Giovanni Pico della Mirandola: La Fenice degli Ingegni
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Anteprima del libro
Giovanni Pico della Mirandola - Giovanni Semprini
APPENDICE
PREFAZIONE
Il libro - che offro alla mia C. - non ha la pretesa di essere una monografia e molto meno uno studio completo della vita del Mirandolano -. Esso, così come si presenta, porta l'impronta dei sentimenti e dei pensieri non sempre contenuti che in me sorgevano via via che il velo si discopriva e la bellezza di una vita intensamente vissuta per un ideale mi appariva nella sua immediata freschezza. Ciò che mi mosse a scrivere del Pico non fu, lo confesso, quella preoccupazione per la verità storica che spinge molti a travagliare per anni interi intorno a manoscritti, a cimeli, a documenti, pur di riuscire a determinare con la massima certezza le date della vita di una personalità o di un avvenimento storico. È stato il desiderio di conoscere, attraverso un personaggio quelle altre verità che, non essendo sempre dì dominio del pensiero riflesso, le chiamiamo con altri nomi.
Tale desiderio mi ha portato a conoscere quanto il Pico, al pari degli uomini del suo tempo, fosse assetato di verità, e come più di tutti i suoi contemporanei avesse il senso dell'inanità degli sforzi umani e della vita stessa. Quanto egli, pur aspirando alla verità come luce rasserenatrice, fosse convinto, anche prima di raggiungerla, che desso, purtroppo, non è il fine ultimo della vita, che c'è qualcosa di più alto ancora che più della cristallina chiarezza del vero esprime l'essenza della vita, e cioè l'amore. Non è tragico tale sentimento che rende inquieta l'esistenza di questo giovane aristocratico il quale, sotto la femminea placidezza del suo volto avvenente, nasconde un'anima irrequieta e nostalgica, non già agitata dalle passioni dai perturbamenti del senso, ma dal dubbio della ragione, dal contrasto che sorge come nube procellosa negli spiriti meditabondi ogni volta che vedono l'inconciliabile opposizione fra il reale e l'ideale?
E ciò che nel Pico rendeva insanabile questo dissidio interiore era il senso del mistero che incombeva su ogni manifestazione del suo vivere, il senso dell'arcano per penetrare il quale s'illudeva, come gli spiriti profondamente mistici, che al di là della conoscenza comune, al di sopra delle nozioni volgari ci fosse una dottrina esoterica, accessibile a pochi, per mezzo della quale l'iniziato potesse inoltrarsi nei sentieri reconditi ove splende la luce che trasumana.
Non so quanto sia riuscito nel mio assunto che era di rappresentare il Pico quale mi si rivelava più che dai documenti d'archivio, dalle sue opere e dalle lettere del suo epistolario.
Certo sarebbe per me motivo di conforto poter constatare che il mio studio potrà essere stimolo ad altri a darci del Pico quell'opera completa che tuttora ci manca.
Bologna, Villa Serena, 1921.
G. Semprini
CAPITOLO I.
Infanzia e adolescenza
In un'alba di febbraio del 1463 nasceva nel castello della Mirandola Giovanni Pico. Sua madre, in un sogno di fiamma, ne aveva presagito la bellezza superiore a quella delle sue splendide figlie, e l'ingegno e l'amabilità che non aveva saputo riscontrare nei figli Galeotto e Anton Maria, in perenne lotta per la supremazia del feudo ( 1).
La contessa Giulia, che aveva nelle vene un po' del sangue del cantore dell'Orlando Innamorato, ci si presenta una di quelle donne meravigliose del Rinascimento, abilissime nei lavori muliebri e aperte a ogni manifestazione dell'arte, capaci di accudire alle cure più minute della famiglia e di tener testa agli affari più difficili dello stato. Questa donna, che altrove ci appare energica e severa, accanto al piccolo Giovanni, rivela i caratteri più squisiti della maternità. Ora la vediamo tutta compresa di tenerezza nell'atto che la nutrice mostra il bimbo in fasce a Giorgio Merula, ospite durante il suo viaggio per Bologna delle figlie Lucrezia e Caterina. Ora notiamo lo sforzo della sua maschia natura per condiscendere a certi capricci e vizietti del piccolo Giovanni.
