Il commissario Richard. Il fatto di via delle Argonne
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Anteprima del libro
Il commissario Richard. Il fatto di via delle Argonne - Ezio D'Errico
Marionette appese a un filo
di Loris Rambelli
D’Errico continua a modellare e rimodellare il suo commissario Richard con una abbondanza di similitudini che tradiscono l’ansia di vederne balzar fuori un personaggio a tutto tondo. Richard è come lo scultore che plasma la creta; è come l’archeologo che pazientemente ripulisce il suo pezzo di scavo; è come il paleontologo che ricompone frammenti fossili; ha la meticolosità del decifratore di palinsesti... Finché non trova il termine di paragone che è più in sintonia con la sua poetica: il burattinaio. Nei romanzi polizieschi, in genere, in quelli di D’Errico sicuramente, la poetica dello scrittore, che crea i suoi personaggi, finisce per coincidere con il metodo di indagine dell’investigatore che studia gli indiziati coinvolti nel caso giudiziario.
«Il commissario Richard aveva l’abitudine di tenere tutti i personaggi dei drammi dei quali doveva occuparsi, appesi a un filo immaginario, davanti ai suoi occhi... Ogni tanto staccava una di queste marionette e provava a farla funzionare; se non funzionava a dovere, la riappendeva al filo e passava a un’altra».
L’immagine contiene un implicito richiamo al romanzo d’appendice ottocentesco, perché ci fa pensare al metodo di lavoro dell’inventore di Rocambole. «Ponson du Terrail era costretto, per poter far manovrare gli innumerevoli personaggi dei suoi lavori, a servirsi di pupazzi che teneva sul suo tavolo: di mano in mano che un individuo moriva, il corrispondente pupazzo veniva gettato nel cassetto»¹.
Ma mentre per il romanziere francese si trattava di un semplice espediente per tenere sotto controllo una caterva di personaggi, per D’Errico significa qualcosa di più: esprime la sua concezione della vita, secondo la quale tutti gli esseri umani, in fondo, non sono che marionette. Il medico legale dottor Milton, di cui faremo presto la conoscenza, dirà a Richard: «Ogni volta che vi vedo lavorare, mi pare di assistere a un gigantesco spettacolo di marionette... Avete sempre tutti i personaggi appesi ai fili, li staccate, fate loro muovere una gamba o un braccio, poi li lasciate cadere...». E Richard gli risponderà: «Il paragone è pittoresco... ma il guaio si è che anch’io sono un personaggio con i fili mossi chissà da chi... lassù in alto». Chi è che muove i fili lassù in alto? D’Errico, che non è credente, lo chiama «destino». Nel romanzo che stiamo per leggere appare in forma personificata: «Forse il Destino rideva nascosto in qualche angolo di piazza delle Argonne, vedendo quei due camminare sotto la luna...». La mano invisibile del grande burattinaio agisce in una dimensione del tempo in cui le consuete differenze fra passato, presente e futuro non hanno più senso: il passato si distingue dal futuro soltanto perché il primo lo conosciamo e il secondo ancora no, ma sono entrambi presenti, cioè preesistenti, nel disegno che il destino ha preparato per ciascuno di noi (lo scrittore ritornerà a più riprese su questo concetto, per esempio nelle sue novelle metafisiche degli anni Trenta, nel prologo ai Misteri di Roma (1945), e, in termini che oggi potremmo definire bioniani, in una commedia intitolata Ricordo dell'avvenire (1951) (Bion parlerà di «memoria del futuro»).
«Marionetta», «fantoccio», «manichino», «pupazzetto». Ci sono quasi tutte in questo romanzo. Il lettore le tenga d'occhio, sono le parole di D’Errico, che si ritrovano in tutta la sua produzione letteraria, di quelle parole capaci di caratterizzare uno scrittore, definirne la lingua, lo stile, la poetica, la visione del mondo.
Il fatto di via delle Argonne è forse il più inquietante dei gialli di D'Errico, dal punto di vista dell’indagine psicologica. Il dramma umano che sfocia nel delitto è inquadrato nello scenario della Prima guerra mondiale, quando nell’inverno 1914 i tedeschi sferrano l’attacco sulla linea delle Argonne. E il commissario che è «contemporaneo di quei fantaccini che brontolando contro la guerra si sono fatti massacrare sulla Marna», intuisce questo dramma umano, prima ancora di riuscire a metterlo a fuoco.
