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Uropia: Il Protocollo Maynards
Uropia: Il Protocollo Maynards
Uropia: Il Protocollo Maynards
E-book351 pagine4 ore

Uropia: Il Protocollo Maynards

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Info su questo ebook

Quanto è realistico oggi il pericolo di una deriva autoritaria in Europa? Che ruolo possono giocare terrorismo e populismo?

Massimo Maffei è un traduttore italiano, nato e cresciuto a Monaco di Baviera, dove dirige una piccola ma fiorente agenzia. Quando incontra e si innamora di Anna, una giovane post-dottoranda dell'Università di Monaco, la loro storia d’amore sembra completare la sua vita e renderla perfetta.

Non immagina che a causa del suo impegno politico e civile, la tranquilla vita di tutti i giorni a cui è abituato verrà sconvolta per sempre.

Devastata dalla persistente stagnazione economica - e in risposta all’onda emotiva provocata dai continui attacchi terroristici e dal crescente populismo nazionalista - i trenta stati che componevano la UE si sono sciolti, fondendosi in un’unica entità statale continentale.

L’architetto di questo progetto è il presidente della Commissione europea - l’ungherese Andraş Pordan - che occuperà l’ufficio temporaneo del presidente d’Europa per un anno, gestendo la transizione verso le prime elezioni democratiche pan-europee.

Con l’aiuto di un giovane sottosegretario e sostenuto da influenti centri di potere, Pordan non perde l’opportunità tanto attesa.

Quando il governo inizia ad applicare le prime misure liberticide nulla sarà come prima: dal momento in cui il principale critico di Pordan - il professore di econometria Jonathan Maynards, amico di Massimo - si candida alle elezioni europee diventando il principale antagonista del presidente, un meccanismo segreto ed inarrestabile si mette in moto contro di lui, coinvolgendo tutti quelli che gli sono vicini.

Tra fughe e tradimenti, pericoli e sorprese, su uno sfondo musicale operistico, nemmeno colpi di scena inaspettati sembrano impedire la vittoria di Pordan...

Dietro la veste di una fiction, l’autore affronta e sviluppa temi scottanti e di estrema attualità inserendosi prepotentemente nell’odierno dibattito politico e sociale.

LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2019
ISBN9788869344602
Uropia: Il Protocollo Maynards
Autore

Pietro Bargagli Stoffi

Pietro Bargagli Stoffi è nato a Pisa nel 1975. Laureato in Giurisprudenza nella sua città, ha vissuto 11 anni in Germania, di cui gli ultimi cinque a Monaco di Baviera. Appassionato di storia, politica, viaggi e lingue, ha maturato variegate esperienze professionali nel mondo del turismo, dei videogames, dell'automobile. Ha prestato la voce a Wario nel gioco Nintendo "Wario&Games" per WiiU. Attualmente vive in Svizzera.

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    Anteprima del libro

    Uropia - Pietro Bargagli Stoffi

    Pietro Bargagli Stoffi

    Uropia

    Il protocollo Maynards

    Thriller

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, febbraio 2019

    Isbn libro 9788869344596

    Isbn ebook 9788869344602

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Progetto grafico: Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Pietro Bargagli Stoffi

    Pietro Bargagli Stoffi è nato a Pisa nel 1975.

    Laureato in Giurisprudenza nella sua città, ha vissuto undici anni in Germania, di cui gli ultimi cinque a Monaco di Baviera.

    Appassionato di storia, politica, viaggi e lingue, ha maturato variegate esperienze professionali nel mondo del turismo, dei videogames, dell’automobile.

    Ha prestato la voce a Wario nel gioco Nintendo Wario&Games per WiiU.

    Attualmente vive in Svizzera.

    In Europa ci sono già i presupposti per l’esplosione di un conflitto sociale. Questo è il seme del malcontento, dell’egoismo e della disperazione che la classe politica e dirigente hanno sparso. Questo è terreno fertile per la xenofobia, la violenza, il terrorismo interno, il successo del populismo e dell’estremismo politico.

    In memoria di Alberto

    Amos Maffei

    La cinghia di pelle al polso era veramente fastidiosa.

