Rieducazione carceraria

Starting from the semantic and pedagogical value of 'human training' concept, this essay aims to focus, in broad terms, on the importance of a questioning reflection about the role and the perspective of penitentiary educator, between current reality and ideal reality, throughout training intervention process in favor of adult inmates inside Italian prisons.

La tesi da me presentata focalizza la tematica delle misure alternative al carcere nell’ipotesi di un inserimento del reo in strutture comunitarie socio-sanitarie ai fini di una sua futura risocializzazione. Nutrendo un certo interesse per il trattamento socio-giuridico che viene riservato al reo, dopo una breve introduzione di carattere storico sul concetto e sulle funzioni della pena, lo studio di questo argomento mi ha portato all’analisi del caso della Cooperativa sociale Agape Madre dell’Accoglienza che da anni opera in questo settore.  Attraverso l’aiuto di un team di esperti con la tecnica di rilevazione del focus-group si è riusciti a percepire quali sono le reali esigenze che emergono da un punto di vista sia umano che istituzionale, mostrando quali potrebbero essere gli interventi necessari volti ad un miglioramento dell’attuale detenzione carceraria sia nelle strutture apposite sia considerando l’ipotesi di quest’ultima in strutture socio-sanitarie.  Contestualmente si è proceduto verso un approfondimento della visione che il reo ha di sé, delle sue percezioni in vista della riconquista della libertà e della sua volontà a ricostruire rapporti intersoggettivi “normali”.  La funzione costituzionale della riabilitazione sociale espressa dalle radici e origini stesse del Diritto penale trova nell’ istituzione carceraria una risposta largamente inadeguata.  La questione è legata non soltanto all’insufficienze tecnico-logistiche come nel sovraffollamento o l’inadeguatezza strutturale delle Case Circondariali, bensì nella stessa strutturazione massificata ed indifferenziata della prospettiva carceraria come pena e risarcimento sociale, protezione collettiva e riabilitazione del reo.  Infatti il carcere costituisce oggi, secondo un pensiero mutuabile da Michel Foucault, l’ultima delle “istituzioni totali”.  In definitiva, un luogo e uno spazio nel tempo indistinti ed indifferenziati, in cui viene offerta a persone, a situazioni e a prospettive radicalmente diverse un’unica proposta e realtà.  Il progetto delle alternative al carcere non è quindi soltanto una risposta  alle situazioni oggettive incompatibili con la detenzione in carcere, come quelle risultato di una valutazione di una situazione psicopatologico forense, situazioni ineludibili e doverose, bensì anche una valutazione più raffinata legata a contestualizzazioni esistenziali ed esperienziali di profili di personalità patologici e non.  Questo lavoro mira dunque ad una prospettiva finalizzata al recupero dei pieni diritti di cittadinanza e della rifunzionalizzazione sociale di autori di reati che non cessano comunque di essere persone umane e cittadini.

A seguito degli studi intrapresi durante la Triennale in "Educazione professionale nel campo del disagio minorile, devianza e marginalità", nell'Università di Bari "Aldo Moro" e a seguito dell'esperienza fatta nel carcere minorile “Fornelli” di Bari, ho deciso di concludere questo primo ciclo di studi con una tesi in Diritto Penitenziario.
Questa scelta è stata dettata dalla presa di coscienza della esistente tra la teoria e la pratica circa la misura carceraria. Questa discrepanza, a mio modo di vedere, è causata dalla poca conoscenza che la coscienza comunitaria ha della vera funzione del carcere (rieducativa e non- solo- punitiva) e soprattutto dalla mole di notizie diffuse che tendono a far vertere l'opinione pubblica sull'esigenza di attuare solo la misura punitiva, ritendo i “delinquenti” non persone, ma una sorta di mostri da dover tenere lontani dalla società. Non è questo il carcere "utile", ovvero quel carcere di cui si auspica l'esistenza nella nostra Carta Costituzionale.
Spesso ci si lamenta che le pene sono spesso troppo “indulgenti”. Ma, partendo dal presupposto che prima o poi, a prescindere dalla pena giusta o meno, i “delinquenti” usciranno dal carcere e avranno di nuovo a che fare con la società, bisogna chiedersi se queste persone sono state messe nella condizione di non recidivare nel reato, di aver imparato dall’errore che hanno commesso.
In questo mio lavoro di tesi parlo di “carcere utile” sia come critica nei confronti di istituzioni ancora improntate maggiormente sul modello retributivo del carcere, sia come modo per rendere la permanenza in carcere il più proficua, dal punto di vista umano.
Il carcere utile non è un luogo dove il regime penitenziario è assente o troppo indulgente, al contrario. È un luogo dove ci sono delle regole, regole rigide che vanno seguite, ma che al contempo permettono al soggetto di vivere in modo “impegnato” il tempo in carcere. Il carcere utile non è una mia formulazione utopistica, ma una previsione a livello normativo, nonché una realtà, in alcune carceri all’avanguardia (come il carcere “Luigi Daga” di Laureana di Borrello, di cui è presente la descrizione nel 3 Capitolo).
È dunque, a mio giudizio, fondamentale diffondere la consapevolezza che, se si lascia che le cose restino come sono, che cioè nelle carceri si possa continuare a morire spiritualmente e fisicamente, le conseguenze le avvertiremo anche noi.
Per questo è necessario che si faccia una lavoro a monte, un lavoro sulla coscienza di ognuno di noi, che l’essere umano non è solo malvagio o solo buono, che tutti possiamo prendere una scelta sbagliata e che soprattutto tutti possiamo fare un “cambio rotta” se adeguatamente aiutati.

