Un eroe dei nostri tempi
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Anteprima del libro
Un eroe dei nostri tempi - Michail Lermontov
PREFAZIONE
In ogni libro la prefazione è la prima e al tempo stesso l’ultima cosa; serve o per spiegare lo scopo dell’opera, o per giustificarsi e rispondere alle critiche. Ma di solito ai lettori non interessano né gli scopi morali, né gli attacchi giornalistici, e perciò essi non leggono le prefazioni. Ed è un peccato, che sia così, specialmente da noi. Il nostro pubblico è ancora così giovane e ingenuo che non capisce le fiabe se alla fine non vi trova la predica. Non riconosce lo scherzo, non sente l’ironia; è, semplicemente, male educato. Ancora non sa, che in una società onesta e in un libro onesto l’ingiuria manifesta non può trovar posto, che l’erudizione contemporanea ha scoperto un’arma più affilata, quasi invisibile e nondimeno mortale, la quale, sotto le spoglie dell’adulazione, porta un colpo sicuro e non parabile. Il nostro pubblico è simile a un provinciale che ascoltando la conversazione tra due diplomatici che appartengono a due corti nemiche si convincesse che entrambi ingannano il proprio governo in favore di una reciproca, tenerissima amicizia.
Questo libro ha sperimentato su di sé ancora recentemente la disgraziata fiducia di alcuni lettori, e perfino riviste, nel significato letterale delle parole. Altri si sono terribilmente offesi, e non per scherzo, di esser serviti da modello per un uomo così immorale come l’Eroe dei nostri tempi; altri hanno notato, con molta perspicacia, che l’autore aveva dipinto il proprio ritratto e i ritratti dei propri conoscenti… Vecchio e miserabile trucco. Ma, evidentemente, la Rus’ è fatta in modo che tutto in essa si rinnova, tranne le assurdità di questo genere. La più fantastica tra le fiabe fantastiche difficilmente da noi sfugge all’accusa di attentare alla dignità della persona.
Un eroe dei nostri tempi, signori miei cari, è proprio un ritratto, ma non di una persona: è un ritratto dei vizi di tutta la nostra generazione nel pieno del loro sviluppo. Mi direte ancora che un uomo non può essere così malvagio, e io vi dirò: se avete creduto alla possibilità dell’esistenza di tutti gli scellerati tragici e romantici, perché non credete alla realtà di Pečorin? Se avete ammirato invenzioni molto più orribili e mostruose, perché questo carattere, nemmeno come invenzione, incontra la vostra misericordia? Non sarà forse perché c’è in lui più verità di quanto vi sareste augurati?
Dite che la morale da tutto ciò non ne guadagna? Scusate. Agli uomini han dato fin troppi dolciumi; il loro stomaco si è guastato: servono medicine amare, verità irritanti. Non pensiate, tuttavia, dopo quel che precede, che l’autore di questo libro abbia mai cullato il fiero sogno di farsi correttore dei vizi dell’umanità. Dio lo salvi da questa ingenuità! Si è semplicemente divertito a dipingere l’uomo contemporaneo così come lo comprende e, per sua e per vostra sfortuna, troppo spesso l’ha incontrato. Sarà allora così, che la malattia è stata individuata, ma come curarla lo sa soltanto Dio.
Michail Lermontov
PARTE PRIMA
I
BELA
Viaggiavo con cavalli di posta, da Tiflis. Tutto il bagaglio della mia carretta consisteva in una piccola valigia piena per metà di appunti di viaggio sulla Georgia. La maggior parte di essi, per vostra fortuna, è andata perduta, mentre la valigia con le altre cose, per mia fortuna, è rimasta integra.
Già il sole cominciava a nascondersi dietro il crinale innevato, quando arrivai nella valle del Kojšaursk. Il cocchiere osseto continuamente incitava i cavalli per riuscire a raggiunger la montagna prima che facesse notte, e a squarciagola cantava delle canzoni. Gran bel posto, quella valle! Da tutti i lati montagne inaccessibili, rupi rossastre coperte di edere verdi e coronate da macchie di platani, dirupi gialli coperti di borri e là, alta alta, la frangia dorata delle nevi, mentre in basso l’Aragva, riunitosi a un altro ruscello privo di nome, liberandosi rumorosamente dalla nera gola piena di nebbia si stende come un filo d’argento e luccica come un serpente per le sue squame.
