l’avrebbero mai creduta. Per loro, è come se ogni delitto avvenisse in stato d’infermità mentale. Ma quell’infermità significa qui presenza operante di un dio, ciò che per noi è infermità per loro è infatuazione divina (àte). Sapevano che quell’invadenza invisibile portava con sé, spesso la rovina: tanto che col tempo, àte passò a significare “rovina”. Ma sapevano anche, e Sofocle lo disse, che “ nulla di grandioso si avvicina alla vita mortale senza l’àte”.
R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, op. cit., p.114
Capire cosa voglia dire Racine, il messaggio preciso e il suo punto di vista, come del resto in tutte le sue opere, è decisamente problematico, si potrebbe anche sostenere che la finalità del nostro autore sia quella di mostrare l’intreccio e la complessità dei destini, senza per questo assumere una posizione precisa. L’opera raciniana, infatti, è classificabile come un’opera ouverte, soprattutto dal momento che si presenta come una messa in scena di elementi radicalmente contraddittori.
Il destino, in questo caso, risulta non essere assoluto e univoco. In questo capolavoro raciniano sono narrate le infinite pieghe che possono prendere i destini dei singoli personaggi, nulla è prevedibile né intuibile, forse auspicabile, ma certamente non scontato. Sembra che gli eventi siano in balìa di una forza che sfugge di mano all’autore stesso. L’unica cosa che si può fare è rimanere ad osservare fino alla fine, seguire il corso degli eventi senza preconcetti, senza aspettative.
L’innegabile magnetismo ipnotico è dovuto all’intreccio drammatico di cause secondarie che rinvia, simultaneamente, a significati diversi e tra loro contraddittori, chiamando in causa, contemporaneamente, la Provvidenza, la colpa, il destino e la volontà.
Si genera così un vero e proprio labirinto che non prevede vie d’uscita.
Un semplice esempio per palesare quest’intreccio:
Fedra denuncia la sua colpevolezza, subisce il suo destino ed esibisce il suo orrore. È quindi colpevole in quando lo sostiene lei stessa, nonostante la sua responsabilità si limiti alla sola intenzionalità. Lei denuncia la sua colpa senza averla esercitata.
Il punto nevralgico della tragedia è che Fedra origina un vortice di eventi concatenati, crea e distrugge continuamente, senza requie.
Genera così un movimento catartico.
La catarsi però avviene per tutti i personaggi tranne che per lei.
La domanda che sorge spontanea è chi sia a designare il destino della “luminosa”.
Non gli dèi, che non fanno altro che rispondere alle aspettative degli uomini, prendendo alla lettera le loro maledizioni; non un Dio vendicatore e crudele, che avrebbe escluso Fedra dalla grazia, un Dio che Antoine Adam definisce venu d’une théologie cruelle, et qui ferait penser à celle de Sade
A. Adam, Histoire de la littérature française au XVII siècle, Paris, Del Duca, 1954, tome IV, p. 371. Allora, come conciliare il Dio della Provvidenza con il Dio di ragione e giustizia che presiede i destini degli uomini del XVII secolo?
Effettivamente, chi muove i fili di questo grande teatro? Chi è il deus ex machina?
La risposta scandita regolarmente ad ogni passo di questa ricerca, è sempre la stessa, gli dèi se ne sono andati dalla scena, in loro vece sono rimasti solo vuoti simulacri, dove si annidano altre potenze che non sono certo quelle divine.
Partendo dal presupposto che o si parla di destino e tragedia o si parla del Dio cristiano, risulta evidente che le due cose si escludono.
Analizzando con attenzione, all’interno dell’opera si possono trovare tracce di molteplici teologie. Racine, infatti, raccoglie nella sua tragedia elementi sparsi di una teologia che non è affatto monolitica. Ci presenta, cioè, una scena soggetta ad un Dio vendicatore, attribuisce a Fedra il ruolo di un’umanità sottomessa alla caduta, che sa di non poter essere salvata, insiste sulla rappresentazione di innocenti sofferenti e perseguitati, ma al tempo stesso inserisce elementi mutuati dalla scuola di Euripide e Seneca, si rifà tanto alla natura mitica di Fedra quanto a quella biologica, si riscontrano anche elementi di retaggio della dottrina agostiniana
Dottrina che faceva perno sull’idea che bisognasse scegliere il bene a tutti i costi., dati morali e medici, immagini galanti e referenze antiche. Si tratta di un insieme d’elementi, per certi aspetti antitetici tra loro, che si ordinano al fine di rappresentare una crisi tragica.
