Gabriella De Marco
Costruire il consenso: architettura, spazio urbano e committenza
nell’Europa contemporanea
Epekeina, vol. 7, nn. 1-2 (2016), pp. 1-12
Proceedings
ISSN: 2281-3209
DOI: 10.7408/epkn.
Published on-line by:
CRF – Centro Internazionale per la Ricerca Filosofica
Palermo (Italy)
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Costruire il consenso: architettura, spazio
urbano e committenza nell’Europa
contemporanea
Gabriella De Marco
José Saramago nel Memoriale del convento, pubblicato a Lisbona
nel 1982, narra della costruzione del reale edificio di Mafra voluta, tra
il 1713 ed il 1730, da Giovanni V di Portogallo.
Nelle intenzioni del re committente, il complesso doveva, se non
eguagliare, porsi come una sorta di contraltare della fabbrica di San
Pietro a Roma.1
Un’edificazione, quindi, quella di Mafra, che, oltre ad onorare
un voto fatto dal sovrano, impegnò, per anni, migliaia di portoghesi
assorbendo ingenti quantità di denaro.
La scrittura altissima di Saramago attinge alla storia, al fatto realmente accaduto, ispirandosi ad un complesso monumentale ancor oggi
esistente per costruire, attraverso una sapiente alternanza di piani narrativi, la metafora di un’idea di edificio inteso come manifestazione
tangibile di sfarzo e di potere. E lo fa con parole efficaci che ci illuminano, come spesso spetta alla letteratura, su quella che è una componente
centrale nello studio dell’architettura, dell’urbanistica e dello spazio
urbano non solo di età antica: ossia il rapporto con la committenza.
Ha ragione da questo punto di vista Deyan Sudjic in Architettura e
potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo, un pamphlet
del 2005, che io qui cito nell’edizione italiana del 2011, quando afferma, riflettendo sull’oggi, che l’architettura non è mai neutrale e che
pur essendo strumento pratico, attento alla funzionalità oltre che al
linguaggio espressivo assume, al tempo stesso, nel rapporto inevitabile
con il committente, significati anche politici. Ciò perché in ogni cultura,
in ogni età, gli architetti per poter realizzare le proprie opere hanno
dovuto stabilire relazioni con chi detiene ampie risorse per costruire,
ovvero i potenti del momento.2
Gli esempi potrebbero essere molteplici: dall’età antica, e penso in
particolare ad Augusto, ai fasti della Roma barocca, dagli ampliamenti
1. Saramago 1982, 315.
2. Sudjic 2011.
Gabriella De Marco
consistenti della reggia di Versailles voluti da Luigi XIV di Borbone,
anche, con lo scopo di neutralizzare, grazie all’ubicazione e alla mirabilia architettonica, le fondamenta del potere della nobiltà di provincia
francese sino alle relazioni, nel XX secolo, tra architettura e dittatura,
come insegnano gli esempi, seppur tra loro diversificati, dell’Unione
sovietica, della Germania di Hitler e infine dell’Italia di Mussolini.3
Ciononostante, sarebbe un grave errore ritenere che l’identificazione tra architettura, urbanistica e committenza funzionale alla costruzione del consenso sia solo prerogativa delle epoche passate o, per
il Novecento, dei regimi totalitari come dimostra un acceso dibattito
internazionale sollecitato da un’intervista rilasciata, nel 2013, dall’architetto polacco, naturalizzato statunitense, Daniel Libeskind all’Architects
journal in cui questi esprimeva una posizione polemica nei confronti
di quei colleghi che accettavano, e ancora accettano, di costruire, e cito
sempre Libeskind, "gleaming streets for despots".4 L’architetto, dunque,
attraverso l’intervista ribadiva la funzione etica del fare architettura.
Pur tenendo conto, quindi, delle opportune distinzioni di contesto
sempre necessarie in un approccio storiografico, anche l’età contemporanea nei suoi multiformi quanto contraddittori aspetti di un’era che si
vuole globale e digitale offre molti esempi di intrecci tra architettura,
spazio urbano, public art, politica e istituzioni.
