Rue des souvenirs
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Anteprima del libro
Rue des souvenirs - Enzo Falagiarda
ed.)
Eh, ne avrei da raccontarti, caro nipote!
Cara zia Èlia, quando noi nipoti veniamo a farti visita ti chiediamo spesso della tua vita trascorsa. Il fatto è che i tuoi racconti sono così intensi e coinvolgenti che staremmo ad ascoltarti per ore.
Il modo pacato ma mai distaccato col quale ci parli del tuo passato, i confronti che fai con il presente, il sorriso e le battute, i commenti ironici, gli occhi lucidi nei passaggi più difficili, l'energia e il coraggio che comunichi, ci hanno rapiti.
Beh, a me fa piacere che mi ascoltiate. Sai, noi vecchi abbiamo le giornate lunghe, le passiamo spesso a rimuginare sul nostro passato, quello che è stato, quello che sarebbe potuto essere...
Eh, ne avrei da raccontarti Enzo! Quello che ti ho riferito è ancora poco...
Ecco, appunto, zia.
Vorrei chiederti un piacere, se per te non è troppo gravoso: descrivere e raccontare la tua vita in modo non episodico, rispondendo a delle domande perché la possa mettere per iscritto, perché ne venga fuori una specie di biografia.
Quello che racconti per me è così importante che vorrei rimanesse negli anni nella memoria della famiglia. Mi piacerebbe trasmetterlo ai miei figli, ai miei nipoti, a chiunque anche tra i nostri parenti e compaesani voglia conoscere una storia personale e familiare che ha attraversato le vicende di un secolo tormentato come il Novecento.
Sorrido, caro nipote. Hai abbastanza tempo, carta e inchiostro? ... Beh, sai bene che non potrei dirti di no.
Possiamo provare, ma dovrai avere pazienza. Dovrai darmi il tempo di mettere insieme i ricordi e di raccogliere le parole procedendo per brevi tappe. E... mi raccomando... sii comprensivo se qualche volta la memoria non è tanto precisa.
E ancora... dovrai valutare se è il caso di scrivere tutto quello che racconto; a volte penso che certe cose sarebbe meglio non farle riemergere, cancellarle completamente dalla memoria. Ma lo sai come sono, non riesco a tacere i dispiaceri che mi sono stati inflitti.
Un'altra cosa. Lo so che mi volete bene e anch'io ve ne voglio immensamente, ma non dovete... come dire... non dovete beatificarmi. Aspettate almeno che muoia! Ah, ah, ah.
La mia vita, messa a confronto con quella di tantissime donne e uomini della mia generazione, non ha nulla di eccezionale: è stata molto dura per me come per tantissimi altri, anche più infelici.
Abbiamo attraversato un secolo maledettamente complicato, di miseria economica, di emigrazioni, di guerre; fame, malattie e gravi lutti ce ne sono stati in tutte le famiglie.
Se vuoi che cominciamo subito, siediti qua più vicino, su questa poltrona, e appoggia pure il registratore sul tavolo.
Va bene, eccomi qua. Terrò conto delle tue condizioni.
Tu comunque esponi liberamente i tuoi ricordi e le tue riflessioni; interverrò eventualmente a chiederti dei chiarimenti.
zia Èlia con Matteo
3 agosto 1993 - rue des souvenirs 15
1
La mia belle époque
Cominciamo dalla tua infanzia. Raccontaci del luogo in cui sei nata e della tua famiglia.
Sono nata il 22 maggio del 1902, da Carlotta Orlandi (famiglia dei Buli di Senaso) e Modesto Gionghi (famiglia dei Carinati di Prusa), a San Lorenzo in Banale, che – come sai - è un paesino trentino delle Valli Giudicarie che allora faceva parte del Sudtirolo austroungarico, Distretto di Stenico. Poteva avere forse 1500 abitanti; non saprei dirti di preciso. Molte meno case, ma più abitanti di adesso.
Ero la quarta di una serie numerosa di figli.
