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L'altro bambino
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E-book282 pagine4 ore

L'altro bambino

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Info su questo ebook

Questa è la storia di Pearl. La trama non conta. Del resto il mondo tangibile si dissolve davanti ai nostri occhi subito dopo le prime righe, mentre la osserviamo sorseggiare un gin tonic seduta nel bar di un hotel in Florida, con il figlio neonato, Sam, posato nell’incavo del braccio. Sta riflettendo che bere la aiuta. La aiuta a vedere le cose che la circondano più lucidamente e a tener fede al suo proposito di fuga, dal marito violento e dall’isola – luogo di follia e dolore – che la famiglia di lui chiama casa. Ma non andrà lontano: l’isola tornerà a reclamarla minacciando la sua già fragile percezione del reale e spingendola a dubitare della natura stessa del suo bambino. Bianco e nero, bene e male, nascita e morte si mescoleranno in una danza macabra di cui solo le creature innocenti, i bambini e gli animali, conoscono i passi, e di colpo la storia di Pearl non è più solo sua, ma di chiunque conosca il terrore di stare al mondo. Nel 1978, quando L’altro bambino fu dato alle stampe. Joy Williams era un astro nascente: Esquire e Paris Review pubblicavano i suoi racconti e la National Book Foundation candidava State of Grace per il premio alle opere di narrativa. Ciononostante, il New York Times lo stroncò con una feroce recensione firmata da Anatole Broyard, il quale tacciava l’opera di eccessiva ermeticità. Il libro non fu più ristampato. Williams continuò a scrivere ma impiegò una decina di anni a portare a termine il successivo romanzo. Fu Rick Moody, a trent’anni dalla pubblicazione, a riabilitare L’altro bambino agli occhi del pubblico, invitando nella sua prefazione i lettori, ormai avvezzi ai raffinati arabeschi dell’autrice, a riconsiderarlo senza pregiudizi. Oggi l’opera risulta non meno oscura e profetica di quanto doveva essere sembrata allora. Ma forse nelle sue stravaganze il lettore potrà riconoscere la singolarità di un pensiero che aveva semplicemente anticipato i tempi.
LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2019
ISBN9788894833287
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    Anteprima del libro

    L'altro bambino - Joy Williams

    1

    C’era una giovane donna seduta nel bar. Si chiamava Pearl. Beveva gin tonic e reggeva un neonato nell’incavo del braccio destro. Il neonato aveva due mesi e si chiamava Sam.

    Il bar non era male. Persone qualunque le sedevano intorno mangiando pretzel. Era pubblicizzato come un ambiente fresco e lo era. Dal centro della vetrina pendeva un orso polare di vetro cristallo. Fuori c’era la Florida. Dall’altra parte della strada sorgeva un grande centro commerciale bianco, pieno di auto bianche. Un’aria bianca e pesante penzolava dall’alto, scomposta in strati visibili. Pearl li distingueva molto nitidamente. Lo strato centrale era tutto sogno, equivoco e responsabilità. In cima le cose si muovevano con maggiore arroganza ed energia, ma al fondo di tutto c’era il moto perpetuo del presente. Era il presente, lo era stato in passato e lo sarebbe sempre stato in futuro. Pearl ne era consapevole. Questo, in genere, la rendeva alquanto passiva e incerta.

    Indossava un abito costoso, sebbene fosse macchiato e di un tessuto inadeguato alla stagione. Non aveva bagagli, ma una discreta somma di denaro. Era arrivata dal nord la mattina stessa e si trovava in quell’albergo da poco più di un’ora. Aveva preso una stanza lì. Il personale ci aveva sistemato una culla per Sam. Quando le avevano chiesto il suo nome aveva risposto Tuna, una bugia.

    «Tuna» aveva ripetuto il direttore. «Un nome alquanto inusuale».

    «Sì» aveva risposto Pearl. «L’ho sempre odiato».

    L’hotel si trovava nelle vicinanze dell’aeroporto. Di hotel e appartamenti nelle vicinanze dell’aeroporto ce n’erano a centinaia, ma Pearl continuava a sentirsi esposta. Non era mai stata in quella città, ma le pareva una scelta scontata per una fuggiasca. L’indomani avrebbe lasciato l’hotel e si sarebbe inoltrata in città. Forse avrebbe trovato una casa vacanze, una casa con le persiane nere, una terrazza panoramica e donne affabili, corpulente, sedute in veranda a mangiare fette di torta di limetta. Sarebbe diventata una di loro. Sarebbe invecchiata.