E ciò vale sia per quelle potenze emergenti quali la Cina o i paesi
del Golfo arabo a cui si riferiva l’architetto americano sia per quei paesi
a statuto democratico.
La città è, dunque, oggi, una trama complessa che il rapporto tra
architettura, memoria, spazio pubblico, istituzioni sia pubbliche sia
private, rende un articolato ingranaggio in continua trasformazione.
La città, quindi, proprio perché caratterizzata da edifici, da paesaggi
diversificati e abitata, attraversata, da persone diviene, sulla scia di
Paul Ricoeur di La memoria, la storia, l’oblio, testo vivente.5
3. La bibliografia relativa al rapporto tra architettura e dittatura nel primo Novecento in Europa è ampia e ricca di aggiornamenti continui; pur inviando, quindi, ad
altri sedi specialistiche segnalo, soltanto, per restringere il campo al contesto italiano,
Gentile 2007 e Nicoloso 2008. Ricordo, ancora, l’imprescindibile Cederna 1979.
Segnalo, infine De Marco 2011.
4. Pallister 2013.
5. Ricoeur 2003. Sulla modernità e sulla forma della città nell’età della globalizzazione si veda, pur nella consapevolezza di un’impossibile esaustività, Baudelaire
2
Architettura, spazio e committenza
In particolare, sottolineo, proprio partendo dalle riflessioni del
filosofo francese che ha esteso le categorie di tempo e racconto anche
alla città che, in un approccio allo spazio urbano e a quella che si
definisce public art va considerata, necessariamente, la componente
psicologica di accettazione o di rifiuto da parte della comunità rispetto
al proprio spazio.6
Infatti, gli edifici, le piazze, gli ambienti destinati alla collettività e
configurati tradizionalmente come spazi geometrici, misurabili sono,
anche, luoghi di vita per cui chi li abita ne accoglie il costruire con le
proprie aspettative, le proprie resistenze e le eventuali contestazioni.
Contestazione, dissenso, che si manifesta con forme e modalità
differenti: dal disagio e l’insofferenza personale a teatro di scontro.7
Naturalmente, troppe sono le componenti di cui bisognerebbe
tener conto proprio per la complessità di un argomento che prevede, pur nella specificità di ogni contesto sia geografico sia temporale, un punto di vista allargato che comprenda memoria storica, conservazione, tutela, rapporto centro-periferia, progettazione urbanistica e quindi programmazione e non ultimo, infine, il punto di vista
dell’interculturalità.8
1961, 420; Brenner 1999; Habermas 1987; Bagnasco e Le Galès 2001; Lazzarini
2011; Campo 2013. Ricordo, ancora, per un’accurata e non superata riflessione sul
contesto italiano il convegno romano (Museo Macro 23, 24, 25 novembre 2004) e i
relativi atti, delle stesse curatrici: Ferri e Crescentini 2006.
6. Invio al volume di Ricoeur citato. Riguardo la psicologia ambientale, pur
inviando ad altri sedi specialistiche, segnalo gli studi, per il contesto italiano, già a
partire dai primi anni Novanta del Novecento, di Mirilia Bonnes. Per un approccio di
impronta sociolinguistica ricordo, solamente, Trifone 2015. Imprescindibile, infine, è
il contributo di Lynch 2006.
7. Complesso, articolato e differenziato a seconda dei luoghi, dei contesti e naturalmente delle opere si presenta l’argomento relativo all’accettazione e o al rifiuto da
parte del cittadino e della comunità nei confronti di architetture, di manufatti e più in
generale di interventi di riqualificazione urbana per cui non è possibile tentare un discorso generale. Prova né è l’accesa contestazione cui è stata sottoposta, nell’estate del
2015, l’opera di Anish Kapoor Dirty Corner esposta nel parco della Reggia di Versailles.
Il lavoro, infatti, nonostante l’ artista sia figura acclamata sul fronte internazionale è
stato oggetto di ripetuti atti di vandalismo. Dello stesso ricordo Cloud Gate realizzato
per il Millenium Park di Chicago.