Oh! la gioia di questa madre quando assisteva alle prime rivelazioni di quell'ingegno precoce, che era pronto a cogliere sul punto qualsiasi istruzione impartita, che imparava con rapidità sorprendente una poesia, che rivelava sin dai più teneri anni una memoria prodigiosa.
L'indole dolce e arrendevole che il Pico aveva sortito da natura, l'aspetto quasi femmineo del volto che si tingeva di rossore o impallidiva ai fremiti insoliti dell'età critica dell'adolescenza vicina, la inclinazione agli ardori di un misticismo incipiente, dovevano senza dubbio indurre la contessa Giulia a provvedere per tempo all'avvenire del figlio, non senza quella trepidazione propria delle madri che vorrebbero vedere immutata l'ingenuità delle loro creature. A Giulia parve che lo stato ecclesiastico fosse il più adatto all'indole del piccolo Giovanni che, da parte sua, era più che mai disposto ad abbracciare uno stato in cui avrebbe potuto svolgere più agevolmente quei sogni che cominciavano già ad agitarlo.
Giulia s'interessò per ottenergli la elevazione a protonotario apostolico, e appena il figlio ebbe raggiunto l'età di dieci anni, la contessa ne celebrò solennemente l'investitura.
Alcuni anni dopo, nel 1477, Io mandò a studiare diritto canonico all'università di Bologna ( 2).
La festante città dei Goliardi, la cui vita politica era guidata in questo tempo dalla potente famiglia dei Bentivoglio, poteva considerarsi per il suo Ateneo «il tramite per cui le idee umanistiche passavano dall'Italia all'Europa». Da ogni regione d'Italia e paese d'oltr'Alpe convenivano quivi numerosi gli studenti con le caratteristiche e i linguaggi delle loro terre; e quivi formavano corporazioni con statuti propri. Si deve far risalire a questo periodo l'attrattiva esercitata sull'animo del Pico dall'ordine domenicano, che finirà per essere una delle mete sospirate. La chiesa di S. Domenico era il luogo in cui solevano radunarsi le corporazioni dei «legisti», i quali erano tenuti a intervenire processionalmente alla festa di S. Domenico e ad assistere dal coro alla messa dello Spirito Santo. Tra quei frati predicatori che, per la loro dottrina e il loro ascendente, avevano sì gran parte nelle cose dello studio, uno dovette attrarre l'attenzione del Pico, per le maniere semplici e rudi, gli occhi vivissimi, la fronte solcata da rughe e il colore bruno che contrastava col biancore del lungo saio. Questi era Girolamo Savonarola, giovane allora venticinquenne, già emaciato dai digiuni e dalle astinenze che a «vederlo passeggiare pei chiostri, pareva piuttosto un'ombra che un uomo vivo» ( 3). È dubbio se fin da allora si stringessero rapporti fra i due, che dovevano in seguito legarsi coi vincoli di reciproca stima; certo da quel momento i loro occhi si saranno incontrati, non con l'indifferenza onde passano le innumeri fisonomie umane, ma producendo quella recondita impressione che rifiorisce presto o tardi negli scambi di idee e di sentimenti.
Fu durante il tempo de' suoi studi a Bologna che morì al Pico la madre, e ci duole di non trovare alcun'eco ne' suoi scritti di questa sventura. Ma faremmo torto al suo delicato sentire se volessimo ciò attribuire ad uno scarso attaccamento verso la persona che pili di tutte lo ha amato. La contessa Giulia che si era portata a Bologna per stare vicina al diletto figliuolo, fu colpita da un malore che la trasse in breve, il 13 agosto 1478, alla tomba. La sua salma, trasportata il giorno seguente alla Mirandola, fu tumulata accanto a quella del marito nella chiesa di S. Francesco.
Il Pico, forse perchè non si sentiva portato allo studio del diritto canonico, decise di recarsi a Ferrara ove lo invitava il Duca Ercole I, già imparentato con la sua casa, avendo sposato la sorella Bianca a Galeotto, fratello del nostro Giovanni.
Quando nel maggio del 1479 giunse a Ferrara, che era allora una delle città pili popolose e ricche d'Italia, fu assai lieto di poter frequentare la scuola di rettorica e di poesia di Battista Guarino, che proseguiva con pari valore le direttive del padre suo, il celebre Guarino Veronese.
