L'ultima domenica
Di Diego Figini
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Anteprima del libro
L'ultima domenica - Diego Figini
CAPITOLO 1
1937. La via Maestra, appena fuori Veglino, abbandonava il ciottolato per divenire strada bianca e polverosa, mentre le si faceva incontro la campagna di piccoli frutteti e orti curati da sembrar giardini, lunghi filari di vite e una moltitudine di gelsi immersi nei campi di grano come atolli verdi in un oceano dorato. Fra tutto questo, proseguiva senza interruzioni sin nei pressi del vecchio lazzaretto, dove c’era il bivio.
Domenico se ne stava lì, appoggiato a un muretto a secco, all’ombra del grande ciliegio, accarezzato di tanto in tanto, da una leggera brezza, che muovendo le fronde dell’albero, gli sottraeva quell’ombra generosa ma, al tempo stesso, porgeva al suo senso profumo di menta selvatica. Se ne stava lì, con un mazzolino di fiordalisi, stretto stretto tra le mani sudate, così che anche quei poveri fiori, parevan ormai stanchi d’aspettare… Se ne stava lì, il ragazzo, a fissare ansioso, la strada per il fiume, che ripida scendeva tra pioppi e ontani, sino al vecchio ponte. Oltre, si trovava il mulino dalla grande ruota che girava lentamente, «parlando» con suoni d’alno stagionato e fiotti d’acqua che cadeva in giù dalla roggia alla vasca, ripescati poi dalle pale, in un sordo sbuffare, come di un gigante stufo, che portava avanti il suo lavoro, nonostante tutto.
Solamente una piccola finestra, priva delle imposte e dai vetri oscurati dalle pagine di un giornale, interrompeva la monotonia di quella facciata spoglia e seria, che altrimenti, era costretta ad attendere pazientemente, il tocco dei raggi intensi del sole di mezzodì, per vestirsi dei riverberi gatteggianti di quell’acqua verde come lo smeraldo, in un gioco di forme e luci che la facevano sembrare riprender vita. E la pietra stessa, pareva goderne, proiettando sulla facciata minuscole ombre tondeggianti, come tanti piccoli sorrisi, che duravano solo poco più di un’ora, ma che ogni giorno, eran pronti a ritornare.
Il lato opposto, si affacciava su di un ampio cortile percorso da oche starnazzanti e gatti curiosi, dove un cane s’affannava legato da una catena a un noce, sotto il quale ne riposava un altro, ormai anziano e non più desideroso di mettersi in mostra.
Erano stati altri i tempi in cui, il povero Teo, si era fatto onore. Specialmente, quando accompagnava il suo padrone, durante le giornate di caccia. Achille allora, lo richiamava a sé e gli teneva il muso tra le mani, lui scodinzolava ascoltando i generosi complimenti dell’uomo, soddisfatto e orgoglioso del suo operato. Ora, restava sdraiato a terra e solo di tanto in tanto, con una punta d’orgoglio, come un vecchio comandante, che vuole ribadire la sua autorità, sollevava il capo dalle zampe anteriori e abbaiava un paio di volte, per poi tornare ad abbandonarsi fiacco e taciturno, all’ombra del grande noce.
La facciata nord del mulino era tutta imbiancata e tanto contrastava con il rosso delle persiane del piano superiore, mentre un grande portico, era posto a riparo dell’ingresso e delle finestre al pianterreno, sbarrate da inferriate dipinte di nero. Poco più in là, in direzione del fiume, si trovava il fienile che fungeva anche da magazzino. Due piante di rose, poste ai lati dell’entrata, erano l’unico ornamento di quella costruzione, edificata unicamente con la pietra del fiume.
Proprio da quella porta uscì una ragazza che, strofinandosi le mani nel grembiule portato sopra la lunga gonna nera, si diresse spedita verso il mulino; a ogni passo, i suoi piccoli zoccoli le battevano sotto ai talloni, schioccando nervosamente nell’aria calda di quella mattinata così importante.
Tolse il fazzoletto, che in parte, celava la sconvolgente bellezza di quel viso brunito dal sole, e salì velocemente i gradini che portavano alla sua camera da letto; una volta entrata si svestì e percorse a piedi nudi il pavimento di mattonelle in cotto. Raggiunse il bacile. Si rinfrescò. Dopo averli pettinati, acconciò i folti capelli castani in due lunghe trecce e, indossato il suo vestito bello, si diresse all’uscita; ma appena fuori, ad aspettarla, trovò la nonna Adelaide.
«Vai a messa? È ancora presto…» disse, guardandola fissa negli occhi verdi.
La ragazza non ebbe una pronta reazione, con le labbra socchiuse, rivolse timidamente lo sguardo in direzione del ponte; pensò a mille bugie in un sol attimo, ma non ne proferì alcuna, cercò la forza ma non l’ebbe. Restò in silenzio.
«Vai da lui, vero? Lo vedi sempre, è così?» continuò Adelaide, interrogandola preoccupata. «Ma capisci quello che fai? Che succede se vi vedono assieme, eh? Adesso ascoltami, torna in casa…»
La ragazza indietreggiò di un passo, mentre l’anziana, con la mano protesa, cercava di convincerla. «Angelina, ti ho detto di tornare in casa!»