Si parla quindi di destino, ma non nell’accezione religiosa, il destino infatti, per la religione, non esiste.
Bisogna tener presente che Fedra è una creatura teatrale che affonda le sue radici e la sua identità in elementi contraddittori.
L’unica certezza è che, nonostante resti ancora da capire chi o cosa determini il destino di Fedra, possiamo affermare che il destino degli altri personaggi è determinato da Fedra stessa.
È lei la forza misteriosa che decreta le pieghe dei destini altrui.
Un altro elemento attribuibile all’effetto di Fedra è il disordine.
Il disordine sulla scena, il disordine emotivo; da qualsiasi prospettiva si guardi l’opera, si percepisce un altissimo livello di caos. Questa tragedia, infatti, affonda le sue radici più profonde nella contraddizione, chiave di volta di una struttura maestosa e sfaccettata.
La tragedia raciniana, come quella classica, rivendica il diritto d’instaurare una crisi, di dirigersi verso il limiti dell’uomo, nel male come nel bene; il caos dimostra ancora una volta che non si può relegare la provvidenza solo ed esclusivamente alla sfera divina.
Le responsabilità sono distribuite tra i personaggi visibili e quelli nascosti, ecco da dove nasce il dinamismo dell’opera: nella vitalità imprevedibile, talvolta inaspettata, che permea i protagonisti di questa tragedia.
Les personnages s’acheminent, scène par scène, vers les limites de l’humain, se dévoilent et dévoilent consécutivement et parfois simultanément leur horreur, leur innocence et l’horreur du monde, au spectateur muet qui assiste au désordre et qui le voit se voir. Si dieu peut être cet spectateur, il est surtout évident que le spectateur est celui qui se trouve de l’autre côté du quatrième mur, celui qui juge le mots et les actions. Or le spectateur impuissant regarde un dévoilement progressif mettant en scène des personnages qui se voient tomber, constatent leur chute, en prennent littéralement acte jusqu’à ce qu’enfin Phèdre concentre sur elle, dans une liberté négative, toute la culpabilité, et du même coup purifie les autres.
C. Biet, Racine, Paris, Hachette, 1996, p. 114
In tutto questo disordine, un’ombra nera attraversa l’opera: l’espressione della sofferenza umana, violenta e senza speranza, il dolore di fare il male malgrado sé stessi e gioirne o il dolore di non poter far altro che soffrire, l’umanità presa tra il mondo e il male.
Fedra, incarnando l’idea che il desiderio è il destino dell’uomo, senza innocenza né colpevolezza, si fa portavoce dell’umanità nella sua interezza.
À la fatalité comment me dérober ?
Dove viene concepita una compensazione,
la tragicità viene meno.
Goethe
Affrontando il lavoro di Racine risulta evidente che l’elemento che, più di tutti, lo contraddistingue dai suoi colleghi contemporanei, e anche precedenti, è la posizione di precario equilibrio in cui colloca se stesso e la sua opera.
Di fronte quindi all’interrogativo che ci si pone in merito alla natura della parabola esistenziale di Fedra non viene data una risposta precisa, bensì enumera tutte le possibili ipotesi che possono essere prese in considerazione, e, a testimonianza, citiamo alcune righe della sua préface
Elle est engagée par sa destinée, et par la colère des Dieux, dans une passion illégitime dont elle a horreur toute la première. Elle fait tous ses efforts pour la surmonter. Elle aime mieux se laisser mourir que de la déclarer à personne. Et lorsqu’elle est forcée de la découvrir, elle en parle avec une confusion qui fait bien voir que son crime est plutôt une punition des Dieux qu’un mouvement de sa volonté.