    Avvertì sulla schiena lo sguardo infuocato di Walker. Uno sguardo sagace, muto. Le sue viscere ebbero un fremito. Si voltò di scatto e non vide nulla. Il bambino si destò con un grugnito smorzato.

    Pearl ordinò un altro gin tonic. La cameriera per un motivo o per l’altro non capì quello che aveva detto.

    «Come?» fece.

    Pearl sollevò il bicchiere. «Un gin tonic» ribadì.

    «Certo» disse la cameriera.

    Spesso Pearl farfugliava e non risultava chiara. Spesso la gente credeva che con le sue parole volesse dire qualcosa che in realtà non voleva dire affatto. Le parole, a suo avviso, venivano emesse con ostinata approssimazione. Una volta i bambini le avevano detto che il sole si chiamava sole perché il suo vero nome faceva spavento. Pearl aveva l’impressione di conoscere tutte le parole spaventose ma nessuna delle loro sostitute. Le sostituzioni erano ciò che rendeva possibile una conversazione civile. Ogni volta che tentava di averne una, le sembrava di dire cose prive di senso. Non trovava mai gli eufemismi giusti. La morte, le aveva detto Walker, è un eufemismo. Ma il colpo alla porta, il messaggero, l’ospite atteso? Dopotutto non erano anch’essi la morte?

    Forse sì, lo erano, pensava Pearl.

    La cameriera fece ritorno col suo gin tonic. Era una ragazza di bella presenza, con un caschetto biondo e una piccola croce d’argento al collo. Per servirla si chinò leggermente. Pearl fiutò un lieve sentore di piscio di gatto. Sono ingiusta, pensò Pearl con un moto di tenerezza. A volte in Florida le cose emanavano puzzo di piscio. Era la vegetazione.

    «Perché porta una croce?» chiese Pearl.

    La ragazza la guardò con vago disgusto. «Mi piace la forma» rispose.

    A Pearl parve una spiegazione rozza. Sospirò. Si stava ubriacando. Sugli zigomi le era comparso un rossore. La cameriera tornò alle sue mansioni e si mise a parlare con un giovane seduto al bancone. Pearl se li immaginò più tardi, dopo la chiusura, a spalmarsi impasto addosso in una fetida stanza e a mangiarlo seguendo un qualche rituale borghese. Aprì le dita e se le premette con forza sugli zigomi. Era in preda al senso di colpa e all’insofferenza.

    Si sentiva anche un po’ sciocca. Stava scappando da casa sua, da suo marito. Aveva preso il bambino e in tutta segretezza aveva prenotato un volo. Era salita sull’aereo e aveva percorso millenovecento chilometri in tre ore. La quantità di inganni che si era resa necessaria! L’organizzazione! A casa, sull’isola del marito, tutti le parlavano in continuazione. Non ce la faceva più. Le serviva una vita nuova.

    A volte però pensava di non volerla, questa nuova vita. Avrebbe preferito essere morta. Per lei i morti continuavano a condurre un’esistenza non diversa da quella che avevano patito in precedenza, ma più scialba e meno piena, precaria. Era giunta a quella conclusione sulla morte dopo abbondante riflessione, ma non ne aveva ricavato alcun conforto.

    Bevve un sorso con preoccupazione. Fino a poco tempo prima non aveva mai bevuto tanto. Qualcosa a quattordici anni, e al massimo una decina di cocktail nell’arco dell’anno precedente. A quattordici anni, in una giornata di pioggia estiva, aveva bevuto quasi un litro di gin in una piscina cadente insieme a un ragazzo dai capelli rossi. Indossava un grazioso costume da bagno a scacchi e un pullover. Su una parete della piscina qualcuno aveva inciso le parole palle pulciose. Dopo aver bevuto, il ragazzo dai capelli rossi le si era sdraiato sopra completamente vestito. Al risveglio, Pearl non era sicura di essere stata introdotta alla sessualità. Aveva imboccato la via di casa e si era fatta un bagno bollente. Nulla le procurava dolore. A lungo si era trattenuta sotto il getto dell’acqua calda. Era convinta di essere incinta. Quando poi aveva scoperto di non esserlo si era messa in testa di essere sterile. Ci aveva creduto fino a poco tempo prima. Adesso sapeva di non essere sterile. Adesso aveva un bambino. Gliel’aveva dato Walker.