8. In un’ottica dove lo spazio urbano si carica di segni non solo geometrici e
misurabili, il tema dell’interculturalità diviene sempre più centrale. Segnalo, in Danimarca, a Copenhagen, Superkilen, parco urbano interculturale, esempio di quella
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Aspetti, questi, centrali per la città contemporanea già a partire
dal dibattito diffuso nei primi del secolo scorso sia negli Stati Uniti
sia nell’Europa del nord a cui si aggiunge una nuova componente a
cui posso solo accennare qual è quella dell’interattività, della realtà
aumentata che prevede che le città del futuro, quelle che si definiscono
come smart city, possano diventare, secondo l’opinione di alcuni, degli
agglomerati urbani governati da flussi di dati.9
Molte, dunque, per orientare lo sguardo sull’argomento di questo scritto le relazioni tra architettura, arte pubblica, committenza e
cittadino.
E qui corre l’obbligo di ricordare, in una carrellata ben lungi dal
rispondere ad ogni pretesa di esaustività, l’acceso dibattito critico sviluppatosi intorno all’arte pubblica centrato, sin dalla fine degli anni
ottanta del secolo scorso, intorno alla coppia consenso/dissenso.10
In particolare, penso per la critica d’arte, alle riflessioni di Patricia
Phillips che individuava in molti programmi governativi diffusi negli
Stati Uniti, la volontà di perseguire, attraverso la committenza di opere
d’arte pubblica, un ampio consenso inseguendo così un’estetica del
bello.11
All’opportuna considerazione della Philips seguiva, sempre come
voce fuori dal coro, la riflessione di Suzanne Lacy che in Mapping the
Terrain. New Genre Public Art, insinuava il dubbio, il sospetto legittimo
che, nella tendenza sempre più diffusa particolarmente nell’area anglosassone attenta a fare dell’arredo urbano un punto centrale dell’azione
amministrativa delle città, ci fosse il tentativo di imbrigliare, attraverso
l’istituzionalizzazione del politicamente corretto, la public art.12 Arte
Pubblica che, si ricordi, è operazione altra rispetto a ciò che nel linguag-
che si definisce architettura partecipata, e progettato dal gruppo Superflex con la
collaborazione di Bjarke Ingels Group and Topotek 1.
9. Montani 2014.
10. Naturalmente mi riferisco al dibattito che ha coinvolto l’arte contemporanea,
l’architettura e l’urbanistica. Per un inquadramento di carattere generale ricordo,
solamente, pur nella consapevolezza di fornire indicazioni lacunose considerati gli
apporti notevoli già a partire dagli anni settanta del Novecento: Foucault 1993; De
Certau 2001; Sacco 2004; Habermas 2005; Castells 2008. Invio, inoltre, alla nota
tredici.
11. Phillips 1988.
12. Lacy 1995.
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Architettura, spazio e committenza
gio della critica d’arte si definisce come intervento site specific proprio
perché l’arte pubblica prescinde dalla sola valenza estetica funzionale
unicamente alla collocazione dell’oggetto artistico nello spazio.
Di public art si inizia a ragionare negli Stati Uniti, come nell’Europa
del Nord già a partire dagli anni Trenta del Novecento.13
Ciononostante, soltanto dagli anni a seguire il secondo conflitto
mondiale si diffonde programmaticamente sia in Europa sia negli Stati
Uniti.14 In particolare, in America è sostenuta dal governo e dalle
amministrazioni proprio per migliorare la qualità della vita attraverso
la sistemazione dello spazio e contribuire, così, mediante l’incremento
di opere pubbliche, al rafforzamento dell’identità delle comunità locali
favorendo una rigenerazione economica e culturale.