Pensando alla mia infanzia e alla mia giovinezza, mi verrebbe da dire di essere vissuta in un’epoca remota, davvero molto lontana nel tempo, talmente era diversa la vita di allora rispetto a quella di oggi, e non solo perché non c’erano televisori e computer.
Cercherò dunque di descriverti come è trascorsa la mia, anzi la nostra... belle époque
. Non stupirti di questa mia uscita: molti anni dopo ho saputo che quegli anni sono stati definiti così, la belle époque
; se quella era bella, ho pensato, chissà come dovevano essere quelle precedenti. Comunque, per certi versi, non è una definizione del tutto impropria.
Ma torno alla tua domanda.
Come quasi tutte allora, la mia era una famiglia numerosa; se teniamo conto dei nonni che vivevano insieme a noi, alla vigilia della prima guerra eravamo in 10 in casa. E saremmo stati ben di più, se la mia sorella Giuseppina e i miei fratellini Enrico, Leone, Arduino e Francesco, non fossero morti in tenera età. Sono morti tutti nel primo anno di vita, come capitava spesso purtroppo, tranne l’ultimo, Francesco, che aveva già compiuto 4 anni. Vedo ancora la mia mamma in lacrime disperarsi per non aver accontentato il piccolo che piagnucolando la implorava di dargli da mangiare la polenta che era in tavola. Il medico infatti le aveva raccomandato di tenere il piccolo assolutamente a digiuno e avrà avuto forse le sue ragioni.
Di medici di solito ce n’era uno per tutta la valle, e bisognava pagarlo; comunque, in caso di emergenza si andava a chiamarlo a Stenico, dove c'era anche la farmacia, o forse a Campo Lomaso o a Santa Croce di Bleggio, e quando poteva, a piedi o a dorso di un cavallo o di un asino, arrivava. Ce n’erano di bravi che si dedicavano con grande umanità alla loro missione, ma anche loro facevano quello che potevano con pochi mezzi, poche medicine e con le conoscenze limitate che avevano allora.
La morte di un neonato o di un bambino di pochi mesi o di pochi anni era un evento frequente e i genitori, le famiglie, vivevano queste tragedie con triste rassegnazione; non sapendo cosa dire le imputavano magari ad un improvviso attacco di vermi.
Comunque a me ha sempre fatto uno strano effetto sentire l’annuncio della morte di un bambino attraverso il suono delle campane a festa (campanò), come in occasione delle sagre di paese. Proprio così, se moriva un bambino suonavano a festa! Quando cominciavo ad essere un po’ più grande, quel contrasto mi prendeva lo stomaco. Non mi bastavano più le benevole rassicurazioni di don Antonio Prudel, il curato,¹ che riferivano di festeggiamenti per i bambini che arrivavano in paradiso.
Scusa, ho divagato un po'. Come sono andata? Ho risposto bene alla tua prima domanda?
Benissimo zia. Tutto quello che racconti è per me preziosissimo.
Se vuoi, puoi proseguire dicendomi di cosa vivevate.
Ah, è presto detto. In paese quasi tutti vivevano principalmente del lavoro dei campi e di quello che poteva dare l’allevamento di alcuni capi di animali domestici; chi si dedicava a tempo pieno - come si direbbe oggi - ad un lavoro differente, erano il prete, che poteva contare sulla rendita del benefìzi (delle proprietà della chiesa) e sulle offerte dei fedeli, e forse le maestre e i maestri.
C'erano comunque anche bravi artigiani (fabbri, falegnami, mugnai, calzolai²) che lavoravano per lo più saltuariamente quando ricevevano una richiesta (un attrezzo in ferro, un mobile o un carro, del grano da macinare, ecc.). Alle Moline, sul torrente Bondai, c'erano sia la fucina del fabbro che un paio di mulini ad acqua per macinare le granaglie.
In genere però, donne e uomini sapevano fare tante cose in proprio o comunque in famiglia (filare, tessere, cucire, costruire attrezzi per il lavoro nei campi, intrecciare vimini, ecc.).