J. Racine, Préface, Phèdre, p.34
Qui vediamo chiamati in causa gli dèi pagani, il destino e la punizione divina, c’è anche una piccola, quasi impercettibile, insinuazione dell’idea della predestinazione al peccato.
Il nostro autore non punta il dito contro una causa in particolare, ma le enumera tutte, lasciando quindi l’interpretazione dell’opera aperta alla soggettività del pubblico.
Come già sottolineato in precedenza, Racine si contraddistingue per la tendenza ai mélanges culturali.
Non rimane quindi che rivolgere la domanda a Fedra stessa, permettendomi di citare Ph. Sellier
Là où les augustiniens voient la corruption universelle hormis quelques élus, les tragédies affirment l’innocence universelle hormis quelques monstres.
Ph. Sellier, Port Royal et la Littérature, Paris, Honore Champion Editeur, 1999, tom I, p. 11
Il destino, o quantomeno l’impressione della fatalità, non è scomparso dalla scena di Racine, semplicemente è stato spostato: si limita, ora, a circoscrivere, attraverso le sue metafore, un territorio ancora poco esplorato della psiche sofferente, unico punto d’incontro tra corpo e spirito.
L’originalità di Racine, evidenziata già agli inizi del ‘900 da G. Lanson, consiste nell’interiorizzazione del fato in seno all’animo straziato da una passione ossessiva.
Possiamo concludere quindi che il destino costituisce, nella tragedia, la forma in cui Fedra, poiché si trova al centro dell’azione, vive e domina la sua irresistibile attrazione verso Ippolito e la catena di catastrofi che la seguono. La definizione di charme fatal è senza dubbio tra le più calzanti che siano mai state usate per definire la natura dell’energia dirompente che si muove attraverso Fedra.
Non si parla quindi di dèi, né di qualsiasi altro elemento al di fuori della persona della nostra eroina tragica. Ancora una volta quest’opera, e Fedra nella specifico, si rivela sovversiva e innovativa.
Il destino è determinato unicamente dalle pulsioni e dalle conseguenti azioni dei personaggi.
I tratti generali, ossia quell’insieme di elementi che costituiscono quella che potrebbe essere chiamata sovrastruttura, sono parzialmente intuibili, ma l’epilogo è inatteso.
Perché soggetto alle azioni umane.
Perché soggetto a Fedra.
Perché Fedra è soggetta alla sua stessa passione.
Nonostante buona parte della critica sostenga il contrario, noi siamo dell’idea che non si tratti di una tragedia sottoposta ad un’influenza religiosa, né morale, né sociale. Si tratta di una tragedia che vede, e riconosce, come unico dio l’uomo stesso, fallace, debole, posseduto dalle sue stesse passioni, eternamente in conflitto con sé stesso, cosciente della sua impotenza di fronte alla sua natura primitiva e destinato alla caduta verso cui si dirige senza un percorso predestinato.
Il valore delle azioni umane non risiede tanto nel punto d’arrivo, quanto nel percorso che si fa per approdarvi, è li che si nasconde il senso più intimo e profondo dell’esistenza umana. Nell’assoluta libertà, che viene concessa all’uomo tragico, risiede la più gravosa delle responsabilità: trovare un senso alle sue azioni, dare un valore a ciò che è effimero e momentaneo.
Comprendere che la ricchezza della vita, paradossalmente, risiede proprio nel senso temporale della mortalità.
(..) toute la joie silencieuse de Sisyphe est là. Son destin lui appartient. Son rocher est sa chose. (…)il n’y a pas de soleil sans ombre, et il faut connaître la nuit. L’homme absurde dit oui et son effort n’aura plus de cesse. S’il y a un destin personnel, il n’y a point de destinée supérieure ou du moins il n’en est qu’une dont il juge qu’elle est fatale et méprisable. Pour le reste, il se sait le maître de ses jours. A cet instant subtil où l’homme se retourne sous sa vie, Sisyphe revenant vers son rocher, dans se léger pivotement il contemple cette suite d’actions sans lien qui devient son destin, créé par lui, uni sous le regard de sa mémoire et bientôt scellé par sa mort. Ainsi, persuadé de l’origine tout humaine de tout ce qui est humain, aveugle qui désire voir et qui sait que la nuit n’a pas de fin, il est toujours en marche. Le rocher roule encore.