    Non solo gli impediva totalmente di usare il braccio sinistro, ma gli faceva sudare il polso in maniera insopportabile; e quando aveva qualche prurito doveva fare il contorsionista con le dita dell’altra mano per raggiungere l’articolazione coperta dal cuoio e, finalmente, potersela grattare.

    Ma assai peggiore era l’impossibilità di sdraiarsi sul lato sinistro del corpo in maniera naturale, per alternare un po’ le posizioni e conciliare il riposo, in quelle giornate tutte uguali di ventiquattro ore in cui le sue attività si riducevano a dormire – poco e male! – a mangiare, ad espletare i propri bisogni fisiologici.

    Si sentiva prigioniero, lui che in tutta la sua vita aveva cercato più di ogni altra cosa di essere un uomo libero.

    Nei suoi ottantasei anni di età Amos Maffei era sempre stato considerato un ribelle; aveva sempre rifiutato di uniformarsi alle aspettative che altri si erano creati sulla sua vita, aveva sempre cercato di seguire le proprie inclinazioni e non quelle che gli venivano imposte, le proprie aspirazioni piuttosto che quelle che altri immaginavano per lui.

    In tutto questo non c’era mai stato nulla di ribelle o di rivoluzionario, essendo indipendenza e responsabilità personale due comportamenti caratteristici di quella condizione che, chiamata maturità, qualsiasi essere umano che abbia raggiunto l’età adulta dovrebbe possedere.

    Nato a Livorno tra le due guerre, il padre docente universitario e primario della clinica di ostetricia a Pisa, la madre possidente immobiliare livornese, non aveva certo sofferto un’infanzia disagiata.

    Entro certi limiti, infatti, gli eventi storici hanno da bambini un peso diverso che da adulti; anche quelli gravi e che toccano direttamente la propria famiglia.

    Durante i primi anni del Ventennio il padre, Aronne Katzenellenbogen, per evitare guai aveva prudentemente cambiato il venerato cognome ebraico in un italianissimo Gomito Di Gatto.

    Ciononostante, nel 1939, in conseguenza dei Provvedimenti sulla difesa della razza italiana, il primario era stato dispensato dall’incarico pubblico e messo in pensione anticipata, con l’erogazione immediata dell’indennità e del trattamento di fine rapporto; sicché aveva aperto una clinica privata e aveva continuato a far nascere i bambini della città della Torre pendente.

    Amos invece, a differenza di altri bambini di famiglie ebraiche, aveva potuto continuare a frequentare le scuole per bambini ariani, in quanto facente parte dei discriminati – termine che nelle leggi razziali fasciste indicava, a contrario, coloro che NON erano soggetti alle misure discriminatorie previste dalle leggi stesse: per esempio coloro che non erano figli di genitori entrambi ebrei.

    Tale era appunto il caso di Amos, la cui madre non era ebrea.

    Il dramma della guerra non gli era stato risparmiato: i bombardamenti a tappeto degli Alleati avevano raso al suolo buona parte di Pisa, compresa la loro casa, e quasi tutta la costa a ridosso di Livorno percorsa dalla ferrovia e dalla litoranea.

    Sfollati in campagna a Bibbona, durante la ritirata delle truppe tedesche dopo l’otto settembre ‘43 erano stati nascosti e protetti insieme con altre famiglie livornesi pure di origine ebraica dai proprietari del podere in cui erano ospiti.

    Nel dopoguerra, stabilitosi a Livorno in una delle case della madre ancora intatte, aveva cominciato a frequentare la sinagoga; sarebbe voluto diventare discepolo della scuola rabbinica.

    Sarebbe voluto… secondo il padre.

    Invece lui, appena poteva, pensava piuttosto a scorrazzare per i campi della periferia insieme agli altri ragazzi del quartiere, ad arrampicarsi sugli alberi per rubare le uova dai nidi, ad imparare a costruire fionde, a giocare a tappini.

    Ma Amos non si sentiva a suo agio; non era ebreo, o per lo meno così si sentiva e soprattutto così lo facevano sentire gli altri ragazzi della comunità ebraica con i quali passava il tempo a giocare.

    Quando litigavano in bagitto(1), o si prendevano tra di loro, ricorreva un termine a stroncare ogni discussione e ogni litigio: mezzo ebreo.

    La madre era anche lei figlia di padre ebreo, ma non di madre; nell’uso ebraico la paternità non è determinante: mater semper certa, pater nunquam.