    Tornò a guardare Sam. Era un essere primitivo, ma pieno di forza. Era un bambino. Era il suo bambino. Tutti dicevano che era perfetto, ed effettivamente era proprio un bel bambino. Aveva i capelli scuri e, a renderlo speciale, una piccola, tenera voglia a forma di mezzaluna. Quando era tornata sull’isola con lui, Shelly aveva osservato che dare alla luce un bambino era come cacare un’anguria. Pearl di certo non avrebbe scelto un’immagine tanto ripugnante, ma anche lei in un certo senso percepiva il parto come un atto straordinariamente innaturale. Era rimasta cieca per un giorno e mezzo dopo aver partorito Sam. Una cecità che però non si era portata dietro il buio. No, si era limitata a sottrarle tutto ciò che aveva imparato a conoscere, la stanza che divideva con Walker, la vista sul prato, i loro volti e le loro sagome, per rimpiazzarle con spiacevoli illusioni.

    Si era immaginata che il bambino fosse nato morto, e che fosse stato l’urlo di rabbia di Walker a riportarlo in vita. Walker era un uomo persuasivo, deciso e dotato di una fervida immaginazione. Pearl non poteva escludere che fosse capace di una cosa del genere.

    Si accorse di non guardare più il bambino che teneva posato sul fianco, ma la nuca della cameriera. Lentamente quella si girò verso di lei. Pearl alzò un braccio. La cameriera la fissò per un istante, poi disse qualcosa al barista, che afferrò un bicchiere appena lavato e lo agitò per scolarlo. Prese la bottiglia di gin e versò.

    Pearl trasformò il gesto con cui aveva ordinato da bere in un’occasione per riavviarsi i capelli.

    L’indomani sarebbe andata a tagliarseli, avrebbe provato a cambiare aspetto. L’indomani si sarebbe lasciata il passato alle spalle per concentrarsi sul futuro. Ieri apparteneva al cerchio del mai. L’indomani era Halloween. Aveva visto la pubblicità all’aeroporto. Vi avevano organizzato una festa per anziani. L’indomani Pearl avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per relegare l’immenso mondo fisico là dov’era giusto che stesse.

    La cameriera arrivò con il gin tonic e lo posò accanto all’altro, che Pearl aveva a stento toccato. Pearl iniziò a bere entrambi. La fede d’oro che portava all’anulare tintinnava a contatto col vetro. L’anello apparteneva al cerchio del mai. Provò a sfilarlo, ma non ci riuscì. Il cerchio del mai era il mondo su cui la famiglia di Walker regnava, il mondo interiore che lei stava abbandonando, l’isola che chiamavano casa. Fuori il sole continuava ossessivamente a risplendere. Ormai non doveva essere tramontato? Le tremavano le mani. Le mani erano la sua parte più brutta. Erano tozze e prematuramente invecchiate. Le guardò e le vide strette intorno a un pettine, pettinare i capelli di Walker.

    Walker l’avrebbe trovata. All’improvviso ne fu certa. E se non lui, allora Thomas.

    Thomas, il fratello di suo marito. Un uomo di mondo. Un uomo di eccessi, di rancori, di ambizioni. I due si somigliavano molto. Quanto a colori e stazza erano identici. La chioma folta, la bocca… L’unica differenza, ovviamente, era che Pearl vedeva Walker con il cuore. Una volta, ad ogni modo, aveva commesso un errore a dir poco imbarazzante. Aveva scambiato Thomas per Walker. Era successo quando ancora abitava sull’isola da poco, a tarda sera, sul pianerottolo fuori dalla loro camera da letto. Lui le dava le spalle. Era rivolto verso la libreria. «Vieni a letto fra poco?» aveva chiesto, toccandogli il braccio. Thomas si era girato verso di lei, lo sguardo neutro, sarcastico, privo d’amore, e sfiorandola le era passato accanto senza dire una parola. Pearl gli era stata grata di aver ignorato il suo sbaglio, ma era rientrata in camera in preda ai brividi e ai sudori freddi. Ed era rimasta lì, a guardare gli oggetti sparsi per la stanza, di colpo incapace di indovinarne lo scopo o il funzionamento, terrorizzata, insicura perfino dei propri desideri e assunti di base. Lampade, cestini, fotografie, flaconi di pasticche e profumi. A cosa servivano? Che cosa rappresentavano, i loro volti? Che cosa avrebbe dovuto riconoscervi?

