Ignazio de FrancescoL’opera è un’esplorazione della coscienza del musulmano, condotta attraverso lo studio delle supreme fonti di questo sistema religioso, i cui fedeli rappresentano oggi circa un quarto della popolazione mondiale. Suo spunto di partenza è il celebre detto attribuito a Muḥammad e collocato in testa a quella che è considerata la seconda fonte canonica dell’islam sunnita (il Ṣaḥīḥ di al-Buḫārī, IX sec.), secondo cui “le opere sono solo in base alle intenzioni, e l’uomo è <giudicato> solo secondo quanto ha inteso fare”. Quest’affermazione, conosciuta e ripetuta infinite volte sino ad oggi nella catechesi islamica e nella predicazione delle moschee, segnala un interesse pronunciato per ciò che l’uomo elabora nel foro della coscienza. Tale interesse va fatto risalire alla spinta impressa dagli ‘ulamā’ delle prime generazioni, che nel triangolo Penisola araba-Irak-Siria si diedero a progettare un sistema religioso dove fede, morale e diritto risultassero perfettamente allineate. Tale integrazione costituisce un elemento di forte coesione dell’islam, ma al tempo stesso il punto di maggiore frizione che si produce oggi nel suo contatto con la modernità. La ricerca prende il via dal Corano, il documento letterario più antico, analizzando in quale modo il Libro sacro dei musulmani faccia leva sulla coscienza di coloro che ne accolgono il messaggio. Fede e azioni paiono strettamente legate. Il credente è come strappato all’antica rete di relazioni tribali per essere collocato di fronte a Dio, in una profonda solitudine esistenziale e in rapporto d’assoluta obbedienza. Il timore è, a questo livello, il motivo dell’agire più ricorrente, accentuato dalla presenza sempre vigile dell’occhio di Dio nel foro della coscienza. Questo è ciò che spinge dal monoteismo dogmatico alla monolatria integrale, che si deve esprimere in tutti gli ambiti della vita. Il momento del ğihād funziona come una cartina di tornasole, che mette in luce i segreti del cuore. Il libro prosegue analizzando una vasta selezione di letteratura ascetica, dove il tema del controllo della coscienza e dell’indirizzo religioso delle azioni diventa cruciale. Non si deve pensare che il discorso interessi solo cerchie ristrette di pii, poiché l’opera dei predicatori e maestri dei primi secoli è volta a modellare l’anima del popolo intero. Caso tipico, tra quelli trattati, è quello di Ibn Ḥanbal (IX sec.), considerato sino a oggi il modello tradizionale dell’islam più devoto e puritano. Tra i temi sviluppati da questa letteratura c’è quello dell’amore (verso Dio e tra i fratelli) come movente dell’azione, che condurrà alle più alte vette della mistica islamica, e quello dell’ipocrisia, la cui insistenza è indizio di una deriva verso il formalismo della società islamica in formazione. Chiude il percorso la letteratura giuridica, che da una parte recepisce la spinta della devozione per tutto ciò che riguarda l’ambito cultuale. L’accento posto sulle intenzioni fa dell’atto di culto (preghiera, digiuno, pellegrinaggio...) qualcosa di assolutamente personale e individuale, dove di nuovo il credente è posto da solo di fronte a Dio, anche in una grande folla. Nel diritto civile e penale viene fatto valere invece il principio virtualmente opposto: le intenzioni di una compravendita, di un matrimonio, o di un omicidio, rimango segrete e la comunità si deve fermare a giudicare ciò che vede. È un modo per tutelare la pace dei rapporti sociali, obiettivo che modella in modo profondo sino ad oggi la psicologia e il modo d’essere dei musulmani in mezzo agli altri. Un’appendice comparativa delinea infine il confronto tra la kawwana ebraica e la niyya islamica mostrando come i Maestri d’Israele abbiano in molte cose anticipato la dottrina islamica dell’intenzione.