    Discriminato dai non ebrei, discriminato dagli ebrei; così Amos sarebbe voluto scomparire da Livorno e vivere in chissà quale altra parte del mondo, dove nessuno lo conosceva e dove poteva essere semplicemente se stesso: un ragazzino qualunque.

    Inoltre, al minhag(2) e al diritto religioso di Moshe Isserles preferiva di gran lunga l’epopea romantica del Bovo-Bukh di Elia Levita, il masoreta.

    Fu proprio tramite la lettura del poeta ed erudito rinascimentale che Amos si avvicinò ai testi sacri sistematizzati dai Masoreti.

    Questi erano scribi ebrei i quali, tra l’Ottavo e l’Undicesimo secolo dopo Cristo, avevano cominciato a modificare e a eliminare dai testi sacri(3) dell’ebraismo tutto ciò che essi ritenevano errori, deformazioni testuali oppure aggiunte di copisti.

    E fu proprio a causa dei Masoreti che si mise nei guai.

    Spedito dal padre a Tel Aviv per studiare, preferiva pensare ai capelli e agli occhi neri di Eva, la figlia adolescente del Professore; le sue labbra carnose, il suo passo sinuoso, il suo seno florido.

    Durante le lezioni nella yeshivah, poi, aveva iniziato a esprimere dubbi sulla validità delle interpolazioni che i Masoreti avevano operato sui testi originali, dei quali d’altronde nessuno aveva conoscenza certa.

    Con enorme scandalo di rabbini e discepoli chiedeva spesso ad alta voce per quale ragione il mondo ebraico dovesse prendere per buone le scelte di un gruppo di scribi, per giunta vissuti secoli e secoli dopo la rivelazione della Torah a Mosè.

    Perché dovremmo riconoscere a questi tizi l’autorità di stabilire quali parole mettere in bocca a JHWH?, pensava; e se si fosse limitato a pensarlo si sarebbe risparmiato parecchi grattacapi.

    Al contrario! Un giorno giunse a paragonare il comportamento dei Masoreti a quello dei vescovi cristiani che a proprio piacimento sancirono l’esistenza dello Spirito Santo, solo nel 325 dopo Cristo, o che decretarono non ispirati e apocrifi tutti i Vangeli sino ad allora diffusi e venerati nelle Chiese cristiane – ad eccezione dei quattro di Luca, Matteo, Giovanni e Marco – quasi mille e seicento anni dopo la predicazione di Joshua, il figlio del falegname(4).

    Inutile dire che il padre, immediatamente informato dai rabbini dell’oltraggio, fu furioso con lui; e in generale, con il suo scetticismo Amos non si fece molti amici.

    Anche se gli procurò qualche simpatia – pochissime per la verità: quelle di altri studenti che avevano anche loro i propri dubbi su tante cose, ma che si limitavano a guardarlo di nascosto e a sorridergli o a fargli l’occhiolino, non visti dai maestri. Tra questi c’era Giosuè Misul, che era divenuto il suo migliore amico fino al giorno in cui la situazione era precipitata.

    Ciò avvenne dopo che Amos ebbe espresso a compagni e amici i suoi dubbi sul Midrash(5): Amos non riusciva ad accettare che si potesse attribuire a un testo Sacro – come tale di regola intangibile – un significato che in origine non aveva; attribuire a Dio parole e significati che Egli non aveva espresso: lo trovava un’eresia.

    Da quel momento fu lui ad essere considerato eretico, caraita(6), e fu espulso dalla yeshivah, condannato ed evitato da tutti.

    Fu richiamato a Livorno dal padre, profondamente deluso e adirato, che lo diseredò; e per giustificare il comportamento del figlio e togliere sé e la moglie da quel grave imbarazzo, lo indicò pubblicamente come matto.

    Su iniziativa della madre Amos fu spedito stavolta da parenti ad Anversa, per fargli cambiare aria in un ambiente dove le sue stranezze non erano ancora conosciute; lì uno zio l’avviò alla scuola di gemmologia e lì rimase per anni lavorando come valutatore di pietre preziose.

    Frattanto il giovane aveva conosciuto una bella ragazza ebrea dalla pelle nivea e gli occhi neri, i denti perfetti, bianchissimi.