Tuttavia, nonostante le intenzioni o, se si vuole, le buone intenzioni,
ogni commissione di arte pubblica reca in se le potenzialità atte ad
innescare polemiche e contestazioni: questo perché si tratta di progetti
che devono confrontarsi con un pubblico che non è quello dei musei,
delle gallerie o del collezionismo. Pubblico che, quindi, non solo non
sempre è in grado di possedere gli strumenti di comprensione ma può
legittimamente non mostrare alcun interesse nei confronti dell’arte o
di un’idea innovativa di arte e spazio urbano. Pubblico che è comunque
costretto a confrontarsi con questi interventi proprio perché collocati
13. Il dibattito intorno al concetto di public art e alle possibili implicazioni o derive
populiste è acceso, articolato nel tempo e potrebbe in tal modo essere oggetto di un
apposito convegno. In questa sede, per ragioni comprensibili, mi limito a segnalare
oltre ai testi già citati di Phillips e Lacy, Mitchell 1990; Horowitz 1996, Knight
2008. Per quanto riguarda i contributi sull’argomento invio infine a: Palermo 2012a e
Palermo 2012b.
14. Per uno sguardo sul dibattito nel nord Europa e sull’Olanda in particolare invio
a Salvatori 2013. Riguardo l’Italia solitamente è a partire dagli anni Sessanta-Settanta
del Novecento che si rafforza l’attenzione nei confronti di interventi che coniughino
l’interazione tra spazio pubblico, arte e spettatore. Interventi che vanno collocati
nell’ambito di un contesto storico e politico particolare quale fu quello dell’Italia di
quel ventennio e caratterizzati sul piano della proposta culturale dal segno di una
critica di forte impronta militante e di cui ricordo le firme di Germano Celant e Enrico
Crispolti. Un’attenzione verso i temi della città, dell’ambiente e dello spazio che ha
attraversato l’intera penisola dall’Umbria alla Campania (Amalfi 1968), dalla Toscana
alla Sicilia (Gibellina e Fiumara d’Arte a Tusa) dal Friuli al Piemonte (Parco d’Arte
vivente di Torino pensato dall’artista Piero Gilardi) e di cui su queste pagine posso
fornire solo pochi cenni. Rinvio, a riguardo, per il solo contesto italiano ad Acocella
2016.
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in luoghi appartenenti alla comunità. Ambienti che in quanto tali non
possono essere evitati. Da qui la frattura potente tra opera e fruitore e
le contestazioni spesso violente che si generano.
Ciò non vuol dire che è auspicabile, naturalmente, un’assenza da
parte delle istituzioni nella gestione degli spazi collettivi, tutt’altro. La
civiltà degli spazi, il decoro, la manutenzione e la valorizzazione del
bene comune, sono a mio parere sinonimo di rispetto del cittadino, delle
sue esigenze compreso il tempo libero, e costituiscono uno dei pilastri
di una società democratica, così come la ricerca da parte della politica
di un consenso colto attraverso l’attuazione di iniziative concrete e
intelligenti non è certo condannabile.
Ciononostante, ritornando a Phillips e Lacy entrambe invitavano a
riflettere sulle reali strumentalizzazioni implicite in alcuni interventi
pensati per il sociale.15
In quest’ottica appare ancora più chiaro il perché in una società
come quella attuale definita anche società dell’informazione, la comunicazione e il ricorso agli strumenti e al linguaggio dei media e oggi del
web e delle reti sociali costituisca, ormai, un passaggio fondamentale
e inevitabile sia da parte della committenza sia da parte degli stessi
studi di architettura e di arte. Un passaggio di cui lo storico deve tener
conto.
Così la comunicazione ad un pubblico che non sia più composto
dai soli addetti ai lavori sia di un edificio che nell’intenzioni del committente si vuole diventi edificio simbolo, sia la comunicazione di un
intervento di riqualificazione di un’area cittadina, come è accaduto per
Bordeaux, in Francia, diventano passaggio fondamentale persino nella
prassi progettuale.