L’esperienza detentiva dello straniero è – per ragioni varie – concretamente più afflittiva di quella vissuta dal reo cittadino e, d’altronde, ciò appare generalmente più accettabile in termini di costi sociali agli occhi della pubblica opinione. Questo dato, però, si traduce in un sostanziale fallimento della funzione rieducativa della pena e, più in generale, in una perdita di credibilità del sistema penale nel suo complesso, con conseguente aumento del sentimento di insicurezza da parte della collettività. L'Autrice indaga la "circolarità" dell'esperienza detentiva dello straniero, fatta di ingresso nel circuito detentivo e fuoriuscita stigmatizzante, come esempio paradigmatico della relazione sicurezza-uso demagogico del diritto penale, illuminando alcuni limiti e contraddizioni del sistema di giustizia penale così concepito.

Il contributo ripercorre l’evoluzione del principio di proporzionalità nel controllo di costituzionalità sulla misura delle pene nella giurisprudenza costituzionale italiana. Individuate le fonti del principio a livello normativo-costituzionale e ricostruito il suo “statuto” ibrido, frutto del collegamento sistematico in via interpretativa di diversi principi (eguaglianza-ragionevolezza e finalismo rieducativo della pena, art. 3, c. 1 e art. 27, c. 3, Cost.), si analizza la prima “stagione” giurisprudenziale, caratterizzata da un marcato self-restraint, imposto dal rispetto della discrezionalità legislativa in materia penale-sanzionatoria, in forza del principio di riserva di legge (art. 25, c. 2, Cost.). Si evidenziano poi i limiti di tale approccio, inidoneo a preservare i diritti fondamentali, specialmente in ragione della responsabilità di un legislatore cronicamente incapace di procedere alla piena attuazione dell’istanza di proporzione in sede di produzione delle norme penali sanzionatorie, nonostante i richiami espressi dalla Corte. Il quadro insoddisfacente sopra tratteggiato ha determinato un netto cambio di orientamento nella più recente giurisprudenza, che viene concisamente analizzata, tramite la disamina delle più significative pronunce. Il principio di proporzionalità viene ora declinato in chiave “intrinseca”, senza subordinare, come avveniva in passato, la possibilità di intervento manipolativo alla previa individuazione di un tertium comparationis “in senso classico” da parte del giudice rimettente. Si amplia così la discrezionalità della Corte nel giudizio di proporzionalità sanzionatoria, a detrimento del principio di riserva di legge e dell’esclusiva valutazione discrezionale del Parlamento nella calibratura della dosimetria edittale (art. 28, l. 87/1953). Si valutano dunque meriti e profili di criticità della nuova tendenza, sul piano dell’aumento del livello della tutela dei diritti fondamentali e del corrispondente “sacrificio” nel coefficiente di democraticità delle scelte di quantificazione sanzionatoria, per poi svolgere alcune considerazioni conclusive sulle prospettive future.

Nota di discussione del libro di Marcello Bortolato e Edoardo Vigna, Vendetta pubblica. Il carcere in Italia (Laterza, 2020). A partire dal libro l'autrice ripercorre il dibattito sul carcere e sulla sua funzione, con particolare riguardo alla effettività del principio rieducativo.

Sommario. 1. Premessa: la precedente evoluzione della giurisprudenza costituzionale sugli automatismi nel giudizio di bilanciamento tra circostanze attenuanti e recidiva reiterata. – 2. La questione di legittimità costituzionale. – 3. La decisione. – 4. Tra imputabilità, colpevolezza e proporzionalità della pena: obiter dicta significativi. – 5. Osservazioni conclusive.

Questa ricerca analizza la concezione pedagogica del modello di politica di restrizione e privazione della libertà attuato dall'Associazione per la Protezione e l'Assistenza delle Persone Condannate (APAC), che si definisce educativo e ha lo scopo di verificare se si tratti di un modello nuovo o di una sofisticazione di quello tradizionale. Per studiare questo modello, che dichiara di aver ridotto la reincidenza di più di 40.000 persone a meno del 20%, è stata condotta una ricerca bibliografica volta ad approfondire la conoscenza del modello tradizionale di prigione, prestando particolare attenzione alla situazione carceraria brasiliana. In un secondo momento, si è studiato il modello attraverso i testi che lo descrivono ed effettuando una revisione della letteratura delle ricerche in Brasile ed in Italia. Infine, è stata condotta un’osservazione partecipante con metodo etnografico, utilizzando sia un diario di campo, sia interviste aperte e semi-strutturate, condotte in due delle unità modello, con lo scopo di analizzare le pratiche. Come ultimo passaggio, è stato dunque possibile confrontare le pratiche con i discorsi sul modello e, infine, comparare quest’ultimo al modello di prigione tradizionale. Pertanto, sono state evidenziate le potenzialità di uno spazio differente rispetto alla prigione, ovvero un ambiente che supporti i progetti educativi delle persone private di libertà, le fragilità dovute al sotto finanziamento ed i limiti strutturali del modello dovuti principalmente agli scarsi finanziamenti. In questo modo si è osservato che un’altra educazione è possibile nelle prigioni, ma esiste il rischio che possa avere un’efficacia limitata nel favorire il rientro in società, date le limitazioni strutturali dovute alle scarse opportunità di lavoro offerte alle persone che ritornano alla libertà.