    Lui le sorrideva, ma Rachel non rispondeva ai sorrisi; tuttavia lo fissava a lungo, intensamente.

    Poi distoglieva lo sguardo e allora sembrava che si dimenticasse di lui.

    Un giorno, a una festa di compleanno, Amos le rivolse la parola per la prima volta.

    Passarono tutta la sera al buio, nella cantina.

    Quando stavano per tornare in superficie, dopo essersi riabbottonata la pesante camicia nera e aggiustandosi i capelli, Rachel gli disse che non si sarebbero mai più rivisti, né più rivolti la parola: lei era promessa sposa a un ebreo e il suo matrimonio sarebbe stato celebrato di lì a pochi mesi.

    Amos conobbe altre ragazze, belghe, non ebree, ma il suo cuore non gli apparteneva più e non poteva darlo a nessun’altra. Non desiderare la donna d’altri; ad eccezione dei momenti di solitudine, nel buio della propria stanza, nella soffitta della casa degli zii.

    Aveva cominciato a frequentare la comunità caraita e nel tempo libero non aveva smesso di leggere e tradurre i testi sacri secondo il metodo letterale.

    Dopo anni spesi confrontando i testi ebraici con altri aramaici, sanscriti, sumerici, Amos giunse a convincersi che nell’Antico Testamento non si parlasse affatto di Dio, ma di una molteplicità di personaggi.

    Questi erano detti Elohim, coloro che venivano dall’alto come quelli che noi oggi chiameremmo extraterrestri; uno di questi – che veniva chiamato JHWH – sarebbe stato un governatore alieno della Palestina cui il popolo ebraico avrebbe accettato di sottomettersi, anziché a qualsiasi altro degli Elohim, in cambio della conquista e del possesso di una terra, in forza di una promessa peraltro mai mantenuta.

    Non furono tanto queste sue scoperte a creargli problemi anche nella comunità di Anversa, ma il fatto di non avere riguardo a parlarne pubblicamente.

    Molti richiamarono le dicerie sulla sua eresia, altri quelle sulla sua pazzia; ragion per cui Amos dovette fare i bagagli e andarsene anche da lì.

    Fu da quel momento che divenne coscientemente e profondamente ateo.

    Si trasferì in Germania, a Monaco di Baviera, e con i soldi messi da parte aprì una piccola gioielleria antiquaria che fungeva anche da banco di pegno.

    Il padre, già molto vecchio, finì per interrompere ogni rapporto con lui; la madre invece continuò a tenere una corrispondenza in segreto.

    Non fu informato di nessuno dei due funerali: ne ebbe notizia da amici e conoscenti solo mesi dopo.

    Conobbe Sarah Maffei, giovane maestra d’asilo originaria di Trieste, un’Italki(7)come lui e anche lei mezza ebrea. Nonostante i quasi dodici anni di differenza di età – o forse proprio per questi – si piacquero, si amarono e si accettarono com’erano, entrambi alla ricerca della felicità e della libertà: si erano trovati.

    Vissero nel peccato per anni, senza essere sposati, e nel peccato concepirono un figlio, Massimo, che prese il cognome della madre.

    Solo anni dopo, quando il figlio stava entrando nell’età scolare, i genitori si sposarono.

    E come è consentito in Germania, volendo cancellare per sempre anche formalmente il suo legame con la famiglia Gomito Di Gatto, Amos prese il cognome della moglie.

    Ora Amos Maffei giaceva in una stanza dell’ospedale di Monaco con il braccio sinistro assicurato alla sponda metallica del letto.

    Aveva sì perso la parola, ma niente affatto il passo, così gli infermieri se lo erano ritrovato più volte in giro per la clinica a qualsiasi ora del giorno e della notte, nel tentativo di tornare a casa.

    Per i suoi quasi ottantasette anni era in gran forma; magrissimo, il naso sottile e adunco, una corona di capelli bianchi a incorniciare la pelata nel centro della testa, era ancora lucido e aveva abitudini alimentari sanissime, ad eccezione dell’adorazione dei dolci di qualsiasi tipo.

    Improvvisamente, poche sere prima era stato colpito da un ictus, in camera sua, nel suo piccolo appartamento.