Prassi che romanticamente si vuole relegata nel silenzio dello studio,
al contrario ogni aspetto viene soppesato anche in funzione del côté
comunicativo come confermano gli esempi indicativi, in Spagna, del
museo Guggenheim di Bilbao e della torre Agbar di Barcellona, veri e
propri brand delle due città spagnole.16
15. Invio alle note undici e dodici di questo testo.
16. L’aspetto relativo all’architettura come comunicazione e la comunicazione
sul web è affrontato da tempo nella letteratura scientifica sia attraverso contributi
ospitati in riviste specialistiche sia in volumi. Un tema, inoltre, che abbraccia un
ambito d’interesse che vede coinvolte varie discipline quali l’architettura, l’urbanistica,
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Architettura, spazio e committenza
Entrambe opere di due firme dell’architettura internazionale contemporanea quali Frank Gehry per la città basca e Jean Nouvel per la
città catalana.
La torre Agbar (inaugurata nel 2005), in particolare, è divenuta una
sorta di simbolo, di riscatto della cultura e dell’architettura spagnola
dopo il franchismo a cui è corrisposta sia una generale accettazione
della critica e della stampa specialistica sia da parte della città.17
Il Guggenheim di Bilbao, inaugurato nel 1997, è considerato sotto
molti punti di vista una sorta di edificio madre di un’idea di architettura
intesa come segno, come motore generatore di una rinascita urbana ed
è frutto di un progetto non casuale avviato dalla municipalità che ha
coinvolto la fondazione Guggenheim nella progettazione di un edificio,
di un museo, la cui funzione andasse oltre la realizzazione di uno
spazio museale per svolgere il difficile compito di assumere un ruolo
propulsivo rispetto all’intera economia cittadina.
Per cui, paradossalmente, se l’edificio sotto il profilo del linguaggio
architettonico è, a mio avviso, autoreferenziale (un’architettura che
esclude il fruitore per celebrare il suo autore, uno spazio che fagocita
l’arte che invece dovrebbe accogliere e valorizzare) indubbiamente sul
piano culturale è diventato, certamente non unica iniziativa nella città,
motore generatore di eventi.
Così sia il Guggenheim sia la torre Agbar, nonostante le diversità, sono entrati, sebbene non siano mancate, comprensibilmente, le
polemiche, nel canone.
Di diverso segno ma ugualmente di forte impatto può dirsi Le Miroir
d’eau realizzato dal paesaggista francese Michel Corajoud con l’architetto Pierre Gangnet e il fontaniere Jean-Max Llorca, per la Piazza
della Borsa di Bordeaux. Un intervento che può ritenersi un esempio
significativo della volontà, da parte della municipalità, di commissionare un progetto, un’opera d’arte contemporanea pensata non solo
come abbellimento di uno spazio pubblico già di per sé rappresentativo ma come progetto orientato in più direzioni. Da quella formale,
la semiotica, la sociologia e il marketing dei beni culturali. Impossibile, dunque, in
queste pagine tentare di tracciare una nota esaustiva: qui ricordo soltanto Jencks 2005
e Benevolo 2006. Di interesse è Zanella 2006. Sul museo Guggheneim: Esteban
2007; Nero 2008.
17. Zanella 2006, 14.
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propriamente artistica, che include l’ineludibile dialogo con gli edifici
storici posti in quella che è considerata la piazza simbolo della città,
alla dimensione interattiva con il fruitore, o più esattamente con quello
che l’estetica contemporanea definisce come il fruitore cooperante, sino
all’aspetto legato alla comunicazione dell’immagine di una città qual è
Bordeaux che, diversamente dalla Bilbao della fine degli anni Ottanta
del Novecento alla ricerca di un’identità perduta, è città d’arte nota e
ricca per i suoi monumenti, per il contesto paesaggistico del territorio
e, ultimo ma non ultimo, è conosciuta per i suoi vini e quindi con un
consistente, sotto il profilo economico, turismo eno-gastronomico.
Ciononostante, digitando su Google il nome della città francese
si visualizzano le immagini de Le Miroir d’eau e del tram senza fili,
un altro interessante esempio di proposta per la città concepito con
uno sguardo attento certamente alla comunicazione e alla ricerca del
consenso ma, fondamentalmente, alla funzionalità.18
Perché dunque lo specchio di Corajoud può considerarsi un esempio
di accettazione di un manufatto contemporaneo da parte dei cittadini
e dei fruitori in generale?