    Quando più tardi la porta si era aperta, Pearl aveva chiuso gli occhi.

    «Walker, stasera ho trovato Thomas sul pianerottolo e l’ho scambiato per te» aveva detto.

    La figura nella stanza si era avvicinata e si era chinata su di lei. Pearl aveva sollevato la mano e aveva toccato la pelle liscia di quel petto.

    La voce di Walker aveva risposto: «La differenza tra me e Thomas è che a lui le donne non servono».

    Quell’osservazione non l’aveva rassicurata, era stato come riconoscere che aveva certi desideri. Lei non voleva servire a nessuno di loro. Sull’isola abitavano una dozzina di bambini, uno più uno meno, e cinque adulti. Thomas, Walker, Miriam e Shelly erano imparentati. Lincoln era il marito di Shelly. Era stato il suo insegnante al college. Shelly lo aveva rapito, a detta loro.

    Anche Pearl si sentiva rapita. Di certo la famiglia non agiva in maniera ortodossa. Il figlio di Shelly aveva solo qualche giorno più di Sam. L’avevano chiamato Tracker, nome che a Pearl suonava piuttosto ridicolo, malgrado sospettasse che l’avessero scelto per via della stupida assonanza con Walker. Shelly era partita per l’università ed era tornata con un marito e un figlio. Lincoln era un uomo borioso, che tirava su rumorosamente col naso ogni volta che in una conversazione pensava di aver dimostrato qualcosa. Le sue reali inclinazioni erano dubbie, ma senz’altro era un adulto. Pearl non sapeva mai se considerarsi parte dei bambini o degli adulti. Carne o pesce. Com’è che si diceva?

    Bevve un sorso del suo gin.

    Era con i bambini che trascorreva la maggior parte del tempo. La andavano sempre a cercare e la apostrofavano in modo eccentrico. Secondo Pearl erano stati loro a spingerla a bere. Pace. Erano solo dei bambini. E lei li amava. Il motivo per cui se n’era andata, quello che l’aveva convinta di non potersi trattenere sull’isola un giorno di più, era Thomas.

    Pearl non voleva che Sam subisse l’influenza di un uomo capace di spezzare la mente di un bambino come un ramoscello. Incolpava lui di quanto era successo a Johnny. A nessun altro era venuto in mente che potesse essere il colpevole, ma per lei era palese. Johnny era un bambino sensibile e lui l’aveva spinto oltre il limite. Thomas lo trovava brillante ed era determinato a farne un ragazzo ancora più brillante. Johnny amava le pesche, i razzi pirotecnici e starsene seduto su uno sgabello in cucina ad aiutare Miriam, la madre, a preparare torte. Era un bambino dolce, malinconico e impressionabile, ma dai bisogni semplici. Non era riuscito a sostenere il peso di tutta la spazzatura che Thomas gli aveva ficcato in testa.

    Johnny aveva sei anni, ma l’ultima volta che Pearl era entrata nella sua stanza e aveva guardato verso il letto, quello che aveva visto non era un bambino di sei anni, ma una palla d’impasto messa a lievitare, con appiccicata sopra la faccia di un feto al centesimo giorno di gestazione.

    L’ultima volta che era entrata nella sua stanza aveva visto le formiche. Le aveva viste arrivare a centinaia, in ordinata processione. Anche Miriam le aveva viste e le aveva detto di non allarmarsi. Non si erano forse manifestate dinanzi a Mida bambino per riempirgli la bocca di semi di grano? Non avevano forse fatto visita al piccolo Platone, per poi prendere residenza sulle sue labbra donandogli un eloquio potente? Pearl sudava. Pearl era rimasta senza parole.