    Suo figlio Massimo aveva appuntamento con lui, come quasi ogni sera dopo il lavoro, per vedere come stava e prendere qualche istruzione, la lista della spesa, le ricette dei medicinali da acquistare in farmacia.

    Max aveva suonato al campanello, ma non aveva ricevuto nessuna risposta, la porta era rimasta chiusa. Colto dal panico, per la prima volta aveva dovuto usare le chiavi di riserva e, temendo il peggio, era entrato nel corridoio, aveva chiamato il padre e cominciato a deglutire faticosamente a ogni secondo passato senza ricevere risposta.

    Un brivido gli era corso lungo le spalle.

    Poi aveva sporto la testa dallo stipite della stanza da letto e aveva visto il padre seduto alla sua scrivania, con una penna in mano e una delle decine di buste da lettera usate che riciclava per scrivere le sue liste della spesa.

    Con un respirone di sollievo Max lo aveva fissato, finalmente tranquillizzato.

    «Abbà, perché non mi hai aperto la porta, accidenti?! Mi hai fatto prendere un bello spavento! Non hai sentito che ho suonato al campanello e che ti ho chiamato?»

    Amos si era voltato con sorpresa, come se si fosse accorto della sua presenza appena in quel momento, e lo aveva fissato con uno sguardo vuoto, assente.

    «Babbo?»

    Il padre lo aveva infine riconosciuto, visibilmente, e aveva sorriso. Sembrava voler dire qualcosa, ma non riusciva a esprimersi.

    «Babbo, ti senti bene?», gli aveva chiesto Max; e con grande ed evidente sforzo il vecchio gli aveva risposto: «M... vlsb... bbdbvv...»

    Da questa descrizione i medici avevano capito subito quale potesse essere il problema e ci avevano visto giusto.

    L’ictus aveva interessato la parte del cervello collegata al centro della comunicazione orale.

    La prognosi era variabile: poteva darsi che l’impedimento regredisse anche totalmente, ma con più probabilità avrebbe potuto regredire parzialmente; ma parzialmente quanto? E però poteva anche darsi che avesse perso l’uso della parola definitivamente. Una prognosi utile e confortante.

    Solo le prossime settimane avrebbero mostrato cosa sarebbe successo.

    Amos capiva tutto, pur essendo un po’ sordo.

    Si sentiva bene, voleva tornare a casa sua. I vecchi temono gli ospedali; a un certo punto ognuno di noi si sente abbastanza vecchio da dover temere di entrare vivo in un ospedale e di uscirne morto.

    Amos non si sentiva prossimo alla morte, nient’affatto! E per questo aveva ancor di più intenzione e voglia di tornare a casa. Non è ancora venuto il momento, lasciatemi andare!

    E infatti avevano dovuto legarlo al letto.

    Ma in ospedale i giorni passavano tutti uguali, le ore tutte uguali e il vecchio non sapeva più che giorno fosse, che ora fosse; solo luce o buio dalla finestra.

    D’inverno il buio durava molto di più della luce e non era possibile capire se fossero le cinque o le sette del mattino, oppure di sera.

    Il vicino di letto era un gran chiacchierone di giorno e un russatore da Guinness dei primati di notte: quanto avrebbe preferito Amos aver perso l’udito piuttosto che la parola!

    Avendo il sonno leggerissimo non riusciva quasi a chiudere occhio per tutte le ventiquattro ore e si ritrovava in uno stato continuo di catalessi.

    Avrebbe voluto sapere che ore erano, avrebbe voluto chiederlo ogni volta che si svegliava dal suo assopimento ricorrente; ma non era in grado di chiedere.

    Intanto fuori dalla finestra si era fatto buio e nonostante il costante odore di urina, disinfettante e medicinali, Amos sentiva un certo appetito.

    «Abbà…»

    Max era arrivato. Con il suo sorriso pieno di affetto e compassione lo guardava fisso negli occhi, si toglieva la giacca, avvicinava la sedia al letto per appoggiare la giacca sullo schienale e sedersi accanto al padre.

    «Come stai? Te la fanno passare la voglia di andare a giro per tutta la clinica, eh?», disse indicando la cinghia di pelle al polso del padre, assicurata alla sponda del letto.

    «Abbi pazienza: solo tre giorni, poi ha detto il dottore che potrai tornare a casa. Sii forte, sopporta.»

