La felicità tra i Maasai
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Info su questo ebook
E io sento che mi hanno voluto bene per come sono,
non perché abbia fatto qualcosa per farmi voler bene”.
Cristina Valcanover nasce a Levico Terme il 15 luglio del 1970 ma cresce a Calceranica, entrambe in Trentino Alto Adige. Dopo un lungo periodo di malattia e dopo aver trascorso un periodo difficile della sua vita, Cristina ha intrapreso una serie di viaggi verso la Tanzania, finché in un villaggio ha trovato quella che più che la destinazione di una vacanza si è trasformata prima in una nuova casa, poi in una nuova vita.
Una rinascita che l’ha portata a ritrovare se stessa e ad utilizzare senza timore un termine che spesso risulta difficile da pronunciare. Felicità.
Una felicità combattuta, ma che vive accanto alla persona che ama, in quella che oggi è la sua famiglia, la sua casa, insieme al popolo Maasai.
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Anteprima del libro
La felicità tra i Maasai - Cristina Valcanover
Prefazione
Te lo dico con tanto orgoglio ma anche una punta di invidia cara cugina… Tu, Cristina, proprio tu, che sembrava che fossi quella messa peggio
per le varie disgrazie che la vita ti aveva riservato, ti sei non soltanto risollevata, ma certamente hai conosciuto cos’è la serenità nel suo senso più puro e semplice, sono fiera di te!
Quando dico che verrei a trovarti nella savana, probabilmente lo dico senza esserne convinta, per un viaggio così profondo. Forse ho solo paura. Ma ti prometto che ci penserò su perché, sono certissima, che mi farebbe un gran bene.
Serena Losa
Quando penso alla forza della natura, mi viene in mente Cristina, una ragazzetta sempre sorridente che ho conosciuto in adolescenza. Con tutti i suoi problemi personali e famigliari ha saputo affrontare la vita con tenacia e volontà. Ricordo che dopo la scuola professionale ci siamo un po’ perse di vista perché a quell’età si cominciava a lavorare e le strade di ognuno erano diverse, le compagnie erano diverse… poi già maggiorenni ci siamo riviste e non ci siamo più separate. Da lì in poi un susseguirsi di esperienze gioviali, viaggetti, seratine con amici… insomma una bella giovinezza fino a quando la più brutta delle notizie ci arriva addosso come un macigno… Cristina cara, tu mi hai insegnato la più grande filosofia del mondo… non mollare mai… gli enormi sforzi accompagnati dai tuoi meravigliosi sorrisi mi danno la forza ogni giorno, e fanno sì che io non mi permetta mai di lamentarmi per cose che fortunatamente sono banali rispetto a quello che hai passato tu… ti meriti ogni bene amica mia … Con affetto,
Giovanna Diffini
Cristina la incontri per strada e ti saluta ogni volta come se non ti vedesse da mesi. L’ho conosciuta così. Lei sempre piena di vita ha dovuto combattere con ostacoli che per molti sarebbero stati insormontabili. Rimboccarsi le maniche, guardare dritto avanti. Poi dopo tante fatiche arriva la Tanzania e con essa la scoperta di una nuova vita e di un compagno che sembrava aspettasse solo lei. Ora la vedo finalmente felice. La sua forza è l’amore per la vita, quella vera, quella che presto potrà avere nella sua savana.
Lucia Pilogallo
Ogni tanto mi blocco. Ho bisogno di pensare.
Pensavo fosse più facile mettere ordine, avendo un punto di partenza, il giorno di una nascita, qualcosa da cui iniziare a raccontare. Non ho un preciso punto di arrivo, credo di essere ancora in viaggio, che sto tornando a qualcosa di caro, che quando scrivo che
il correttore automatico identifica una parola che non voglio più leggere, la completa in una maniera che non mi piace. Ma non è questo il punto, non è legato solo alla cronaca di una storia, di una vita, non ha pretese di insegnamento, di ripicca, o altro; è un omaggio alle luci che ho incontrato finora lungo questo percorso, che mi hanno cambiato la vita, e per parlarvi di loro, dovrò menzionare necessariamente qualche ombra. Non tanto per capire cosa sia diventata, o chi sia oggi Cristina, quanto, forse, solo per dire Grazie a chi ha reso possibile che fossi qui, ora, con questo sorriso, accanto alla persona che amo, a cui dedico queste pagine.
i.
Scherzosamente dico sempre di essere nata in un parco, in un paesino tra le montagne di Trento, nel centro del parco di Levico Terme dove si trovava un vecchio ospedale che ora non c’è più, che nel tempo è diventato qualcos’altro. Sono cresciuta a Calceranica, un piccolo paese che si trova su una riva del lago di Caldonazzo, e nei miei primi anni di vita ricordo che vivevamo in una mansarda al piano sopra l’appartamento degli zii di mio padre, era la loro casa.