Come un'aura di poesia doveva respirare nella città che della poesia cavalleresca ed epica stava per divenire il centro d'Italia, e come un'ebbrezza gli venivano rimesse le patenti ducali con le quali si concedevano a lui studente di filosofia nell'almo studio patavino, tutti i privilegi che vi potevano godere gli scolari. Pare che l'indirizzo di studi che si perseguiva in questa città e l'ambiente studentesco lo soddisfacessero molto, poiché in una lettera ad Ermolao Barbaro dice che, fra tutti i «ginnasii» d'Italia, quello di Padova era stato da lui frequentato più volentieri( 4). Era il Pico allora in quell'età in cui la vita sorride più che mai all'occhio dell'adolescente che, nell'esuberanza delle proprie forze psichiche, non trova limiti al suo pensiero, e il bene e il male rientrano in quella sfera che li assorbe, direi quasi, li accomuna, cioè l'amore.
Ciò che in altre età può sembrare scandaloso, indegno dell'uomo, è nell'adolescente tollerato; e anche quando l'uomo avanzato negli anni piange, come il Pico, i peccati della gioventù, sente nell'amarezza del rimpianto il rimorso di così cari ricordi! E il Pico era troppo sensibile per non sentire questa vita fremente che gli s'agitava intorno, egli ch'era così bello, colle chiome d'oro svolazzanti sul volto radioso, quasi novello Adone, come ce lo dipinge il Ramusio in un carme latino ( 5).
Testimonianza di questa vita goliardica di Padova, è la raccolta dei carmi latini di Girolamo Ramusio, ch'egli volle dedicare al Pico - verso il quale si sentiva attratto, oltre che da tenera amicizia, da identico amore per lo studio delle lingue orientali e per la vita avventurosa ( 6), - con un carme intitolato: Illustrissimo loanni Mirandolae principi ac concordine corniti benemerenti, Hier. Ramusius paiiper Ariminensis. Girolamo Ramusio, della cui memoria non c'è traccia nelle opere del Pico, benché nella raccolta delle sue poesie si trovino inseriti alcuni carmi di quel Donato ( 7) col quale il Pico rimase in rapporti epistolari, era oriundo da Rimini dove fu caro a Pandolfo Malatesta; venuto a studiare a Padova quivi nel 1476 si laureò, come dice in un carme dal titolo: Dum subirem artium laurearti in collegio doctorum Ramusius pauper. Nelle sue poesie - «di un'oscenità da disgradarne l'Hermaphroditus del Panormita... e che sono veramente nugae da giovani spensierati e scapestrati » - ( 8) canta gli amori per una bella fanciulla di Narni, di nome Catta, morta in età immatura, da cui pare fosse corrisposto. Al Pico indirizzò due carmi, nel primo dei quali si duole di non poter essere sempre con lui, a cagione delle strettezze che lo costringono a starsene a lungo in casa; nel secondo (ch'è una saffica all'oraziana) ne loda la bellezza, la dottrina, la liberalità ( 9).
Si deve attribuire senza dubbio a questo periodo, in cui dovette influire non poco sulla condotta del Pico la convivenza con studenti del temperamento di un Ramusio e di un Donato, a composizione di gran parte delle poesie del nostro, le quali non dovevano essere diverse dalle nugae degli altri, se in seguito il Pico le diede alle fiamme. Ma non tutti gli amici del Pico erano del tipo suaccennato; ve n'era fra gli altri uno che per la sua anima candida e mite, per la sua profonda conoscenza della filosofia aristotelica, doveva lasciare traccie visibili sull'opera del Pico, e legarsi a lui coi nodi della più dolce amicizia.