    Il padre sorrise con la bocca e gli occhi gli s’inumidirono; era contento di vedere il figlio ed era contento di poter tornare a casa.

    Quando Max era con lui nella stanza, due volte al giorno nell’orario delle visite, sembrava di essere di nuovo nella normalità: la stanza si riempiva e diventava calda. Ma poi, finito il pasto, quando Max andava via la stanza tornava ad essere vuota e fredda.

    Allora il vicino di letto accendeva la propria tv, oppure cominciava a raccontare la propria vita; in quel momento Amos avrebbe davvero preferito una stanza completamente vuota, la solitudine assoluta.

    Un’infermiera entrò in stanza con un carrello, dal quale estrasse un vassoio di plastica grigia con una tazza di brodo, un piatto con un petto di pollo e del riso, una mela cotta, un cartone di acqua naturale, posate di plastica e tovagliolino di carta.

    Max cominciò a imboccare il padre e a raccontargli qualche fatto di cronaca recentemente avvenuto: le ultime rivelazioni di Wikileaks, il freddo record, i provvedimenti del Governo europeo, l’ultimo attentato, i risultati del campionato di calcio.

    Poi a fine pasto, come ad ogni pranzo e ogni cena, Max mise tutto al suo posto sul vassoio e lo ripose sopra il comodino verde, accanto al letto.

    Poi sorrise al padre e tirando fuori dalla tasca tre oggetti gli disse: «Lo sai che ti è vietato, a causa del tuo diabete. Ad ogni modo, puoi sceglierne uno solo: indica quale vuoi…»

    Uno per volta mise sul lenzuolo bianco, sul petto del padre, un Pocket Coffee, una caramella Rossana e una caramella al miele; tre fra i veleni preferiti da Amos.

    Gli occhi del padre s’illuminarono, le sue pupille si dilatarono, il sorriso si fece strada sulle sue labbra.

    Con il dito indice dell’unica mano libera toccò il Pocket Coffee.

    Max rise e disse: «Sai che novità! Va bene, vuoi mangiarlo subito? Allora te lo scarto.»

    Mentre il padre biascicava il cioccolatino, il figlio si rimise in tasca le due caramelle.

    Poi, quando Amos ebbe finito di gustare il dolcetto, Max si alzò dalla sedia, prese la giacca e rimise la sedia a filo del muro, salutò il padre e gli augurò buona notte baciandolo sulla fronte, dandogli appuntamento al giorno dopo, per il pranzo.

    Come ogni volta si tolse dalla tasca la caramella al miele e la lasciò sul lenzuolo.

    «Credo di avere perso una delle caramelle; se per caso la trovi e se riesci ad aprirla con una mano sola…» e strizzò l’occhio al padre.

    Questi s’illuminò di nuovo e sorridendo agguantò la caramella con la mano libera, nascondendola sotto il lenzuolo.

    Il figlio lo baciò sulle guance, gli strinse la mano e gli disse: «A domani.»

    Scendendo le scale della clinica il cellulare gli vibrò nella tasca.

    Max lo sfilò dai pantaloni e lesse sullo schermo: A che ore ti passo a prendere? Alberto

    Fece un breve calcolo di quanto tempo sarebbe servito per arrivare a casa, farsi una doccia e vestirsi; rispose ad Alberto che non sarebbe stato pronto prima delle otto e mezza.

    Uscì dalla clinica e si diresse alla fermata del tram, all’angolo dall’altra parte della strada.

    Si avvicinava la fine di ottobre, faceva fresco e l’aria era umida, le pozzanghere occupavano ancora parte delle strade e dei marciapiedi anche se aveva smesso di piovere la notte prima.

    Mentre aspettava il tram pensò che fosse ora di tirare fuori le giacche invernali e i maglioni pesanti e prepararsi all’inverno, ma i cambi di stagione erano per lui un pensiero noiosissimo e insormontabile. Nella sua personale classifica era un pensiero poco più gradevole che dover telefonare al dentista per prendere un appuntamento.

    Alberto scrisse ancora: Ci vediamo sotto casa tua alle 20:45. Mi raccomando, da battaglia: ci sono anche le dottoresse! ;)

    Max sorrise. Pensò alle due post-dottorande della LMU che ultimamente avevano cominciato a frequentare il gruppo, prede proibite per i singles maschi ultratrentenni della compagnia.