«L’ante guerra, il dopo guerra... due mondi... e la morte in mezzo a loro, sopra di loro, fuori di loro, la morte che montava la guardia alla casetta di via delle Argonne, forse con un vecchio fucile arrugginito e una giubba macchiata dal fango delle trincee».
Basterebbe un contatto di umanità. Appena un contatto fisico. Ne scoccherebbe una scintilla.
«[Richard] avrebbe voluto toccare con una delle sue mani da vecchio uomo, con una delle sue mani che avevano stretto la gola e i polsi di tanti criminali, una qualunque di quelle mani diafane, venate di arterie nodose come gruppi di serpi... le mani dell’inferma per esempio... le mani della governante anche... e si sarebbe sentito sicuro di sciogliere solo per miracolo di quel contatto, il groviglio di mistero che legava tutti i personaggi vicini e lontani di un unico dramma».
E quando finalmente riesce a metterlo a fuoco, individuando il colpevole, preferirebbe, per una forma di pudore e di riserbo, che il dramma rimanesse per sempre nell’ombra. Preferirebbe lasciare che il cadavere dell’assassino si decomponesse nel fondo di un fiume, ignorato da tutti... «perché, che cos’è il mio dovere?», si chiede Richard. «Il mio dovere è di arrestare i vivi... i morti hanno già pagato tutto e sono al di là del bene e del male».
Ma una regola del romanzo poliziesco esige che venga data soluzione al mistero. Il poliziotto nel capitolo finale ricostruisce il caso e D’Errico, con garbo squisitamente parigino, gli crea intorno una cornice che è una variazione sul tema del déjeuner sur l'herbe. Veramente non proprio sull'erba. Il commissario, la sorella Geneviève, il nipote Mimil e l’ispettore Rops si ritrovano, in una specie di riunione di famiglia, sotto il pergolato del villino di Richard, a Charenton, sulle rive della Senna, dove il commissario ha anche una barca di cui si serve per andare a pesca di ghiozzi; il nipote, con maglietta e pantaloni bianchi, facendo forza sui remi, l'ha appena riportata nel piccolo imbarcadero fatto con mezzi di fortuna. Richard ha in testa un insolito cappello di paglia.
Muri bianchi e tetti rossi, sole troppo ardente, cielo troppo azzurro, oro delle foglie secche sul verde smeraldo dell’erba, tronchi argentei delle betulle: i colori dell’autunno (siamo in ottobre). Un piccolo omaggio agli Impressionisti, da parte di un pittore, che, da sempre attratto dagli accordi e contrasti cromatici, aveva incominciato, nel 1929, a dipingere nudi, paesaggi, nature morte, era poi passato alle composizioni astratte, nel 1934-35, per approdare negli anni Sessanta alla pittura su polistirolo, come «scavata in un leggero terreno vulcanico» (Italo Alighiero Chiusano) e ai collage con materiali di recupero della sua ultima personale alla Galleria Levi di Roma nel maggio 1970.
IL FATTO DI VIA DELLE ARGONNE
Parte prima
Capitolo I
«Un'ombra... meno che niente...»
A proposito, credi che pioverà anche a Bakú?
— A Batum vuoi dire...
— No... a Bakú.
— Ma, insomma se ti vuoi riferire al porto dove è sbarcato nostro nipote, si tratta di Batum per la semplicissima ragione che Batum è sul mar Nero, mentre Bakú è sul Caspio, e siccome non mi risulta che la torpediniera dove è imbarcato il ragazzo abbia le rotelle, non è possibile che sia passata attraverso il Caucaso per andare a vararsi nel Mar Caspio.
— Beh, adesso vado a prendere la lettera...
La zitellona posò il suo eterno ricamo sul tappeto verdognolo dove l'alone della lampada permetteva di scoprire dei disegni vagamente orientali, e andò in camera da letto seguita dallo sguardo canzonatorio del fratello che la sbirciava di sopra l'edizione serale dell'Intran
.
Quando ritornò con la lettera in mano, si affrettò a mormorare arrossendo un poco:
Hai ragione, è Batum.
— L'hai letto sul timbro, eh?
— Sì — rispose la zitellona estraendo il foglio e inforcando gli occhiali.
— E adesso troverai anche Bakú.
— Come fai à saperlo?
— Dio buono, ho letto la lettera quattro volte, altre quattro volte me l'hai letta tu e fanno otto... vuoi che non mi ricordi che nella lettera il ragazzo parla anche di Bakú? — Ah, dunque avevo ragione...