A. Camus, Le mythe de Sisyphe, op. cit., p. 167-68
Fedra come Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dèi e solleva i macigni in un universo senza padrone.
“Io reputo che tutto sia bene”
Questo dice l’Edipo di Sofocle, le sue parole insegnano che tutto non è stato esaurito, fanno del destino una faccenda di uomini che deve essere regolata tra uomini.
Edipo il più infelice tra gli eroi, e il più inerme, ma anche colui che passò al di la degli eroi. Il contatto con il mostro è il contatto pelle contro pelle. Edipo, per primo, non tocca il mostro, ma lo guarda, e gli parla. Edipo uccide con la parola, getta nell’aria parole mortali come formule magiche scagliate da Medea contro Talos
Talos, ancora un toro. Il toro guardiano incaricato da Minosse di sorvegliare l’isola di Creta. Si narra che fosse invincibile tranne che in un punto, sulla caviglia., dov’era visibile l’unica vena che conteneva sangue. La leggenda vuole che quando la spedizione degli Argonauti giunse sull’isola, sia stato reso pazzo da Medea ed ucciso da Peante che trafisse la sua vena con un una freccia.. Dopo la risposta di Edipo la sfinge si precipitò nel baratro. (…) con Edipo l’uccisione del mostro si scinde: da una parte, un’uccisione perfettamente consapevole, quella compiuta con la parola che distrugge la sfinge; dall’altra un’uccisione perfettamente inconsapevole, quella con cui Edipo elimina Laio
Suo padre.in una rissa fra viaggiatori. C’è un rovescio nefasto della lucidità che aderisce alla coscienza, da allora. È quella la vendetta del mostro. Il mostro può perdonare chi lo ha ucciso. Ma non perdonerà chi non ha mai voluto toccarlo.
R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, op. cit., p.385
La tragedia di Sofocle, Edipo re, che s’inserisce nel ciclo tebano, narra la tragica vicenda di Edipo, che scopre che la profezia fatta alla sua nascita, di cui per tutta la vita aveva cercato di evitare la concretizzazione, in realtà si era avverata: si era, quindi, reso colpevole dell’omicidio del padre, aveva sposato la madre e generato dei figli con essa.
Ciò fa di lui un uomo maledetto dagli dèi.
Edipo si acceca, perde la corona di Tebe e va in esilio.
La tragedia sofoclea s’inserisce perfettamente in questo percorso volto ad indagare il rapporto che intercorre tra il destino e la libertà dell’uomo di fronte ad esso, facendo da contraltare alla Phèdre di Racine.
La tragedia di Edipo si rivela estremamente interessante in quanto mette in scena una particolare manifestazione dell’azione del destino, ossia quella della profezia.
Il personaggio di Edipo si presenta, fin dal primo momento, totalmente ambivalente, in quanto mette in scena la coesistenza di colpa e innocenza.
Il reale potere della profezia nell’economia tragica è quello di annullare il cosiddetto piano temporale, dotando l’impianto narrativo di una storia multipla: la storia dei figli di Laio (quindi ci troviamo nel campo mitico), la storia dell’uomo che conosce la profezia e la storia che l’eroe sta iniziando a percorrere. È la concretizzazione di un gigantesco paradosso a cui si rifarà anche Shakespeare con Macbeth.
Macbeth è colui che usurperà il trono di re Duncan. Questa storia è oggetto della profezia di tre streghe, da cui si potrebbe dire che il destino assume la sua consistenza sulla scena.
Ma l’identificazione della profezia con il destino è limitante, le profezie non si riferiscono ad una persona nello specifico, lasciano un margine d’incertezza. Un particolare destino è uno dei possibili destini, ma non l’unico.
Da qui possiamo dire che lo stesso vale per il senso di colpa di Fedra che non è diventata quello che doveva essere, bensì come avrebbe potuto essere. Il senso di colpa trova le sue ragioni contestualizzandosi nella storia in corso, non basandosi sulle eredità genealogiche.