Arrivati ai piedi del monte, ci fermammo accanto a una taverna. Lì si affollavano rumorosamente due decine di georgiani e di montanari; una carovana di cammelli si era fermata nei pressi per pernottare. Io dovevo noleggiare dei buoi per trascinare la mia carretta sopra quella maledetta montagna, perché era già autunno e gelava, e la montagna distava circa due verste¹.
Non c’era niente da fare, noleggiai sei buoi e qualche osseto. Uno di loro si caricò sulle spalle la mia valigia, gli altri si misero ad aiutare i buoi quasi solo con delle grida. Dietro la mia carretta un quartetto di buoi ne trascinava chissà come un’altra, nonostante fosse piena fino all’orlo. Questa circostanza mi stupì. Dietro camminava il proprietario, fumando una piccola pipa della Cabardia lavorata in argento. Portava una finanziera ufficiale senza spalline e un peloso cappello circasso. Sembrava sui cinquant’anni; il colorito bruno del volto dimostrava che egli da tempo conosceva il sole transcaucasico, e i baffi precocemente canuti non andavan d’accordo con la fermezza del passo e con la vivacità dell’aspetto. Mi avvicinai e mi inchinai; in silenzio rispose all’inchino e lasciò andare un’enorme nuvola di fumo. Facciamo la stessa strada, sembra
.
In silenzio si inchinò un’altra volta.
Lei, forse, va a Stavropol’?
Proprio lì… con cose dello Stato
.
Mi dica, per cortesia, come mai la sua carretta pesante quattro buoi la trascinano come se fosse uno scherzo e la mia, vuota, sei bestie la muovono appena con l’aiuto di quegli osseti?
Con malizia sorrise e mi guardò significativamente.
Lei, probabilmente, è nel Caucaso da poco
.
Da un anno
risposi io.
Sorrise ancora.
E allora?
Be’, sa com’è, ’sti asiatici son delle bestie orrende. Lei pensa che aiutino, con quelle grida? Il diavolo lo sa, quello che gridano. I buoi, lì, capiscono; ne attacchi pure venti, se gridano così come san fare, i buoi non si muovono di un passo… Truffatori orrendi! Ma cosa ci puoi fare? Gli piace rubare i soldi ai viaggiatori. Li abbiam viziati, i truffatori! Vedrà che da lei vorranno anche la mancia. Io li conosco bene, non me la fanno, a me
.
E lei, è qui da molto?
"Sì, ero qui sotto Aleksej Petrovič² rispose prendendo un’aria d’importanza.
Quando arrivò alla Linea ero sottotenente aggiunse
e sotto di lui mi diedero due gradi per azioni contro i montanari".
E adesso?
Adesso sono nel terzo battaglione di linea. E lei, mi permetto?
Glielo dissi.
La conversazione con questo si concluse, e continuammo in silenzio a camminare uno accanto all’altro. Sulla cima della montagna trovammo la neve. Il sole tramontava, e la notte succedeva al giorno senza intervalli, come accade di solito nel Sud; ma grazie ai riflessi della neve potevamo distinguere con facilità la strada, che ancora saliva su per la montagna, anche se ormai non così ripidamente. Comandai di metter la mia valigia dentro la carretta, di cambiare i buoi con i cavalli, e per l’ultima volta guardai giù verso la valle; ma una fitta nebbia, che saliva a ondate dalla gola, la copriva del tutto, non un solo suono arrivava ormai da là al nostro orecchio. Gli osseti strepitando mi circondarono e mi chiesero la mancia, ma il capitano alzò la voce così minacciosamente che si dispersero in un attimo.
Che razza di popolo!
disse. Non san neanche come si dice pane in russo, ma hanno imparato: ‘Ufficiale, dammi la mancia!’ I tartari per me son meglio: loro non bevono, almeno
.
Alla stazione di posta mancava ancora una versta. Silenzio, intorno, un silenzio tale che dal ronzio di una zanzara era possibile seguirne il volo. A sinistra nereggiava la profonda gola; sopra di lei e di fronte a noi le vette blu dei monti solcate di rughe, coperte da falde di neve, si profilavano nella pallida volta celeste che conservava ancora l’ultimo riflesso del tramonto. Nel cielo scuro cominciavano a brillar le stelle, e stranamente mi sembrò che fossero molto più alte che da noi al Nord. Ai due lati della strada sporgevano nude pietre nere; ogni tanto da sotto la neve si affacciavano dei cespugli ma non si muoveva foglia e metteva allegria sentire, in quel sonno senza vita della natura, lo sbuffare della stanca trojka postale e il tintinnio ineguale della campanella russa.