— Ma sì... ma ne parla in fondo, come un'ipotesi... nel caso che la Missione Militare dopo aver visitato Tiflis si spinga fino a Bakú.
— Ah... già, già... hai ragione, con tutti questi nomi strani mi ci confondo... Tu invece, con quella memoria...
— Non mi pare che ce ne voglia molta, anzi il signor Prefetto proprio questa mattina mi ha dato dello smemorato...
— A proposito di che?
— A proposito di una cerimonia per lo scoprimento di non so quale lapide.
— Ti sei dimenticato di andarci?
— Naturalmente...
— Eri di servizio?
— Oh, allora non me ne sarei dimenticato... ero solamente di rappresentanza... tu sai l'antipatia che ho per le cerimonie dove si deve andare a far la comparsa e a sorbirsi dei discorsi interminabili.
— Ma possibile che debbano mandar sempre te? Gli altri commissari non esistono.
— Gli altri saranno stati occupati...
— Occupati... occupati a far niente!
— Su via, credi che soltanto tuo fratello lavori nella Polizia Parigina?
— Intanto i giornali parlano quasi sempre di te... io non leggo che commissario Richard... non mi è mai capitato di leggere il nome di un tuo collega.
— Su, su... non commettere peccati di orgoglio.
— Vuoi forse negare l'evidenza? Chi ti può vedere dieci minuti in casa è bravo!
— Beh, adesso mi vedi bene in casa... e anche in pantofole e veste da camera... e fuori piove a catinelle e chissà quanti miei colleghi sfangano inzaccherati fino al collo.
— Eh... un miracolo, una volta tanto.., e non lo dire perché porta disgrazia, almeno questa sera che c'è la zuppa di verze con la cotenna, vorrei che te la gustassi in santa pace.
Subito dopo la parola pace, squillò il telefono, e la zitellona con un balzo si slanciò verso l'apparecchio che era infisso al muro, allargando le braccia in un modo che sarebbe stato drammatico se la poveretta non avesse avuto ancora gli occhiali sbilenchi sul naso e il ricamo stretto in pugno come una bandiera.
— Ti proibisco di rispondere!
— Su... su... non dire sciocchezze; stai buona.
Il commissario si alzò pesantemente e scostata con un gesto affettuoso la sorella, prese il microfono.
Mentre ascoltava, il suo faccione continuava a sorridere e gli occhietti vivaci sotto le cespugliose sopracciglia si agitavano sforzandosi di spiegare con una specie di telegrafia senza fili, che non c'era nulla di grave, e che la verzata con cotenna era salva.
Poi la sorella che l'osservava con le labbra strette da mal celato sdegno, vide quel sorriso dileguarsi, e la maschera facciale indurire, mentre la voce del fratello diventava lievemente più nervosa.
— Ma sì... sono io... il commissario Richard! Chi parla? Ispettore? Ah... sei tu Rops? Bene... allora? Non capisco... Ma che cosa c'è, una radio? Falla chiudere, perdio! Ah... sei in un caffè? Avanti... in via? Avanti... in via delle Argonne? Numero? Settantadue o sessantadue? Settantadue? Ho capito... Bene... sì, sì... naturalmente, addio.
Il commissario Richard agganciò il microfono, rialzò il cranio lucidissimo che uscito dalla zona di luce del lampadario centrale si giovò della oscurità per velare pudicamente il suo splendore, e si preparò a sostenere l'attacco della sorella.
— Di' la verità, che devi uscire...
— Devo... devo... nessuno mi obbliga, posso anche andare dopo pranzo, non si tratta che di un suicidio.
— Già, andare dopo pranzo... così mangerai in fretta e furia per scappare, e poi ti verranno i soliti crampi allo stomaco.
— E allora sarebbe meglio andar prima, così fra mezz'ora sono di ritorno.
— Le conosco le tue mezz'ore...
— Su... su... non ti disperare...
Le voci si smorzarono verso la camera da letto e si incrociarono con il cigolio dell'armadio a specchio, poi riecheggiarono nette quando il commissario ricomparve imbacuccato nell'impermeabile.
— Oh, che mestiere!... Che mestiere!... Mettiti almeno un panino in tasca... aspetta, ti preparo dei sandwiches.
— Ma se ti dico che fra mezz'ora sono di ritorno...