Prestando una maggiore attenzione, risulta chiaro che opere quali Phèdre ed Edipo re non si prestano particolarmente allo schematismo del destino, non possono cioè venire inquadrate in una sovrastruttura predefinita. I protagonisti non si presentano come vuote marionette i cui fili sono mossi da un destino precostituito. Anzi, oppongono una strenua resistenza.
Il bene o il male, generati dalle loro azioni, non hanno niente a che vedere col destino, sono il risultato di un agire assolutamente soggettivo.
Per certi aspetti si ha quasi la sensazione che si chiami in causa il destino per discolparsi.
Lo vediamo in Teseo, quando accusa Nettuno del suo furore contro Ippolito. È un’attitudine propria di Teseo quella di non assumersi mai le proprie responsabilità, bisogna attendere la morte del figlio dell’amazzone perché Teseo cambi la sua propensione.
Personaggi come Edipo o Teseo, che sollecitano l’intervento degli dèi per servire quello che ritengono rappresentare la giustizia, si accorgono poi che si sono condannati da soli.
L’uomo si crede chiamato a cambiare il corso degli eventi.
Il mito lo rivela incapace di ricoprire il ruolo del destino conformemente al suo ideale di giustizia. La sua miopia e le sue passioni, nel momento in cui l’uomo cerca di superare il limite naturale che gli è stato assegnato nell’ordine del mondo, non possono che portare distruzione.
Nei racconti fantastici il male si ripara. Nel mito è irreversibile. La tragedia trova la sua morale nel mito.
Il Teseo di Racine comprende che le conseguenze del suo desiderio lo incatenano e che la morte del figlio gli interdice qualsiasi tipo di preghiera. È infatti andato oltre.
Ad avvalorare l’idea dell’assenza effettiva di una qualsivoglia divinità a gestire le fila degli eventi è anche il fatto che, man mano che la catarsi si realizza, che i nodi si sciolgono, che la coltre di fumo che annebbiava la vista viene dissipata, anche i riferimenti agli dèi si riducono drasticamente. Teseo comprende grazie all’azione di Fedra.
L’estrema lucidità di Fedra è colta perfettamente da E. Zimmermann, quando scrive
Les dieux du destin ont été inexorables pour Thésée. Ils sont cruels pour Phèdre. Mais, cela dit, Phèdre comme Thésée s’arrête. Elle ne prononce pas d’accusation. Tout autre était de Jocaste qui, ayant constaté la cruauté des dieux, s’interrogeait : « prennent-ils donc plaisir à faire des coupables/ afin d’en faire après d’illustres misérables ?
J. Racine, La Tébaïde, II.ii., 1664, vv. 695-96 » (..) Phèdre ne se présente pas comme une victime choisie entre toutes, cible de la méchanceté des dieux. Elle ne fait pas de remarques ironiques sur la justice divine comme Jocaste. Jamais elle n’interroge « pourquoi moi ? » ou ne demande en quoi elle a mérité d’être frappée de cet amour qui fait son malheur. Les dieux ne sont pas appelés en jugement ; Phèdre ne leur demande des comptes. Elle constate.
E. Zimmermann, La liberté et le destin dans le théâtre de Racine, Geneve, Slatkine, 1999, p. 108
In questo caso Fedra ricorda non il teatro Euripideo, accusatore degli dèi, bensì quello di Sofocle.
Edipo non domandava certo alle divinità perché lo avessero designato come vittima. Il mondo degli dèi e la sua esistenza hanno le loro proprie leggi
La nozione di un “Dio personale” è tipica del Cristianesimo; forte di quest’attenzione il cristiano è tentato d’interrogare Dio, di chiedergli perché sia stato scelto per tale o talaltra prova. Se si fosse trattato di una Phèdre cristiana senza dubbio avremmo trovato elementi adatti a supportare quest’attitudine, mentre invece non ve n’è traccia.. Le preoccupazioni di Edipo, come del resto quelle di Fedra, sono rivolte al mondo degli uomini.