Insomma, ci si arrangiava a fare un po' di tutto.
Ti faccio qualche esempio.
Gli uomini si accordavano per produrre la calce. Con grosse pietre costruivano delle calchère (delle fornaci) in luoghi dove ci fosse buona disponibilità di legna da ardere e dentro vi cuocevano i sassi calcarei. Ce n'erano più d'una, non troppo lontano dal paese. Così ogni abitazione poteva avere la sua scorta di calce, da utilizzare per vari usi: per le malte, per imbiancare e disinfettare gli ambienti. Perfino per contrastare le malattie delle patate e delle viti. Di solito questa calce veniva custodita dentro delle buche ben chiuse, vicino a casa.
A proposito di fornaci, ce n'erano anche per la produzione di coppi e tegole in terracotta (le copère). Anche in questo caso, i destinatari erano i paesani o qualcuno dei paesi vicini; non devi certo pensare ad una produzione destinata al commercio su larga scala. Tra l'altro, con i mezzi e le strade che c'erano allora, gli scambi tra luoghi distanti non erano certo favoriti.
Fammi pensare a qualche altro esempio.
A monte del paese c'era la predéra, una cava di pietra rossa, dalla quale estraevano il principale materiale da costruzione di allora, cioè la pietra, utilizzata per le fondamenta e per alzare di uno o due piani le case. La pietra rossa serviva anche per abbellirle le case – come si può vedere ancora oggi - con portali, cornici per finestre e colonne e archi per le logge. Tra gli spaccapietre c'erano dei veri artisti capaci anche di scolpirla per ricavarne qualche decorazione.
El marangón gròs (carpentiere) - ce n'erano due o tre in paese - costruiva poi in legno la parte più alta delle case, i ponteşéi (ballatoi) e l'èra (il sottotetto), destinata a fienile e granaio. Dovevi vederli come riuscivano a sagomare le travi usando solo l'accetta! Allora non c'erano motoseghe e macchine elettriche nelle falegnamerie.
Qualcuno coltivava anche el cànef (la canapa) che poi faceva macerare nell'acqua nelle màşere (o maşe) per ricavarne una fibra piuttosto ruvida - tela de dràpi, la chiamavamo - con la quale, dopo averla essiccata, si tessevano lenzuola, rustici copriletto, asciugamani, grembiuli (gromiài), ecc. Se la intrecciavano con la lana, bisognava batterla con le mazóle (martelli in legno) per ammorbidirla, e dava luogo ad un tessuto che chiamavamo lania.
Durante la guerra, più o meno nello stesso modo, si sono utilizzate anche le ortiche.
Mi pare di ricordare che si provasse a coltivare anche il lino, ma probabilmente non rendeva bene.
So che il nonno Modesto era maestro muratore, come si diceva allora ...
Sì, faceva il muratore, ed era bravo e stimato. Però i lavori erano per lo più occasionali e rendevano poco. Nessuno aveva grandi disponibilità da investire in costruzioni o restauri; e se c'era da fare qualche piccolo intervento di manutenzione della casa, ognuno cercava di arrangiarsi.
Dunque anche noi avevamo degli animali, di solito due o tre mucche, qualche capra, un cavallo o un asino per il traino dell'aratro e del carro, delle galline e dei conigli. Come sai, avevamo una casupola³ costruita da mio padre a mezza montagna sopra il lago di Molveno, in località Nan, dove portavamo le capre in estate e le mucche prima di avviarle in malga, e dove andavamo a fare scorta di legna per l'inverno; e possedevamo alcuni appezzamenti di terreno, di modeste dimensioni, uno qua uno là, non troppo distanti dal paese.
Altre modeste risorse potevano derivare da iniziative individuali occasionali....
La mia mamma, alla maşàdega di Nan
Scusa se ti interrompo, prima vorrei capire meglio cosa c'era nelle vostre cantine, nelle vostre dispense.
Ricordo che un giorno ci hai detto che non sapevate cosa erano i pomodori e non conoscevate molti dei frutti