Domani sarà una gran bella giornata!
dissi. Il capitano non disse una parola e mi indicò col dito un alto monte che si innalzava proprio di fronte a noi.
Cos’è?
chiesi.
Il Gud-gorà
.
E allora?
Guardi come fuma
.
E infatti, il Gud-gorà fumava; ai suoi fianchi si muovevano appena leggeri filamenti di nuvole, ma sulla vetta stava una nube nera, così nera che nel cielo scuro sembrava una macchia.
Distinguevamo già la stazione postale, i tetti delle saklje³ che la circondavano, e di fronte a noi balenavano le luci come a darci il benvenuto, quando si alzò un umido, freddo vento, e cominciò a fischiare nella gola, e prese a cadere una pioggia fine. Feci appena in tempo a coprir le spalle col mantello, nevicava. Guardai il capitano con venerazione.
Ci tocca pernottare qui
disse con stizza con questa tormenta non la passi, la montagna. Di’, ci son state valanghe nella Krestovaja?
chiese al cocchiere.
Non ce n’è state, signore
rispose il cocchiere osseto ma ce n’è tanta, tanta
.
Alla stazione, per mancanza di stanze per i viaggiatori, ci fecero pernottare in una saklja fumante. Invitai la mia guida a bere un bicchiere di tè, giacché avevo con me una teiera in ghisa, unico mio conforto nei viaggi per il Caucaso.
La saklja da un lato era attaccata alla roccia; tre ripidi, umidi gradini conducevano alla porta. Entrai a tentoni e urtai una mucca (questa gente tien la stalla al posto della stanza per la servitù). Non sapevo da che parte girarmi: qua belano le pecore, là ringhia un cane. Per fortuna balenò da un lato una pallida luce, e mi aiutò a trovare un pertugio in forma di porta. Là, si presentò un quadro abbastanza interessante: la larga saklja, il cui tetto poggiava su due pilastri neri di fuliggine, era piena di gente. Nel mezzo crepitava un fuoco, acceso per terra, e il fumo, ricacciato indietro dal vento dalle aperture del tetto, si stendeva in una coltre così densa che a lungo non potei guardarmi intorno; vicino al fuoco c’erano due vecchie, molti bambini e un magrissimo georgiano, tutti coperti di stracci. Non c’erano altre soluzioni, ci accomodammo vicino al fuoco, accendemmo la pipa e presto la teiera si mise a sibilare amichevolmente.
Fanno pietà
dissi al capitano indicandogli i nostri luridi vicini che ci guardavano in silenzio in una specie di stupore.
Stupidissimo popolo
rispose. Ci crederebbe? Non sanno far niente, non gli si può dar nessuna educazione. I nostri cabardini, almeno, o i ceceni, anche se son dei banditi, e dei selvaggi, però son delle zucche temerarie, questi invece, anche con le armi non han nessuna abilità; un pugnale come si deve non lo trovi, su di loro. Son proprio degli osseti!
Ed è stato a lungo in Cecenia?
Sì, ci ho passato dieci anni, in fortezza, con la compagnia, al Kamennyj Brod, lo conosce?
L’ho sentito nominare
.
Be’, caro mio, ci siam stancati di veder tagliare teste; adesso, grazie a Dio, è più tranquillo; ma c’è stato un tempo, ti allontanavi cento passi dai bastioni, da qualche parte in agguato un diavolo arruffato; ti distraevi appena, prima di proferire verbo un laccio al collo, o una pallottola. Che artisti!
Ha vissuto molte avventure, dunque
dissi istigato dalla curiosità.
Le ho vissute, perché non averle vissute…
Cominciò allora a tirarsi il baffo sinistro, abbassò la testa e restò sovrappensiero. Avevo una gran voglia di tirargli fuori qualche storia, desiderio proprio di tutti i viaggiatori e di tutte le genti di lettere. Nel frattempo il tè era pronto, estrassi dalla valigia due bicchierini da campo, li riempii e ne posai uno di fronte a lui. Bevve un sorso e disse come tra sé: Sì, ne ho vissute
. Questa esclamazione mi diede molte speranze. So che ai vecchi caucasici piace parlare, raccontare, gli riesce talmente di rado; uno passa cinque anni da qualche parte in un buco di provincia con la compagnia, e per tutti e cinque gli anni nessuno gli dice mai Buongiorno
(dal momento che il maresciallo dice Salute
). E di cose da dire ce ne sarebbero: intorno un popolo selvaggio, singolare; ogni giorno pericoli, succedono casi meravigliosi, e allora senza volerlo ti viene da pensare che sia un peccato, il fatto che da noi si scriva così poco.