In quel paesino ho trascorso un’infanzia bellissima, accanto a una nonna materna che mi ha semi allevato e nonostante fossimo tanti nipoti in famiglia, ero la sua preferita, si prendeva cura di me, abitavamo vicine, stavo bene con lei. Ero buona con lei. Stavamo spesso insieme visto che i miei genitori mi avevano messo al mondo giovanissimi, con mio padre che aveva appena ventidue anni, e mia madre che aveva compiuto diciotto anni un mese prima della mia nascita, perciò fin da piccola avevo dovuto abituarmi a essere autonoma, tanto che all’asilo spesso ci andavo da sola, venivo aiutata solo ad attraversare la strada, anche lì non è che fosse questo dramma, allora non c’era molto traffico. Anche perché, dimenticavo, sono nata il 15 luglio 1970, e già a cinque anni ero la peggiore dell’asilo. Cioè, almeno così dicevano loro. Tutti. Magari ero semplicemente vivace. Oppure no. Ero davvero la peggiore dell’asilo, tipo uragano incontenibile. Il fatto è che io impazzivo lì dentro, ne combinavo di tutti i colori, non mi piaceva starci, mi sentivo rinchiusa.
Con mia nonna stavo bene. Avrei voluto mi accompagnasse di più.
Quando morì ne feci una malattia per moltissimi anni, in silenzio, senza piangere, continuavo a sentirne l’assenza, sua e di Diana, il cane lupo che si portava sempre dietro e a cui volevo bene; con loro ero dolcissima, non c’era traccia di quella vivacità di cui tutti parlavano, di cui tutti mi imputavano chissà cosa. Nei miei peggiori momenti vissuti fino ad oggi, la chiamavo e parlando a voce alta le chiedevo di aiutarmi.
Nel tempo la mia nonna venne sostituita
dalla la zia di mio padre, la mia cara zia Maria Pia, che mi vide sin dalla nascita crescere, che tutt’oggi è ancora in vita. Divenne la mia confidente ed è sempre stata al mio fianco anche nei miei peggiori momenti. Ha sempre saputo ascoltarmi oppure strigliarmi quando è servito. I suoi figli, Manuela, Ivan e Alessia, li ritengo fratelli, abbiamo degli ottimi rapporti, siamo cresciuti insieme sia nel bene che nel male, la differenza d’età non è poi tanta e ad oggi siamo ancora molto uniti e ci frequentiamo spesso.
Dai miei genitori non ho mai ricevuto affetto, spesso qualche carezza, qualche bacetto lo cercavo, ma venivo cacciata con un lasciami stare che sono stanca
. Sempre la stessa risposta. Non ricordo se piangessi, non ricordo la mia reazione dinanzi a questi rifiuti, ma ci stavo male. Odiava quando la chiamavo mamma ad alta voce in pubblico, pensandoci adesso, forse, neanche lei accettava di esserlo così piccola.
Avevo sei anni, andavo in prima elementare. Cosa ci si aspetta da una bambina di sei anni?
Fu allora che da Calceranica al Lago ci trasferimmo a Pergine Valsugana, e lì credo che iniziò la fine, la discesa, o la salita, a seconda delle prospettive. E sarebbe durata parecchio. Nel paese in cui ero nata quando si usciva a giocare non avevamo orari, ricordavo una libertà sconfinata, il giocare nei boschi vicino alle miniere dove anche mio nonno aveva lavorato proprio come minatore, la raccolta delle castagne, dei fiori, i giochi che si fanno da bambini.
Qui, dove ci eravamo trasferiti, mi mancavano le mie amiche, e faticai tantissimo a integrarmi in un paese comunque più grande e nel quale all’inizio non sentivo la stessa libertà che avevo lasciato nella mia, seppur breve, vita precedente. Ricordo il mio primo giorno nella nuova scuola di Zivignago, nevicava. C’erano metri di neve. Tantissima. Poi piano piano iniziai a conoscere gente e a farmi nuove amiche, ricordo ancora il sorrisone di Nicoletta, quella bellissima bionda dagli occhioni verdi che fu la prima ad accogliermi in classe. Presto scoprii che viveva nel palazzo di fianco al mio ed iniziammo a diventare amiche e quel senso di libertà tornò, i boschi erano stati sostituiti dalle paludi dove con i miei nuovi compagni si andava a pattinare per poi tornare a casa infangati, oppure si andava all’oratorio del paese. Non avevamo giochi particolari, ci si incontrava nel cortile o sulla strada adiacente le nostre case. Eravamo un gruppo infinito di bambini della stessa età: anche qui si giocava a nascondino, a chi saltava più in alto, al gioco delle biglie utilizzando i tombini, si andava sulla slitta, in bicicletta… ci si perdeva per strada quando andavamo a scuola, e si arrivava spesso in ritardo alle lezioni. Mi sono divertita, davvero. Ero serena.
