La premessa necessaria: perché un libro su social, blog e archeologia? Facebook nasce ad Harvard nel 2004 e arriva in Italia nel maggio del 2008. Twitter viene fondato a San Francisco nel 2006. Instagram vede la sua comparsa sugli... more
La premessa necessaria: perché un libro su social, blog e archeologia?
Facebook nasce ad Harvard nel 2004 e arriva in Italia nel maggio del 2008. Twitter viene fondato a San Francisco nel 2006. Instagram vede la sua comparsa sugli smartphone nel 2010. Il primo blog viene aperto nel lontano 1997, mentre in Italia risale al 2001 la nascita delle piattaforme completamente dedicate al blogging. Quando parliamo di blogging e social dobbiamo dunque fare i conti con questi numeri: sono passati 20 anni da quando le forme di comunicazione tradizionali sono state stravolte dalla comparsa di strumenti in grado di connetterci istantaneamente l’un l’altro e di confrontarci in tempo reale con milioni di utenti. Sottovalutare la portata di questa rivoluzione è incauto, soprattutto se guardiamo ancora una volta alle cifre che stanno lì ad indicarci chiaramente in quale direzione possiamo e dobbiamo muoverci nei prossimi anni. La premessa sui numeri è la necessaria risposta alle domande “Perché un libro su social e archeologia? Cosa tiene insieme lo studio del passato e le contemporanee forme di comunicazione sviluppate online?” Il fil rouge è costituito dalla necessità di non rimanere indietro rispetto ai cambiamenti in atto in questo millennio. Detta diversamente: possiamo anche ignorare i numeri di cui sopra o decidere di rimanere confinati in un angolo irraggiungibile da chicchessia, ma prima o poi si renderà necessario uscire allo scoperto e confrontarsi con l’attualità, se non altro per non perdere credibilità e autorevolezza. I social media e i blog sono infatti un potente strumento di propagazione di notizie e informazioni e ignorarne l’impatto può voler dire lasciare in mani inaffidabili i contenuti scientifici. Vogliamo davvero questo? L’alternativa ad un voluto disinteresse da parte della comunità degli studiosi è il proliferare di fake news, il sensazionalismo, il pressappochismo e il dilettantismo. Questo volume nasce proprio con l’obiettivo, ambizioso certo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare, di porre un argine al cattivo costume di “sottovalutare snobisticamente” i fenomeni mass mediatici e fornire invece gli strumenti per un uso consapevole e ragionato.
L’archeologia è una disciplina in grado da sempre di catalizzare l’attenzione del grande pubblico e proprio per la sua indiscutibile capacità di impattare sulla società la sua percezione oscilla nettamente tra due opposte visioni. Se da... more
L’archeologia è una disciplina in grado da sempre di catalizzare l’attenzione del grande pubblico e proprio per la sua indiscutibile capacità di impattare sulla società la sua percezione oscilla nettamente tra due opposte visioni. Se da una parte, infatti, una componente essenziale del fascino che esercita è il frutto di un retaggio ottocentesco della disciplina che confina l’archeologo a figura di avventuriero, esploratore, scopritore di tesori; dall’altra parte l’archeologia è vista come materia da specialisti, con un linguaggio spesso incomprensibile e a volte “fastidioso" intralcio al progresso. Emerge dunque nettamente una polarizzazione tra rappresentazioni fortemente stereotipate dell’archeologo e del suo lavoro. In questo quadro qual è l’impatto dei media nel raccontare, orientare e veicolare l’immaginario pubblico? L’uso di parole quali “straordinaria, incredibile, eccezionale” applicato alle nuove scoperte archeologiche e la ricerca del sensazionalismo a tutti i costi procede di pari passo con l’attribuzione del ruolo di capri espiatori agli archeologi quando le ricerche archeologiche, spesso comunicate in modo scorretto dagli stessi operatori del settore , sembrano rallentare o compromettere la realizzazione di grandi opere. Così gli addetti ai lavori si trasformano improvvisamente da “scopritori della nuova Pompei” a “quelli che fermano i lavori”. L’avvento di internet e dei new media ha inevitabilmente accentuato questo processo in virtù del ben noto fenomeno del clickbaiting, volto essenzialmente a monetizzare di volta in volta curiosità o indignazione: titoli a tutta pagina che attirano click e condivisioni social con bacheche spesso invase da notizie approssimative se non addirittura fake news. È possibile auspicare una terza via? Esistono buone pratiche di racconto dell’archeologia e degli archeologi che superino questa dicotomia bene/male e che rendano conto invece delle diverse sfaccettature di una professione e di una disciplina che per sua natura dovrebbero relazionarsi con il pubblico? E i social media che ruolo possono avere in questo processo?