Non vuole aggiungere del rum?
chiesi al mio interlocutore. Ne ho del bianco di Tiflis; fa freddo
.
No, la ringrazio, non bevo
.
Come mai?
Così. Ho fatto un voto. Quando ero ancora sottotenente, una volta, sa, c’eravamo un po’ ubriacati, fra noi, e di notte c’è stato un allarme; siamo andati al fronte così, brilli, poi l’abbiam pagata, quando Aleksej Petrovič l’ha saputo: Dio onnipotente, come s’è arrabbiato! Per poco non ci ha portato in giudizio. Il fatto è che a stare un anno intero senza veder nessuno, aggiungici la vodka, sei perduto
.
Sentito questo, quasi persi le speranze.
Prenda i circassi
continuò "quando si ubriacano di buza⁴ ai matrimoni o ai funerali, le baraonde che combinano. Io una volta ho salvato a stento la pelle, ed ero anche ospite di un principe amico".
Com’è successo?
Dunque
(si riempì la pipa, diede una tirata e cominciò a raccontare) "dunque, deve sapere che allora ero in fortezza oltre il Terek, con il battaglione, presto saran cinque anni. Una volta, in autunno, arrivò il carro con i viveri; sul carro c’era un ufficiale, un giovane sui venticinque anni. Mi si presentò davanti in alta uniforme e mi comunicò che gli era stato ordinato di fermarsi sotto di me alla fortezza. Era così magro, così bianco, aveva una divisa così nuova che indovinai subito che non era nel Caucaso da molto. ‘Lei, forse’ gli chiesi ‘è stato trasferito qui dalla Russia?’
‘Proprio così, signor capitano’ rispose.
Lo presi sottobraccio e dissi: ‘Molto lieto, molto lieto. Si annoierà un po’… Be’, sì, vivremo insieme da buoni amici. Già, per favore, mi chiami semplicemente Maksim Maksimyč e, per favore, a cosa serve l’alta uniforme? Per venir da me basta il berretto’. Gli assegnarono un appartamento e si stabilì nella fortezza".
E come si chiamava?
chiesi a Maksim Maksimyč.
Si chiamava… Grigorij Aleksandrovič Pečorin. Un gran bravo ragazzo, mi permetto di assicurarle; solo un po’ strano. Così, una volta, pioveva, a caccia tutto il giorno, al freddo, tutti intirizziti, stanchi, lui, come niente fosse. E un’altra volta, seduto in camera sua, tirava il vento, sosteneva di essersi ammalato; batte un’imposta, sobbalza e impallidisce; ma l’ho visto io faccia a faccia col cinghiale; magari per delle ore non gli tiravi fuori una parola, però delle volte quando cominciava a raccontare, ti spanciavi dal ridere. Sì, era un uomo dalle molte stranezze e, credo, molto ricco; quali e quante cosucce preziose aveva!
Ed è rimasto molto, da voi?
chiesi di nuovo.
Un anno. Però accidenti se me lo ricordo, quell’anno; quante me ne ha fatte passare, ma non è per quello che m’è rimasto in mente. Ci sono, è vero, uomini così, per i quali è scritto, fin dalla nascita, che gli succederanno le cose più strane e inverosimili
.
Inverosimili?
esclamai con aria curiosa, allungandogli il tè.
"Adesso le racconto. A sei verste dalla fortezza viveva un principe amico. Il suo figlioletto, un ragazzo sui quindici anni, s’era abituato a venir da noi; ogni giorno, veniva, ora per questo ora per quello. E bisogna dire che io e Grigorij Aleksandrovič l’avevamo viziato. Che diavolo era, destro in tutto: al galoppo raccoglieva un cappello da terra e sparava col fucile. Aveva un solo difetto, era terribilmente avido. Una volta, per scherzo, Grigorij Aleksandrovič gli promise un černovez⁵ se