Il punto d’incontro tra Phèdre e Edipo Re, al di là della scelta del soggetto
Entrambi mettono in scena una tragedia dell’incesto, e le critiche hanno spesso sostenuto che Fedra rappresentasse l’incesto edipico al contrario., è la lotta dell’uomo contro il suo destino. Tanto Fedra quanto Edipo accettano la responsabilità degli atti che hanno commesso senza aver voluto, e ne sono stati puniti. Fedra uccidendosi si fa carico dei sentimenti dai quali non si è potuta salvare.
Anche la nostra totale attenzione è rivolta alle azioni degli uomini, non a quelle degli dèi.
La lotta dell’essere umano per assumersi la responsabilità del proprio destino si traduce, per Fedra, nella lotta tra la sua volontà e la sua debolezza.
Avendo scelto, come Edipo, di punirsi per quello che considera come condannabile, Fedra riassume la storia della sua lotta, annuncia poi la sua decisione facendola precedere da “J’ai voulu”, verbo che indica la fine della passività, ossia il passaggio da una visione lucida ad un’azione altrettanto lucida.
L’azione di Fedra si ricollega metaforicamente a quella di Edipo che decide, cavandosi gli occhi, una punizione ben peggiore della morte.
Tiresia lo aveva predetto, ma il fatto che gli dèi avessero potuto prevederlo non cambia il fatto che dipendesse da lui e non da loro.
Rifiutare la passività di fronte al destino, agire nella stessa direzione ma per un proprio autonomo movimento. Ecco il limite della libertà umana secondo Racine e Sofocle.
Non cambia il risultato, bensì quello che avviene all’interno dei due estremi che sono l’inizio e la fine della storia del singolo.
Chiudo citando ancora A. Camus
(…) ce qui reste, c’est un destin dont seule l’issue est fatale. En dehors de cette unique fatalité de la mort, tout joie ou bonheur, est liberté. Un monde demeure dont l’homme est le seul maître. Ce qui le liait, c’était l’illusion d’un autre monde. Le sort de sa pensée n’est plus de se renoncer mais de rebondir en images. Elle se joue - dans de mythes sans doute – mais des mythes sans autre profondeur que celle de la douleur humaine et comme elle inépousables. Non pas la fable divine qui amuse et aveugle, mais le visage, le geste et le drame terrestres où se résument une difficile sagesse et une passion sans lendemain .
A. Camus, Le mythe de Sisyphe, op. cit., p. 158-59
È proprio questo il punto dove volevamo arrivare.
L’unica cosa fatale è la conclusione della propria vita.
È inevitabile. Forse è l’unica cosa che valga il titolo di destino, tutto il resto dipende dall’uomo: che facciamo di noi persone colpevoli o innocenti, qualsiasi cosa diventiamo nella nostra vita è una scelta deliberata e soggettiva.
Racine mette i suoi personaggi di fronte ad una rosa di possibili futuri, sono loro, con le loro azioni, che fanno pendere la bilancia da una parte o dall’altra. E lo stesso vale per noi. È il nostro quotidiano incedere nel mondo che ci rende quelli che siamo oggi e che, probabilmente, saremo domani, ma sarebbe un grave errore dare per scontato il futuro.
Per Pascal la scommessa era l’esistenza di Dio. A noi crediamo che la vera scommessa sia di riuscire a vivere nel modo migliore possibile, cercare di arrivare alla conclusione soddisfatti di quello che si è fatto e pronti per qualsiasi cosa ci riserbi il “passaggio”, compreso il nulla più assoluto.
Voglio immaginare che Fedra, al momento della sua morte, fosse cosciente del fatto che tutto quello che poteva fare lo aveva fatto.
Una Fedra che lascia la disperazione ai vivi per trovare, finalmente, un po’ di ristoro.
Non la immaginiamo disperata, ci piace pensare che la sua personale scommessa fosse quella di ricongiungersi con Ippolito.
Conclusioni
Ancora una volta prendo in prestito le evocative parole di Marguerite Yourcenar.