SOMMARIO: 1. Introduzione.-2. Casa di lavoro e Colonia penale: una genealogia.-3. Il codice Rocco e il "doppio binario": la natura transgender di casa di lavoro e colonie agricole. 1. Come è noto le misure di sicurezza, comprese la casa di lavoro e la colonia agricola, rappresentano il lascito alla cultura giuridica occidentale della Scuola positiva, sviluppatasi tra fine Ottocento e inizio Novecento. Mi sia consentito, per inquadrare la loro problematicità, di partire da alcune considerazioni sicuramente ben conosciute dal lettore 2. La Scuola positiva trova la propria matrice costitutiva e il propellente del suo successo nell'idea che il comportamento criminale non rappresenta una mera violazione di norme convenzionali, ma una devianza dalla "normalità". La devianza sociale costituisce una patologia e deve essere trattata come tale. Come è stato spesso sottolineato, questa tesi implica l'assunzione che in ogni momento e luogo le leggi penali coincidano con gli standards minimi del comportamento salubre e della normalità. Ancora più importante, questa assunzione rappresenta la pietra angolare su cui poggia la tesi secondo cui esisterebbe una differenza qualitativa sostanziale tra l'individuo criminale e colui che osserva la legge. Secondo la giurisprudenza classica di matrice illuminista, che da Cesare Beccaria alla fine dell'Ottocento ha caratterizzato il diritto penale occidentale, ciò che 1 Questo articolo sviluppa un commento agli interventi della Tavola rotonda su Le misure di sicurezza detentive in casa lavoro: fine "pena" incerto per persone vulnerabili, organizzata dal CRID; svoltasi il 17 febbraio 2020 presso per aver letto, commentato e soprattutto criticato, una versione precedente di questo saggio. Il loro prezioso lavoro mi ha consentito di migliorare molti passaggi argomentativi e anche fatto riconsiderare alcune delle mie asserzioni. 2 Questo salto all'indietro, nel campo degli istituti penalistici, ha un illustre precedente e fonte di ispirazione, il saggio di Tullio Padovani, L'utopia punitiva. Il problema delle alternative alla detenzione nella sua dimensione storica, Milano 1981, VII, che sottolineava l'esigenza di «collocare storicamente l'origine e l'evoluzione degli istituti esaminati, affinché il senso della loro funzione non si esaurisse nella fallace concretezza di un presente senza tempo». Definisco esplicitamente nel corso del saggio l'approccio utilizzato "genealogico", cioè, secondo l'insegnamento prima nietzscheano e poi foucaultiano, un modo di fare "la storia del presente".

Questa ricerca analizza la concezione pedagogica del modello di politica di restrizione e privazione della libertà attuato dall'Associazione per la Protezione e l'Assistenza delle Persone Condannate (APAC), che si definisce educativo e ha lo scopo di verificare se si tratti di un modello nuovo o di una sofisticazione di quello tradizionale. Per studiare questo modello, che dichiara di aver ridotto la reincidenza di più di 40.000 persone a meno del 20%, è stata condotta una ricerca bibliografica volta ad approfondire la conoscenza del modello tradizionale di prigione, prestando particolare attenzione alla situazione carceraria brasiliana. In un secondo momento, si è studiato il modello attraverso i testi che lo descrivono ed effettuando una revisione della letteratura delle ricerche in Brasile ed in Italia. Infine, è stata condotta un’osservazione partecipante con metodo etnografico, utilizzando sia un diario di campo, sia interviste aperte e semi-strutturate, condotte in due delle unità modello, con lo scopo di analizzare le pratiche. Come ultimo passaggio, è stato dunque possibile confrontare le pratiche con i discorsi sul modello e, infine, comparare quest’ultimo al modello di prigione tradizionale. Pertanto, sono state evidenziate le potenzialità di uno spazio differente rispetto alla prigione, ovvero un ambiente che supporti i progetti educativi delle persone private di libertà, le fragilità dovute al sotto finanziamento ed i limiti strutturali del modello dovuti principalmente agli scarsi finanziamenti. In questo modo si è osservato che un’altra educazione è possibile nelle prigioni, ma esiste il rischio che possa avere un’efficacia limitata nel favorire il rientro in società, date le limitazioni strutturali dovute alle scarse opportunità di lavoro offerte alle persone che ritornano alla libertà.