    Il tram arrivò in quel momento e in pochi minuti lo scaricò a Isartor, davanti alla stazione della metro; con quella raggiunse infine Milbertshofen, risalì in superficie e percorse quasi tutta Keferloherstrasse, fino a casa propria.

    Gli piaceva guardare ogni volta tutte le diverse villette e edifici, i differenti stili architettonici, materiali, spazi, misure, soluzioni.

    Immaginava come sarebbe stato il proprio cottage, se ne avesse costruito uno: due piani, più una cantinetta abitabile e una stanza adibita a cantina vera e propria dove conservare i vini e i salumi artigianali; con il garage e un piccolo giardino sul davanti, per separarlo dalla strada e attenuarne i rumori alle finestre; e con un giardino più grande sul retro dove prendere il sole in estate, fare le grigliate con gli amici e un giorno, chissà, far giocare dei figli.

    Intanto raggiunse il proprio condominio.

    Un edificio vecchio ma non ancora antico, tuttavia recentemente rinnovato, sobrio e decoroso, con dieci appartamenti.

    Tra questi, Max occupava il sottotetto al secondo e ultimo piano. Dal lato della strada si affacciava il salotto abbastanza grande, dove trovavano posto un largo divano scuro in pelle sintetica marrone, un tavolino di vetro, un tavolo da pranzo con quattro sedie imbottite e una parete attrezzata con libreria, porta cd, televisore, stereo, e un vecchio giradischi della madre.

    E poi la piccola cucina, in continuità con il salotto, ma con una pratica porta scorrevole a scomparsa, per separare i locali all’occorrenza.

    La camera con balcone divideva il bagno dalla toilette sul lato del cortile interno.

    Per i prezzi degli affitti di Monaco aveva avuto fortuna: non pagava troppo, il quartiere era tranquillo, residenziale, con una grande area verde vicina e la stazione della metro subito dopo; Milbertshofen non era centrale, ma in quindici minuti con i mezzi pubblici si poteva raggiungere Fraunhoferstrasse o Marienplatz, al centro del centro; o Schwabing, il quartiere mondano.

    Dopo gli inizi problematici che l’avevano portata sull’orlo del fallimento, l’agenzia di traduzioni tecniche che aveva aperto in proprio aveva cominciato a ingranare.

    Adesso le cose andavano bene e oltre a non mancargli nulla gli era anche possibile mettere da parte qualche soldo ogni tanto; la vita da single glielo permetteva e sia lui che gli amici del suo gruppo erano persone di poche pretese, genuine, cui i concetti di lusso, eccesso o ostentazione erano estranei.

    L’amicizia, l’affetto, la condivisione, la confidenza e la fiducia erano il loro vero tesoro, merce rara e senza prezzo.

    E stasera uno di loro festeggiava il proprio quarantesimo compleanno: Simone Maria Saltarelli, Professore di filosofia, storia e lingua italiana al gymnasium italiano di Monaco, nel loro locale, la loro paninoteca preferita, Da Giovanni.

    Sarebbero stati tutti presenti, gli amici del gruppo e le due nuove arrivate, Anna e Michaela.

    Max entrò in casa in fretta e furia, accese la televisione nel salotto e cominciò a spogliarsi. Sullo schermo scorrevano le immagini del notiziario, la presentatrice bionda con i perfetti capelli laccati riferiva i dati della disoccupazione:

    "...una diminuzione dello 0,2% rispetto al mese scorso. Berlino: l’odierna pubblicazione su Wikileaks di ulteriori protocolli dell’indagine interna ha riacceso il dibattito delle scorse settimane riguardo ai rapporti tra la cellula neonazista tedesca e i Servizi di informazione dello stato.

    Secondo gli ultimi protocolli resi pubblici, negli ultimi due decenni uomini dei Servizi avrebbero infiltrato partiti e movimenti estremisti in Germania...".

    Assorto davanti all’armadio spalancato, Max valutava le alternative del suo outfit per la serata.

    «Devo essere sobriamente elegante, ma senza esagerare; devo fare una buona impressione: ordinato ma senza apparire noioso o superficiale… Mmm…»

    In realtà la scelta l’aveva già limitata in partenza: tutto purché

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