Je ne serai jamais vaincue. Je ne serai qu’à force de vaincre. Chaque embûche déjouée m’enfermant dans l’amour qui finira par être ma tombe, je terminerai ma vie dans un cachot de victoires. Seule, la défaite trouve des clefs, ouvre les portes. La mort pour atteindre le fuyard doit se mettre en mouvement, perdre cette fixité qui nous fait reconnaître en elle le dur contraire de la vie. Elle nous donne la fin du cygne frappé en plein vol, d’Achille saisi aux cheveux par on ne sait quelle Raison sombre. Comme pour la femme asphyxiée dans le vestibule de sa maison de Pompéi, la mort ne fait que prolonger dans l’autre monde les corridors de la fuite. Ma mort à moi sera de pierre. Je connais les passerelles, les ponts tournants, les pièges, toutes les sapes de la Fatalité. Je ne puis m’y perdre. La mort, pour me tuer, aura besoin de ma complicité.
M. Yourcenar, Feux, op. cit., p. 29-30
Questo viaggio è giunto al termine. Abbiamo attraversato la notte più profonda dell’animo umano e ne siamo usciti.
Con questo breve lavoro abbiamo cercato di dare una forma a quella che, a nostro avviso, se adeguatamente ampliata e approfondita, potrebbe rivelarsi una ricerca estremamente interessante. Nonostante l’inesperienza nel campo della ricerca si è tentato di toccare i punti, secondo noi, nodali di quello che, in fondo, è il modo d’incedere dell’uomo nella vita.
Partendo quindi da un avvenimento specifico e drammaticamente significativo come quello del suicidio di Fedra, abbiamo cercato di fornire un’analisi globale di quello che rimaneva nascosto nelle maglie della storia scenica. Un’analisi solo letteraria, a nostro avviso, non sarebbe stata una sufficiente a spiegare la magnetica attrazione che esercita la nostra eroina sul pubblico.
È stata quindi necessaria un’indagine storico-sociologica, ma anche filosofica e teologica.
E ancora, nonostante tutto, rimangono del punti oscuri.
Fedra all’inizio rappresenta l’umanità in tutta la sua interezza.
Quando scriviamo che Fedra è simbolo dell’umanità nella sua interezza vogliamo dire esattamente questo, intendiamo l’accezione più completa e assoluta del termine.
L’opera della Phèdre, com’è stato più volte sottolineato, si è rivelata essere un lavoro a più livelli di lettura, e lo stesso vale per l’omonima eroina. Procedendo nello studio Fedra rivelava sfumature della sua personalità sempre più sfaccettate. Regala ad un occhio attento e soprattutto non prevenuto uno spettacolo inimmaginabile.
Abituati come siamo a personaggi ben centrati nelle loro specificità, capaci di spingere fino al parossismo il modello umano di cui sono portavoce, creature piatte e spesso monocrome, incapaci di una qualsivoglia metamorfosi, di fronte a Fedra non possiamo che rimanere abbagliati, spiazzati. Improvvisamente vediamo i colori, le sfumature, la profondità, le incongruenze.
Per la prima volta vediamo veramente l’uomo in scena.
Ma Racine ha fatto più che portare l’uomo alla luce: ha permesso alla nostra eroina di rappresentare se stessa, come esemplare unico in una moltitudine costituita da esseri altrettanto unici.
Osserviamo Fedra fare delle scelte, la vicenda inizia a dispiegarsi di fronte ai nostri occhi, assume una conformazione sempre più nitida, specifica, definita, in una parola: personale e quindi esclusiva.
Ecco come Fedra arriva a diventare ambasciatrice di una parte sempre più selezionata di umanità.
Non tutti scelgono il suicidio, non tutti arrivano a dover compiere questa scelta tanto gravosa e complicata. Non tutti lo fanno per le giuste ragioni, ammesso che ci siamo ragioni talmente valide da motivare una tale presa di posizione rispetto al mondo.
Sono le scelte operate ogni volta di fronte ai casi della vita che determinano il nostro percorso, che disegnano il tratti di quello che, arrivati alla fine, guardandoci indietro, chiamiamo destino.
Questa è l’eredità di Fedra: la consapevolezza che sono le nostre libere azioni che determinano quello che siamo nella vita e quello che saremo nella morte.