Perché il progetto è pensato, non come opera autoreferenziale,
come intervento site specific catapultato in uno spazio collettivo ma
come segno che acquista il suo significato ancor più in relazione con
chi potenzialmente ne potrà fruire.
Infatti, il suo punto di forza risiede, a mio avviso, nella possibilità
offerta al pubblico di goderne in pieno, oltre la cornice, sfruttando al
massimo le potenzialità ludiche intrinseche nel progetto.
La fontana, infatti, almeno in estate e a qualsiasi ora è goduta dai
turisti e dai bordolesi anche adulti divenendo momento liberatorio di
gioco, di refrigerio.
Differente è il caso, certo meno ambizioso, di quanto è avvenuto in
Italia, a Decima, quartiere posto nel quadrante sud ovest di Roma con
la fontana di Giovanna De Sanctis esempio di mancata comunicazione
tra opera contemporanea, amministrazione e residenti.
18. Il tram, commissionato dalla municipalità di Bordeaux, è progettato da Jean
Philippe Lanoire & Sophie Courrian che si aggiudicano, nel ’98, il concorso con la
collaborazione di Elizabeth de Portzamparc. Così, a partire dal 2003 la tecnologia
del tram s’inserisce, collegando il centro con la periferia, con il paesaggio della città
divenendo un segno riconoscibile e di coesione identitaria.
8
Architettura, spazio e committenza
L’opera realizzata nel 1999 nell’ambito del progetto Centopiazze
commissionato, sotto la giunta del sindaco Francesco Rutelli, è pensata
per piazza Vannetti, progettata negli anni novanta del Novecento dallo
Studio Seste-Aldo Aymonino.19
La piazza inoltre, particolare importante, si trova in un contesto
urbanistico, qual è il quartiere progettato nel 1966 da Moretti, Libera, Cafiero e Guidi, che risale agli anni sessanta del secolo scorso, e
considerato, sotto il profilo progettuale, da manuale.
Non ha funzionato per tornare all’intervento di De Sanctis, invece,
nonostante le premesse eccellenti, lo spazio pubblico; e ciò, probabilmente, anche per scelte difficili e per una mancata comunicazione con
gli abitanti nonostante il progettista avesse coinvolto nel progetto per
la piazza sin dalle fasi iniziali sia l’artista sia, per il verde, Ippolito
Pizzetti.20
La fontana, di qualità sotto il profilo formale, realizzata in marmo
verde era posta lungo una strada a densa percorrenza e quindi difficilmente fruibile. Non solo: la sua posizione copriva i pochi esercizi
commerciali della piazza amplificando così quel senso di isolamento se
non di vera e propria desolazione tipico di molti nuovi quartieri della
capitale.
La reazione dei cittadini è stata così violenta, sebbene Decima sia
una periferia non degradata a dieci minuti dal centro residenziale dell’Eur, che il muro della fontana non esiste più perché il prezioso marmo
verde è stato saccheggiato, portato via e probabilmente riutilizzato per
altri scopi.
E’ evidente che la funzione del pubblico diventa centrale sia sotto
il profilo della ricezione sia sotto quello sociologico del consenso e o
del rifiuto.
Quindi, sulla scia di Bourriaud e della sua Estetica relazionale, posso
affermare che gli interventi che s’inseriscono in modo definitivo in spazi
destinati ad una fruizione collettiva - diversamente per quanto accadeva
per l’arte dei primi del Novecento - non negano l’aura dell’opera, ma
ne dislocano l’origine e l’effetto sul pubblico.21
19. Studio Associato Seste: Aldo Aymonino, Francesco Aymonino, Marina Cimato,
Raffaele Giannitelli, Elio Rizzuti, Flavio Trinca.
20. Ghio 2006, 169-172.
21. La citazione non è letterale, invio a: Bourriaud 2010.
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Gabriella De Marco
Gabriella De Marco
Università degli Studi di Palermo
gabriella.demarco@unipa.it
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