Le voci echeggiarono in modo bizzarro nell'anticamera che era troppo vasta, si affievolirono sul pianerottolo, poi le interruppe il tonfo della porta che si chiudeva. Mentre la zitellona rientrava brontolando: — Un suicidio... anche i suicidi adesso... domani lo scomoderanno anche per le contravvenzioni — e per consolarsi riapriva la lettera del nipote tenente di vascello (oramai la sapeva quasi a memoria). Il commissario Richard sotto la pioggia faceva dei gran gesti all'indirizzo dei tassì di passaggio, che naturalmente erano tutti occupati. Finalmente ne passò uno vuoto e lo prese a volo.
— Via delle Argonne, settantadue! — poi visto che il conducente s'era messo a sfogliar la guida tascabile, gli gridò annoiato: — Quartiere della Villette, in fondo a via delle Fiandre. L'altro per salvare il decoro professionale brontolò: — Già... infatti... mi pareva... — ma la piccola bugia gli si leggeva sul naso rosso di bonario ubbriacone.
La mezz'ora preventivata se ne andò soltanto per giungere in via delle Argonne, e altri dieci minuti ci vollero per trovare il settantadue. Fu l'ispettore Rops che mise fine alle ricerche avvicinandosi all'automobile che andava zig-zagando da un marciapiede all'altro. Ficcò la testa nella portiera e disse:
Scenda pure qui, signor Commissario... è a due passi... il numero si vede poco perché è infisso su una cancellata.
— Com'è che ti trovi qui?
— Ero di servizio al mattatoio per lo sciopero dei beccai... mi hanno telefonato dalla Centrale perché ero il più vicino...
— Alla Centrale chi ha telefonato?
— L'agente di servizio di piazza delle Argonne... è stato lui a forzare la porta dell'alloggio. Il commissario avrebbe voluto chiedere qualche spiegazione suppletiva, ma erano già arrivati alla cancellata del settantadue e un gruppo di curiosi aguzzava gli occhi e le orecchie verso i nuovi arrivati.
Due agenti trattenevano la folla, e si vedevano le mantelline impermeabili scintillare alla luce di un fanale.
Bisognò percorrere un breve viale la cui ghiaia scricchiolò sonoramente, poi giunsero all'ingresso di una specie di palazzina arretrata rispetto all'allineamento stradale. Non restò che salire due piani e varcare la soglia dell'alloggio. Attraversarono una piccola anticamera, una saletta male illuminata, e nell'ultima camera videro subito il morto che giaceva sul suo letto ricoperto da un lenzuolo.
Un agente a cavalcioni di una seggiola fumava filosoficamente. Vedendo entrare il commissario si alzò, spense la sigaretta frantumandone la brace fra le grosse dita callose, mise accuratamente il mozzicone in tasca e dopo aver salutato disse giovialmente:
— Ancora uno che non ha più bisogno di fare dei salassi, commissario.
In così dire alzò il lenzuolo e mostrò il cadavere che era pallidissimo e giaceva in una specie di enorme focaccia di sangue coagulato. Ci voleva poco a capire che uomo si era svenato, segandosi i polsi con un rasoio che giaceva semi aperto vicino alla mano sinistra.
L'agente di piantone, giudicando forse che il suo tratto di spirito non era stato convenientemente apprezzato, aggiunse:
— Come salasso è stato completo, non c'è che dire!
Il commissario rispose brusco:
— Mettiti sulle scale e non far passare nessuno, meno s'intende il medico e il fotografo. — Poi volgendosi all'Ispettore chiese: — Hai telefonato?
— Sì... dovrebbero essere qui a momenti... se credete, intanto vi leggo i miei appunti...
— Di' pure...
L'ispettore trasse un taccuino, e incominciò:
— Christophe Lenormand di anni sessantacinque, possidente, celibe, originario della Normandia, proprietario dello stabile dove ci troviamo... viveva solo, sembra che non avesse amici, si recava una volta al mese a Châlons sur Marne, dove pare avesse un po' di terra. Prendeva i suoi pasti alla trattoria dello Zuavo, che è in una traversa di via delle Argonne. Gli altri inquilini dello stabile si riducono a tre donne che occupano il piano immediatamente inferiore a questo. Il piano terreno è adibito a magazzino di vecchi mobili e di attrezzi rurali. Gli inquilini sono: la signora Felicita Mauriveaux che è inutile interrogare perché è paralitica, muta, e probabilmente sorda. La figlia signorina Josette, e una specie di governante sessantenne, certa Julie Martin. Queste tre donne sono pigionanti del morto da circa vent'anni, perché sono venute qui al principio della guerra. La governante dei Mauriveaux