Era questi Ermolao Barbaro che da alcuni anni era titolare di filosofia morale in quell'Università ( 10) dove si era addottorato a ventitré anni nelle leggi civili e canoniche ( 11). Benché nei periodo in cui il Pico studiava a Padova, Ermolao stesse per lo più a Venezia, ove copriva importanti cariche pubbliche ( 12), pure, le poche volte che poterono vedersi, si sentirono subito due anime gemelle fatte per intendersi e per amarsi. Conoscitore profondo della lingua greca, Ermolao riponeva ogni suo intento a tradurre Aristotile ( 13), le cui dottrine solide e profonde erano un pascolo per la sua mente costretta sovente a ben altre faccende. Bisogna riconoscere che Padova, la quale era il centro del movimento intellettuale del Nord-est d'Italia e per l'insegnamento filosofico faceva tutt'uno con l'ateneo bolognese ( 14), esercitò sul giovane mirandolano un influsso le cui traccie si scorgono qua e là nelle sue opere. Anzi tutto ciò che vi è di scolastico e di medioevale nelle Tesi e in altri lavori filosofici del Pico, è dovuto a questi anni di studio nell'università patavina che ha continuato più a lungo di qualunque altra le abitudini del medioevo. Era Padova la rocca forte dell'Averroismo e uno dei professori piìi ragguardevoli, non privo di una certa originalità, fu Nicoletti Vernia che insegnò a Padova dal 1471 al 1499. L'insegnamento di questo averroista, che sosteneva senza restrizioni la teoria dell'unità dell'intelletto, non dovette svanire si tosto che il Pico, il cui soggiorno a Padova coincide con gli anni scolastici 1480-1482, non palesasse una certa indulgenza per l'arabismo da fargli vagheggiare l'accordo oltre che fra Platone e Aristotile, fra Avicenna e Averroè. Durante i due anni di studio a Padova si recava sovente nella natia Mirandola, la cui quieta e semplice vita paesana gli tornava sommamente gradita e dove amava invitare amici e maestri. Ma in quegli anni la pace del castello avito doveva interrompersi agli orrori della guerra fratricida scoppiata fra veneziani e ferraresi.
Anche il Duca di Milano, i Bentivoglio di Bologna, la Repubblica di Genova e qualche altro staterello, erano stati attratti nell'orbita del conflitto; e i soldati mercenari coi loro cavalli e carriaggi taglieggiavano e smungevano, durante le loro scorrerie, i pingui contadi della pianura padana. La piazza di Mirandola, che era come una tappa sulla strada maestra, dovette senza dubbio subire tutti gl'inconvenienti che derivavano ai piccoli comuni incapaci d' imporsi alla forza dei più potenti ( 15), La visione di una realtà intrisa di sangue, quale può essere in periodo guerra, così lontana da quella che i suoi studi umanistici rendevano idealmente gentile, avrà certo contribuito a far abbandonare al nostra ogni pensiero di partecipazione alla vita politica e di scegliere tra l'instabile carriera di principe e la missione di dotto, questa che gli apriva la via a una meta pili certa e duratura.
Già fino dai primi anni aveva sperimentato la precarietà della vita principesca, quando poco dopo la morte del Padre, avvenuta nel 1468, i suoi fratelli vennero a contesa per la supremazia del loro staterello, e di cui si ebbe il primo epilogo nel 1473, avendo Galeotto fatto prigione il fratello Anton Maria. Questi, liberato dopo due anni di carcere, si vide spogliato dei beni paterni e costretto a cercar asilo presso il Papa e il duca di Calabria, i quali con grandi sforzi e soltanto mediante l'intromissione di Ercole, cognato di Galeotto, riuscirono nel 1483 a farli venire a un accomodamento. Galeotto ebbe il dominio della Mirandola e del territorio e il conte Anton Maria fu ammesso a condividere il potere in moda che i due non dovessero pregiudicare alle ragioni della terza parte dell'entrata di detta terra che spettava al loro fratello Giovanni ( 16). Il nostro per essere più libero di attendere a' suoi studi, declinò ogni inframettenza nelle cose che gli appartenevano, e incaricando il fratello maggiore dell'amministrazione di ogni suo avere, partì alla volta di Pavia col suo maestro di Greco, Manuello Adramitteno, mentre col compatriota di questi, Elia del Medigo di Candia, con cui avev già cominciato a studiare ebraico a Padova, rimase in relazione epistolare ( 17). Il suo soggiorno a Pavia dovette essere di breve durata, perchè alla fine del 1482, lo ritroviamo ancora a Padova, di dove indirizza, il 22 dicembre, una lettera al