Analisi Waldstein 1
Analisi Waldstein 1
Analisi Waldstein 1
“QUESTA SONATA È SENZ’ALTRO UNA COMPOSIZIONE IMPONENTE […] DI PER SÉ LE DIMENSIONI SPAZIO-
TEMPORALI SONO GIÀ ENORMI E SARANNO SUPERATE SOLTANTO DALLA SONATA HAMMERKLAVIER.”
(ANDRÀS SCHIFF, LE SONATE PER PIANOFORTE DI BEETHOVEN E IL LORO SIGNIFICATO, ED. IL SAGGIATORE,
PAG.79).
Il movimento va verso l’alto, dal buio al sole, perciò i francesi chiamano questa Sonata anche l’Aurora.
Soltanto in battuta 9 emerge un parlante cantato; prima la musica procede a tentoni, in gesti quasi astratti,
dal registro grave a quello centrale, quasi borbottando qualcosa di poco chiaro.
Questa sonata, in Do maggiore, Op.53 “Waldstein” composta entro il 1804, è un capolavoro che segue lo
schema della sonata in Sol maggiore Op.31 no.1.
Ci sono infatti moltissime analogie con questa sonata che di seguito andiamo ad analizzare:
E questo è lo schema più sintetico che in sole 5 battute permette a Beethoven di passare da Do maggiore a
Sib maggiore. Nell’opera 31 invece per arrivare alla tonica abbassata si richiedevano 12 battute.
Anche la condotta delle parti di questa sonata rispetto all’op.31 è migliorata. Il basso infatti scende
cromaticamente da Do a Si (passando dall’armonia di tonica a quella di dominante), poi ripete la stessa
sequenza un tono sotto, andando dal Sib al La (VII grado abbassato che porta alla sottodominante), che poi
scende dal Lab al Sol.
“IL CONFRONTO CON L’OP.31 RIVELA CHIARAMENTE UNA MAESTRIA SUPERIORE.” (CHARLES ROSEN, LE
SONATE PER PIANOFORTE DI BEETHOVEN, ED. ASTROLABIO, PAG.200).
Sempre in prestito ma diversificata dall’Op.31 n.1 è la sostituzione della dominante (Sol) con la mediante
(Mi). Per arrivare alla mediante, il tema principale è riesposto un’ottava sopra, imitando un tremolo
orchestrale d’archi.
La “Waldstein” ha una sonorità particolare che la distingue da tutti gli altri lavori di Beethoven. Questa
sonorità deriva in gran parte dal fatto che, per tutto il primo movimento, i temi si muovono per grado
congiunto, alternando spesso gli accordi di triade a quelli di settima di dominante.
“LA PRESENZA COSTANTE DELLA SETTIMA DI DOMINANTE DÀ CONTO DI UNA CERTA ASPREZZA
DISTACCATA CHE CONTROBILANCIA MIRABILMENTE LA PROPULSIONE RITMICA.” (C.ROSEN, OP. CIT.
PAG.201).
Anche per esempio a battuta 62, troviamo un martellare di accordi di La maggiore con la sinistra per ben 12
volte tutto in fortissimo, seguito da altri 12 ribattutti dell’accordo di Fa#7, che altro non è che un’altra
settima di dominante:
Assolutamente da non sottovalutare sono i cambi improvvisi di colore, come avviene in battuta 83:
Ancora una volta troviamo lo stile concertistico all’interno di questa sonata per pianoforte. Infatti, a partire
da battuta 112, fino alla 141 compresa, abbiamo un susseguirsi di arpeggi con la mano destra, cosa che era
abitudine inserire nel “secondo a solo” di qualsiasi concerto dell’epoca. Addirittura, dal 1760 circa, un
compositore avrebbe indicato solo l’armonia di quella sezione, per lasciar libero il solista, libero di creare
l’estensione degli arpeggi a proprio piacimento. Ciò ovviamente implicava una certa libertà d’esecuzione, la
stessa libertà che deve apparire in questa sezione.
Beethoven non dà mai nulla per scontato e lo capiamo anche per esempio a battuta 168, dove abbiamo
qualcosa che il nostro orecchio non si aspetterebbe mai: Lab al posto del Sol.
Qui ci si aspetta una cadenza sospesa sul Sol, che è la dominante di Do, tonalità d’impianto del brano.
Beethoven altera questo Sol, facendolo diventare Lab. Così, all’inizio della ricapitolazione, chiunque
avrebbe messo un’armonia di sottodominante, Beethoven invece utilizza un’armonia che va verso i bemolli
(Reb e Mib), ottenendo un effetto più esotico ed efficace.
Adagio Molto
Dal punto di vista della forma, si tratta di un arioso con preludio e postludio orchestrali. Si tratta di una delle
pagine musicalmente più difficili da interpretare. È piena di particolarità che devono essere rispettate.
Tutte le indicazioni di “ten” che stanno ovviamente per tenuto, non significano che l’ottavo deve durare di
più della sua reale durata, ma piuttosto che le crome devono durare esattamente il proprio valore. Non
dimentichiamoci che all’epoca di Beethoven, era consuetudine dimezzare il valore di una nota se questa
era seguita da una pausa.
A battuta n.2, Quei “Mi” raddoppiati e ribattuti della mano sinistra, possono essere tranquillamente
eseguiti un’ottava più in basso, proprio come segnala l’edizione Urtex Henle, dato che sarebbe più
coerente far discendere il basso per grado. Allora perché Beethoven ha scritto così? Perché non aveva la
tastiera sufficientemente grande per poter scrivere quei “Mi” un ottava sotto. Quindi suonare i “Mi”
della seconda battuta, un’ottava sotto, non può essere definito come un errore, perché era proprio
un’intenzione di Beethoven.
“IL CURATORE DELL’EDIZIONE HENLE OSSERVA CHE SICURAMENTE BEETHOVEN AVREBBE VOLUTO CHE LE
OTTAVE DELLA MANO SINISTRA A BATTUTA 2 SUONASSERO UN’OTTAVA PIÙ IN BASSO, MA NON AVEVA
ANCORA A DISPOSIZIONE IL “MI” GRAVE SUL PIANOFORTE.” (C.ROSEN, OP. CIT. PAG.206).
A battuta 9 entra in scena il solista. Molte note hanno il puntino che definisce lo staccato, per
un’accentuazione espressiva.
In questa breve introduzione che sfocia poi nel rondò, Beethoven ci dà un esempio di come è possibile
sostituire il movimento lento (il secondo tempo delle sonate) con una breve introduzione adagio.
Fra i 3 è il tempo maggiormente elaborato, ma allo stesso tempo anche il più semplice. La melodia è stata
creata recuperando continuamente del materiale dalla prima frase. Andiamo ad analizzare questa
particolarità:
La seconda frase è uguale alla prima frase, con l’assenza dell’ultima nota.
La terza frase è identica alla prima sia come movimento che come ritmo, anche se le note non sono le
stesse.
L’ultimo segmento della quarta frase è riproposto due volte, e l’ultima nota della frase è ripetuta per
bene sette volte.