Non ho moltissimi ricordi, ho sensazioni. Poi una specie di vuoto.
Se penso a casa, alla famiglia, mi resta più difficile trovare bei momenti. Credo che i miei genitori si siano sposati troppo giovani, pensando con la testa di adesso. Non sapevano bene come indirizzare la loro vita, figuriamoci la mia e di mia sorella. Non venivo da una famiglia violenta, per carità, ma ho sempre assistito a litigi, tradimenti, lo svegliarmi a notte fonda e rendermi conto che in casa non c’era nessuno. Solo una sorella più piccola, di due anni e mezzo, che dormiva nel letto accanto al mio. Non sapevo dove fossero, ma non erano in casa. Ricordo la sensazione di solitudine a volte, perdevo la spensieratezza di quello che avevo lasciato fuori, sentivo un forte carico di responsabilità, a sei anni sapevo già cucinare la pasta per me e mia sorella, gestivo le chiavi di casa, non potevamo permetterci la babysitter, entrambi i miei genitori lavoravano, noi tornavamo per prime a casa da scuola; durante le vacanze scolastiche ad esempio non avevamo nessuno in casa che potesse badare a noi due, e quindi era così per forza di cose. Oggi lo chiamo forte senso di responsabilità. Allora non so come l’avrei definito, ma ricordo che buttando
l’occhio alla finestra avrei tanto desiderato scendere a giocare con gli altri bambini.
Così è stato fino alle medie, dove già iniziavo a sentirmi limitata, non mi sentivo più così tranquilla a uscire. È stato verso i tredici anni che sono esplosa caratterialmente, mi sono come svegliata, non che prima dormissi, ma non mi rendevo conto bene di cosa avessi intorno. Sono quei momenti in cui non ci si sente né grandi né piccoli, sai solo di aver bisogno di uscire, di allontanarti, voglia di scoprire il mondo, di ribellarmi a un passato sofferto, anche se sentivo addosso il peso del pensiero di mia madre, che credo temesse soprattutto potesse accadermi quello che era capitato a lei, di rimanere incinta molto giovane. Il destino, ad ogni modo, ha ugualmente impedito che accadesse.
Iniziammo a beccarci dall’adolescenza, da lì, tra alti e bassi, dichiarazioni di guerra e tregue, il nostro rapporto non è mai cambiato, nel bene e nel male. Si è evoluto, a suo modo.
Non abbiamo mai avuto un dialogo, qualsiasi cosa era sbagliata anche quando per me era un obiettivo di riuscita raggiunto, tanto che ormai ero arrivata al punto di farle pensare ciò che preferiva, anche quando sapevo che le cose non stavano come pensava lei. Tanto io sapevo. Così mi ero abituata a tacere con loro e a sfogarmi fuori casa con chi sapevo mi avrebbe ascoltato e creduto.
Mio padre era buono, ma aveva continuo bisogno di redini, andava sempre indirizzato perché spesso si perdeva. Non prendeva mai posizione su niente, quando gli si chiedeva qualcosa preferiva il silenzio. Mi picchiava se mia madre gli diceva di farlo, ma se avesse detto il contrario forse da mio padre avrei preso una carezza, nonostante l’avessi combinata grossa.
In un’occasione ho visto mia madre baciarsi con un altro, mi ero nascosta e poco dopo mi è arrivata una ciabatta perché si era accorta che ero lì, dietro un grande vaso di fiori secchi, a casa mia. Mio padre ci portava dalla nonna paterna, che anche lei aveva un passato particolare e mia madre non era troppo felice che andassimo lì.
Mio padre invece, spesso andava in giro di sera, era giovane, all’epoca lavorava in fabbrica. È capitato che durante la notte mi alzassi rendendomi contro di essere in casa sola. Non ricordo di aver pianto o sofferto in quei momenti, mi ricordo solo che rientravo in stanza e vedevo mia sorella, e non capivo se lei arrivasse o meno a determinate sensazioni che per me iniziavano a radicarsi. A quel tempo dormivamo nella stessa stanza. Io non so se la mia vivacità all’asilo venisse da questo, ma di certo dovevo pur sfogare da qualche parte. Già alle elementari ero un po’ diversa, e a pensarci anche con la nonna paterna stavo bene. Solo che da lei poteva capitare che tornassimo a casa con le pulci, a volte. Viveva in una casa senza riscaldamento e aveva una famiglia numerosa: tutti col problema dell’alcol, lei compresa. Ci portava alle giostre e incontravamo sempre mio padre con qualche donna diversa e mio padre non appena ci scorgeva le diceva vaivaivai
e lei ci tirava per la mano e ci portava via, perché lo