Non le profezie, non gli dèi, non un Dio indifferente.
L’uomo si autodetermina tanto nella vita come nella morte.
Concludo con qualche riga mutuata dallo scrittore Javier Marìas, che proprio in merito all’argomento scrive
(…) è la forma della nostra morte ciò di cui dobbiamo curarci, e per curarcene dobbiamo curare la nostra vita, perché sarà questa, senza essere nulla in sé, quando finirà e verrà sostituita, l’unica cosa che tuttavia sarà capace di farci sapere che alla fine moriamo in maniera accettabile.
J. Marias, L’uomo sentimentale, Torino, Einaudi, 2000
Fedra ha fatto delle scelte, e di certo non si è pentita di nessuna di queste. Ha assecondato la sua natura, anzi, la sua duplice natura. Il compromesso sarebbe stato per lei un supplizio troppo gravoso, non sarebbe stata una vita vissuta nella sua completezza.
Ha scelto in conformità e coerenza con sé stessa.
La “luminosa” è rimasta fedele alla sua natura.
Tra tutte, questa, è la sua vittoria più grande.
Bibliografia dell’autore
Poésies d’adolescence et de jeunesse
Le Paysage, 1656-58
Poésies latines, 1656-58
A’ Antoine Vitart, 1656
Autre Billet à Antoine Vitart, 1660
Sur la naissance d’un enfant de Nicolas Vitart, 1660
Petites pièces galantes, 1660-61
La Nynphe de la Seine à la Reine, 1660
Ode sur la convalescence du Roi, 1663
La Renommée aux Muses, 1665
Epigramme sur la signature du formulaire, 1665
La Thébaïde ou les frères ennemis, 1664
Alexandre le Grand, 1665
Andromaque, 1667
Les plaideurs, 1668
Britannicus,1669
Bérénice, 1670
Bajazet 1672
Mithridate, 1673
Iphigénie, 1674
Phèdre et Hippolyte, 1677
Sur l’assemblée des évêques, 1681
Esther, 1689
Athalie, 1690
Cantiques spirituels, 1694
Dernières poesie
Sur le Germanicus de Pradon, 1694
Sur le Judith de Boyer, 1695
Pour le portrait de Antoine Arnauld, 1694
Epitaphe d’Antoine Arnauld, 1694
Sur le Sèsostris de longepierre, 1695
Principali edizioni
Œuvres, Barbin o Ribou, 1675-1676, 2 voll.
Œuvres, Thierry o Barbin o Tribouillet ,1687, 2 voll.
Œuvres, Thierry o Barbin o Tribouillet, 1697, 2 voll.
Œuvres complètes, a c. di J. -F. de La Harpe – Germain – Garnier, Agasse, 1807, 7 voll.
Œuvres, a c. J.-F. Geoffroy, Le Normant, 1808, 7 voll.
Théâtre complet, Parma, Bodoni, 1813
Œuvres de Jean Racine, a c. di P. Mesnard, Harchette, « Les Grands Ecrivains de la France », 9 voll., 1865-73 ; 1885-88
Œuvres, a c. di A. France, Lemerre, 1874-75, 5 voll.
Œuvres complètes, a c. di R. Picard, Gallimard, « Bibliothèque de la Pléiade », 2 voll. : I, Théâtre-Poésie, 1950 ; II, Prose, 1956 (1966)
Thèâtre complet, a c. di J. Morel – A. Viala, « Classiques » Garnier, 1995
Théâtre complet, a c. di Ph. Sellier, Imprimerie Nationale, 1995
Théâtre complet, a c. di J. Rohou – P. Fièvre. Librairie Générale Française, « la Pochothèque », 1998
Œuvres complètes, I: Thèâtre, Poésies, a c. di G. Forestier, Gallimard, « Bibliothèque de la Pléiade », 1999
Fedra e Ippolito, Dalla Valle, Daniela, Marsilio, 2000
Euripide, Seneca, Racine, D’Annunzio. Fedra, variazioni sul mito, Ciani, Maria Grazia, Marsilio, 2003
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