Ma la nipote non le ubbidiva, anzi, continuava ad allontanarsi lentamente.
«Fermati sai! Non ti lascio andare da lui, non ti lascio…»
Ad Angelina non importava più di avere o meno il consenso della nonna, ormai si sentiva adulta e poteva decidere da sola; voltò le spalle e se ne andò.
Adelaide, non poteva andarle dietro, non ce la faceva, le sue gambe mal ridotte e storte la sorreggevano a fatica, tanto che quando doveva muoversi con una certa fretta, la costringevano a ondeggiare vistosamente, come una barca in balia del mare mosso. Restò allora nei pressi della soglia, il braccio alzato e la mano disposta di taglio con fare minaccioso: «Tuo nonno ti raddrizzerà, vedrai! Vuoi fare la matta? Ci penserà lui, aspetta che lo sappia, che ti veda in paese… Hai sentito? Mi hai sentito?».
Detto questo, si soffermò per qualche istante a guardare la nipote allontanarsi sempre più, poi socchiudendo gli occhi velati dalle lacrime aggiunse sottovoce: «Ci metti nei guai, ci metti tutti nei guai. Santo cielo, santo cielo…» e con un lungo sospiro, varcò la soglia.
Fu così, che di lì a poco, Domenico poté scorgere la figura della donna che amava, comparire lentamente da dietro gli ultimi alberi che costeggiavano la strada. Angelina! Finalmente! pensò, e il suo cuore si mise a battere forte. Si scostò dal muretto, titubante e incerto, come un bimbo che muove i primi passi e poi, visto che nessun altro procedeva assieme a lei, le corse incontro.
Per un istante i due giovani s’arrestarono l’uno innanzi all’altra scrutandosi vicendevolmente, come se per colpa della lontananza avessero dimenticato l’aspetto e le fisionomie dei lori visi; poi si baciarono, mentre le mani tremolanti di lei sfioravano dolcemente il viso di Domenico che la stringeva forte.
Rimasero così, fino a quando sentirono venir meno il fiato, fino a quando Angelina, portate le braccia al collo di Domenico, gli sussurrò all’orecchio: «Mi sei mancato! Dio solo sa quanto!».
Lui, si scostò un po’ sorridendo e le porse finalmente quel povero mazzolino di fiordalisi, ormai avvizziti. Angelina li strinse al petto come se fossero la cosa più preziosa, che avesse mai ricevuto. Si sedettero a ridosso del muretto mano nella mano e così, distratti in vicendevoli effusioni, il tempo trascorse velocemente.
«Ora dobbiamo andare» osservò Angelina. «Qualcuno potrebbe vederci» e si rialzò, cercando di sistemare il vestito.
«Angelina…» disse Domenico, trattenendola per un braccio, poi restò a fissarla negli occhi, senza aggiungere altro, mentre l’ombra delle fronde si divertiva a giocherellare sul suo volto.
«Lo so…» rispose lei, annuendo. «Lo so, ma se ci vedono ancora assieme, sono guai.»
Domenico si mise in piedi, strofinandosi i calzoncini. «Guai, sempre guai. Mio padre… guai. Tuo nonno… guai. Albino… guai…»
«Soltanto Albino…» lo interruppe Angelina. «Soltanto lui. Mio nonno e tuo padre hanno paura per noi.»
«Per noi? Per loro!»
«Per noi, per loro anche, magari è così. Hanno paura per tutti, ma ti rendi conto di chi stiamo parlando? Chi è Albino?»
Domenico, appoggiò la nuca al ciliegio. «Io mi rendo conto soltanto che nessuno ci dà una mano.»
«Perché nessuno può!»
«Don Leo? Non mi hai detto che ci avrebbe aiutati?»
«Don Leo? Quante volte ti ha aiutato, quante volte si è messo fra te e quei ceffi, lo sai?»
Domenico non rispose. Davvero non sapeva più quante fossero state le volte in cui il parroco, lo aveva salvato in quell’ultimo anno.
«Te lo ricordi? Lui, non ha mai esitato a mettersi contro ad Albino, ha sempre fatto tutto quello che ha potuto e non è servito a nulla.»
«A nulla…» continuò Domenico, scostandosi dalla pianta. «A nulla… e noi? Che facciamo?»
«Che vorresti fare tu? Se non fosse per don Leo e perché hai ancora diciassette anni, Albino ti avrebbe già sbattuto su di una tradotta, chissà per dove… E lo farà prima o poi.»
Domenico si avvicinò di nuovo ad Angelina, poggiandole le mani sulle spalle. «Allora che pretendi, che aspetti quel momento, senza più rivederti? Senza provare?»
«Io, ci ho pensato…» disse la ragazza, voltandogli le spalle, come se si stesse vergognando. «Se vogliamo vivere in pace… Vuoi farlo?»
«Certo!» rispose lui, girandole attorno incuriosito. «Certo che voglio…»
«Allora andiamo via, andiamocene subito!»