    Johnny aveva iniziato a morire, o qualcosa di analogo, due mesi prima, in agosto. Agosto era il mese in cui era nato Sam. Agosto era anche il mese della festa di compleanno. I bambini erano abituati a un unico festeggiamento collettivo. Alla festa Johnny aveva annunciato di sentirsi posseduto. Era posseduto da una moltitudine. Nel corpo aveva delle cellule ed erano tutte più forti di lui. Non riusciva a controllarle. Non riusciva a compiacerle. Nel bel mezzo della festa se n’era andato a letto e non si era più alzato. Giaceva con la faccia premuta sul cuscino, il corpicino come un cimitero in cui erano sepolte generazioni di famigliari defunti.

    Aveva degli occhi bellissimi. Prima di ricevere la sua dose di nozioni era un bambino come tanti altri, che s’ingozzava di coniglietti di cioccolata nel periodo giusto dell’anno, che imparava a manovrare una barca, a dipingere con gli acquerelli e così via, e tutto con i suoi bellissimi e imperiosi occhi, di quella vibrante tonalità di violetto che hanno alcune profondità marine.

    Durante la malattia sosteneva di poter vedere il sangue muoversi nelle vene delle cose. Diceva che volendo poteva indurre gli uccelli, le farfalle e i vari animali dei suoi albi illustrati a prendere vita, a balzare fuori dalla pagina lasciandosi dietro dei vuoti. Diceva che poteva farlo, ma aveva paura.

    Era un bambino iperstimolato. Leggeva dall’età di quattro anni. Tutti loro sapevano già leggere a quattro anni. Lo preoccupavano l’energia nucleare, i vulcani, la sordità di Beethoven. Lo preoccupavano le persone che scrivevano a Miriam raccontandole le cose terribili che gli erano capitate. Thomas alimentava quelle sue preoccupazioni, convinto che temprassero la mente. Gli diceva che, se solo l’avesse deciso, sarebbe stato in grado di fare qualsiasi cosa. Del resto, Uri Geller non riusciva forse a far fiorire una rosa con la forza del pensiero? E Cristo non aveva fatto seccare un albero di fico con il solo potere del proprio disappunto? Be’, adesso Johnny aveva deciso di mettere in atto qualcosa di analogo alla morte, e Thomas si era dedicato a fare scempio di altre giovani menti. Miriam aveva due gemelli di quattro mesi, Ashbel e Franny, e probabilmente Thomas era all’opera su di loro perfino in quel preciso istante. Lui amava i bambini piccoli. Teneva i gemelli in braccio rivolgendosi a loro in francese, in latino. Gli parlava di Utrillo, dei cavalieri, della bussola. Thomas amava i bambini piccoli. Amava i bambini. Quando entravano in pubertà li spediva in un collegio e se ne dimenticava.

    Nel bar Pearl prese una boccata d’aria, come assaporando la libertà, e diede un lieve colpo di tosse. Fece scivolare un dito nel piccolo pugno di Sam. Le piaceva il suo bambino. Era contenta che fossero insieme, da soli. Era contenta che non dovessero più vedere Thomas. Sospettava, però, che il bambino avrebbe sentito la mancanza dei cugini. E del padre. Quanto a lei, Walker non le sarebbe mancato un granché. Era vero che un tempo lo vedeva col cuore, ma non era più così. Pearl non lo conosceva bene, ragion per cui si era sempre affidata a ciò che vedeva il suo cuore. Walker stava di rado sull’isola. Pearl non sapeva quali fossero le sue occupazioni. Immaginava che si limitasse a portare le donne a pranzo fuori e poi a letto. Nei mesi della gravidanza aveva pensato spesso che sarebbe stato meglio se si fosse accontentato di fare quelle cose anche con lei, invece di portarla dalla sua famiglia per sposarla.

    Le sembrava un comportamento ingiustificato.

    Certo, se Pearl aveva un bambino era pur sempre merito suo, ma non avrebbe dovuto essere costretta a trascorrere quell’anno prigioniera su un’isola in cui, a quanto pareva, era l’unica a possedere un briciolo di buon

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